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Wittgenstein filosofo della storia
Recensioni / Settembre 2022Alla fine del secolo scorso, l’idea che la storia fosse finita fu salutata con fiducia da molti, nella speranza che la scomparsa dell’Unione Sovietica e il trionfo del capitalismo sancissero l’inizio di una fase di stabilità e armonia in cui l’umanità avrebbe trovato il suo compimento definitivo. Negli anni a venire, quell’idea si è così radicata da diventare di senso comune: il nostro è il migliore dei mondi possibili, mentre il solo pensare a un cambiamento dell’organizzazione politica e istituzionale appare, se va bene, come un anacronismo, se va male, come un rifiuto della realtà. Logica e Tumulti. Wittgenstein filosofo della storia (Quodlibet, 2021) di Marco Mazzeo si oppone con fermezza a questa narrazione. Col pretesto di uno studio sul più grande filosofo del Novecento, l’autore combatte una lotta senza quartiere in difesa della dimensione storica dell’esperienza umana.
Per prima cosa bisogna fugare un equivoco: storia non è il mero scorrere del tempo, il costante succedersi degli eventi. Non va dunque confusa con la filogenesi, né con la deriva dei continenti. È invece «l’insieme delle trasformazioni istituzionali e produttive grazie alle quali gli esseri umani riescono a salvare la pelle. La storia indica, in primo luogo, il modo nel quale i sapiens producono le condizioni di possibilità della propria vita» (p. 10). Indica quei cambiamenti «imprevedibili» – perché non riconducibili a un repertorio d’istinti – e «necessari», senza i quali non riusciremmo a produrre i mezzi della nostra sussistenza. Mentre il tempo dei fenomeni naturali è continuo, storia è sinonimo di discontinuità e fa rima con improvvisi tumulti repressi nel sangue o con una nuova tecnologia che sconvolge l’organizzazione della vita.
Tuttavia, in questa operazione di salvataggio, Wittgenstein non è un alleato. La diagnosi del libro è netta: il filosofo è cieco alla storia. Con un apparato filologico che lascia poco spazio a dubbi (vengono classificati tutti i termini riconducibili alla famiglia della «Geschichte» presenti nel lascito testamentario), Mazzeo dimostra che l’autore delle Ricerche filosofiche prospetta un’«antropologia senza storia» (p. 38): offre istantanee dirompenti, ma non vede la differenza tra il tempo umano e i mutamenti geologici. In questo è un degno «allievo di Spengler» (p. 55), una tra le sue fonti più importanti. Nel secondo capitolo del libro viene soppesato il debito di Wittgenstein con l’autore del Tramonto dell’Occidente il quale, sulla scorta di Goethe, paragona le epoche storiche alle fasi di sviluppo di organismi viventi come le piante, riconducendo la temporalità umana all’andamento ciclico che caratterizza la vita naturale in generale. E così una rivoluzione può diventare un’escrescenza da tagliare, un governo autoritario la piena maturazione di una cultura.
Nell’ipotesi interpretativa di Mazzeo, la discussa amicizia di Wittgenstein con Sraffa (a sua volta amico di Gramsci) sarebbe giunta al capolinea proprio in virtù di questa ritrosia nei confronti della storia. Il primo capitolo è dedicato a una ricostruzione del rapporto tra il logico e l’economista, il quale, oltre a ritenere «insopportabile» che l’amico abbia in Spengler un «punto di riferimento», nei suoi appunti denuncia «in modo esplicito» la «scarsa presenza della dimensione storica» (p. 30) nelle riflessioni dell’interlocutore.
Wittgenstein può però venirci in soccorso quando meno ce lo si aspetterebbe, cioè quando si occupa di matematica. Nelle sue annotazioni sul calcolo e sui teoremi trapela una nozione, quella di storia naturale, che può essere promettente approfondire. È quello che fa Mazzeo nel vertice teorico del volume, il terzo capitolo, in cui propone «una riflessione circa l’intreccio tra natura e storia umana, a prescindere dalla filologia wittgensteiniana» (p. 94) (la filologia tornerà presto, nelle due appendici, dedicate l’una a un confronto tra l’uso filosofico degli scacchi in Saussure e Wittgenstein, l’altra al poco studiato rapporto del filosofo austriaco con la fotografia). L’espressione «storia naturale» è gravata da una lunga tradizione che impedisce di coglierne appieno la portata teorica, e di cui l’Historia naturalis di Plinio il Vecchio costituisce l’illustre testo fondativo. Il paradigma tradizionale, che nel corso dei secoli ha avuto grande fortuna, consiste in una sorta di modello enciclopedico, il cui obiettivo è raccogliere e descrivere gli oggetti che appartengono al regno della natura. La ricerca è simile a quella del collezionista che punta a reperire quanti più documenti possibile, ma senza un vero criterio di selezione. Motivo per cui vi si possono trovare aneddoti circa i lupi mannari accanto a descrizioni di cercopitechi, oppure ipotesi sul senso del pericolo degli elefanti, ma anche cataloghi delle tecniche di cattura da parte degli esseri umani. In tempi recenti questo genere letterario è entrato in una seconda giovinezza: il lemma «storia naturale» figura nel titolo di studi eterogenei, che possono riguardare la morale umana da una prospettiva evoluzionistica, oppure «il profumo, gli alberi, la birra», fino ad arrivare al «concetto di distopia» (p. 83). Al netto delle evidenti differenze tematiche, i corpi che popolano questo variegato firmamento sono accomunati dalla «temporalizzazione dei fenomeni naturali senza un confronto esplicito con la dimensione storica. Si tratta di una disposizione spaziale del sapere scientifico» (p. 87). La temporalità tipicamente umana viene eliminata, annacquando la specificità della nostra forma di vita in un generico calderone in cui tutte le vacche sono nere. Mazzeo propone, al contrario, di prendere sul serio la dicitura «storia naturale», la quale, oltre che un ossimoro, contiene anche un guanto di sfida: come tenere insieme «natura (ontogenesi, filogenesi) e storia (le trasformazioni istituzionali di lingue, riti, forme della tecnica, modi di produzione)» (p. 87)? È possibile un «naturalismo non rinunciatario» (p. 87), che non ceda alla tentazione di nascondere sotto al tappeto le continue trasformazioni culturali che sembrano segnare così profondamente la nostra specie?
La domanda è retorica, alcuni suggerimenti per provare a rispondere ce li fornisce Mazzeo in un elenco di «paradossi» (p. 94), anche se forse sarebbe più corretto chiamarli «tesi sul concetto di storia naturale». Non è in questa sede possibile ripercorrerne l’andamento con dovizia di particolari, mi limiterò a riprendere un punto particolarmente degno di nota, la critica al concetto di adeguatezza. Bersaglio polemico è l’idea ingenua, ma non per questo non diffusa, secondo la quale le condotte umane possono venir lette nei termini di «risposte perfezionate a esigenze precedenti» (p. 98), come se le vicende storiche – ivi comprese le trasformazioni dell’assetto produttivo – non fossero altro che una serie di graduali adattamenti in direzione di una fitness completamente realizzata, di una suprema armonia tra l’anthropos e i suoi bisogni. Wittgenstein è polemico con questa concezione e si chiede, non senza ironia: «viviamo perché è pratico vivere? Pensiamo perché è pratico pensare?» (Wittgenstein 1978, V, § 14) E poi: «è adeguato ai nostri bisogni che noi contiamo come contiamo» (Item 163, p. 30r), cioè in base dieci e non in base sessanta (come, per esempio, facevano i babilonesi)? Il fatto che si calcoli così, o che, più in generale, si viva così, implica che si faccia così e non altrimenti: è sempre possibile una strada alternativa. In altri termini,
«l’insistenza di un gesto che indica cosa facciamo "qui e ora" non esorta a contemplare la bellezza di una sovrapposizione perfetta e atemporale tra la vita e la sua forma, tra la natura e la cultura. Punta a far emergere il carattere contingente di quel che potrebbe essere completamente diverso perché non è chiamato a rispondere a criteri di adeguatezza. Questa contingenza, adeguata solo a cose fatte, si chiama "storia" (p. 99)».
In altri termini ancora, questa volta più filosofico-linguistici, le regole che guidano la nostra prassi – in modo eminente quella verbale – non possono essere considerate alla stregua di leggi biologiche o chimiche. Tra regola e applicazione vi è uno scarto tale che niente obbliga a rispondere a un insulto con un pugno e non con una frase sardonica, a un comando con obbedienza e non con sdegnata insubordinazione.
La storia naturale di Mazzeo è, insomma, un concetto con cui combattere una battaglia ideologica contro una precisa narrativa del potere. Uno strumento di difesa nei confronti di chi fa sua un’idea di natura per nulla innocua, che in fin dei conti uccide una croce, ma anche una delizia, tipica della vita umana, la contingenza. Infatti, se ciò che i sapiens fanno è motivato esclusivamente da un criterio di adeguatezza, da una fatale tendenza all’adattamento, allora è inevitabile che le cose vadano così e non altrimenti, angusto lo spazio per mettere in discussione l’organizzazione della vita caratteristica del mondo contemporaneo. Per chi condivide una simile battaglia, varrà la pena di dare uno sguardo alle criptiche riflessioni del filosofo viennese sulla matematica. Chissà che questo Wittgenstein non possa fornire un prezioso antidoto contro la rassegnazione allo status quo.
di Adriano Bertollini
Bibliografia
Mazzeo, M. (2021). Logica e tumulti. Wittgenstein filosofo della storia. Macerata: Quodlibet.
Wittgenstein, L. (1988). Osservazioni sopra i fondamenti della matematica. Trad. it. di M. Trinchero, Torino: Einaudi.
Wittgenstein, L. Wittgenstein’s Nachlass, Electronic Bergen Edition, Oxford University Press, Oxford
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Com’è noto, il volume XI della Husserliana 1 (1966) raccoglie i manoscritti che Husserl dedica al problema delle sintesi passive tra il 1918 e il 1926. In realtà, la più recente pubblicazione dei Bernauer Manuskripte nel volume XXXIII (2001), a cui Husserl lavorò con Edith Stein nelle estati 1917 e ’18, mostra come la tematica della passività fosse latentemente presente già da molto tempo, in quanto strettamente connessa con il problema – «il più complesso di tutti i problemi fenomenologici» (Husserl 1966a, 276) – della coscienza interna del tempo. E se si considera che quest’ultimo tema occupa Husserl almeno fin dai corsi sulla percezione del 1905-’08 (raccolti in Hua X e XVI), è lecito almeno supporre che la fenomenologia genetica “covasse” nel laboratorio fenomenologico husserliano molto prima degli anni Venti.
Anno più anno meno, un secolo fa. Un secolo in cui si è tentato dapprima di archiviare la fenomenologia husserliana, per fare spazio alle grandi ondate culturali esistenzialiste, strutturaliste e post-strutturaliste, per poi ridarle nuova linfa innestandola su tradizioni di pensiero anche molto lontane dalle sue origini. La storia della fenomenologia nell’ultimo secolo è dunque caratterizzata dalla sua continua ibridazione con altri modelli filosofici – iniziata ben prima della morte di Husserl: si pensi al § 7 di Sein und Zeit, dove troviamo in nuce il concetto di “fenomenologia dell’inapparente” (Heidegger 1976, 59) – e, soprattutto, con intenti teorici molto frequentemente in aperto contrasto con lo spirito fenomenologico che ha da sempre animato le ricerche husserliane.
A cura di Claudio Tarditi e Alberto Giustiniano
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DOI: https://doi.org/10.13135/2385-1945/12.2020
Pubblicato: marzo 2020
Indice
EDITORIALE
Claudio Tarditi - Le sintesi passive, un secolo dopo [PDF It]
Filippo Nobili - Oltre la stratificazione costitutiva:
per una lettura dialettico-ricorsiva del rapporto tra passività e attività in Husserl [PDF It]Eugenio Buriano - L’arca dell’origine. Follia tolemaica e deponenza del trascendentale nell’ultimo Husserl [PDF It]
Alessandra Campo - Presenza impossibile, assenza necessaria: aporia, diaporia ed euporia delle analisi husserliane sulla passività [PDF It]
Steven DeLay - Being Oneself Self-Consciousness in Husserl and Henry [PDF En]
Giovanni Jan Giubilato - A First Glimpse into the Ultimate Absolute. The Emergence of Genetic Analyses in Husserl’s Beranuer Manuscripts on Time-Consciousness and the Exploration of the Realm of Passivity [PDF En]
Stefano Gonnella - La sintesi passiva e le radici iletiche della sensibilità [PDF It]
Lavinia Martelli - Genesi passiva e hyle: la fondazione della coscienza trascendentale [PDF It]
OFF TOPIC
Raimondo Cubeddu - L'epicureismo nell'opera di Leo Strauss [PDF It]
Sergio Benvenuto - Freud oggi: che cosa mi pare essenziale conservarne [PDF It]
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Che cosa può motivare la scelta di dedicare un libro al problema del «precategoriale» in Husserl? Il libro di Federica Buongiorno, Logica delle forme sensibili. Sul precategoriale nel primo Husserl, è motivato dalla convinzione che il problema del precategoriale sia un tema inaggirabile della fenomenologia di Husserl, un problema del quale la fenomenologia husserliana può e deve rispondere. In un passo molto chiaro Buongiorno afferma che il «compito della fenomenologia […] è appunto quello di condurre l’anonimo (l’implicito) al categoriale e ricondurre poi quest’ultimo […] alle radici pre-categoriali» (p. 184). La difficoltà – a ragione valorizzata in questo libro – risiede nel fatto che la precedenza del precategoriale non rappresenta il momento iniziale di un processo conoscitivo, bensì quel tratto costitutivamente «anonimo» e «non tematico» dell’«esperienza fondante» (p. XVII). L’Autrice, dunque, evidenzia sin dall’inizio come la differenza tra «categoriale» e «precategoriale» non vada intesa, per così dire, in maniera lineare, cioè come una differenza tra due momenti di un medesimo processo conoscitivo, ma come il problematico opporsi di due livelli irriducibilmente distinti: il «tematico» e il «non tematico». Il precategoriale è un fenomeno rilevante proprio in quanto costituisce quella «esperienza fondante» che si sottrae alla tematizzazione e alla conoscenza tradizionale, e che impegna la fenomenologia nella sua specificità.
Ma non è questo il tema specifico del libro, che tratta, come esplicita il sottotitolo, del precategoriale «nel primo Husserl». Questa restrizione tematica rende ancor più ambiziosa la sfida di questo testo. Mettere a tema il precategoriale nel primo Husserl significa infatti individuare e discutere tale questione al livello metodologico e problematico delle Ricerche Logiche, quindi, prima della «riduzione fenomenologica» delle Idee, prima delle analisi genetiche e prima che Husserl, nella Crisi delle scienze europee, affronti esplicitamente il problema del «mondo della vita». Ma è proprio questa la sfida del libro di Federica Buongiorno, che – sempre consapevole di queste difficoltà – cerca di pensare il precategoriale con Husserl (nello specifico, con il primo Husserl) ma anche oltre Husserl. Per ragioni di spazio, in questa recensione mi concentro su questi due aspetti principali del libro, sebbene esso affronti con precisione filologica moltissime altre questioni; mi limito a ricordare il rapporto con Brentano (cap. I), l’influenza di Bolzano (cap. II) e il confronto con Kant, che l’Autrice valorizza costantemente.
Innanzitutto, vorrei richiamare l’attenzione sul titolo del testo. Che il problema del precategoriale abbia a che fare con qualcosa come una «logica delle forme sensibili» può sembrare, soprattutto per lo studioso di fenomenologia, una cosa ovvia. In realtà questo legame, tutt’altro che pacifico, tra il precategoriale e la logica delle forme sensibili sintetizza la tesi centrale di questo libro. Si tratta dell’idea – lo dico con parole mie – che il problema del precategoriale conduca all’elaborazione di una radicale “logica del sensibile”, a una “logica” che, in quanto “dedotta” dalla sensibilità stessa, di “logico” in senso tradizionale conserva ben poco. Ci si deve innanzitutto chiedere in che misura il primo Husserl ci offra la possibilità di pensare questa “logica del sensibile”, e in che misura questa “logica” sia capace di restituire, nella sua ricchezza e originarietà, il fenomeno del precategoriale.
Nell’“Introduzione”, in un passo molto significativo sul quale tornerò in chiusura, si dice che il carattere «costitutivamente problematico» del precategoriale introduce una «tensione di carattere fondazionale all’interno della teoria husserliana». Il punto è che questa tensione non può «essere risolta richiamandosi alla predelineazione del categoriale nel suo fondamento ante-predicativo, sebbene sia questo il ragionevole orizzonte interpretativo nel quale disporre il problema» (p. XII, corsivo mio). Il problema del precategoriale comporta infatti una strutturale eccedenza rispetto a una certa idea di precategoriale, una idea già attiva a livello delle Ricerche Logiche e definibile come una «predelineazione del categoriale» nella sensibilità. Questa “eccedenza” rappresenta a mio avviso qualcosa di decisivo per questo libro, nel quale l’analisi filologica del testo husserliano, volta a individuare la presenza del precategoriale nel primo Husserl, è costantemente ravvivata dalla consapevolezza della portata filosofica e teoretica del problema. La discussione del problema del precategoriale nel primo Husserl trova il proprio centro nel concetto di «intuizione categoriale», di cui Federica Buongiorno rintraccia le origini (cap. III. 1,2) e di cui ricostruisce – inquadrando la nozione all’interno delle Ricerche Logiche – il contesto problematico (cap. III. 3), per offrirne poi una analisi mirata nella parte finale del libro (cap. IV).
A un primo livello si può dire che la rilevanza dell’intuizione categoriale per il problema del precategoriale risiede nel fatto che, come è noto, attraverso questa nozione diventa possibile pensare il categoriale come dato. Questa nozione – ecco la sfida lanciata a Kant – implica una «profonda riconsiderazione dei rapporti tra sensibilità e intelletto, tra base estetica (precategoriale) e operazioni logico-discorsive» (p. 148). Ma, a mio avviso, Buongiorno coglie un punto fondamentale quando parla di una «duplice vettorialità» dell’intuizione categoriale (p. 136). Questa espressione dà voce al duplice aspetto dell’intuizione categoriale, come atto fondato sull’intuizione sensibile e come atto che offre al tempo stesso un nuovo tipo di oggettualità, una oggettualità eccedente rispetto all’intuizione sensibile. È forse proprio questa duplice vettorialità dell’intuizione categoriale ciò che permette di preservare il carattere originario, sensibile e intuitivo del precategoriale, senza tuttavia ridurre la sensibilità (per dirla con Kant) a una “intuizione cieca”, o (con le parole dell’Autrice) a una “mera sensibilità”, con cui il precategoriale, come giustamente viene precisato, non deve essere mai confuso (p. XVII). È sempre in quest’ottica che nel testo ci si confronta con il concetto fenomenologico di intuizione «in senso ampio». L’intuizione categoriale – l’esempio della copula è emblematico – presuppone proprio la possibilità di intuire (in senso ampio) qualcosa di radicalmente non intuibile (in senso stretto). Come rileva Buongiorno, l’allargamento fenomenologico del concetto di intuizione va di pari passo con l’«ampliamento dell’esistenza alla sfera logico-ideale» (p. 115).
L’insistenza su questa duplice vettorialità dell’intuizione categoriale è inoltre coerente con una prima importante scelta metodologica del testo. Buongiorno individua infatti nella rielaborazione husserliana della teoria brentaniana delle «rappresentazioni improprie» una chiave di lettura per comprendere la specificità della concezione fenomenologica del rapporto tra «intuizione (riempimento)» e «intelletto (intenzione significante)». Se per Brentano «le rappresentazioni improprie e i giudizi su di esse fondati avevano carattere “pseudo-conoscitivo”, […] per Husserl è possibile cogliere intuitivamente gli oggetti ideali» (p. 52). L’Autrice mette in luce il fatto che le rappresentazioni simboliche (intese come rappresentazioni improprie) contengono in sé un rinvio al «pre-logico». È proprio in virtù di questo «presupposto pre-logico» che il rappresentare simbolico, sebbene improprio, non si vede precluso un orizzonte di possibile datità. L’intuizione categoriale viene poi tematizzata in maniera analitica nell’ultimo capitolo del libro, di cui posso ricordare solo alcune pagine. L’Autrice, richiamandosi a Lohmar, distingue tre diversi livelli dell’intuizione categoriale (p. 173). In primis, la percezione semplice o «percezione complessiva» (Gesamtwahrnehmung), che offre un oggetto sensibile «unitario» (per esempio una porta rossa). Successivamente, la «percezione specifica» o «intenzione esplicitante», che è «ancora percezione, dunque un atto semplice», anche se «non ha più un carattere complessivo»; a questo livello «l’atto non è ancora mutato: ci limitiamo a concentrare il nostro interesse percettivo su un momento dell’intero» (nell’esempio, il rosso della porta). Infine, l’intuizione categoriale, dove «le parti esplicitate della Sonderwahrnehmung vengono ricombinate e connesse da un atto categoriale e sintetico» (l’esser-rossa-della-porta, il giudizio ‘la porta è rossa’). Secondo l’Autrice – e qui veniamo a uno snodo fondamentale del testo – il «fenomeno decisivo, sul piano categoriale, avviene già nel passaggio dalla Gesamtwahrnehmung alla Sonderwahrnhemung, le quali rientrano ancora nella modalità intuitiva semplice, sensibile». In questo livello intermedio si mostrerebbe dunque una strutturale e positiva ambiguità dell’intuizione: il momento esplicitante si configura come una «sintesi della coincidenza» che «non è ancora una formazione categoriale, ma non è neppure più o soltanto un contenuto sensibile. […] È proprio in questo discrimine interno alla sensibilità ma già aperto sul categoriale, in questo tratto di scivolosa commistione tra intuizione primaria e secondaria che il precategoriale fa valere il proprio impatto problematico all’interno della Sesta Ricerca» (pp. 175-176, corsivo mio).
Federica Buongiorno può dunque affermare che il precategoriale, costituendo la “radice sensibile” dell’intuizione categoriale, è implicitamente presente nella Sesta Ricerca. Questa tesi non è affatto ovvia. L’Autrice, infatti, riconosce con Lohmar che a livello di quest’opera (nelle quale le analisi genetiche sono lasciate da parte) la percezione è assunta «a-problematicamente». Del resto, già nell’“Introduzione” si legge che il tentativo di tematizzare il precategoriale nel primo Husserl si scontra con un dato innegabile: il carattere statico e non genetico delle analisi delle Ricerche Logiche. Eppure il problema può e deve essere posto, perché tanto il carattere «complessivo» della percezione quanto la «sintesi della coincidenza» risulterebbero difficilmente spiegabili senza presupporre questo riferimento al precategoriale. Ci si può infatti chiedere: «come fa la percezione ad afferrare A come un intero?» (p. 206). È per rispondere a domande come questa che l’Autrice richiama, come «supplemento concettuale indispensabile» (p. 180), la nozione di Typus, che Husserl guadagnerà successivamente, nella quale è possibile individuare quella forma di «schematismo fenomenologico» che costituisce un presupposto implicito dell’intuizione categoriale. Proprio a partire da questo schematismo fenomenologico si rende inoltre apprezzabile la differenza tra Husserl e Kant, sulla quale l’Autrice insiste in vari luoghi ma che emerge molto incisivamente dalla considerazione della Terza ricerca. La «riconsiderazione dei rapporti tra sfera analitica e sintetica» – rendendo pensabile un rapporto che ha carattere essenziale e analitico, pur implicando una sintesi (è il caso del legame essenziale tra qualità e intensità) – permette ad Husserl di «fondare esteticamente l’apriori» (p. 120). Attraverso l’apriori materiale Husserl riferisce la forma «“alle cose stesse”» (p. 125), «sono gli oggetti a fornire il Leitfaden della conoscenza» (p. 127).
Il radicamento dell’intuizione categoriale in una sensibilità “ibrida” e “già aperta al categoriale”, e così l’idea secondo la quale la sensibilità racchiude una “logica degli oggetti”, sono aspetti particolarmente emblematici del modo in cui il primo Husserl pensa il precategoriale. Ma è forse proprio in questa logica degli oggetti che il tentativo husserliano sembra essere attraversato da quella problematicità che rappresenta un aspetto essenziale del fenomeno del precategoriale, il contrassegno della sua “eccedenza” rispetto al categoriale. Si può infatti dire che se da un lato l’intuizione categoriale, esibendo il necessario radicamento del categoriale nella sensibilità, è una condizione per porre il problema del precategoriale, dall’altro si ha l’impressione che in Husserl l’“anteriorità originaria” del precategoriale rimanga limitata a questa predelineazione delle categorie nella sensibilità. Ciò è del resto riconosciuto dall’Autrice in un passo dell’“Introduzione” che ho già citato, ma che voglio richiamare di nuovo. Vi si dice, per l’appunto, che la «tensione» provocata dal precategoriale non può «essere risolta richiamandosi alla predelineazione del categoriale nel suo fondamento ante-predicativo, sebbene sia questo il ragionevole orizzonte interpretativo nel quale disporre il problema» (corsivo mio). Per questo motivo il libro di Federica Buongiorno suggerisce la necessità di pensare il precategoriale non solo «con» Husserl, ma anche «oltre» Husserl.
A mio avviso, le ultime pagine di questo testo possono essere lette come una ripresa e una radicalizzazione della situazione problematica presentata nell’“Introduzione”, dove il precategoriale è indicato come un fenomeno situato «nello scivoloso discrimine tra originarietà e descrittività» (p. XII). Questa radicalizzazione è operata facendo riferimento alla «paradossalità» fenomenologica del soggetto (come soggetto e come oggetto, come costituente e costituito), che rappresenta secondo l’Autrice «la cifra stessa della fenomenologia». In effetti, lo statuto paradossale del soggetto comporta una difficoltà teoretica analoga alla più volte segnalata “problematica anteriorità” del precategoriale. Ma in che senso si può dire che la domanda sul soggetto costituisce una radicalizzazione della domanda sul precategoriale? Leggendo queste ultime pagine la risposta sembra essere la seguente: la commistione tra «passività» e «attività» oppure tra «intuizione» e «pensiero», fin qui affrontata in stretto rapporto all’intuizione categoriale, viene ora pensata come essenzialmente appartenente alla struttura del soggetto. Da questo punto di vista, a essere ambigua non è innanzitutto la sensibilità, come mostra l’analisi dell’intuizione categoriale, ma la stessa soggettività umana. La questione del precategoriale, dunque, comporta non soltanto un abbandono del presupposto antropologico kantiano (la divisione della capacità conoscitiva in sensibilità e intelletto) ma mette la fenomenologia di fronte alla domanda «come è l’uomo?», domanda che secondo l’Autrice è presente nel pensiero di Husserl, pur restando «difficilmente dipanabile» al suo interno.
Per concludere, questo libro, nel suo lato più strettamente husserliano, mostra in maniera filologicamente dettagliata come il problema del precategoriale conduca all’elaborazione di una logica delle forme sensibili che trova – diversamente che in Kant – negli oggetti stessi il proprio filo guida. D’altro canto, le ultime pagine di questo testo, rivendicando una aspirazione teoretica che va oltre il testo husserliano, indicano nella domanda antropologica «come è l’uomo?» una via più radicale per pensare il precategoriale.
di Fabio Pellizzer