Il tema dell’ornamento sta al centro del numero 162 dei Cahiers philosophiques, pubblicato da Vrin nel terzo trimestre del 2020. Il volume non pretende di offrire un’analisi sistematica del suo oggetto d’indagine: piuttosto, mimando la natura poliedrica e irriducibilmente ambigua dell’ornamento stesso, il numero di rivista mette in scena una serie di interventi in cui temi e problemi ritornano e variano da un contributo all’altro, affrontando la questione dell’ornamento da prospettive diverse, che talvolta s’intersecano, e partendo da casi sempre specifici e singolari.
Ad aprire il volume è l’articolo di Bernard Sève, in cui l’indagine viene condotta da un punto di vista ontologico. Una storia e teoria dell’ornamento a cavallo tra diciottesimo e diciannovesimo secolo è invece offerta da Claire Pacquet, la quale rivolge la propria attenzione alla querelle berlinese che ha visto tra i suoi protagonisti autori del calibro di Moritz e Goethe. Marie Schiele, con un testo sul panneggio in Aby Warburg, e Rémi Labrusse, con un intervento dedicato all’arabesque, in maniere diverse mostrano come l’ornamento possa andare a perturbare il regime rappresentativo occidentale. Il testo di Aurélie Ledoux si articola invece intorno a questioni di ordine politico. Il volume si chiude proponendo la traduzione in francese di alcuni testi classici sul tema: l’introduzione de Il senso dell’ordine di Ernst Gombrich (1979), in cui l’ornamento, inteso come pattern, viene indagato con strumenti psicologici e biologici, e due conferenze di William Morris, intitolate L’arte e i suoi produttori (1888) e Conferenza sulla collezione di pittura della scuola preraffaelita inglese (1891). Le traduzioni, realizzate da Laure Bordonaba, sono precedute da un suo commento introduttivo.
Come gli autori mostrano fin dalle prime pagine del volume, l’ornamento rifiuta non solo una definizione univoca, ma anche una collocazione chiara: pullulando, accidente fantasmatico separato dal suo supporto sostanziale, esso è in grado di migrare, andando a innestarsi nei più diversi contesti. Basti pensare alle grottesche, motivi ibridi di derivazione antico romana che mescolano il registro dell’umano, dell’animale, del vegetale e del geometrico (fig. 1), o alle arabesques, volute fitomorfe di origine islamica: soprattutto a partire dagli scavi di Ercolano (1738) e Pompei (1748), questi motivi ornamentali hanno avuto la capacità di circolare come vere e proprie formule di sapore warburghiano, andando a “infestare” le produzioni artistiche più disparate, dal disegno alla danza.
Proprio la capacità di attraversare i diversi linguaggi artistici fa dell’ornamento un elemento di straordinaria rilevanza nel mettere in discussione il paradigma moderno dell’autonomia dell’arte, come si evince dagli articoli di Sève e Pacquet. L’ornamento, “concetto transartistico” (p. 9 e ss.), evidenzia non solo la continuità tra pittura, scultura, musica, danza e così via, ma permette anche di ripensare i rapporti tra arte alta e arti applicate, mettendo in luce zone di fertile commistione (p. 25). Il tema è anche al centro delle preoccupazioni di William Morris (1834-1896), che individua proprio nell’ornamento l’area di intersezione tra le proprie posizioni politiche ed estetiche. Morris, unendo la militanza socialista all’attività artigianale presso il movimento Arts and Crafts, promuove una concezione secondo cui “tutta l’arte è ornamentale” poiché tutta l’arte – dalla minore alla maggiore – si dà nell’articolazione ad un ambiente. Il museo, “luogo melanconico” (p. 131), strappa invece l’opera alla vita. Portando avanti una critica d’ispirazione marxista all’industria e alla distruzione del fare artigianale, Morris pone l’ornamento al centro del proprio “pensiero ecologico” (p. 136): se il capitalismo si impernia su pratiche di separazione e parcellizzazione, l’ornamento, nozione relazionale, segnala invece l’essenziale giuntura tra arte e contesto. L’arte, per Morris, è “socialista per essenza” (p. 136): essendo ornamentale, essa è relazionale, e non può essere separata dal politico.
D’altro canto, proprio l’ambiguità che anima intimamente l’ornamento fa sì che esso possa essere letto anche in una chiave politica molto diversa. È ciò che viene evidenziato nell’articolo di Ledoux: partendo dalla tesi di Siegfried Kracauer su La massa come ornamento, in cui si rinviene un’omologia strutturale tra la parcellizzazione del lavoro nell’organizzazione tayloristica e le composizioni di ballerine che verranno poi esibite in maniera eminente dalle coreografie per cinema di Busby Berkeley, l’autrice analizza l’“impensato fascista” che può venire ad animare il motivo ornamentale. Qui, la massa umana che diviene ornamento è il correlato estetico dei modi di produzione capitalista: “la ballerina, come l’operaio” (p. 79), una volta sussunta nell’insieme perde il proprio valore individuale.
Fenomeni come quello delle Tiller girls di fine Ottocento o delle Rockettes americane, in cui il corpo individuale sparisce e la sincronia dei movimenti dà vita a formazioni astratte, dall’apparenza quasi inorganica, ci permettono di volgere l’attenzione alla natura morfologica dell’ornamento. Aspetto poco esplicitato nel volume, il carattere anzitutto morfologico di ogni motivo ornamentale anima però implicitamente tutti gli interventi, in particolare quelli di Pacquet e Labrusse: si tratta, ad esempio, della “gratuità formale” delle arabesques (p. 58), “forme mute” che eccedono la figurazione (p. 59) e che, nella loro qualità puramente plastica, autonoma rispetto a significati e finalità estrinseche, quasi si configurano come astrazione ante litteram. L’arabesque, forma errante che, come ha notato Moritz, incarna il gesto che la traccia e sorge da una pulsione (un Trieb) di decorazione (pp. 34-38, 69), ha dunque carattere “capriccioso, arbitrario, non mimetico” (p. 33). Questa indulgenza formale, sganciata da ogni possibile dinamica di riferimento, denota il peculiare erotismo dell’ornamento: se già Goethe evidenziava la sensualità dell’arabesque (p. 33), non pare azzardato rinvenire qualcosa come un “sex appeal dell’inorganico” (secondo l’espressione benjaminiana recuperata da Mario Perniola) all’opera anche nelle formazioni delle chorus girls. Il luogo dell’erotico non è, qui, il corpo della singola ballerina; l’erotismo riguarda piuttosto la composizione nei suoi tratti irriconoscibili e inorganici, puramente morfologici.
La gratuità formale dell’ornamento si lega, evidentemente, alla questione della rappresentazione. Come mostrano Schiele e Labrusse, l’ornamento non sembra tanto negare il regime rappresentativo, quanto deviarlo dal suo interno: l’arabesque orientale, ad esempio, va a innestarsi nell’immaginario occidentale secondo la logica della hantise, in cui l’infestato e l’infestante non sono mai esenti da contaminazioni reciproche. È così che la perturbante alterità dell’arabesque, interiorizzata dall’Occidente, può introdurre una frattura nel regno dell’oggettività rappresentativa a cui l’immagine mimetica fa capo (p. 57). Anche nelle analisi che Warburg dedica a Botticelli sono proprio gli elementi secondari a creare uno spazio in cui è possibile il prodursi di novità stilistica. Le capigliature e più ancora i panneggi, “estensioni inorganiche dell’individuo” o “organi indolori” (p. 49), sono ornamenti espressivi nella misura in cui essi danno forma grafica all’interiorità del personaggio introducendo movimento nella sua figura; questi elementi, “margini della rappresentazione”, costituiscono delle “zone di sovversione in cui progressivamente si elaborano le trasformazioni di stile” (p. 44). Marginalità e minorità dell’ornamento si convertono così nel suo punto di forza, in ciò che ne fa un oggetto dal potere trasformativo se non addirittura sovversivo.
Tuttavia, la secondarietà stessa dell’ornamento può essere messa in questione – non per negarla tout court, quanto piuttosto per evidenziare come anche in questo caso la natura ambigua della dimensione ornamentale richieda una complicazione ulteriore. Si tratta dell’operazione teorica condotta da Sève nel suo testo. In prima battuta sembra possibile affermare semplicemente che “l’ornamento non esiste in sé, [poiché] ogni ornamento è ornamento di qualcosa che lo precede ed è da esso indipendente” (p. 11): la sua secondarietà ontologica appare tanto più evidente qualora si considerino oggetti come le cornici (di cui basamenti, piedistalli, paratesti e così via non costituiscono che delle variazioni). La cornice presenta il quadro; il parergon, soglia ornamentale, permette di accedere all’opera (all’ergon). In questo senso, la secondarietà dell’ornamento risponde anzitutto alla funzione transitiva di presentazione. Eppure, come nota Sève, ci sono casi in cui l’ontologia dell’ornamento si rovescia ed esso diviene elemento “primo”, intransitivo, pura manifestazione di sé. Casi del genere possono essere osservati nel dominio del vivente, se si sceglie di adottare una prospettiva antiutilitarista: autori come Roger Caillois e Jacques Dewitte permettono di guardare a certe forme e colori animali come a casi in cui in natura si dà una dépense formale, un eccesso che non risponde a valori ed esigenze estrinseche (fig. 2). L’ornamento, qui, è quell’auto-presentazione, quell’esuberante manifestazione priva di destinatario (l’unadressierte Erscheinung di Adolf Portmann) che caratterizza anche alcuni motivi ornamentali realizzati dall’uomo: per usare le parole di Caillois, citate da Sève, si tratterebbe di comprendere “i quadri dei pittori come la varietà umana delle ali delle farfalle” (p. 22). Ancora una volta, la marginalità dell’ornamento cambia di segno e viene ad esibire una forza dirompente, seppur sottile: concetto non solo “transartistico”, capace di attraversare i confini tra le diverse arti, l’ornamento appare ora in grado di superare anche il partage tra natura e cultura (p. 23), nell’ottica di una comune e pervasiva profusione di forme.
Ispirato dal Deutsches Werkbund, l’associazione fondata nel 1907 da Herman Muthesius per avvicinare architetti e industrie, e in cui Walter Gropius entrò nel 1912, il Bauhaus nasce nel 1919 come occasione di rinnovamento della Scuola d'arte applicata (di cui Gropius sperava di diventare direttore) e dell’Istituto superiore di belle arti. Una scuola pubblica, accessibile, che ambiva a una “nuova costruzione del futuro che sappia unire ogni disciplina, architettura, scultura e pittura, e che un giorno salirà al cielo dalle mani di milioni di lavoratori come il chiaro simbolo di una nuova fede” (cito dal Manifesto di Gropius). Un obiettivo altissimo e che implica una nuova unità culturale tra le varie arti e la permeazione dell’avanzata industriale: e che, soprattutto, si traduce in un modello formativo di straordinario interesse. La scuola era articolata in corsiteorici – ad esempio “teoria della forma”, “teoria del colore” e così via – e laboratori – di tessitura, vetreria, legatoria, grafica, architettura, fotografia e così via. Ma ciò che davvero elevava questa in fondo tradizionale alternanza tra teoria e prassi è il corso propedeutico: un corso che non doveva dare propriamente delle competenze, quanto sviluppare le attitudini e la personalità degli studenti. Il modello didattico basato su corsi e laboratori è del tutto attuale: si ritrova in tutte le facoltà di architettura ma anche in molte di ingegneria. Ma quel “corso propedeutico” oggi è scomparso, fagocitato dall’ansia verso la competenza (certificabile attraverso la misurazione della performance) e dalla riduzione dei laboratori di progetto a luoghi di soluzione dei problemi. In questo senso, l’avanzata contemporanea di modelli didattici come le challenge e modelli progettuali come il brain storming meriterebbero approfondite riflessioni. Invece, usualmente ci si limita a celebrare il Bauhaus, spesso semplificandone le vicende, complesse e non prive di incoerenze: vicende che attraversano più di un decennio, con varie periodizzazioni a seconda della sede (Weimar, Dessau, Berlino), del direttore (Gropius, Meyer, Mies van der Rohe), delle prospettive culturali (artigianali, sociali, economiche ecc.) e così via.
Il periodo weimariano, tra il 1919 e il 1924, rappresenta la fase più sperimentale e forse equilibrata del Bauhaus. Siamo agli inizi del Movimento Moderno, e alcuni tratti della scuola (dagli insegnanti come “maestri” alla chiara accentuazione dei corsi di artigianato) la avvicinano al movimento Arts and Crafts: una vicinanza che viene troppo spesso data per scontata, dimenticando quanto diverso sia l’approccio del Bauhaus, che non mirava a un recupero romantico del perduto tempo artigianale in opposizione alla fredda industria, ma a permeare quest’ultima. Infatti, soprattutto dopo il 1921, con l’ingresso di Theo van Doesburg, il leader del movimento olandese De Stijl, la scuola accentua la sua dimensione rivoluzionaria. Culmine di questo periodo è l’esposizione, nel 1923 (anno di pubblicazione di Vers une architecture di Le Corbusier), della Haus am Horn, una casa modello progettata da Gorg Muche insieme a Gropius stesso e altri docenti che sintetizzava nello spazio fisico per eccellenza – la casa – gli esiti sperimentali della scuola, definendo il più alto livello tecnico e artigianale, la massima economicità e la miglior soluzione distributiva e spaziale. Il confronto – un confronto impari e da fare con cautela – tra questa casa e un’altra casa paradigmatica del Moderno, la corbusiana Villa Savoye costruita cinque anni dopo, mostra chiaramente le due facce del Movimento. Dove nella Villa Savoye la cura squisita della forma obbliga la tecnica a virtuosismi che inevitabilmente falliscono, nella Haus am Horn l’efficacia costruttiva – la casa era sovvenzionata da un commerciante in legname che avrebbe potuto produrla e venderla – porta a sacrificare la qualità spaziale interna: una inversione di priorità, tra forma e tecnica, che riflette le diverse risorse economiche della committenza, in questo mostrando, come ho altrove sostenuto, di non scalfire davvero la struttura della società come il Moderno idealmente avrebbe voluto.
Le elezioni del 1924 segnano la fine di questo primo periodo: il neoeletto governo nazionalista dimezza i fondi pubblici su cui il Bauhaus si basava e questo porta in breve a dover chiudere la scuola. Ma la storia del Bauhaus non si arresta: la città di Dessau la “adotta” come scuola comunale, sovvenzionandone la riapertura e il trasferimento (nel 1926) nel nuovo edificio progettato di Gropius che diverrà l’icona della scuola. Una nuova sede per un Bauhaus diverso: con meno corsi artigianali, uno statuto universitario e un rafforzato dipartimento di architettura diretto da Hannes Meyer. D’altra parte dalla fine degli anni ’20 il Movimento Moderno ha una grande accelerata: iniziano i Congressi Internazionali di Architettura Moderna (i CIAM), viene realizzato il Weißenhof a Stoccarda, Alexander Klein codifica l’Existenzminimum, Le Corbusier realizza Villa Savoye dopo una serie di sperimentazioni radicali sulle case minime, Mies van der Rohe costruisce il padiglione tedesco all’expo di Barcellona e così via. Infatti, nel 1928, Gropius si dimette per proseguire la propria attività professionale, e al comando va Meyer. Inevitabilmente, la nuova direzione porta notevoli cambiamenti: da un alto aumenta la spinta verso il funzionalismo, e questo porta non a caso aumentano le commesse reali – ad esempio verranno realizzati vari blocchi di appartamenti – dall’altro, la scuola aumenta il carattere politico della scuola, con un aumento dei corsi economico-sociali a scapito di quelli più pratico-operativi. Ma le tesi marcatamente marxiste di Meyer non lasciano indifferente il governo, che ne impone il licenziamento nel 1930, ponendo fine a quella che tradizionalmente viene detto secondo Bauhaus.
La scuola prosegue senza soluzione di continuità nel suo terzo periodo, quello che vede Ludwig Mies Van der Rohe come nuove direttore, nonostante i tentativi del sindaco di Dessau di riavere Gropius al timone (in fondo, ora come allora, il ruolo dell’envisioner è essenziale). Nuovamente riorganizzata e de-politicizzata, la scuola assume una direzione più architettonica e legata a progetti industriali, riducendo sensibilmente le ambizioni sociali: e la nuova impronta in effetti funziona. Gli oggetti che rendono immortale il Bauhaus nascono in questo periodo, infatti: pezzi d’arredo e di design spesso prodotti ancora oggi e ricercatissimi come oggetti da collezione quando originali. Una eredità fatta di icone (cioè di esiti), più che di metodo: lo stile del Moderno è sopravvissuto più della sua cultura e, anzi, come abbiamo visto, proprio il fallito tentativo di rinnovarne lo stile porterà alla diaspora architettonica del Postmoderno. E proprio lo stile diventa il problema del Bauhaus. Infatti, benché rispetto al modernismo i regimi avessero un rapporto ambiguo – apprezzandone ovviamente le tendenze funzionaliste e industriali – dal 1930 il ministro nazionalsocialista degli interni e della pubblica istruzione Wilhelm Frick inizia una lotta verso ciò che è inutilmente “moderno”. Così i finanziamenti si riducono ulteriormente e, nel 1932, il sindaco di Dessau deve chiudere definitivamente il Bauhaus. Qui la storiografia tende ad assegnare al Bauhaus un ruolo di eroica resistenza al nazismo, benché i fatti siano diversi: infatti Mies van der Rohe cedette a tutte le richieste man mano avanzate dal partito nazionalsocialista – a questo proposito, segnalo Mies in Berlin, curato da Terence Riley e Barry Bergdoll.
Conferma ne è l’ultima incarnazione del Bauhaus, cioè la scuola che Mies fonda nel 1933 a Berlino ignorando le offerte Magdeburgo e Lipsia. Una scuola privata, pagata da rette altissime e dai brevetti del Bauhaus, che visse solo un anno prima di essere additata dalla Gestapo come bolscevica. Ma che rinacque subito, in una forma nuovamente privata che rispettava le direttive di Alfred Rosenberg (neo-ministro della cultura): dal licenziamento di personalità scomode come Kandinsky e Hilberseimer all’espulsione di docenti e studenti ebrei, dall’assunzione di docenti appartenenti al partito a un programma di studi orientato in senso nazionalsocialista. L’ambigua relazione tra Moderno e nazismo, che come abbiamo visto riguarda anche altri maestri come Le Corbusier e Philip Johnson, termina, di nuovo, per questioni di stile. Nel 1935 infatti Albert Speer diventa l’architetto del Reich e convince Hitler a recuperare i fasti imperiali e la dimensione vernacolare: l’architettura minimalista di Mies non ha più speranze, e la sua scuola deve chiudere, mentre la sua attività professionale si riduce tanto che nel 1937 deciderà di trasferirsi nel Wisconsin.
A ormai oltre 100 anni dalla sua fondazione, sono quindi molti i temi che continuano a destare interesse. Certo molti sono i testi che ripercorrono e interpretano la storia nel suo complesso – dal primissimo libro di Herbert, Bayer Bauhaus 1919-1928, pubblicato alla fine degli anni ’30, a Bauhaus di Frank Witford, uscito a 50 anni dalla chiusura della scuola; dalla lettura interpretata di Giulio Carlo Argan in Walter Gropius e la Bauhaus, al recente e monumentale “Bauhaus 1919-1933” di Magdalena Droste. Ma nel tempo diversi sono stati i libri che hanno indagato la relazione tra la scuola e la politica che, come abbiamo visto, è complessa quanto interessante – tra gli altri, The Bauhaus Idea and Bauhaus Politics di Éva Forgács o Architecture and Politics in Germany 1918-1945 di Barbara Miller Lane. Altri hanno indagato il ruolo, rilevante anche se meno di quanto si vorrebbe, delle donne nell’istituzione – ad esempio “Bauhaus Women: Art, Handicraft, Design”, di Ingrid Radewaldt e Ulrike Müller-Böker, “Bauhaus Mädels” di Patrick Rössler o la prossima pubblicazione di Tab Edizioni, “Women at the Bauhaus, the Bauhaus to the women” a cura di Olimpia Niglio e Paola Ardizzola. Senza poi citare le numerose pubblicazioni dedicate agli oggetti che il Bauhaus ci ha lasciato – ad esempio 50 Bauhaus Icons You Should Know di Josef Strassero o Das Bauhaus in 100 Objekten di Wilfried Lembert – e le pubblicazioni per il centenario – tra le quali cito solo “Bauhaus 100: imparare, fare, pensare”, curato da Aldo Colonetti per Electa, che esplora possibili eredi dell’approccio Bauhaus, più che celebrarne il ricordo.
Il numero monografico che inaugura i Quaderni di dianoia, La costruzione del futuro(citazione diretta del Manifesto del Bauhaus di Gropius), scandaglia diverse di queste tensioni, in una miscellanea curata da Marina Lalatta Costerbosa che firma una introduzione ficcante, appassionante e ricca di spunti bibliografici. Ci si muove tra due punti altissimi: lo scritto iniziale di Enzo Collotti e quello conclusivo di Franco Farinelli. Il primo è un prezioso reprint di un saggio comparso su Controspazio nel 1970, "Il Bauhaus nell’esperienza politico-sociale della repubblica di Weimar". Il testo del grande storico lega con la sua tipica lucidità fatti storici, politici, sociali, stilistici, economici, dando una comprensiva visione del Bauhaus nella repubblica weimariana che evidenzia tutta la complessità della relazione tra ideali e politica, descrivendola entro i confini istituzionali che ne hanno segnato l’evoluzione e respingendo con delicatezza le visioni celebrative della purezza della scuola per proporre una visione meno stereotipata e ben più fondata. Allo stesso modo, il breve contrappunto di Farinelli, “La coscienza del Bauhaus”, chiarisce un’archeologia del metodo moderno, tracciandone una corrispondenza con l’articolazione cognitiva proposta da Alexander von Humboldt all’inizio dell’Ottocento – una corrispondenza sorprendente – che permette sia di dare un senso più profondo alla relazione tra scuola, società e politica sia, soprattutto, di mettere in relazione in modo non meramente metaforico il pensiero Moderno ieri, oggi e, potenzialmente, domani. Di fronte a un simile incipit e un simile finale, gli altri testi faticano comprensibilmente a reggere il confronto. In parte perché, come nel caso di “Bauhaus 100. Forma funzione utopia” di Donna e Martini, si limitano a una rilettura scolastica del pensiero di Argan – che certo meriterebbe più un contraddittorio che non una fiducia incondizionata – che si sviluppa tra fatti noti e luoghi comuni senza approfondirli. In parte perché colgono l’occasione per trattare d’altro, come “Esperienza e figurazione” di Guidetti: certo un saggio pregevole sulle tesi di Ernst Mach che però poco ha a che fare con il Bauhaus, se non nel blando rimando al fatto che quella filosofia avrebbe influenzato Klee – prospettiva che sconta un errore di fondo, quello di interpretare filosoficamente l’interpretazione artistica di Klee della filosofia di Mach. Tanto più che il ruolo di Klee al Bauhaus era sì collaborativo, ma certo ancillare rispetto alle direzioni imposte dai direttori: in questo senso, è una boccata d’aria fresca la complessità anti-celebrativa di “Ambitions, Anxieties and Attainments” di Anja Baumhoff, che mette in luce il lato interessato, proprio in senso economico, di Klee, demitizzandone ruolo e personalità: troppo spesso infatti nomi altisonanti come quello di Klee vengono associati alla scuola senza approfondirne il ruolo, e lasciando in ombra personalità essenziali ma meno note al grande pubblico (Johannes Itten, tanto per dire, non riceve nemmeno una citazione in tutto il testo). Per contrasto, “Kandinsky negli anni del Bauhaus” di D’Anna non sembra cogliere davvero il ruolo del grande artista nella scuola, favorendo l’analisi della sua visione artistica rispetto al verificarne gli effetti nei corsi ch’egli teneva. Invece, dato che l’autoanalisi di un artista è spesso una pallida razionalizzazione dei suoi esiti pratici, guardare alla relazione maestro-allievo sarebbe stato in questo caso interessante rispetto al tema metodo-stile. Lascia perplessi “Il Bauhaus al tempo dell’ecologia e della fine del postmoderno” di Iofrida, che vorrebbe utilizzare le letture che Adorno e Merleau-Ponty fanno del Bauhaus per attualizzarne il pensiero: in parte perché Adorno chiaramente deforma a suo uso e consumo il Bauhaus, mischiandovi le tesi di Adolf Loos e sovrastampandovi una visione marxista quantomeno discutibile, e il saggio questa distorsione intenzionale sembra non coglierla; in parte perché Merleau-Ponty non ha mai parlato del Bauhaus, e derivarne un qualche pensiero dalla sua lettura dell’opera di Klee è quindi ardito pur se potenzialmente interessante; in parte perché di tutto il tema ecologico, al di là del titolo, rimane solo un’esortazione metaforica. Mentre il dolcissimo tributo a Marianne Brandt di Anne-Kathrin Weise, pur ottenendo l’effetto contrario a quanto forse sperato – emerge infatti che il Bauhaus non era affatto inclusivo verso le donne come ci piacerebbe credere – ha il grande pregio di ricordarci, attraverso le opere figurative da lei fatte negli ultimi, tragici momenti della sua vita, che il metodo del Moderno dovrebbe essere legato agli esiti, ma non al loro stile.
Una conclusione affatto scontata e della quale tendiamo a dimenticarci, perché ci obbliga ad attualizzare – operazione analogica, quindi sempre rischiosa – e perché, come abbiamo visto, sono gli esitistilistici del Bauhaus quelli che, nonostante tutta la buona volontà, più facilmente ricordiamo: e la copertina, con la culla di Peter Keler, rischia di confermarlo.
È noto che Michel Foucault intendeva scrivere un libro sul pittore Édouard Manet, dal titolo Le noir et la couleur, la cui pubblicazione era prevista da parte delle Éditions de Minuit (Defert 2001, p. 41). Egli aveva redatto un gran numero di pagine sull’argomento, senza però consegnarle all’editore. A quanto sembra, dopo aver conservato molto a lungo l’ampio manoscritto su Manet, da ultimo il filosofo ha scelto di distruggerlo (Guibert 2019, p. 27). Tuttavia alcuni segni significativi del suo interesse per l’artista francese sono emersi a più riprese, nel corso dei decenni.
Già in un saggio su Flaubert datato 1964, Foucault ha introdotto un parallelismo fra il narratore e il pittore ottocenteschi: «Flaubert è, rispetto alla biblioteca, ciò che Manet è rispetto al museo. Essi scrivono e dipingono in un rapporto fondamentale con quel che è stato dipinto e scritto – o piuttosto con ciò che della pittura e della scrittura rimane indefinitamente aperto. La loro arte si edifica là dove si forma l’archivio. Non in quanto segnalino il carattere tristemente storico – gioventù diminuita, assenza di freschezza, inverno delle invenzioni – con cui ci piace stigmatizzare la nostra epoca alessandrina; ma essi fanno emergere un fatto essenziale per la nostra cultura: ogni quadro appartiene ormai alla grande superficie quadrettata della pittura; ogni opera letteraria appartiene al mormorio indefinito di ciò che è scritto. Flaubert e Manet hanno fatto esistere, nell’arte stessa, i libri e le tele»[1]. In effetti, lo scrittore – specie in opere come La tentation de saint Antoine o Bouvard et Pécuchet[2] – aveva costruito dei volumi che erano il frutto di innumerevoli letture, così come Manet presupponeva nello spettatore delle proprie tele la capacità di riconoscere analogie e differenze rispetto ai capolavori pittorici dei secoli precedenti, a cui non di rado si ispirava.
Occorre ricordare inoltre che Foucault ha dedicato al pittore una serie di conferenze tenute in vari luoghi del mondo: nel 1967 a Milano, nel 1970 a Tokyo e a Firenze, nel 1971 a Tunisi, nel 1972 a Buffalo. L’esposizione orale di Tunisi, dal titolo La peinture de Manet, ha avuto una storia editoriale piuttosto complessa. Dapprima, per la sua pubblicazione su una rivista tunisina, avvenuta nel 1989, ci si è basati su una registrazione parziale (l’unica disponibile) della seduta. Più tardi, è stato possibile, tenendo conto di una trascrizione che era in possesso di Daniel Defert, ricostruire una versione più fedele del testo, edita nel 2001 nel bollettino annuale della Société française d’esthétique. Infine, grazie al fortunato ritrovamento di una registrazione sonora completa, nel 2004 si è giunti alla pubblicazione integrale della conferenza, in un volume corredato anche da vari interventi di studiosi che la commentano[3].
Nel suo discorso rivolto all’uditorio tunisino, Foucault esordisce scusandosi per il fatto di parlare del grande pittore pur senza essere un esperto d’arte. Aggiunge che non è sua intenzione occuparsi dell’opera di Manet in generale, bensì soltanto di prendere in esame una dozzina di dipinti. In effetti, però, la parte iniziale della conferenza riguarda quelle che, a giudizio del filosofo, sono le intenzioni di fondo del lavoro del pittore. Foucault conferma il giudizio tradizionale che vede in quest’artista il precursore dell’impressionismo, ma si spinge ben oltre: «Mi sembra che Manet abbia reso possibile non solo l’impressionismo, ma tutta la pittura successiva, tutta la pittura del XX secolo, la pittura al cui interno si sviluppa ancora, attualmente, l’arte contemporanea» (Foucault 2005, p. 9-11). Il filosofo non è certo l’unico ad attribuire al pittore francese un ruolo inaugurale. Malraux e Bataille, per esempio, lo avevano già fatto, l’uno sostenendo che «Manet passa dalle sue prime tele romantiche ad Olympia, al Portrait de Clemenceau, al piccolo Bar aux Folies-Bergère, così come la pittura passa dal museo all’arte moderna», mentre l’altro, in maniera ancor più esplicita, scrivendo che «Manet non è soltanto un grandissimo pittore: in rotta con coloro che l’hanno preceduto, ha aperto il periodo in cui viviamo, accordandosi col mondo attuale, il nostro» (Malraux 1999, p. 41: Bataille 2013, p. 11).
Per dimostrare la propria audace tesi, il filosofo passa ad esaminare alcuni dipinti, ben pochi in rapporto alla vasta produzione dell’artista francese, ma comunque rilevanti e rappresentativi[4]. Il primo aspetto che Foucault vuole sottolineare riguarda il modo in cui Manet ha messo in rilievo gli aspetti materiali della tela. Fa dunque notare che in La musique aux Tuileries le teste dei numerosi personaggi raffigurati (ricordiamo per inciso che fra essi ci sono il pittore stesso e alcuni suoi amici, come Baudelaire) sono disposte lungo una linea orizzontale, mentre gli assi verticali vengono indicati dagli alberi. Una composizione simile si ritrova in Le bal masqué à l’Opéra: anche qui, infatti, i cappelli a cilindro indossati dai personaggi maschili sono disposti lungo una linea orizzontale. Tuttavia, rispetto al quadro precedente, vi sono alcune modifiche significative, volte a diminuire la profondità di campo. Dice il filosofo: «Questa profondità è ora chiusa, chiusa da uno spesso muro; e come per segnalare bene che vi è un muro e nulla da vedere dietro, osservate i due pilastri verticali e l’enorme barra orizzontale che incornicia il quadro, che raddoppia in qualche modo all’interno del dipinto la verticale e l’orizzontale della tela. Questo grande rettangolo della tela viene ripetuto all’interno del quadro, lo chiude sul fondo, eliminando così l’effetto di profondità» (Foucault 2005, p. 27). L’unica modesta apertura di campo dovrebbe trovarsi in alto, al di sopra della barra orizzontale (che è una specie di soppalco), ma tale apertura mostra solo i piedi di altri individui, come se la scena fosse raddoppiata, ricominciasse da capo. La tendenziale chiusura dello spazio è ravvisabile anche in un altro quadro, L’exécution de Maximilien, il cui sfondo è quasi interamente costituito da un muro: questo fa sì che i personaggi si trovino confinati su una stretta superficie di terreno. Inoltre essi sono vicini fra loro al punto che i fucili del plotone di esecuzione esplodono i loro colpi quasi a contatto col petto delle tre persone giustiziate. E anche qui non manca l’inizio di una scena ulteriore nella parte alta del dipinto.
L’incrociarsi delle linee orizzontali e verticali è al centro di un’opera, Le port de Bordeaux, in cui le alberature delle navi formano un reticolo talmente fitto da richiamare, secondo Foucault, non soltanto la forma del quadro, ma qualcosa di ancor più concreto, in quanto sono «in certo modo la riproduzione, nella filigrana del dipinto, di tutte le fibre orizzontali e verticali che costituiscono la tela stessa, la tela in quel che ha di materiale» (Foucault 2005, p. 35)[5]. Ciò diviene ancor più chiaro in Argenteuil, dove tale effetto viene ottenuto grazie ai tessuti riprodotti nel quadro, quelli degli abiti indossati dalle due figure in primo piano: il vestito a righe verticali della donna e la maglietta a righe orizzontali dell’uomo che le sta accanto.
Oltre ai due procedimenti citati (restringimento della profondità di campo ed evidenziazione delle linee ortogonali), Foucault ne segnala un terzo, che consiste nel rappresentare dei personaggi che stanno guardando in direzioni opposte, in avanti e all’indietro, come accade in La serveuse de bocks o in Le chemin de fer. Con qualche forzatura, egli ravvisa qui l’intento, da parte del pittore, di richiamare l’attenzione sul fatto che il quadro è un oggetto bifronte, giacché presenta un recto e un verso. Se a ciò si aggiunge che, in entrambe le opere, quel che i personaggi guardano si vede a malapena o non si vede affatto, allora la strategia dell’artista diviene ancor più perversa: «È questo gioco dell’invisibilità, assicurata dalla superficie stessa della tela, che Manet usa all’interno del quadro in un modo che si può comunque definire, come vedete, vizioso, malizioso e crudele; poiché, in fin dei conti, è la prima volta che la pittura si offre mostrandoci qualcosa di invisibile: gli sguardi sono lì per indicarci che c’è qualcosa da vedere, qualcosa che per definizione, e per la natura stessa della pittura, della tela, è necessariamente invisibile» (Foucault 2005, p. 45-46).
Il filosofo passa poi a considerare un altro aspetto del lavoro di Manet, quello che riguarda i problemi legati alla luce. Un primo esempio viene offerto dal quadro Le fifre, che mostra un ragazzino, con un’elegante divisa militare, intento a suonare il piffero. Tuttavia la soppressione della profondità di campo fa sì che il personaggio si stagli su uno sfondo neutro e del tutto vuoto. Solo poche ombre attorno ai piedi suggeriscono che egli si trova su un pavimento, distinguibile a stento dalla parete di fondo. Tale semplificazione è una delle caratteristiche per cui il dipinto, nel 1866, è stato rifiutato dalla giuria del Salon. Ma non è questo ad interessare a Foucault, bensì il fatto che, mentre nella pittura classica l’illuminazione proviene sempre da una certa direzione, e spesso la fonte di luce viene resa esplicita anche quando la scena si svolge in un interno, in Le fifre non si nota nulla del genere. Qui la luce raggiunge la figura di fronte, è un’«illuminazione dunque totalmente perpendicolare, come lo sarebbe l’illuminazione reale della tela se questa, nella sua materialità, fosse esposta davanti a una finestra aperta» (Foucault 2005, p. 50). Ma la tecnica relativa alla luce può essere, in Manet, anche più complessa, come mostra un dipinto celebre, Le déjeuner sur l’herbe. Foucault scorge in quest’opera la compresenza di due diversi metodi di illuminazione. Per quanto riguarda lo sfondo, la luce proviene dall’alto e da sinistra, in una maniera che si può definire tradizionale, mentre i personaggi in primo piano vengono illuminati frontalmente. «Questi due sistemi di rappresentazione, o piuttosto questi due sistemi di manifestazione della luce all’interno del quadro, sono qui giustapposti nella stessa tela, e la giustapposizione dà al quadro il suo carattere discordante, la sua eterogeneità interna» (Foucault 2005, p. 52-53).
Foucault giunge così ad affrontare Olympia, il dipinto forse più famoso di Manet, o se si preferisce il più famigerato, viste le reazioni che aveva prodotto al momento della sua esposizione al pubblico. Il filosofo, che di norma nella sua conferenza sorvola sugli aspetti relativi alla ricezione delle opere dell’artista, in questo caso fa un’eccezione e accenna ai fatti accaduti all’epoca: «L’Olympia, come ben sapete, ha suscitato scandalo quando è stata esposta al Salon del 1865, uno scandalo tale che si è stati costretti a ritirarla. Alcuni borghesi, in visita al Salon, volevano trafiggerla con la punta dei loro ombrelli, tanto la trovavano indecente. Ora, la rappresentazione della nudità femminile nella pittura occidentale è una tradizione che risale al XVI secolo, e se n’erano viste molte altre prima di Olympia […]. Cosa c’era dunque di così scandaloso in questo quadro, da far sì che non si riuscisse a sopportarlo?» (Foucault 2005, p. 53-56)[6]. Una prima risposta, non formulata da Foucault, è piuttosto ovvia: pur ispirandosi a quadri classici, in particolare la Venere di Urbino di Tiziano, l’artista francese aveva scelto di raffigurare non una dea dalle forme perfette e sensuali, bensì una donna dall’aspetto banale e realistico. Ciò viene riconosciuto anche dai rari e coraggiosi difensori di Manet, come Émile Zola: «Quel corpo nudo è parso indecente; così doveva essere, perché è carne, una ragazza che l’artista ha gettato sulla tela nella sua nudità giovane e già appassita» (Zola 1993, p. 27). Infatti il senso della scena rappresentata non sfugge agli osservatori: la donna stesa sul letto è una prostituta, cui la domestica di colore sta consegnando un mazzo di fiori portato da un cliente. Jules Claretie scrive appunto, con tono d’indignazione: «Olympia? Quale Olympia? Senza dubbio una cortigiana» (Claretie in Romano 2004, p. 14). I vari aspetti provocatori del quadro convergono fra loro, come ha notato un amico e ammiratore dell’artista, il poeta Stéphane Mallarmé, ravvisando nell’Olympia «quella cortigiana pallida e scarna la quale offre per la prima volta al pubblico il nudo che sfugge alle convenzioni e alle tradizioni» (Mallarmé 2004, p. 65).
Il filosofo, da parte sua, ricorda che «gli storici dell’arte sostengono, e indubbiamente hanno ragione, che lo scandalo morale era soltanto un modo maldestro di esprimere lo scandalo estetico: non si sopportava questa estetica, queste tinte piatte, questa grande pittura alla giapponese» (Foucault 2005, p. 56). E in ciò anche la luce gioca il suo ruolo: se nella Venere di Tiziano «c’è una fonte luminosa in alto a sinistra che viene a illuminare dolcemente la donna […] e che sembra una sorta di doratura che le accarezza il corpo», nel quadro di Manet la luce, essendo fredda e frontale, produce un effetto assai meno idealizzante. Inoltre, proprio per il fatto che sembra provenire dal luogo stesso in cui si trova l’osservatore del quadro, «è il nostro sguardo che, aprendosi sulla nudità dell’Olympia, la illumina. Siamo noi a renderla visibile» (Foucault 2005, p. 56-57).
Che la luce eserciti il suo pieno effetto solo sulle figure in primo piano trova conferma in un altro quadro di Manet, Le balcon. In esso, oltre al consueto gioco sulle linee orizzontali e verticali, si ritrova, sia pure in maniera diversa, anche il restringimento della profondità di campo. In teoria, oltre ai tre personaggi (uno maschile e due femminili) che si trovano sul balcone, l’illuminazione dovrebbe estendersi anche alla stanza retrostante, ma di fatto ciò non accade, poiché l’interno appare quasi buio. Secondo Foucault, che esagera un pochino, «si distingue solo il vaghissimo riflesso di un oggetto metallico, una specie di teiera, e un ragazzo che la porta, ma è a malapena visibile. E tutto questo grande spazio cavo, questo grande spazio vuoto che normalmente dovrebbe aprire su una profondità, ci è reso assolutamente invisibile, e perché? Ebbene, semplicemente perché tutta la luce è all’esterno del quadro» (Foucault 2005, p. 60-61). In questa scena appiattita, i personaggi appaiono situati tra la luce e l’ombra, quasi fossero al confine tra la vita e la morte. A tal proposito, il filosofo non manca di ricordare che il pittore surrealista René Magritte ha eseguito un’ironica variante di Le balcon, nella quale al posto delle figure umane si trovano altrettante bare[7].
Riguardo all’ultimo dei temi che è sua intenzione affrontare, ossia quello del luogo assegnato da Manet allo spettatore dei dipinti, il conferenziere sceglie di riferirsi a una sola opera, Un bar aux Folies-Bergère. Si tratta di una tela complessa: mostra infatti una figura centrale, la giovane donna che serve al bancone di un bar, ma dietro a lei si trova un grande specchio, nel quale possiamo vedere riflesso, in maniera più o meno distinta, il resto de locale. Il fatto che nel dipinto lo specchio eserciti un ruolo rilevante richiama alla memoria (benché il parallelismo non venga esplicitato) un celebre quadro che si basava su un dispositivo simile, Las Meninas di Velázquez, al cui minuzioso esame era dedicata l’ouverture di un altro libro del filosofo, Les mots et les choses (Foucault 2012, p. 17-30). Anche se l’inclusione nell’immagine dipinta di un riflesso speculare non costituisce di per sé una novità, Manet adotta ulteriori soluzioni innovative, coerenti col proprio stile. Tanto per cominciare, nel quadro lo specchio occupa interamente lo sfondo, dunque delimita e restringe lo spazio così come un muro lo chiudeva in L’exécution de Maximilien. L’illuminazione, ancora una volta, è frontale, con l’astuzia supplementare data dal fatto che il riflesso mostra i lampadari presenti nella sala, dunque nello spazio antistante rispetto a quello in cui si trova la barista.
Ma il riflesso medesimo offre ben altre sorprese. Osserva il filosofo che, «in linea di principio, questo è uno specchio, dunque tutto quel che si trova davanti allo specchio deve essere riprodotto all’interno di esso […]. In realtà, se provaste a contare e a ritrovare le stesse bottiglie qui e là, non ci riuscireste, perché di fatto c’è una distorsione tra ciò che viene rappresentato nello specchio e ciò che dovrebbe esservi riflesso» (Foucault 2005, p. 68). La distorsione raggiunge il massimo nella figura della donna, la cui immagine riflessa si trova alquanto spostata a destra rispetto alla posizione che dovrebbe logicamente occupare. È come se lo spettatore osservasse la scena da un’angolazione molto laterale, ma se così fosse egli non potrebbe vedere la barista di fronte, come invece il quadro ce la mostra. «Dunque il pittore occupa – e lo spettatore è invitato a farlo con lui – successivamente, o piuttosto simultaneamente, due posizioni incompatibili» (Foucault 2005, p. 68). Non si può neanche ipotizzare che lo specchio sia disposto in obliquo, poiché il suo bordo è perfettamente parallelo al bancone del bar, e alla cornice stessa del dipinto. Non basta ancora: il riflesso rivela un personaggio maschile che sta parlando con la barista, e che dunque dovrebbe trovarsi, fuori dallo specchio, di fronte a lei, mentre in effetti non c’è. Da tutte queste stranezze consegue che Manet «fa giocare la proprietà del quadro di non essere assolutamente uno spazio normativo la cui rappresentazione ci assegna, o assegna allo spettatore, un punto e un unico punto da cui guardare, e il quadro appare come uno spazio davanti al quale e in rapporto al quale ci si può spostare» (Foucault 2005, p. 71). È quel che accade quando osserviamo una tela appesa alle pareti di una stanza o nella sala di un museo. Manet – conclude il filosofo – «è dunque in procinto di inventare, se volete, il quadro-oggetto, la pittura-oggetto, ed è questa senza dubbio la condizione fondamentale affinché, finalmente, un giorno ci si liberi dalla rappresentazione e si lasci giocare lo spazio con le sue proprietà pure e semplici, le sue stesse proprietà materiali» (Foucault 2005, p. 72)[8].
Se il testo completo dell’esposizione tunisina è ora accessibile, lo stesso non può dirsi per quello delle altre conferenze tenute da Foucault sul pittore. Tuttavia nel 2011 è stata pubblicata la riproduzione fotografica (con relativa trascrizione) di una serie di ventiquattro fogli manoscritti senza data su Manet, dal titolo Le noir et la surface (Foucault 2011, p. 378-395). Si tratta di appunti schematici, ma ricchi di riferimenti sia alla biografia dell’artista che, più in generale, alla storia della pittura. Da essi, ci limiteremo a trarre solo poche osservazioni. Il filosofo ricorda che «Manet viene considerato come […] il primo pittore del XIX secolo ad aver attuato, in maniera violenta e scandalosa, una rottura con l’accademismo. […] E non, come Courbet, tramite la scelta dei soggetti, ma per via del modo stesso di dipingere» (Foucault 2011, p. 380). Riguardo all’altra delle definizioni tradizionali dell’artista, visto come antesignano dell’impressionismo, Foucault si mostra invece più cauto: riconosce che «senza dubbio c’era qualcosa, della pittura di Manet, che rendeva l’impressionismo possibile; e qualcosa che resisteva ad esso. Tuttavia ciò che resisteva all’impressionismo non era […] il classicismo della pittura, ma piuttosto qualcosa che doveva apparire in piena luce solo dopo l’impressionismo» (Foucault 2011, p. 380).
L’artista, che da giovane era stato un allievo, ancorché indocile, di Thomas Couture, da lui aveva desunto l’idea di un richiamo non propriamente accademico alla tradizione, per cui i nuovi quadri che venivano realizzati potevano instaurare un nesso, per così dire laterale, con i dipinti del passato. Da qui il fatto che, in Manet, «Le déjeuner sur l’herbeha più rapporti con Giorgione che con una vera colazione. Olympia con la Venere di Urbino» (Foucault 2011, p. 381). Questo e altri insegnamenti di Couture, in parte accolti da Manet, «resteranno in sospeso, inavvertiti, fino a quando la pittura postimpressionista – Cézanne e Gauguin, Bonnard, i Nabis, i Fauves – ne risveglierà per noi i poteri rimasti dormienti» (Foucault 2011, p. 383). Foucault prosegue esaminando alcune opere al livello della composizione e dell’uso dei colori. A tal proposito entra il gioco il nero, che agisce al tempo stesso «come colore e come valore (distinguendosi così dal bianco e dal chiaro, che continuano ad essere assimilati fra loro […])» (Foucault 2011, p. 384). In Le déjeuner sur l’herbe, per esempio, «a partire dal momento in cui il nero funziona come colore, gli altri colori se ne liberano: – il verde acido degli alberi – i volti e i corpi sono assolutamente lisci – il fondo si schiarisce» (Foucault 2011, p. 385).
Il filosofo appare minuziosamente attento agli aspetti tecnici del lavoro pittorico e ricorre spesso al confronto tra l’artista francese e i suoi predecessori: «Manet abolisce la distinzione scena-ritratto – Gainsborough aveva collocato dei ritratti su un fondo di paesaggio – Courbet e Corot avevano collocato dei ritratti […] nei paesaggi, e l’illuminazione era la stessa per gli uni e per gli altri. Mai erano stati dipinti in un paesaggio ritratti dotati delle dimensioni, dell’illuminazione e del contrasto netto che sono propri di un ritratto. È evidente che nell’evoluzione di Manet (almeno fino al 1870) la tecnica del ritratto prevale sulle esigenze specifiche dei paesaggi» (Foucault 2011, p. 385). Foucault è sempre pronto a cogliere quel che distingue il pittore di cui si occupa dagli impressionisti, anche proprio a livello tecnico. Così, se Manet sopprime «uno degli elementi più importanti della pittura classica: il tono locale (tono dell’oggetto stesso, opposto al tono fondamentale del quadro)», non lo fa in maniera analoga agli impressionisti: questi ci riescono «tramite il colore puro, che è al tempo stesso sostanza della luce e sostanza dell’oggetto», mentre in Manet ciò avviene «tramite l’utilizzo di colori complessi offerti alla luce, ma alla luce che illumina realmente il quadro», vale a dire dall’esterno (Foucault 2011, p. 388). E il filosofo ribadisce nuovamente che, tra i colori, è il più scuro ad avere la prevalenza: «Il nero è sì un colore come gli altri, ma ha una funzione spaziale che gli altri non hanno – si è visto quale ruolo giocava a titolo di linea di contorno – ma gioca anche un ruolo organizzatore in quanto macchia centrale. […] Di modo che, in fin dei conti, lo spazio del quadro s’illumina per effetto del nero, e sembra volatilizzarsi grazie al potere di questa macchia enigmatica. Sorta di macchia cieca che fa scintillare il visibile» (Foucault 2011, p. 389-390).
Un altro metodo usato per ottenere un effetto di apertura o dispersione consiste nel modo in cui è orientato lo sguardo dei personaggi: «A partire dal Rinascimento italiano, la divergenza degli sguardi aveva la funzione di definire lo spazio del quadro, e in certo modo di incorniciarlo, percorrerlo e solidificarlo – in Manet, gli sguardi escono dal quadro, ma in una direzione non valutabile, dunque per rivolgersi non verso lo spettatore, bensì verso qualcosa che contesta il quadro» (Foucault 2011, p. 391). Un risultato analogo viene ottenuto allontanando alcune delle figure umane dal centro del dipinto e rendendole visibili solo in parte: «È in certo modo il quadro stesso ad essersi spostato in rapporto allo spazio che rappresenta. Perciò il fatto che i personaggi non siano al centro della tela non è dovuto a loro, ma a uno slittamento del quadro in rapporto al proprio spazio. Da qui i personaggi tagliati» (Foucault 2011, p. 392).
Proprio come nella conferenza tunisina, anche in Le noir et la surface la conclusione è dedicata all’analisi di Un bar aux Folies-Bergère. Oltre a mettere in evidenza il gioco sulle immagini riflesse dallo specchio, Foucault rende esplicito il rapporto, nel contempo analogico e oppositivo, stabilito dall’artista con Las Meninas di Velázquez (oppositivo perché in Manet i riflessi speculari risultano dislocati). Da ultimo, la forma e il colore del corsetto della barista che vediamo in primo piano acquistano, agli occhi del filosofo, un significato particolare, funereo: «Questa macchia nera in forma di busto ha le stesse linee di una clessidra: è la figura del tempo e della morte, così come la gondola del Grand Canal, errante in uno spazio incerto e decomposto, aveva tutti i poteri della barca dei morti» (Foucault 2011, p. 394)[9].
Prima di concludere a nostra volta, dobbiamo ricordare che Foucault ha fatto riferimento al pittore francese anche in due interviste. La prima, del 1970, è tuttora inedita, ma un passo significativo di essa è stato citato da Didier Eribon nella sua biografia del filosofo. Parlando del progetto di scrivere un libro su Manet, Foucault spiega di aver scelto di occuparsi dell’artista in quanto rappresenta un «fenomeno di rottura»; infatti «la sua opera è apparsa all’interno di una storia della pittura che era lirica, rappresentativa, spaziale, voluminosa, mentre egli, senza aver coscienza (o avendo scarsa coscienza) della propria stranezza, si è messo a dipingere figure piatte e brutte. Ed è proprio questa distruzione della pittura quale veniva riconosciuta dalle persone del suo tempo che, quindici anni più tardi, diverrà il segno stesso della modernità per altri pittori, gli impressionisti, che del resto non sono fedeli a Manet. È sorprendente…» (Foucault in Eribon 2011, p. 299).
La seconda intervista è datata 1975. A un domanda volta a chiarire se egli sia interessato all’arte pittorica in generale, il filosofo risponde di sì, specificando che, in quell’ambito, «ci sono cose che assolutamente mi affascinano e m’incuriosiscono, come Manet. Tutto mi stupisce in lui. La bruttezza, ad esempio. L’aggressività della bruttezza, come in Le balcon. E poi l’inesplicabilità, tale che lui stesso non ha mai detto nulla sulla propria pittura. Manet ha fatto, in pittura, un certo numero di cose rispetto alle quali gli “impressionisti” erano del tutto regressivi» (Foucault 1974, p. 1574). Spiazzato dall’elogio della bruttezza, l’intervistatore gli chiede di spiegarsi meglio. Foucault precisa che «può trattarsi della distruzione totale, dell’indifferenza sistematica a tutti i canoni estetici, e non solo a quelli della sua epoca. Manet è stato indifferente a canoni estetici talmente radicati nella nostra sensibilità che persino adesso non capiamo perché e come egli abbia potuto far questo. C’è una bruttezza profonda, che ancora oggi continua ad urlare, a stridere» (Foucault 1974, p. 1574). Secondo il filosofo, il carattere urtante di tale pittura, lo choc che (sia pure in forma attenuata rispetto a quanto avveniva nell’Ottocento) essa produce anche adesso sullo spettatore, va considerato come un merito, non come un difetto.
Si può dunque dire che l’analisi condotta da Foucault sull’opera di Manet, nonostante l’indubbia originalità del metodo adottato, perviene a conclusioni piuttosto simili a quelle a cui giungeva Bataille, che a sua volta scorgeva in essa un elemento di mistero e, nel contempo, una significativa anticipazione dell’arte novecentesca. Infatti, nel 1955, Bataille chiudeva il proprio libro con queste frasi: «Ho voluto presentare Manet come uno dei pittori più segreti, più difficilmente penetrabili. Come il più degno di annunciare la nascita di quel mondo favoloso, così fertile di sorprese, che oggi la pittura moderna apre dinanzi ai nostri occhi» (Bataille 2013, p. 90)[10].
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[1] Testo pubblicato prima in tedesco nel 1964, poi in francese nel 1967 col titolo Un «fantastique» de bibliothèque, ora in Foucault 1971: 139; si avverte che i passi delle traduzioni italiane cui si rimanda vengono spesso citati con modifiche).
[2] Sul nesso fra i due libri, cfr. gli appunti per una conferenza del 1970, Foucault 2019: 265-286.
[3] Su tutto ciò, cfr. Maryvonne Saisonin Foucault2005: 9-11.
[4] I quadri commentati da Foucault vengono riprodotti a colori nel volume La peinture de Manet. Per un esame complessivo dell’opera, si può vedere ad esempio Cachin1991.
[5] Anzi, se si isola la parte del dipinto che raffigura le alberature, diviene legittimo scorgervi un’analogia con «la serie di variazioni che Mondrian ha fatto sull’albero […], il suo famoso albero a partire dal quale – contemporaneamente a Kandinskij – ha scoperto la pittura astratta» (Foucault 2005: 35-36).
[6] Sulle polemiche suscitate dal quadro, cfr. Rewald 1991: 110-113, e Romano 2007.
[7] Anni prima, il filosofo aveva chiesto chiarimenti a Magritte sul suo quadro Perspective: «Le balcon» de Manet (1950), e l’artista belga gli aveva risposto con una lettera del 4 giugno 1966, ripresa in appendice a Foucault 1980: 84-85).
[8] Su come ciò si sia verificato in molte opere novecentesche, si veda ad esempio Menna 1975.
[9] Per Giorgione, il riferimento è al Concerto campestre, uno dei modelli del Déjeuner sur l’herbe.
[10] L’altro quadro di Manet qui richiamato è Le Grand Canal à Venise.
È stato lo stesso Derrida a spiegare le circostanze che lo hanno condotto a incontrare Valerio Adami e ad avviare con lui un buon rapporto: «Un giorno, il mio amico Jacques Dupin, che lavorava per Maeght, mi propose di collaborare con un pittore a un’opera in comune, una serigrafia che mescolasse il tratto, la pittura e la scrittura. […] Qualche mese più tardi, Jacques ha avuto l’idea di associarmi a Valerio Adami. […] Nel 1975, Dupin mi ha portato dei cataloghi e io sono rimasto subito colpito dalla forza, dall’energia del tratto, ma anche da un richiamo nel disegno – e anche nella pittura – ad altri tipi di scritture: letteraria, politica, “storica”. Assai presto ho notato l’esistenza, nella sua opera, di un certo rapporto sincopato con l’evento letterario o politico, con gli scritti di Joyce o Benjamin, con le rivoluzioni europee di questo secolo, la rivoluzione russa, quella di Berlino, ecc. Il tutto colto in modo ellittico, sincopato, in un tratto dalla forma molto singolare»
Tutto inizia con un duplice paradosso. Da una foto scattatagli da Antonio Semeraro nel 1994, il pittore Simon Hantaï ritaglia un particolare (che mostra le ginocchia, sformate e impolverate, dei propri pantaloni) e lo glossa sul retro con la scritta: «Ho passato la vita a quattro zampe. Scultura fatta dal corpo (Duchamp). Autoritratto, dunque». Se già questa, come immagine o sineddoche di sé, appare sorprendente, non lo è meno l’inclusione del particolare fotografico in un libro del filosofo Jean-Luc Nancy dal titolo Le Regard du portrait, accanto ad altre riproduzioni, quasi tutte di ritratti o autoritratti tradizionalmente intesi. Certo, considerando che il pittore ungherese ha dipinto gran parte delle proprie tele non su un cavalletto ma appoggiandole sul pavimento dell’atelier, si capisce in quale senso egli possa vedere nel dettaglio della foto un’immagine eloquente di se stesso. Da parte sua, Nancy prende sul serio tale definizione di ‘autoritratto’ perché si rende conto che, nell’arte contemporanea, la centralità dello sguardo della persona raffigurata si perde spesso a favore di più indirette rappresentazioni del soggetto, o di nuovi e imprevisti trattamenti «del sub e del getto (del supporto e della pittura)». In ogni caso, quando il filosofo si rivolge ad Hantaï per chiedergli l’autorizzazione a inserire nel proprio libro la foto dei pantaloni, probabilmente non immagina che la risposta positiva del pittore sarà all’origine di un carteggio fra loro destinato a durare anni e a essere pubblicato in due distinti volumi. Le lettere presentano un carattere personale e spontaneo ma, nel contempo, offrono utili spunti di riflessione. L’artista, infatti, è anche un lettore di testi filosofici, antichi e recenti, dunque in grado di dialogare senza imbarazzo col suo interlocutore. SCARICA IL PDF
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Giuseppe Zuccarino è critico e traduttore. Ha pubblicato vari saggi: La scrittura impossibile, Genova, Graphos, 1995; L’immagine e l’enigma, ivi, 1998; Critica e commento. Benjamin, Foucault, Derrida, ivi, 2000; Percorsi anomali, Udine, Campanotto, 2002; Il desiderio, la follia, la morte, ivi, 2005; Il dialogo e il silenzio, ivi, 2008; Da un’arte all’altra, Novi Ligure, Joker, 2009; Note al palinsesto, ivi, 2012; Il farsi della scrittura, Milano-Udine, Mimesis, 2012. Tra i libri da lui tradotti figurano opere di Mallarmé, Bataille, Klossowski, Blanchot, Caillois e Barthes.
È piuttosto insolito incontrare, negli scritti di un pittore, riferimenti ai filosofi. Eppure, nell’ampio corpus di quelli redatti nel corso dei decenni da René Magritte, capita a volte di imbattersi nei nomi di Eraclito, Socrate, Platone, Descartes, Berkeley, Kant, Hegel, Schopenhauer, Marx, Nietzsche, Bergson, Bachelard, Heidegger, Sartre, Merleau-Ponty. Inoltre, anche se i testi dell’artista belga non sono certo di carattere filosofico, in alcuni di essi si può ravvisare un’originale riflessione sul linguaggio. Ricordiamo per esempio un celebre scritto illustrato del 1929, Les mots et les images, che contiene enunciati lapidari come i seguenti: «Un oggetto non è mai tanto legato al suo nome che non se ne possa trovare un altro che gli si adatti meglio»; «Un’immagine può prendere il posto di una parola in una proposizione»; «Tutto tende a far pensare che ci sia scarso rapporto tra un oggetto e ciò che lo rappresenta»; «A volte il nome di un oggetto può sostituire un’immagine»; «In un quadro, le parole sono della stessa sostanza delle immagini»; «Si vedono in un modo diverso le immagini e le parole in un quadro». Date queste premesse, non desta sorpresa il fatto che Magritte si sia affrettato a leggere un libro di Michel Foucault dal promettente titolo Les mots et les choses, senza farsi intimorire dalla mole e dalla complessità della trattazione. Resta strano, però, il fatto che, a poco più di un mese dall’uscita del volume, un pittore anziano e affermato come lui abbia sentito l’esigenza di scrivere a Foucault una lettera al fine di comunicargli le proprie idee su una questione specifica, ossia il tema della somiglianza. In effetti nel libro, riferendosi alla cultura del Cinquecento, il filosofo aveva evidenziato l’onnipresenza, in vari campi del sapere, dell’idea di somiglianza o similitudine...Scarica PDF
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Giuseppe Zuccarino è critico e traduttore. Ha pubblicato vari saggi:La scrittura impossibile, Genova, Graphos, 1995; L’immagine e l’enigma, ivi, 1998; Critica e commento. Benjamin, Foucault, Derrida, ivi, 2000; Percorsi anomali, Udine, Campanotto, 2002; Il desiderio, la follia, la morte, ivi, 2005; Il dialogo e il silenzio, ivi, 2008; Da un’arte all’altra, Novi Ligure, Joker, 2009; Note al palinsesto, ivi, 2012; Il farsi della scrittura, Milano-Udine, Mimesis, 2012. Tra i libri da lui tradotti figurano opere di Mallarmé, Bataille, Klossowski, Blanchot, Caillois e Barthes.
Il capitolo finale del volume di Jacques Derrida La vérité en peinture reca l’etichetta Restitutions – de la vérité en pointure. Essa ovviamente implica un calembour sul titolo del libro: infatti i due termini peinture e pointure sono quasi omofoni, anche se si differenziano sul piano del significato, dato che il secondo indica in francese la misura di un paio di scarpe. Questo testo derridiano è costruito in maniera inusuale, ossia come un dialogo a più voci, in cui i parlanti restano indeterminati. Si inizia con qualcuno che osserva: «Non ricordo più chi diceva “non ci sono fantasmi nei quadri di Van Gogh”? Invece qui c’è proprio una storia di fantasmi». Per dimostrare ciò, Derrida mette a confronto due autorevoli interpretazioni di un dipinto dell’artista olandese che raffigura un paio di scarpe slacciate. Gli interpreti in questione, Heidegger da un lato e lo storico dell’arte americano Meyer Schapiro dall’altro, sono accomunati dal fatto di chiedersi a chi appartengano tali scarpe, quasi fosse necessario restituirle al legittimo proprietario. Per il filosofo tedesco, che evoca il dipinto nel saggio L’origine dell’opera d’arte, a essere in causa è senz’altro «un paio di scarpe da contadino». Ma poiché egli non ha indicato con precisione nel suo testo a quale fra i vari quadri di Van Gogh raffiguranti scarpe si riferisse, Schapiro glielo ha chiesto per via epistolare, appurando che si trattava dell’opera (databile alla seconda metà del 1886) che reca il numero 255 nel catalogo compilato da Jacob Baart de la Faille. Basta questo a Schapiro per dedurre che le calzature raffigurate nel quadro non appartenevano a un qualche contadino bensì al pittore stesso, che in quel periodo risiedeva in città, a Parigi...Scarica il PDF
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Giuseppe Zuccarino è critico e traduttore. Ha pubblicato vari saggi:La scrittura impossibile, Genova, Graphos, 1995; L’immagine e l’enigma, ivi, 1998; Critica e commento. Benjamin, Foucault, Derrida, ivi, 2000; Percorsi anomali, Udine, Campanotto, 2002; Il desiderio, la follia, la morte, ivi, 2005; Il dialogo e il silenzio, ivi, 2008; Da un’arte all’altra, Novi Ligure, Joker, 2009; Note al palinsesto, ivi, 2012; Il farsi della scrittura, Milano-Udine, Mimesis, 2012. Tra i libri da lui tradotti figurano opere di Mallarmé, Bataille, Klossowski, Blanchot, Caillois e Barthes.