«L’uomo, senza utopia, precipita nell’inferno di una quotidianità che lo espropria di ogni significato e lo uccide poco a poco; ma non appena mette mano alla realizzazione di quella utopia, al tempo stesso prepara le condizioni per una quotidianità sempre più atroce». Così, più di vent’anni fa, il matematico, mediattivista e futurologo prematuramente scomparso nel 2013 Antonio Caronia (1996, p. 58), riassumeva il nesso inscindibile che lega, come in un inquietante nastro di Moebius, le utopie alle distopie. Se l’utopia veniva, infatti, poco più di 500 anni fa, pensata – e in qualche modo “inventata” come genere letterario – da Thomas More come un “non-luogo” dove creare, tramite un esperimento mentale, una società ideale, paradigmatica, che funzioni da critica e da modello per i modelli socio-politici a lui contemporanei; dopo il crollo delle “utopie reali” del XX secolo parlare di utopie è diventato assolutamente demodé, per non dire politicamente sospetto.
Eppure la rivendicazione dell’utopia come spazio per sfuggire all’inferno del reale, o di quel “Reale”, di cui l’onda lunga del lacanismo politico, da Zizek a Badiou, ha fatto l’oggetto principale della propria “passione”, resta ben presente nell’immaginario collettivo, così come lo era ancora ancora, anche a livello politico, nei propositi di Ernst Bloch. Un mondo ideale, dai tratti fantasmati, o fantasmatici, resta il telos di molte narrative della contemporaneità di grande successo: romanzi, serie televisive, produzioni cinematografiche spesso presentano e rappresentano mondi ideali dal forte potenziale di identificazione. Questo potenziale, però, come Caronia già nel 1996 rilevava, tende ad assumere rapidamente caratteri distopici: se le utopie rinascimentali (quella di Moro come la città del Sole di Campanella, quanto la Christianopolis di Andreae) appaiono al lettore odierno fortemente (pur involontariamente) distopiche, le “utopie” contemporanee, soprattutto quelle elaborate dopo le due Guerre Mondiali, appaiono sempre come utopie “di facciata”, che nascondono tratti distopici totalitari, eugenetici, bio- e tanatopolitici. Nelle distopie della letteratura sci-fi dagli anni ’60 fino a oggi, ma pure nei mondi post-apocalittici popolati da gruppi di uomini tornati allo stato di natura di molte narrazioni seriali e videogames, sembra che il potenziale critico dell’utopia sia stato mantenuto, rovesciando però il suo segno distintivo da positivo a negativo, andando così di pari passo con sfiducia per la ragione tipica dell’epoca che va dal Dopoguerra a oggi.
Nel corso del Novecento i concetti di forma e di struttura subiscono un radicale ripensamento. Emblematico è il caso della matematica: sebbene la nozione di struttura avesse fatto la sua comparsa già nel secolo precedente in ambito algebrico e insiemistico, solo in questo secolo si assiste al tentativo di ripensare l'intera scienza alla luce di tale nozione. Mediante ripetuti procedimenti di messa in isomorfismi, campi eterogenei della matematica (algebra, geometria, analisi, teoria dei numeri, ecc.) sono ricondotti alle trasformazioni trasversali di cui partecipano. Si pensi per esempio al progetto bourbakista di una “architettura della matematica” e ai suoi sviluppi odierni in teoria delle categorie: focalizzando l'attenzione non più sulle strutture ma sulle funzioni, una simile prospettiva si emancipa dal sospetto di “essenzialismo” per dare conto del processo stesso di formazione che dà luogo alle strutture.
Altro ambito in cui il concetto di forma acquista un ruolo centrale è quello della psicologia: dal primo decennio del secolo, un intero movimento, la Gestalttheorie, assume la forma (sinonimo di unità strutturata) come proprio oggetto d’indagine e fonda esplicitamente (Köhler, Wertheimer) la propria teoria della percezione sul postulato di un isomorfismo, almeno nomologico, tra piano fenomenico e fisiologico. Inoltre è proprio da tali ricerche, in particolare da quelle di Meinong ed Ehrenfels, che la fenomenologia eredita una specifica attenzione al rapporto tra parte e intero: dall’elaborazione formale delle intuizioni gestaltiste sulla percezione, come quella sulla differenza tra parti indipendenti e non indipendenti, Husserl getta nuovi basi per la riflessione mereologica.
Lo statuto e la genesi della struttura si ritrova al centro delle analisi strutturaliste, la cui definizione di struttura può essere sintetizzata, prendendo a prestito le parole di Piaget, come un sistema unitario di trasformazioni auto-regolatrici riscontrabile in diversi ambiti del reale e, dunque, oggetto di diverse discipline (linguistica, semiotica, antropologia). Insieme a simili indagini, si assiste alla riformulazione delle filosofie della forma: quelle di Ruyer e Simondon, entrambe fortemente influenzate dai più aggiornati dibattiti scientifici, possono essere prese a esempio giacché rintracciano nella forma una nozione imprescindibile per dar conto dei vari livelli del reale, sia esso fisico o biologico o psicologico.
Anche in altri domini di ricerca, e con altre declinazioni, seppur tangenti alle analisi avanzate in filosofia, prende corpo la formalizzazione della cosiddetta teoria sistemica, soprattutto a partire dai contributi della teoria dei sistemi generali di von Bertalanffy, della cibernetica di Wiener e della teoria dell'informazione di Shannon. Da questa si avviano tanto le indagini sulla morfogenesi e sull'autopoiesi di Maturana e Varela quanto quelle sulla morfogenesi di René Thom, a loro volta riprese, rafforzate e reinnestate in ambito strutturale da Jean Petitot attraverso la proposta di uno strutturalismo morfodinamico o strutturalismo naturalizzato.
Da quest’orizzonte di problemi, sopra succintamente delineato, il sesto numero di “Philosophy Kitchen” intende chiamare a indagare i caratteri epistemologico e ontologico dell'isomorfismo – strettamente connesso a nozioni quali forma e formazione, struttura e strutturazione –, nel tentativo di fare chiarezza sulla valenza della loro relazione. Primo obiettivo sarà dunque quello di appurare la natura, l'evoluzione storica e gli slittamenti di significato che l'isomorfismo, inteso come corrispondenza tra modelli o strutture aventi domini omogenei, ha assunto all'interno delle diverse discipline nel corso del Novecento.
Sul piano epistemologico, si può affermare che l'isomorfismo assume una portata metodica se applicato, in qualità di strumento, a strutture afferenti a livelli diversi di realtà, talvolta apparentemente distanti. Ci si propone allora di valutare la possibilità di generalizzare un simile strumento d’indagine, in vista dell'accrescimento e dell'organizzazione del sapere.
Il volume Scienza Politica e forme dell’egemonia raccoglie tre studi di Luca Basile uniti da un tema comune, quello del rapporto fra governanti e governati e della teoria politica come sapere preposto all’interpretazione e gestione di tale rapporto. I tre saggi sono dedicati rispettivamente alla figura di Gaetano Mosca, al rapporto dialettico e polemico fra il pensiero di Gramsci e le posizioni di Mosca e al ruolo che il confronto con Robert Michaels ha avuto nel pensiero di Gramsci rispetto all’analisi del fascismo. Benché ogni saggio sia in sé compiuto e organizzato intorno a un tema centrale, essi costituiscono nel complesso un tentativo di fornire al lettore una prospettiva più ampia della rilevanza complessiva che il confronto con la tradizione dell’elitismo italiano ha rivestito per l’evoluzione e lo sviluppo del pensiero di Gramsci. Proprio a partire dai temi e dai contenuti di tale tradizione, diversamente interpretati da Mosca e Michaels, emergono influenze determinanti e obiettivi polemici nella riflessione gramsciana che coinvolgono sia il piano della riflessione epistemologica sullo statuto del sapere politico sia il tema specifico della classe dirigente, della sua composizione e trasformazione, che avrà un esito decisivo per il filosofo comunista nella teoria dell’egemonia.
Il primo dei tre testi raccolti esamina la riflessione di Mosca sulla classe politica. Attraverso la complessa intersezione fra la categoria di scienza politica e quella di teoria della storia, Mosca tenta di mettere a punto un repertorio di strumenti teorici capaci di rendere conto da un lato della produttività della democrazia rappresentativa e del ruolo cardine che al suo interno può essere svolto unicamente dalla classe media, dall’altro dei rischi che tale modo di organizzazione sociale dello Stato correva all’inizio del Novecento. La riflessione dunque si muove fra due strati: da una parte la concretezza della storia, a cui la politica non può che appartenere (Mosca a tal proposito rigetta esplicitamente la posizione di Taine relativa a un calcolo extrastorico delle forme politiche); dall’altra la necessità di una riflessione che identifichi i princìpi e le tensioni che, se possono ritrovarsi secondo diversi gradi di sviluppo e forme di congiunzione nella concretezza di situazioni storiche differenti, sono nondimeno abbastanza generali da garantirne una tipizzazione affidabile, utile anche a interpretarne gli sviluppi e a garantirne la stabilità nella pratica.
A questa ambiguità ineliminabile nello statuto della scienza politica Mosca fa fronte identificando due princìpi, quello autarchico e quello liberale, e due tensioni, democratica e autoritaria, che risultano variamente combinati nel prodursi storico delle forme statuali. La scienza politica proposta da Mosca assume come suo compito appunto quello di governare sapientemente l’incessante fluttuazione fra principio autarchico e liberale, fra tensione democratica e autoritaria, evitando le ossificazioni eccessive quanto le trasformazioni incontrollate, alla ricerca di un equilibrio dinamico in cui la capacità di trasformazione del sistema faccia da necessario contrappunto e sostegno alla sua stabilità. Il sapere della scienza della politica è dunque chiamato allo stesso tempo ad assicurare e precisare il proprio statuto epistemologico, assumendo una nuova organicità che sia capace di rilevare i temi e gli sviluppi storici della prudenza politica nella gestione dello Stato ma al tempo stesso a rispondere concretamente alla congerie storica. Se infatti da un lato Mosca vede negli sviluppi delle scienze sociali descrittive l’emergere di un sapere capace di produrre infine una “politica scientifica”, è alla situazione contingente della crisi dello Stato liberale che tale politica dovrà rispondere.
A partire dall’assunzione del suffragio universale, infatti, il politologo palermitano vede emergere una tendenza che, consentendo l’ingresso delle masse e dei loro rappresentanti eletti sulla scena politica, mette seriamente in pericolo la struttura statuale. Per caratterizzare tale pericolo bisogna ricordare in primo luogo il ruolo strategico che egli attribuisce alla classe media come classe politica e in secondo luogo l’importanza che egli assegna, nella composizione della classe dirigente, alla funzione di diversi modi di selezione in concorrenza fra loro (per esempio, la classe burocratica e i rappresentanti eletti) in rapporto al mantenimento dell’equilibrio giuridico. La classe media è per Mosca quello strato sufficientemente grande della popolazione che, dotato di strumenti intellettuali e morali adeguati e di una relativa indipendenza economica dal potere, può interpretare gli interessi della totalità dello Stato e farsene portatore, mentre di contro le masse, prive di tali caratteristiche, sono unicamente capaci di esprimere attraverso i propri rappresentanti punti di vista e interessi particolari.
Indagando il punto di vista di Mosca rispetto alla relazione governanti-governati, allo statuto della scienza politica da costruirsi e al suo soggetto preferenziale da individuarsi nella classe borghese, Basile prepara poi il terreno per il confronto con la posizione e la critica di Gramsci. Per questi infatti, se è necessario riconoscere la realtà della relazione governanti-governati come fondante, è altrettanto fondamentale preoccuparsi di sviluppare una riflessione critica, che non guardi alla crisi del parlamentarismo liberale come a una soglia catastrofica che lo scienziato politico deve evitare, ma come la possibilità di una radicale trasformazione del rapporto fra le classi. La divaricazione che ne risulta non è solo politico-ideologica, ma anche epistemologica: si può dire che la riflessione di Gramsci intende iniziare proprio laddove quella di Mosca pone il suo estremo limite, vale a dire l’ingresso delle masse nella storia.
La prospettiva gramsciana ribalta il piano di una scienza della politica capace di prevedere e sopratutto gestire gli andamenti politici della società con un gesto deciso, attraverso una “storicizzazione integrale” della lettura politica a partire dalla quale l’apparente neutralità scientifica – o quantomeno i tentativi di neutralizzazione – che costituisce il nerbo della proposta moschiana appare ormai come dipendente dalla ipostatizzazione dello Stato liberale classico e incapace di sopravvivere alla sua crisi, della quale non può dunque riconoscere le potenzialità emancipative.
Il terzo saggio, il più corposo dei tre, intitolato Direzione Charismatica e primitivismo politico è dedicato secondo quanto afferma l’autore ad «avanzare una ricostruzione dello specifico del confronto di Gramsci con Robert Michels, prestando peculiare attenzione a come esso si riveli intrecciato, nelle sue implicazioni, alla enucleazione di alcune categorie portanti del lessico del dirigente comunista (‘bonapartismo’, ‘cesarismo’, ‘rivoluzione passiva’ etc.) in ordine agli snodi fondamentali della comprensione del fenomeno del “leaderismo carismatico”, commisurata all’analisi di insieme dell’affermazione del fascismo» (p.62). Rispetto a tale progetto, condotto con precisione attraverso un confronto serrato con i testi, l’autore dispone una contestualizzazione fondamentale rispetto al pensiero di Gramsci che mette in luce sia l’attenzione di Gramsci per i temi e gli snodi principali della tradizione elitista sia le numerose divergenze e critiche che proprio attraverso la consapevolezza di tale tradizione il filosofo comunista ha modo di formulare.
Senza poter in questa sede ripercorrere l’argomentazione, dobbiamo però sottolineare che in esso l’attenzione per gli aspetti epistemologici e metodologici relativi allo statuto della riflessione politica è costantemente intrecciata con le osservazioni e i temi tratti dalla contingenza storica. In Michels, infatti, l’interpretazione della leadership carismatica dipende strettamente dalla legge dell’oligarchia, secondo la quale i governati, costitutivamente incapaci di governarsi da sé, si rivolgono a una personalità dotata di determinate caratteristiche nel momento in cui il sistema che disponeva della divisione e della relazione fra governanti e governati si incrina. Per Gramsci è da criticare sia lo statuto ipostatizzato e astorico delle leggi e delle tendenze sociologiche per come esse appaiono nella prospettiva michelsiana sia, su un piano più concreto, l’immutabilità della relazione fra governanti e governati, che porta secondo Michels all’inevitabile ineguaglianza e acquisizione progressiva di autorità degli uni sugli altri. Di contro Gramsci, che inserisce Michels nel suo programma di letture relative ai Quaderni in vista di una rilettura della storia italiana che si concentri in particolare sull’evoluzione delle classi dirigenti, è motivato proprio dalla ricerca di una possibile trasformazione del rapporto fra governanti e governati, che, se parte dal riconoscere come fatto storico la presenza e l’influenza delle élite, deve informare l’azione di queste in direzione di una organicità armonica e non di una burocatizzazione autoritaria nei rapporti con le masse.
Solo a partire dall’analisi degli strumenti concettuali e delle costruzioni teoriche che informano questo tentativo si potrà tuttavia rendere giustizia al tentativo gramsciano e per tale compito la linea interpretativa che Basile intraprende e annuncia si rivelerà forse fondamentale. Essa, tuttavia, è lungi dall’essere compiuta: la natura circoscritta dei tre saggi delinea sì una prospettiva generale di grande interesse ma ne sviluppa le conseguenze relativamente a luoghi circoscritti. Ci auguriamo che nel futuro tale progetto possa essere sviluppato con maggiore organicità e autonomia e che la necessaria precisione tecnica delle prime esposizioni lasci maggiore spazio a una fruizione non strettamente limitata agli specialisti del diritto e della filosofia politica.
“Mai più guerre!” per lunghi decenni, la coscienza collettiva europea dopo le due guerre mondiali e quella americana dopo la guerra del Vietnam ha trovato in questo motto una fonte di ispirazione duratura ed efficace. Tale atteggiamento antibellicista non nasceva però da una riflessione razionale sull’opportunità di scegliere altri metodi, diversi dalla guerra, per dirimere le controversie. Esso nasceva da un moto di ripulsa e di disgusto: l’insensatezza della guerra è apparsa a molti come qualcosa che non ha bisogno di essere discusso e che può presentarsi in tutta evidenza semplicemente ponendo mente all’immane carico di sofferenze patite da milioni di uomini e donne a causa della guerra stessa.
Tuttavia, su scala globale la guerra continua ad essere praticata, coinvolgendo sia forze regolari che forze militari private, e il fatto che molte azioni belliche avvengano sotto l’egida delle Nazioni Unite e abbiano la forma di azioni di peace keeping non modifica la fenomenologia dello scontro bellico.
Da qui la necessità di porre alcune domande, alle quali probabilmente non sarà possibile dare una risposta semplice, ma che meritano di essere se non altro formulate con chiarezza...
Una domanda, fondamentale deve precedere ogni discussione sul tema: perché la guerra? Perché risulta ancora inevitabile/conveniente/opportuno/razionale porre fine al conflitto − cioè alla negoziazione e alla mediazione − e passare al confronto armato? Tale domanda fa nascere la necessità di convocare sulla scena i risultati di quei saperi che mostrano cosa accade quando gruppi e individui esplorano la possibilità di mantenere aperta la strada alla negoziazione. Si rendono così visibili casi concreti di soluzioni alternative alla guerra, a partire da concrete esperienze compiute sul campo in regioni dove il tasso di conflittualità è molto alto e dove la guerra è sempre apparsa − o appare tuttora − come la soluzione più semplice e ovvia. La seconda domanda riguarda la natura della guerra, i suoi scopi e le modalità con le quali viene condotta. Oggi non si può più parlare di guerra nei termini in cui lo si faceva fino a pochi decenni fa, tant’è che l’espressione “guerra asimmetrica” tende a descrivere un insieme di comportamenti bellici assai variegato e, per certi versi, inedito. Una parte importante della riflessione sulla guerra deve pertanto dare conto di queste trasformazioni. Qui se ne indicano solo due, a scopo esemplificativo. È mutato il senso del rapporto tra forze belligeranti e territorio: se il nemico è un’organizzazione terroristica transnazionale, è difficile pensare a un nemico che abita un territorio il quale va occupato al fine di renderne inoperante la capacità di offesa. Parimenti, è mutata la cornice temporale entro la quale condurre le operazioni militari. Non c’è più una guerra dichiarata, che comincia l’ora x del giorno y e che finirà quando uno dei due belligeranti si dichiarerà vinto (o verrà annientato). La guerra attuale sembra diluirsi in un tempo senza fine, in un eterno presente in cui lo stato di eccezione sembra diventato la norma.