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Non è certo facile restituire la complessità e la densità del volume di Maurice Merleau-Ponty, Il mondo sensibile e il mondo dell’espressione (Mimesis 2021), recentemente tradotto e curato per il pubblico italiano da Anna Caterina Dalmasso, senza dubbio una delle studiose più autorevoli del pensiero del filosofo francese (suo l’importante saggio di Introduzione, pp. 17-52). Non è facile innanzitutto per la stessa natura di questo (non) libro, che raccoglie il materiale del filosofo prodotto in vista del suo primo corso al Collège de France dell’a.a. 1952-53. Il volume contiene tanto l’effettivo materiale utilizzato dal filosofo nelle sue esposizioni orali, quanto appunti che ne ampliano e approfondiscono l’orizzonte teoretico.
L’opportunità per il pubblico italiano di studiare e apprezzare il pensiero di Merleau-Ponty svolto al Collège si amplia così, dopo la traduzione di altri corsi avvenuta a cavallo tra la fine del secolo scorso e l’inizio del millennio: La nature (Seuil, 1995, tr. it. Cortina, 1996) e Notes de Cours 1959-1961 (Gallimard, 1996; tr. it. Cortina, 2003). Quello che qui discuteremo è stato pubblicato nel 2011 dall’editore svizzero MētisPresses[1] sotto la direzione scientifica di E. de Saint Aubert e di S. Kristensen e la traduzione italiana permette di accedere a un materiale teorico molto fecondo, sia per chi si occupa direttamente di Merleau-Ponty sia per chi sia interessato al pensiero francese del Novecento. In queste quattordici lezioni, infatti, si anticipano o si sviluppano in modi originali piste che attraversano, carsicamente a volte, altre in superficie, una tradizione di pensiero gravida ancora oggi di ampi sviluppi teorici. Lungi dall’essere una pubblicazione per soli addetti ai lavori, questo volume può essere di grande aiuto a chi volesse comprendere meglio alcuni intrecci - sia detto solo a titolo di esempio non esaustivo — tra Gestaltpsychologie e filosofia dell’esistenza, tra bergsonismo e fenomenologia, nonché — come segnala la Prefazione di Mauro Carbone (pp. 9-16) foriera di stimolanti riflessioni sull’arte e l’estetica. Insomma, pur non essendo di facile accesso — e tuttavia l’ottimo lavoro di Dalmasso aiuta chi non fosse specialista — il volume non potrà che trovare interesse in molti ambiti degli studi filosofici contemporanei.
Qui ci proponiamo di tracciare una possibile via d’accesso in questo universo filosofico ancora da esplorare anche da parte di chi, da molti anni, vi si dedica con studio attento. Come ogni pista d’accesso, non ne impedisce di altre e non può essere pienamente esaustiva della ricchezza contenuta nelle quasi trecento pagine del volume. Tuttavia, può essere utile a meglio orientarvisi. Come segnala la curatrice, il volume ha il merito di offrire «un punto di vista privilegiato» (p. 17) sul back-office della produzione di Merleau-Ponty, un vero e proprio laboratorio artigianale di concetti situato al fondo del lavoro pubblicato in vita dall’autore.
A differenza degli altri corsi già tradotti per il lettore italiano, la peculiarità de Il mondo sensibile e il mondo dell’espressione consiste nel fatto che esso ci mostra un Merleau-Ponty sul punto di farsi, che non è più quello della Fenomenologia della percezione e non è ancora quello de Le avventure della dialettica, un Merleau-Ponty per così dire “intermedio”, in divenire (Lanfredini 2011): «Le note del corso del ’53 — continua Dalmasso — offrono un insieme di argomentazioni e di fonti in grado di gettare luce su alcuni punti più oscuri o anelli mancanti della riflessione merleau-pontiana successiva» (p. 18). Insomma, il corpus magmatico di questo volume permette, a chi voglia avventurarvisi, di «cogliere “un filosofo al lavoro” e di “accompagnare Merleau-Ponty” nel farsi del suo lavoro» (p. 20). Una vera e propria avventura filosofica che permette al lettore di oggi di risemantizzare molte antinomie che nel nostro presente appaiono ovvi se non addirittura vetusti. Del resto, non siamo noi oggi figli di quella temperie culturale che genericamente potremmo definire post-moderna e che ha fatto della lotta al manicheismo dualistico la sua pars destruens ? È un pensiero non dualistico, senza per questo, vedremo, rinunciare alla duplicità, quello che l’autore — che ovviamente di post-moderno non sapeva nulla — prova a mettere in forma, e che noi abbiamo occasione di studiare proprio nell’atto del suo generarsi.
Mondo sensibile e mondo dell’espressione definiscono un’antinomia che trova le proprie radici, a voler estremizzare, quanto meno nella distinzione platonica tra mondo ideale e mondo sensibile. Se si volessero fissare delle tappe a noi più vicine — come sempre troppo semplicistiche, ma utili a orientarsi — sensibile ed espressione rimandando alle distinzioni moderne di Descartes (quella tra materia estesa e pensiero inesteso) e di Kant (mondo sensibile della natura e mondo intelligibile dei valori) generalizzabile nella distinzione del pensiero antropologico tra natura e cultura (Lévi-Strauss 1969 pp. 39-52; Descola 2005). Già dunque nel tema stesso delle lezioni contenute in questo volume si comprende lo sforzo teorico che le sottende, un lavoro filosofico e fenomenologico che chiama in causa le principali architravi del nostro sensus communis moderno.
Potrebbe essere utile contestualizzare brevemente queste note di corso (si rimanda all’introduzionedella curatrice per i dettagli). L’anno accademico, come detto, è il 1952-53 ed è l’esordio di Merleau-Ponty al Collège de France, dopo che ha già tenuto il suo Elogio della filosofia nella lezione inaugurale (Merleau-Ponty, 2008) e mentre sta aprendo il cammino che lo consacra ai livelli più alti della cultura e della filosofia francese e forse mondiale. Non sono anni facili, gli anni Cinquanta, sia a livello storico (sono gli anni della guerra fredda, delle prime notizie in occidente del regime staliniano, della guerra di Corea, ecc.) sia a livello personale (Merleau-Ponty ha in cantiere La prosa del mondo che resterà incompiuto, sta rivedendo le sue posizioni rispetto all’URSS espresse in Umanismo e terrore del 1948, ma, soprattutto, sta per rompere il grande sodalizio filosofico e affettivo con J.-P. Sartre). Sul piano scientifico ha qualche sassolino nelle scarpe dopo la conferenza del 1946 presso la Société de philosophie dal titolo Il primato della percezione e le sue conseguenze filosofiche (Merleau-Ponty2004) nella quale presentava davanti a un pubblico composto dalle migliori menti filosofiche del tempo i risultati conseguiti con Fenomenologia della percezione. Amici e colleghi (Hyppolite, Bréhier, Lachièze-Rey per citarne alcuni) accolgono in maniera polemica e critica la tesi di fondo di quel libro accusandolo in alcuni casi di sensismo e positivismo. La sensazione di non essere stato compreso si radica nel filosofo e sette anni dopo è proprio da quella discussione che, con certosina attenzione, riparte (p. 61). Il primato della percezione diventa un punto di partenza ottimale per penetrare nel fitto bosco del sensibile e dell’espressione.
Sin dalla prima lezione, quasi un brevissimo compendio di Fenomenologia della percezione, emerge il tema cruciale con un gusto programmatico. Si tratta, cioè, di pensare l’unità del mondo percepito tale che questa unione non sia la “sintesi determinante”, la sintesi intellettuale, cioè, di una molteplicità sensoriale di stimoli empirici. L’unità cercata nella sua opera principale (ma anche in La struttura del comportamento del 1942) non era una sintesi del giudizio, ma di ordine “percettivo”. Si può dunque capire come qui emergano molte ambiguità che il filosofo dovrà in qualche modo dipanare.
Primato della percezione non significa postulare l’esistenza delle cose fuori di me o la corrispondenza oggettiva di mondo e conoscenza né di opporre a una filosofia intellettualista un empirismo sensista à la Hume, bensì di «fare una teoria concreta dello spirito» (p. 59). Il primato della percezione non postula «un primato del sensoriale, del dato naturale» (p. 60), ma è ricerca di un piano originario che non sia né empirico né trascendentale in cui il sensibile e l’espressione possano divenire indiscernibili: è lo statuto stesso della fenomenologia a modificarsi con questo primato. Fenomenologia della percezione non sta ad indicare solo che è possibile trattare la percezione come “noema”, ma che nel farlo si segue il divenire della percezione nel suo stesso attuarsi, ossia che la percezione indica un piano ontologico intermedio tra l’essere oggettivo e l’essere soggettivo. Si può trattare fenomenologicamente la percezione solo se essa non è né l’oggetto di un sapere né il soggetto della sensazione. È questo né né a non essere stato compreso alla Société nel ’46 (pp. 61-62). Il punto è che la percezione non rimanda solo al mondo del sensibile, ma implica anche un carattere espressivo: «Intenderemo qui per espressione o espressività la proprietà che ha un fenomeno, per la sua organizzazione interna, di farne conoscere un altro che non è dato o che non è mai stato dato. […] È in questo […] senso che la percezione è espressione, espressione del mondo» (pp. 62-63).
Fare una fenomenologia della percezione è studiare il farsi del mondo, una fenomenologia che acquista sempre più caratteristiche “hegeliane” (Vuillerod, 2018) risemantizzando il concetto di coscienza. Se c’è percezione, infatti, non è detto che vi sia necessariamente soggetto (nel senso del Cogito trascendentale che accompagna ogni io empirico), ma vi è senz’altro coscienza, che non è il pieno possesso di sé che la tradizione cartesiana e kantiana ci ha consegnato. La coscienza percettiva non è esterna alle cose, si situa tra di esse, ma non è cosa estesa tra cose estese: essa si fa negli scarti, nelle differenze (cromatiche, uditive, sensibili…) tra le cose, è trans-individuale (Ruyer 2018; Simondon 2011), passività creativa (Ménasé 2003). A differenza di quella trascendentale, essa «non ha a che fare con valori […], ma con esseri esistenti» (p. 64). Potremmo dire, cioè, che attraverso il primato della percezione Merleau-Ponty intraveda la possibilità di emancipare la coscienza percettiva dalla sovranità dell’intelletto dell’estetica trascendentale e di riscoprire nella materialità il suo proprio valore/valere.
L’espressività della percezione — il suo “primato” — è dunque ontogenetico, essa non è la facoltà inferiore della coscienza — come all’origine dell’estetica riteneva, ad esempio, A.G. Baumgarten (1993: 41) — ma la sua espressione “sensibile”, è «configurazione, struttura» (p. 65). Ecco un secondo termine fondamentale nel lessico merleau-pontiano che richiama il suo primo grande libro, La struttura del comportamento. Il primato della percezione implica una materialità della coscienza percettiva da intendersi come processo di strutturazione. Se la percezione non è (solo) la passività di un soggetto empirico, ma l’attività — quantunque “passiva” — di una coscienza “materiale”, allora essa è a tutti gli effetti concepibile nei termini di un comportamento (nel senso, ad esempio, in cui quantisticamente una particella ha un comportamento), un’attività vincolata ad un mondo-ambiente. L’espressione percettiva non è un atto puro, ma una prassi “situata” in uno “sfondo” di passività. Il richiamo è qui alla Gestaltpsychologie, che Merleau-Ponty aveva studiato attentamente nel libro del 1942 (e che nel corso affronta tra la settima e la nona lezione). Ogni coscienza percettiva è una figura (Gestalt) che emerge da uno sfondo e «vi è sempre qualcosa di inarticolato e di sottinteso in ciò di cui vi è coscienza» (p. 67). Lungi dall’essere un’astratta sensazione senza soggetto, l’espressione sensibile è un processo di figurazione (Gestaltung) e la coscienza percettiva è una figura o forma materiale. La coscienza percettiva non è un cogito ma un corpo, non un’anima che emerge e s’innalza dalla materia, ma l’individuazione, l’attività immanente, la configurazione sensibile e materiale di un corpo. Il primato della percezione è il primato del corpo sull’anima, non nel senso “empiristico-naturalistico” di un primato dell’esteso sull’inesteso, ma di una indiscernibilità tra il mondo sensibile della corporeità e la sua espressione animale.
Allora fenomenologia diviene sinonimo di strutturazione ontologica — «non vi è differenza tra ontologia e fenomenologia» (p. 61) — e il primato della percezione conduce a una ontologia dinamica e processuale (Vanzago, 2001). Il mondo dell’espressione non è riducibile a un mondo formale, ha una sua materialità; il sensibile non è inerte o passivo. C’è espressività sensibile tanto quanto vi è sensibilità “spirituale”. Né inerte né formale: l’espressività del sensibile è movimento e la fenomenologia della percezione è manifestazione non richiudibile negli steccati formali dell’estetica trascendentale, poiché non vi è più un primato del formale estetico (dello spazio e del tempo formali). Si avvia qui quello che con Husserl (1991) potremmo chiamare rovesciamento della rivoluzione copernicana: è il movimento a determinare le forme del tempo e dello spazio, non il contrario. Anzi: spazio e tempo non sono più forme, ma figure (Gestalten). Il movimento (si veda in particolare la sesta lezione) è il fenomeno espressivo per eccellenza, tutt’altro dunque che l’esito di una rappresentazione soggettiva. Come la percezione, esso non è l’oggetto di un sapere né l’attributo di un cogito (p. 99), ma è qualcosa che può essere solo sentito, in cui si manifesta il movente. Non è neppure un mero accidente che capita a un oggetto empirico, non è, cioè, la variazione di luogo nel tempo di una “cosa” (Sache), ma il fenomeno per il quale “qualcosa” (Ding) si esprime, emerge spazialmente e temporalmente (geograficamente e storicamente) in quanto figura su sfondo.
Il movimento espressivo è l’installazione sensibile di una coscienza percettiva nel cuore dello spazio e del tempo, il suo modo di abitare lo spazio e il tempo (p. 103), i quali non sono relazioni formali né empiriche, bensì modali. C’è movimento, ovvero qualche cosa appare, c’è della percezione, c’è del comportamento, c’è della coscienza, c’è figurazione: espressione di un’immagine materiale. Il movimento espressivo (siamo alla quarta lezione del corso) è «spirito che si fa corpo e corpo che si fa spirito […] una logica del funzionamento percettivo» (p. 105). Rovesciamento della fenomenologia hegeliana: fenomenologia e logica della percezione; il corpo è lo spirito, il mondo sensibile esprime il mondo spirituale; l’unione non è sintesi assoluta, ma l’affinità trascendentale (p. 107) dello spirito col sensibile in sopravanzamento (overlapping) l’uno sull’altro, «sintesi di enjambement» (p. 109).
Il movimento espressivo è la sintesi senza concetto di spazio e tempo. La mente va a Bergson che più di chiunque altro nel Novecento si è sforzato di pensare il soggetto implicato nel movimento (pp. 119-125). Dopo aver esposto, all’inizio della sesta lezione, gli «argomenti di Zenone» (p. 118) sull’impossibilità ontologica del movimento, Merleau-Ponty vi si richiama: «Per lui quello che rende impossibile il movimento nel pensiero di Zenone è la divisione infinita e attuale del tempo e dello spazio, […] per rendere possibile il movimento occorre che il tempo e lo spazio siano divisibili, ma non divisi, che, posti a partire dal tutto, ammettano uno spazio “tra” le posizioni e gli istanti, cosa che non è possibile nell’in sé. È quindi necessario che il movimento , che è fatto del mondo, sconfini su di me come durata, sia anche fatto di coscienza» (p. 119). Tuttavia, Bergson nel cercare un tout indivisé del movimento è ancora troppo intellettualista, «resta coscienziale» (p. 121). Occorre essere, si legge tra le righe delle note di lavoro, più bergsoniani di Bergson, il quale «trionfa su Zenone mostrando che il tempo non è fatto di istanti né lo spazio di limiti di spazio, ed è vero. Ma resta da esplicitare la conseguenza […] crede che il problema sia concluso» (p. 239). Diventa necessaria «una teoria del corpo percipiente» (p. 240), un paradigma del corpo (Iofrida 2019) che troviamo tra l’undicesima e la tredicesima lezione (nel cuore, dunque, del corso): il movimento è sì un dato immediato della coscienza, ma di una coscienza percettiva, una coscienza-immagine che sia la sintesi esistenziale (materiale) della durata, la quale viene così reinterpretata come espressione sensibile, immagine-spaziotempo, figurazione espressiva.
La durata bergsoniana è “astratta” e manca, agli occhi di Merleau-Ponty, la “e”tra sensibilità ed espressività, una unità (dodicesima lezione) non teoretica, ma pratica, «unità dello schema corporeo […] unità di un’azione sul mondo, di una prassi» (p. 187), non nel senso di un pragmatismo utilitaristico (che per Merleau-Ponty manterrebbe la sussunzione dell’azione sensibile a uno scopo sovrasensibile), ma come attività passiva di creazione di immagini, una prassi che «comporta una teoria [Theoria] o gnosis che ne è lo sfondo, che essa modifica e che a sua volta la modifica» (ibidem). La durata espressiva è unità di teoria e di prassi, una praktognosia che non è un pragmatismo — esiste una materialità dei valori — né un empirismo — c’è, come rileva Dalmasso, una intenzionalità del sensibile (pp. 46-52). La durata come congiunzione del mondo sensibile e del mondo dell’espressione, una unità che si può a buon diritto definire estetica (se con Kant intendiamo “estetica” l’unità senza concetto, pre-logica).
Non è un caso che i corsi del ’53 si chiudano (quattordicesima lezione) con delle considerazioni sull’Arte in generale, e sul cinema in particolare. Le considerazioni estetiche di Merleau-Ponty sul cinema meriterebbero ben altre analisi (si rimanda ai lavori di Carbone e di Dalmasso), qui ci limitiamo solo a trarre una brevissima conclusione. Il cinema è la “prova ontologica” del primato della percezione e del movimento espressivo. Esso è una ritmologia della durata dell’immagine, un contrappunto di punti di vista, di immagini che sopravanzano l’una sull’altra. Nell’arte cinematografica si realizza l’unità di sensibile ed espressione, il vinculum substantiale di una molteplicità di immagini sensibili senza sussunzione entro i decreti formali dell’intelletto trascendentale. Nel movimento cinematografico appare una vera e propria monadologia sensibile (p. 64) che si insinua nel mezzo dei due mondi, che sono “separabili” ma non separati e nelle cui pieghe emergono molteplici mondi intermedi. Come scrive Carbone, nel cinema «si celebra il venire ad espressione […] del mondo sensibile» (p. 16).
Questi mondi intermedi sono il legame tra mondo sensibile e mondo dell’espressione e costituiscono l’ambiente originario nel quale la nostra capacità creativa di corpi animali o anime materiali riesce a trovare spazio per esprimersi e manifestarsi attraverso un’inaspettata fenomenologia dello spirito-carne che solo un primato della percezione può rendere visibile. Già solo questa breve conclusione a cui perviene Merleau-Ponty nei corsi dedicati alla duplicità sensibile/espressione, forse, vale da sola lo studio attento di questo volume.
di Gianluca De Fazio
[1] L’editore continua ancora oggi il suo lavoro di pubblicazione dei corsi al Collège de France di Merleau-Ponty. Si segnala il numero monografico dedicato al Mondo sensibile e mondo dell’espressione della rivista Chiasmi International (n. s. 12-2010).
Bibliografia
Baumgartem, A.G. (1993), Progetto dell’estetica, in A.G. Baumgarten, I. Kant, Il battesimo dell’estetica, a cura di L. Amoroso, ETS, Pisa.
Descola, P. (2005), Par-delà nature et culture, Gallimard, Paris.
Husserl, E. (1991), Rovesciamento della dottrina copernicana della corrente visione del mondo, «Aut-Aut», 245, pp. 3-18.
Iofrida, M. (2019), Per un paradigma del corpo: una rifondazione filosofica dell’ecologia, Quodlibet, Macerata.
Lanfredini, R. (2011, a cura di), Divenire di Merleau-Ponty. Filosofia di un soggetto incarnato, Guerini, Milano.
Lévi-Strauss, C. (1969), La struttura elementare della parentela, a cura di A.M. Cirese, Feltrinelli, Milano.
Ménasé, S. (2003), Passivité et création. Merleau-Ponty et l’art moderne, PUF, Paris.
Merleau-Ponty, M. (2004), Il primato della percezione e le sue conseguenze filosofiche, a cura di R. Prezzo, F. Negri Medusa, Milano.
Merleau-Ponty, M. (2008), Elogio della filosofia, a cura di C. Sini, SE, Milano.
Ruyer, R. (2018), Neofinalismo, a cura di U. Ugazio, V. Cavedagna, G. Vissio, Mimesis, Milano-Udine.
Simondon, G. (2011), L’individuazione alla luce delle nozioni di forma e d’informazione, a cura di G. Carrozzini, Mimesis, Milano-Udine.
Vanzago, L. (2001), Modi del tempo: simultaneità, processualità e relazionalità tra Whitehead e Merleau-Ponty, Mimesis, Milano-Udine.
Vuillerod, J.B. (2018), Merleau-Ponty hégélien?, «Chiasmi International», n.s. 19, pp. 101-114.
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Lacan: una scienza di fantasmi
Recensioni / Maggio 2020In questo breve ma densissimo volume, Jacques Lacan, una scienza di fantasmi, (Orthotes 2019) Federico Leoni continua il suo lavoro di originale rilettura delle riflessioni di Jacques Lacan, facendo funzionare il complesso, monumentale e oscuro svolgersi del pensiero dello psicoanalista parigino come pungolo per costruire nuove possibilità di traiettorie teoriche. Infatti, questo libro non vuole essere tanto un testo d’introduzione a Lacan quanto la continua interrogazione e scavatura di alcune delle sue più importanti riflessioni. Un’indicazione sulla lettura del testo ci viene direttamente dall’autore alla fine del libro: “Questo è un libro insistente. Ogni capitolo mostra una stessa cosa, che si presenta ora come Uno, ora come tratto, ora come voce, ora come mana, ora come fantasma, ora come oggetto, ora come gesto, ora come miniatura, ora come ideogramma.” (Leoni 2019, p. 173). Questa “stessa cosa” che Leoni ci mostra in Una Scienza di Fantasmi è l’evento – sempre attivo – dell’insorgenza e dell’inscrizione che produce il continuo processo di soggettivazione. Il libro è, allora, una sorta di indagine sul “supporto” di questo processo, non ritrovato in un fondamento certo e stabile quanto definito e perciò perduto, ma in una materia fluida e inafferrabile che anima la soggettivazione sempre in atto. Cercheremo di riattraversare l’insistenza di questa “stessa cosa” attraverso due vettori in particolare: l’Uno e la perversione.
La struttura di questo libro è permeata da una modalità particolare, che viene in qualche modo rivelato verso la fine del libro: l’obliquità. L’obliquità, o inclinazione, è proprio quella del diwan, del lettino freudiano, residuo della regressione ipnotica (anticamera della psicoanalisi). Questa strana angolatura, caposaldo del metodo clinico psicoanalitico, viene applicata costantemente nel testo sul continuo torcersi del pensiero dei filosofi interpellati. Questo non significa che i filosofi (fra i più presenti troviamo Leibniz, Kant, Cartesio, Bergson e Deleuze) vengano interrogati sui loro fatti privati, ma che le loro teorie, in qualche modo, vengano rese “spurie”, inclinate e condotte verso nuove possibilità.
E non è un caso che nell’obliquità e nell’inclinazione ci stia anche la deviazione: infatti ciò che per eccellenza de-via in psicoanalisi è la per-versione, la negativa freudiana della nevrosi, ciò che modifica la rotta e batte strade nuove.L’Uno, rintracciato e moltiplicato in varie figure (come il mana, il gesto, la voce, l’oggetto), è il protagonista indiscusso di questo libro e ne è anche il ritmo, la scia continua che permette ai molti percorsi anche eterogenei dipanati dall’autore di scandirsi in maniera sempre più coordinata. E, in qualche modo, da un punto di vista letterario, si potrebbe ascrivere questo libro di filosofia al genere del picaresco: assistiamo infatti a un continuo peregrinare avventuroso di questo Uno, dalla psicoanalisi lacaniana ai vari pensieri filosofici indagati, fino all’arte e alla letteratura. Un’altra maniera di mettere a fuoco la centralità di questo Uno ce la suggerisce Leoni stesso attraverso l’altro protagonista di questo libro, il fantasma, paradossalmente più nascosto rispetto alla onnipresenza dell’Uno. L’Uno è il fantasma di questo saggio filosofico, nel senso che è la cornice che anima la sua struttura e attraverso la quale si determina un continuo assemblaggio fra psicoanalisi e filosofia.
L’Uno non è, però, una nozione priva di ambiguità e addirittura strane sorte di pregiudizi sia nell’ambito filosofico che in quello della psicoanalisi lacaniana, come nota Leoni stesso. Sul lato filosofico, nel testo si insiste su come l’Uno sia uno dei marchi dell’elaborazione filosofica sin da Platone e dal platonismo (in Plotino l’Uno trova il suo apice) e non a caso Leoni riprende il Parmenide di Platone che si interroga sull’Uno e il Moltepice (Leoni 2019, p. 103). D’altronde lo stesso Lacan a suo modo notava nel seminario XVI (La logique du fantasme, ancora inedito in italiano) che Platone e Plotino sono fra i pochi filosofi che non cadono nell’errore di sovrapporre Essere e Uno e che riescono a fornire una riflessione specifica su questa dimensione dell’Uno (Leoni 2019, p. 21). Nonostante ciò, secondo Leoni, “dell’Uno non ne è più nulla, nella filosofia, da un certo punto in poi, e salvo diramazioni preziose quanto isolate” (p. 6).
Sul lato psicoanalitico si può dire che il tema dell’Uno emerge in punti diversi dello svolgimento dei seminari lacaniani. All’inizio più che essere un Uno filosofico, l’uno lacaniano è l’eredità dell’einziger Zug (tratto unico o unario) del Progetto di una psicologia freudiano del 1895. Da qui Lacan inizia a elaborare la nozione di tratto unario, che definisce una visione dell’incidenza del significante a partire da un tratto traumatico originario e di “partenza” per l’identificazione e perciò soggettivazione (Seminario IX). Più tardi questo tratto unario assumerà forme differenti nel Seminario XVII subendo una torsione e divenendo S1, il significante padrone cui ci si identifica e da cui origina la catena significante. Solo a partire dal Seminario XIX Lacan (2011) inizia a porre la questione di un Uno filosofico-psicoanalitico, e lo fa confrontandosi soprattutto con Platone e la teoria degli insiemi di Cantor e Frege. Insomma, sembra che si passi da un uno dalla lettera minuscola all’Uno con la maiuscola. Quando Miller (2013) ripercorre le riflessioni di Lacan sull’Essere e l’Uno mette in luce come Lacan passi da una “ontologia” (o ancor meglio una para-ontologia) a una “henologia”, un discorso sull’Uno. Nella lettura milleriana l’Uno di questo Lacan è esemplificabile nella messa a fuoco della dimensione del “corpo che si gode”, narcisisticamente e autisticamente, che diviene sempre più centrale nella costruzione teorica lacaniana. L’immagine dell’Uno che si è andata a definire sempre di più nella psicoanalisi lacaniana è quella concentrata dalla formula milleriana dell’Uno-tutto-solo o Uno-senza-Altro, che rifugge dalla dialettica che si istituisce fra un soggetto e l’Altro, per richiudersi su sé stesso in un godimento sterile e “perverso”. Ma è proprio a partire da un’altra lettura della perversione che Leoni vuole riconsiderare filosoficamente la nozione di Uno psicoanalitico, con l’obiettivo di mostrarne una dimensione nascosta e ricavata proprio dalla elaborazione lacaniana.
La perversione, nell’ambito clinico lacaniano, viene spesso indicata come quella struttura per la quale il soggetto si colloca nella posizione di oggetto inscalfibile, scaricando sull’Altro l’angoscia generata in lui dalla divisione inferta nel soggetto dal linguaggio. Il perverso vuole dividere l’Altro, proiettare su di lui l’angoscia della castrazione che non intende sostenere su sé stesso addirittura arrivare ad angosciare Dio, l’Altro per eccellenza (Recalcati, 2016; Lacan, 2004).
Un altro modo di dire la questione della perversione (ed è a partire da questa altra angolazione che parte la riflessione di Leoni), non contraddicendo necessariamente le altre letture ma facendo emergere un lato “positivo-creativo”, è che il soggetto della perversione “comprende” la struttura e il funzionamento del linguaggio e che in qualche modo usi questa “competenza” riversandola sull’Altro. È in questo senso che, nella prospettiva della teologia psicopatologica paolino-lacaniana suggerita da Leoni nel primo capitolo, se il nevrotico vive nel dramma innescato dalla Legge e lo psicotico non riconosce, forclude questa dimensione della Legge, non accedendo completamente al Simbolico, il perverso conosce questa Legge per negarla e superarla, per andare aldilà di essa e collocarsi al posto di Dio (pp. 8-11). Il soggetto perverso si sistemerebbe nella posizione di colui che scrive, letteralmente crea la Legge, addirittura identificandosi con essa. In questa direzione, si può suggerire, a ulteriore chiarimento, l’immagine prototipica data dall’inserto filosofico-politico di Sade (autore caro a Lacan) all’interno della sua Filosofia nel boudoir. Qui viene messo in luce come il perverso conosca lo strumento della Legge e del suo istituirsi e come utilizzi questo sapere per creare e immaginare un nuovo tipo di società iperbolica, sebbene basata su principi razionali, macabramente illuministici e “formalizzati” su un piano giuridico-filosofico.
A partire da questo lato creativo della posizione soggettiva della perversione, Leoni ci interroga sulla possibilità di concettualizzare la filosofia non come un processo paranoico (la diagnosi che Freud aveva, a suo tempo, affibbiato, e con una certa logica, alla filosofia) di iperuniversalizzazione e astrazione, purificazione dei pensieri e dei concetti. Piuttosto l’autore ci spinge a immaginare la filosofia come un processo perverso, la messa in atto di una possibilità di continua scrittura e riscrittura creativa del pensiero e del mondo a partire dall’invenzione filosofica.
C’è qualcosa come un’altra perversione, qualcosa come un altro scatenamento del possibile, che quella costellazione di pensatori cerca di mettere a fuoco. Misurarsi con la morte di Dio significa misurarsi con quest’altra perversione, con quest’altro scatenamento del possibile. Nuovi possibili si rendono possibili, nuovi impossibili si disegnano a margine di quei possibili. […] [Il perverso] Si mette al posto di Dio, e crea i possibili, o dice che al posto di Dio non c’è nient’altro che questa incessante creazione dei possibili. (Leoni 2019 p. 79)
Infatti, si può dire che la scrittura leoniana di questo testo sia in un certo qual modo perversa, producendo deviazioni, scatenamenti e misurandosi con un’esplorazioni dei possibili. Nel quinto capitolo, Leoni si riallaccia, e non a caso, proprio alla figura di Bafometto (p. 85), principe infernale delle metamorfosi e idolo templare protagonista del romanzo del filosofo “perverso” Klossowski. Nel testo klossowskiano, infatti, si esplicherebbe una condizione di continua trasformazione e implicazione di “tratti dentro altri tratti”:
Ogni tratto di divenire sposta ogni altro tratto implicandolo nel proprio percorso, facendo di ogni altro tratto un proprio segno e facendo di sé stesso un segno di ogni altro tratto. Qui leggere è fare, interpretare è fabbricare. Per questo il lettore dei segni di quel cosmo non va immaginato come davanti a un libro, immune ai segni che sta decifrando, ma come un segno esso stesso, e come un fabbricatore esso stesso. (Leoni, 2019 p. 89-90)
Dunque, in questa direzione obliqua e deviata, l’Uno inizia ad apparire non tanto come un Uno che accade, uno spazio definito nello spazio-tempo o nel soggetto, quanto il supporto continuo, la piega nel soggetto che permette che una soggettivazione, continuamente in genesi e in divenire, accada (Leoni 2019 p. 51). Dunque, se questo Uno non è l’Uno-tutto-solo della perversione, che Uno perverso della creazione sarebbe? L’Uno, che qui viene ripreso a partire dal Seminario XIX di Lacan (2011), non è semplicemente un momento atavico, uno stadio larvale della soggettività che precede cronologicamente l’incontro del soggetto con l’Altro. Viene, invece, indicato come quell’evento, o ancora meglio come quel rimasuglio dell’evento (eco de l’Y a d’l’Un lacaniano) che permette strutturalmente l’emergere di una dialettica fra il soggetto dell’Altro. L’Uno non sarebbe, dunque, un soggetto che può mettersi in dialettica con un Altro (e che eventualmente sceglie di non farlo) ma sarebbe l’evento stesso della possibilità di un’emergenza del rapporto fra un soggetto e l’Altro, in altre parole il suo supporto. È come dire che nell’Uno sta già il Due e il molteplice, nel senso che l’Uno permette, ponendosi come fondamento, l’articolarsi fra più elementi, fra più Uni:
Ovvero, che c’è dell’Uno, c’è l’operazione di un Uno molto più profondo o molto più superficiale di così, un Uno che non sta né dalla parte dell’uno né dalla parte dell’altro, ma che distribuisce le parti e opera la divisione, non cessando un istante di non-dividersi al fondo della divisione stessa. Questo Uno è nella stessa posizione dell’Altro, anzi è l’Altro stesso, ma come il suo accadere. L’Uno è l’Altro che accade, o l’Altro è l’Uno ormai accaduto. L’Altro è il regime dei rapporti istituiti, l’Uno è l’istituirsi di quei rapporti. (Leoni 2019 p. 35)
Uno, dunque, che nel suo continuo mettere in atto la divisione senza esserne compromesso (una sorta di fondo psicotico a ogni nevrosi), mostra la natura continuamente metamorfica della soggettivazione, del suo incessante divenire all’interno di una logica sostenuta dallo scandire di questo Uno fondamentale. Dunque, nella lettura di Leoni, se l’Altro è il “regime” dove si sono dati dei legami e delle leggi secondo un ordine simbolico (istituito), l’Uno sarebbe il supporto che permette che questi rapporti si istituiscano senza esso si istituisca mai.
Ancora, per rimanere nel solco del complesso svilupparsi della riflessione lacaniana attraverso i suoi seminari, il tratto unario, l’elemento di identificazione a un tratto dal soggetto che fa partire la sua soggettivazione, è sostenuto dalla dimensione dell’uniano, appunto da quel yadlun (“c’è dell’uno”) inassimilabile e allo stesso tempo motore e supporto della possibilità di far partire la soggettivazione dall’identificazione del tratto unario. Certo, seguendo Lacan non troviamo un Uno tutto-pieno, monolitico e compatto, le sue fondamenta sono instabili. L’Uno lacaniano del Seminario XIX è rappresentabile, infatti, da una sacca vuota con un buco: «Si vous en voulez une figure, je représenterais le fondement du Yad’lun comme un sac. Il ne peut avoir l’Un que dans la figure d’un sac, qui est un sac troué» (Lacan, 2011 p. 147) [1]. Insomma, di questo Uno non si sa mai quanto ce n’è davvero dentro al sacco.
[1] Se volete una figura, io rappresenterei il fondamento di Yadl’un come un sacco. Non si può avere l’Uno se non dentro la figura di un sacco, che è un sacco bucato. (traduzione mia)
Non è un caso che l’Uno di Lacan sia inavvicinabile dal linguaggio ordinato dell’istituirsi del simbolico e che lo psicoanalista francese idei proprio per questo Uno il neologismo yadlun. Questo ci porta nella dimensione della lalangue (che Leoni incrocia nell’indagine su grido e voce nel capitolo otto) di una lingua primitiva rispetto all’intervento regolativo e differenziante del simbolico, capace dunque di mostrare, più che significantizzare, l’ambigua e inafferrabile consistenza di questo Uno.
E se Leoni ci indica un modo per immaginare come un soggetto venga fuori da questo Uno è attraverso l’immagine di un piano che si piega su se stesso, producendo una singolarità in continua trasformazione, la soggettivazione sempre in divenire. È così che il soggetto appare come una monade, piega e unità singolare in cui tutto il mondo si inclina attraverso quel particolarissimo vertice che è il fantasma, meccanismo di cornice-interfaccia della realtà e allo stesso tempo suo assemblaggio. Il fantasma è, infatti, già nella riflessione lacaniana, la dimensione che permette al soggetto di aprire una vasta gamma di possibili incontri con l’oggetto piccolo a.
S◊a, il matema del fantasma che Lacan (2013) indica nel Seminario VI, va a significare proprio questo: il punzone ◊ che contiene in sé più simboli (maggiore, minore, et, vel) rappresenta la plurimità delle possibilità di rapporto fra il soggetto diviso (S) del desiderio e l’oggetto causativo del desiderio, l’oggetto piccolo (a), resto di una delle forme dell’Uno lacaniano, Das Ding, la Cosa perduta per sempre dal soggetto nella rimozione originaria.Certo, ogni singolarità, ogni soggetto non può solo creare a partire dal suo fantasma ed è inevitabilmente posto sotto il giogo della legge della coazione a ripetere. Eppure, partendo da una sorta di teoria della registrazione, Leoni nell’ottavo capitolo mette in luce come anche la più fedele registrazione sia in qualche modo una deformazione, un cambiare strada, un de-viare dall’originale (Leoni 2019 p.129). In questo senso ci viene da suggerire l’associazione a un pensatore a suo modo decisamente perverso, William S. Burroughs, che insisteva sul ruolo dello scrittore come registratore, come supporto apparentemente passivo degli avvenimenti della realtà: “Uno scrittore può scrivere soltanto di una cosa: di quello che c’è davanti ai suoi sensi al momento di scrivere… Sono uno strumento di registrazione… Non presumo di imporre una “storia”, una “trama”, una “continuità”…” (Burroughs 1959 p. 199). Nonostante ciò, la vera operazione di Burroughs non si risolveva qui: lo scrittore per lui non si può limitare a ripetere a pappagallo ciò che della realtà si imprime su di lui ma ricostruisce e trasforma il testo della realtà attraverso tagli, sovrapposizioni e giustapposizioni attraverso cui inserisce nella ripetizione un brulicante continuo differenziarsi dentro al testo stesso attraverso la tecnica del cut-up, in cui il testo viene tagliato e poi ricomposto, e la tecnica del fold-in, dove, ancor più significativamente, il testo viene piegato su se stesso.
Pieghe e monadi, dunque, sono le forme filosofiche attraverso le quali Leoni ci vuole restituire una visione della soggettivazione vista dalla prospettiva di una scienza dei fantasmi, delle singolarità. Quello che si configura in questa scienza dei fantasmi è una posizione etica (Leoni p. 105) per indagare il soggetto nella sua prospettiva singolare a partire da una presa in carico del fantasma da cui lo si guarda, indicazione questa preziosa anche per la clinica. Scienza assolutamente soggettiva da una parte e dall’altra, invece, “unica scienza rigorosa”, con le parole di Husserl, perché consapevole di indagare il fantasma a partire da una cornice che è già a sua volta un fantasma:
Che cosa sa, infatti, la scienza del fantasma? Che il fantasma è tanto il fantasma “verso cui” essa guarda per scrivere e descrivere, come suo oggetto di studio; tanto il fantasma “da cui” essa scrive e grazie a cui essa descrive ciò che descrive; quanto il fantasma “in cui” essa scrive, cioè lo spazio e l’esigenza e lo strumentario e la ragnatela di strade resesi possibili, entro cui la sua scrittura, la sua descrizione si muove.” (Leoni 2019 p. 105)
Dunque, la scienza del fantasma auspicata da Leoni sarebbe una scienza capace di mettere in luce la cornice verso cui si tende nella scrittura, la cornice “oggetto di studio”, ma anche la cornice da cui si scrive (in qualche modo, un riconoscimento del fantasma dell’autore) ma soprattutto “ragnatela di strade resesi possibili”, l’esplicazione effettiva “in cui” questa scienza scrive e si dipana. È in questo senso che il testo propone non solo una questione “epistemologica” ma soprattutto una dimensione etica, di riconoscimento e di accoglimento del fantasma singolare all’interno dell’elaborazione del pensiero, che ne è la cornice stessa ma che costituisce anche il metodo di assemblaggio degli oggetti di studio, modificandoli.
A partire dalla definizione di questa scienza, Leoni negli ultimi capitoli del libro ci permette di vedere almeno due vertici a partire dai quali si può fare una scienza di fantasmi. Da una parte troviamo il filosofo “perverso”, che dopo Nietzsche è costretto a confrontarsi con la morte di Dio e alle nuove possibilità che gli sono date da scriversi. In qualche modo il filosofo perverso è un filosofo della contingenza lacaniana, colui che fa passare “ciò che non cessa di non scriversi” al “ciò che cessa di non scriversi”. Dall’altra, invece, in una posizione differente da quella del filosofo troviamo lo psicoanalista, che può manifestarsi attraverso più forme di singolarità: cadavere, santo (saint homme) e addirittura idiota. A differenza del filosofo, che fa emergere nuovi possibili attraverso assemblaggi fantasmatici, nella posizione di colui che “crea”, lo psicoanalista si pone in una posizione di annullamento, di “cadaverizzazione”, per permettere all’analizzante di incontrare e attraversare il suo proprio fantasma singolare.Una scienza di fantasmi, per concludere, è un libro che, fedele alla scena carrolliana descritta da Deleuze in Logica del senso, ci mostra uno scorrere obliquo e continuo di Uni, oggetti, figure, disegnando una ragnatela di associazioni attraverso le quali si inizia a vedere un fantasma emergente, una cornice ritmica. Questo testo vuole già essere, dunque, una messa alla prova di una possibile scienza dei fantasmi che animano il soggetto, lasciando libero di emergere, unico e singolare, un fantasma che anima la complessa struttura del testo:
Ciò che essa sa, e insieme ciò che essa fa, è conoscere e perciò spostare l’oggetto. Non si può conoscere il fantasma senza spostarlo. In parte perché lui stesso è mobile, metamorfico, consegnato a una perenne fibrillazione dei disparati che lo compongono. In parte perché noi stessi siamo mobili, noi che lo studiamo, noi con la nostra scienza del fantasma, la scienza stessa del fantasma che non è mai di fronte al fantasma ma è sempre spinta dal fantasma e immersa nel fantasma, dunque che è fantasma a tutti gli effetti. Se così è, la scienza del fantasma è un’arte che accompagna. (Leoni 2019 p. 105)
di Lorenzo Curti
Bibliografia:
Burroughs, W. S. (1959), Pasto nudo, tr. it. F. Cavagnoli, Adelphi, Milano 2012
Lacan, J. (2004) Seminario X. L’angoscia, tr. it. A Di Ciaccia e Adele Succetti, Einaudi, Torino 2007
Lacan, J. Séminaire XIX …ou Pire, Seuil, Paris, 2011
Lacan, J. (2013) Seminario VI. Il desiderio e la sua interpretazione, tr. it. A. Di Ciaccia e Lieselotte Longato, Einaudi, Torino 2016
Miller, J. A. L’Essere e l’Uno. La Psicoanalisi, 53/54, Astrolabio, 2013, pp. 177-227
Leoni, F., Jacques Lacan, una scienza di fantasmi, Orthotes, Napoli-Salerno, 2013
Recalcati, M., Jacques Lacan. La clinica psicoanalitica: struttura e soggetto. Raffaello Cortina, Milano, 2016
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Marco Menin – Il fascino dell’emozione
Recensioni / Marzo 2020.
Significativamente inserito all’interno di una collana intitolata “Filosofia e vita quotidiana”, il libro di Marco Menin (Il fascino dell'emozione, Il Mulino, Bologna 2019) aspira a sottoporre a trattazione filosofica uno degli elementi più quotidiani e onnipervasivi della nostra esperienza umana, ossia le emozioni.
Oggetto di studio proteiforme, resistente ad ogni classificazione univoca, le emozioni sono infatti presenti in quasi ogni ambito della nostra vita, risultando quindi dotate di un ambiguo doppio status filosofico: se da una parte esse sono state fin dall’antichità oggetto di interesse e di teorizzazione, da un’altra la loro natura misteriosa e magmatica ha fatto in modo che solo recentemente sia stato ad esse assegnato un ruolo di spicco nel quadro generale della vita umana.
Senz’altro utile è per questo l’approccio adottato da Menin, storico della filosofia per formazione, che può quindi tenere fisso lo sguardo sull’evoluzione diacronica del pensiero pur senza disdegnare le discussioni contemporanee sul tema.
Interessante è la scelta di un approccio multidisciplinare, con l’apporto di diverse ricerche scientifiche (psicologiche in primis ma anche biologiche, neuroscientifiche, antropologiche e sociologiche), che non serve solo a “dare corpo” a teorie filosofiche antiche, ma anche a stimolare riflessioni filosofiche attuali e contemporanee.
Il risultato è senz’altro quello di ben comunicare al lettore la natura sfaccettata e complessa dell’emozione, ma anche di mostrare come in tempi recenti il suo funzionamento e il suo ruolo siano stati sempre più oggetto di interesse e di ricerca.
Tale approccio multidisciplinare accompagna il lettore in ognuno dei capitoli del libro, ciascuno programmaticamente dedicato ad una tematica di interesse filosofico.
Il primo capitolo verte soprattutto sull’analisi diacronica dell’emergere della riflessione filosofica sulle emozioni dall’antichità fino all’epoca contemporanea.
Saggiamente accantonate le pretese definitorie dell’emozione, così come le distinzioni tra emozioni e sentimenti, l’autore inizia la trattazione proponendo una panoramica delle principali teorie storicamente succedutesi nel pensiero filosofico occidentale a riguardo della natura dell’emozione.
Menin distingue qui tre macro-teorie ideali, filoni di ricerca non omogenei al loro interno ma senz’altro testimoni di alcuni atteggiamenti radicati nella storia del pensiero, che l’autore chiama teoria dell’emozione come valutazione, teoria dell’emozione come percezione e teoria dell’emozione come motivazione.
La teoria valutativa dell’emozione assimila la risposta emotiva al risultato di un’inferenza valutativa: la persona dà un’interpretazione di una situazione e da tale valutazione scaturisce la risposta emotiva.
Pur nella sua apparente semplicità, tale teoria ha prodotto nell’antichità le più diverse valutazioni del fenomeno emotivo: dalla condanna delle passioni in Platone e negli stoici fino al più moderato e neutro giudizio di Aristotele, degli epicurei e di alcuni filosofi medievali, soprattutto tomisti.
A tale tradizione si affianca in epoca moderna una trattazione filosofica più aperta al ruolo biologico del corpo nel determinare emozioni e sentimenti: la feeling tradition o teoria dell’emozione come percezione, iniziata da Cartesio e proseguita con James e Damasio, vede nell’emozione una risposta anatomica ad uno stimolo, assimilandola dunque ad una semplice percezione organica.
Se da un lato la teoria valutativa sembrava assegnare spesso valori morali alle emozioni, la teoria percettiva può sottrarre l’emotività all’etica ed alla teologia per metterla in mano alla fisiologia ed alla psicologia sperimentale, fino alle moderne neuroscienze.
Ultima in ordine cronologico ad apparire sulla scena filosofica è la teoria dell’emozione come valutazione, di ascendenza darwiniana, che vede nell’emozione soprattutto una reazione di adattamento all’ambiente.
Dal pionieristico studio di Darwin sulle emozioni nell’uomo e negli animali fino alla riflessione deweyana sul concetto di arco riflesso, gli esponenti di questa tradizione vede nell’emozione un approccio all’ambiente circostante informato da processi di adattamento, esplorazione, valutazione, prova e risposta.
Il ruolo cognitivo dell’emozione è dunque decisamente rivalutato rispetto alla tradizione percettiva, pur inserendo alcune osservazioni della teoria valutativa in un più moderno framework darwinista.
In conclusione, questo primo capitolo si rivela prezioso in virtù della sua efficace ripartizione delle diverse teorie in categorie “aperte”, non stringenti ma euristicamente efficaci, capaci di dare un ordine a duemila anni di riflessione senza forzare le peculiarità dei singoli autori.
Mentre il primo capitolo è soprattutto un’opera di sistematizzazione all’interno della storia della filosofia, il secondo capitolo si presenta invece come un serrato dialogo tra filosofia, antropologia, psicologia e sociologia.
D’altronde, trattando di un tema quale la diversità culturale delle emozioni, il riferimento è obbligato.
Spaziando dalla disputa settecentesca sulla naturalezza del pudore, in cui all’interesse etnografico si mescolavano polemiche anticlericali o apologie del cristianesimo, fino alla decennale querelle psicologico-antropologica sull’universalismo delle emozioni, negato dai costruzionisti seguaci di Margaret Mead e fortemente difeso da Paul Ekman.
Se il confronto tra universalismo e costruzionismo sembra essere soprattutto dominato da altalenanti fortune storiche, l’autore mostra chiaramente come ben prima della psicologia moderna già autori come Spinoza e Rousseau avessero prodotto teorie dinamiche dell’emozione, mettendola in relazione, nel caso di quest’ultimo, con il contesto sociale.
Non sorprende dunque che proprio Rousseau sia il trait d’union tra filosofia moderna e scienze sociali contemporanee: dalla psicologia sociale di George Herbert Mead, alla sociologia durkheimiana fino all’antropologia culturale di Ruth Benedict, l’emozione è stata pervasivamente contestualizzata in una teoria delle relazioni sociali, mostrando come essa sia al contempo collante sociale e prodotto dell’interazione stessa.
Stranamente però l’autore non fa riferimento alla ricca tradizione di sociologia delle emozioni, che si dipana dall’opera di Arlie Hochschild e Peggy Thoits fino ai più recenti contributi.
Tale filone di ricerca, attivo anche in Italia grazie all’opera di Gabriella Turnaturi e di Massimo Cerulo, arricchirebbe senz’altro la panoramica sull’emozione di notevoli valide prospettive.
Una trattazione interdisciplinare, esplicitamente rivolta con interesse alla sociologia, avrebbe infatti molto da guadagnare dall’inserimento dei risultati di queste ricerche nel suo quadro teorico.
Tale confronto sarebbe ancora più interessante in vista della trattazione che Menin dedica all’opera di William Reddy, originale proponente di una teoria storico-sociale dell’espressione emotiva, capace di superare le dicotomie tra universalismo e costruzionismo indagando le specifiche modalità di espressione (emotives) che comunicano sentimenti privati in una sfera pubblica.
Molto pregnante è la trattazione che l’autore riserva alla relazione tra genere e dimensione emotiva, ricorrendo ad un autore a cui ha già dedicato numerose riflessioni, ovvero Rousseau.
Nei romanzi epistolari del filosofo ginevrino, il pianto emotivo viene slegato dalla tradizionale associazione con la femminilità, per divenire emblema e simbolo di una sensibilità nuova e capace di andare oltre alle barriere di genere.
Ammirevolmente coeso al suo interno, pur nel fiorire di prospettive e tematiche affrontate, il secondo capitolo introduce molti dibattiti e teorie che verranno in seguito riproposti, mostrando, come detto, la capacità dell’autore di inserire approcci diversi all’interno di un discorso uniforme e coerente.
Tema principale del terzo capitolo è la relazione tra emozioni e linguaggio: l’atto di esprimere emozioni in forma linguistica suscita infatti molte riflessioni, innanzitutto concernenti il divario che intercorre tra la concreta esperienza empirica dell’emozione e le ridotte possibilità espressive che la lingua mette a disposizione.
L’inevitabile “appiattimento” semantico della ricchezza emotiva in una descrizione comprensibile linguisticamente ma impoverita è uno degli argomenti in favore di chi nega che le emozioni possano essere pienamente tradotte in parole.
Ulteriore sviluppo di questa teoria lo si può riscontrare guardando ai vocabolari emotivi delle diverse culture, che presentano una pletora di vocaboli intraducibili usati per esprimere situazioni affettive ed emotive.
D’altronde, le emozioni sembrano avere radici pre-linguistiche molto più profonde delle nostre abilità verbali, come evidenziato da Jaak Pankseep e dal campo di ricerca da lui iniziato, la neuroscienza affettiva.
Se dunque la cultura di appartenenza gioca un ruolo chiave nello strutturare le espressioni emotive, l’universalismo emotivo sembra quantomeno avvalersi di un parziale vantaggio rispetto a teorie del tutto culturaliste: la discrepanza tra sentire ed esprimere il sentimento mette continuamente in gioco le nostre risorse linguistiche, trovandole spesso bisognose di nuovi mezzi espressivi o addirittura carenti di risorse verbali, ma nonostante questo le emozioni persistono anche in circostanze in cui il ruolo del linguaggio è minimo o assente.
La natura pre-linguistica delle emozioni è di fondamentale rilevanza quando si indaga l’emotività di chi difetta proprio della parola: ammirevolmente, Menin inserisce nel capitolo una trattazione sull’emotività animale, a lungo negata in passato e ora importante fattore nel garantire l’estensione di diritti fondamentali anche a molti animali.
Tornando rapidamente alla relazione tra linguaggio ed emozioni dopo il breve excursus sull’emotività animale, abbiamo qui una panoramica sulla funzione persuasiva del linguaggio: se il capitolo si è aperto osservando come l’emozione fatichi ad essere efficacemente contenuta dal linguaggio, ora essa è obiettivo, scopo dell’atto linguistico.
Come si sa fin dall’antichità, la retorica non può prescindere dall’emozione suscitata nell’ascoltatore.
Questa lezione antica, che annovera il movere ed il delectare tra gli obiettivi del discorso retorico, è stata ben recepita dalla pubblicità, che ha fatto di essa ampio uso nello sfruttare il sentimento innescato nello spettatore a fini commerciali.
Se dunque è possibile innescare reazioni emotive nell’interlocutore tramite processi linguistici, è tuttavia anche possibile che tale procedura conduca ad esiti spiacevoli.
Il caso del fraintendimento emotivo, in cui l’interpretazione non già dell’emozione altrui, chiara e manifesta, ma della causa di essa, porta a incidenti comunicativi di diversa portata, culminanti nel tragico caso dell’Otello shakespeariano, è paradigmatico della fragilità delle interazioni emotive.
All’interno della moderna psicologia, proprio la questione del fraintendimento è stata affrontata da Paul Ekman, già citato nel capitolo precedente, che ha elaborato un sistema di riconoscimento di microespressioni facciali capace di individuare le finzioni emotive.
Tuttavia, ci tiene a precisare Menin, non tutte le azioni simulate sono false: molte possono essere finte ma non falsate a scopo di dolo.
Emblematico è il caso dell’attore, che si adopera per comunicare emozioni allo spettatore pur non essendo realmente nello stato d’animo rappresentato.
Allo stesso modo, anche i personaggi fittizi delle opere d’arte, che spesso ci commuovono e ci emozionano, sono finti ma non per questo falsi o meno apprezzati.
In conclusione, questo capitolo affronta molte questioni diverse, spaziando dall’antropologia linguistica alla questione animale, dalla retorica persuasiva alla psicologia e alla riflessione sull’arte teatrale di Diderot.
Il risultato si presta a giudizi ambivalenti: personalmente ho apprezzato la varietà e la ricchezza degli stimoli, a mio avviso non caotici, ma comprendo che effettivamente essi possano risultare troppo eterogenei in un capitolo così breve e coinciso.
L’intera riflessione sul tema dell’emozione animale ben si inserirebbe in una cornice antropologico-filosofica, come quelle tracciate da Gehlen e Plessner.
Ovviamente, non è possibile sviluppare tali tematiche in un paragrafo, e l’autore fa bene a trattare il tema come una interessante appendice al più ampio tema dell’espressione linguistica dell’emozione.
Sarebbe però interessante approfondire una questione così attuale e feconda di spunti in una trattazione più estesa e dedicata unicamente a tale argomento.
Allo stesso modo, anche il tema dell’emozione nell’arte, adombrato nella trattazione sulla retorica, l’arte ed il teatro, si presta ad una riflessione maggiormente approfondita.
Come detto, il capitolo è denso di tematiche, riconducibili in senso lato al tema sterminato dell’espressione dell’emozione.
Tuttavia, il capitolo terzo, insieme al precedente, potrebbe essere letto soprattutto come un tentativo di mediazione intellettuale: tra gli eccessi del riduzionismo biologico-psicologico, che racchiude l’intera sfera emotiva all’interno di processi spontanei, e del costruzionismo radicale, che dà spazio unicamente alla dimensione sociale dei sentimenti, l’autore è fautore di un approccio equilibrato e moderato, a mio avviso davvero ammirevole e necessario.
Questo è forse lo spunto di riflessione più significativo non solo di questi capitoli, ma dell’intera opera.
I capitoli quarto e quinto ritornano in pieno nell’alveo della tradizione filosofica, vertendo uno sulla relazione tra morale ed emozione e l’altro su quello tra ragione e morale.
Primo punto di riferimento per sviluppare il tema del quarto capitolo è senz’altro David Hume.
Il pensatore scozzese, fautore di una teoria del contagio emotivo, è il primo a dare corpo ad una “scienza delle emozioni”, non valutativa ma ispirata ai principi della scienza descrittiva.
Osservare la genesi delle passioni senza giudicarle vuol dire soprattutto darne una descrizione nel processo di azione morale come farebbe un anatomista (esempio di Hume), senza voler incitare le persone al comportamento virtuoso.
Sulla scia di Hume si collocano molti altri illuministi scozzesi, tra cui Adam Smith, tutti concordi nell’assegnare alla simpatia (emotiva) un ruolo fondamentale nell’azione morale.
Anche le neuroscienze contemporanee sembrano avvallare alcuni assunti humeani, tuttavia alcune prospettive risultano paradossali per una riflessione filosofica sul tema dell’etica.
Alcune prospettive neuroetiche, poggiando sulla scoperta dei neuroni specchio, fondamentale nello spiegare la riproduzione di comportamenti osservati, sembrano privare gli esseri umani del libero arbitrio, riducendo la loro condotta morale ad una reazione posteriore ad azioni istintuali.
Tali prospettive, discusse animatamente da neuroscienziati e filosofi, sembrano troppo eccessive, tuttavia le etiche fondate sull’empatia non richiedono affatto simili riduzionismi.
La teoria dell’empatia morale di Hume e Smith, con notevoli varianti, è ancora oggi favorevolmente accettata da molti.
Tale corrente, sfociata nel sentimentalismo etico contemporaneo, è affrontata da Menin facendo riferimento ad alcuni autori più o meno recenti: dalle etiche della cura, fino alle teorie di filosofia sperimentale in autori come Nichols e Prinz, molti ritengono il sentimento condizione necessaria per la condotta morale.
Tuttavia, nota Menin, le emozioni sono state giustamente anche ritenute dannose per la condotta morale: se una posizione kantiana può apparire eccessiva, è evidente che alcune “cattive emozioni” non sono facilmente inseribili in una vita morale.
Il caso della rabbia, oscillante tra passione dirompente e lecita ribellione all’ingiustizia, è forse il più paradigmatico di questa schiera di emozioni ambigue moralmente.
Il passaggio tra il capitolo quarto e il quinto è più sfumato che altrove, poiché il tema della razionalità delle emozioni coincide ampiamente con quello della riflessione etica.
Il capitolo quinto inizia infatti opponendo due tradizioni di pensiero a riguardo delle emozioni e della loro relazione con la ragione.
Se molti autori antichi e moderni le hanno a lungo represse e ritenute “mali dell’anima”, da sottomettere alla ragione, sarà Pascal a mostrare che il “cuore”, ovvero la sensibilità umana, ha le sue “ragioni”.
Per il pensatore francese, l’emozione non è solo importante o di aiuto nel ragionamento: essa è vitale, base e fondamento dell’inferenza (“i principi si sentono, le proposizioni si dimostrano”, ebbe a dire), ma anche garante dell’accettazione di una credenza: se non si dà l’assenso “con il cuore”, ogni ragionamento è vano.
Sarà Hume a radicalizzare il rapporto tra volontà razionale ed emozioni, rendendo la ragione “schiava delle passioni”, ovvero atta solo a muovere i suoi passi a partire da stimoli emotivi, non di ostacolo ad essa ma unico autentico motore.
Da qui, come detto, si ritorna alla discussione etica, aperta da due varianti di sentimentalismo etico.
Esse sono l’emotivismo, che partendo dalla riduzione dell’enunciato morale a mera espressione emotiva, più o meno soggettiva, operata da Ayer, ritiene il lessico morale una semplice comunicazione di uno stato emotivo causato da un’azione.
Altri autori, cognitivisti (non razionalisti etici) associano all’emozione una valutazione cognitiva, restando all’interno della tradizione sentimentalista pur senza essere emotivisti.
Alcuni, come Solomon, ritengono che le emozioni siano risultato di valutazioni assiologiche, ovvero di conferimento di particolari valori negativi o positivi a qualche stato di cose, passibile, come le credenze, di verifica e revisione.
Concludendo l’excursus sull’etica iniziato nel capitolo prima, l’autore nota come, al di là delle singole teorie, sia l’emotivismo che il cognitivismo abbiano mostrato l’inadeguatezza di una riflessione morale razionalista, che volesse prescindere in campo morale dalle emozioni.
L’ultima parte del capitolo, e del libro, è dedicata al tema dell’intelligenza emotiva.
Dalla difesa della razionalità delle emozioni, che secondo Martha Nussbaum informano i nostri processi cognitivi orientando la nostra ragione verso il mondo e portandoci ad interpretare, valutare e validare le nostre credenze, prendono le mosse coloro che vogliono mostrare non tanto la non mutua esclusività di ragione ed emozioni, ma la loro totale interdipendenza.
Anche in campo psicologico abbiamo assistito ad una presa di coscienza circa il ruolo delle emozioni nella nostra vita.
Alcuni autori hanno infatti proposto una sorta di “educazione all’emotività” volta ad insegnare ai bambini a riconoscere i loro sentimenti e a saperli incanalare in modo costruttivo nella loro vita, nelle loro relazioni e nelle loro interazioni sociali.
Purtroppo, emerge proprio qui, quasi come un fulmen in clausula, la critica più grande, forse l’unica che posso sinceramente rivolgere, all’opera di Menin, assolutamente slegata dalla sua riflessione sulle emozioni e legata bensì al suo acritico (a mio avviso) utilizzo degli indicatori del quoziente intellettivo (QI) con eccessivo slancio.
Tali strumenti standardizzati sono stati da anni criticati, non solo metodologicamente ma anche a livello concettuale, per la loro dubbia utilità e per l’effettiva misurazione di qualche disposizione psicologica individuale stabile.
Alcune affermazioni categoriche dell’autore, che sembra ascrivere ad alcuni individui elevate doti cognitive in quanto “misurate” da tali test, sono secondo me decisamente fuorvianti e “stonano” con l’impianto generale dell’opera, comunque decisamente apprezzabile e notevole.
Concludendo, l’opera di Marco Menin risulta assai piacevole da leggere in virtù della sua approfondita e varia trattazione, non solo filosofica, della tematica emotiva.
La sua trattazione si configura come un doppio viaggio che si snoda lungo due assi: quello diacronico, sempre presente e visibilmente informato dall’approccio dello storico della filosofia, e quello tematico, svolto ponendo l’emozione in relazione alle dimensioni del linguaggio, della morale, della razionalità e di ognuno degli argomenti sopra citati.
Sarebbe stato forse opportuno, anche se non necessario, allegare un ulteriore capitolo dedicato all’estetica, branca della filosofia (ora anch’essa sempre più interdisciplinare) che con l’emozione ha sempre avuto a che fare.
Inoltre, il rapporto tra etica, estetica ed emozione, unite inestricabilmente nella vita umana, sarebbe forse campo di indagine privilegiato per una riflessione globale sull’emotività, in cui il sentimento fa, per così dire, “da ponte” tra la riflessione morale e quella estetica.
Tuttavia, la riflessione di Menin nel corso dell’opera appare decisamente esaustiva, ben oltre il livello di una introduzione minima al tema.
Come detto sopra, il saggio è dunque attento sia alla ricostruzione storica sia alla trattazione specifica di alcuni peculiari campi di applicazione della riflessione sull’emozione.
Questo doppio approccio, storico e tematico, è impreziosito dal taglio esplicitamente multidisciplinare, forse l’aspetto più gradevole del libro.
La molteplicità di approcci all’oggetto di studio, che emerge spesso purtroppo nel dibattito contemporaneo come una conflittualità di visioni intellettuali, si mostra qui invece decisamente improntata alla compatibilità, forse, mi pare il caso di dirlo, grazie soprattutto alla cornice filosofica, capace di ospitare al suo interno le diverse prospettive antropologiche, biologiche, psicologiche, neuroscientifiche e sociologiche.
La sintesi filosofica, pur non sistematica, emerge qui come utile strumento per orientarsi nella variegata riflessione che in molti campi del sapere si produce a riguardo delle diverse tematiche, in questo caso specifico l’emozione.
Accessibile come stile, il saggio di Menin è per di più arricchito da riferimenti a referenti culturali contemporanei e mainstream (film, serie tv, romanzi), sempre ben contestualizzati, in equilibrio tra trattazione filosofica ed esigenze divulgative, senza mai essere sintomo di un cedimento a logiche di “popolarizzazione” fine a sé stessa.
Essi risultano infatti un buon esempio di quel binomio, “filosofia e vita quotidiana”, che orienta programmaticamente la stesura dei saggi della collana.
In conclusione, la lettura di questo libro è forse, si spera, la prima avvisaglia di una maggiore sensibilità intellettuale per il tema delle emozioni, a lungo ritenuto marginale per la riflessione filosofica.
La vastità dei campi toccati da Menin in questa sua opera dovrebbe infatti quantomeno mostrare come la cosiddetta “affective turn”, la svolta emotiva, abbia recentemente reso disponibili al ricercatore molti promettenti campi di ricerca.
Una riflessione filosofica sul tema, aperta alla multidisciplinarietà e alla sintesi, è dunque senz’altro utile e gradita.
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di Riccardo Cravero
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Foucault e il grammatico fantastico
Sconfinamenti, Serial / Gennaio 2020Una fotografia raffigura Jean-Pierre Brisset mentre, il 13 aprile 1913, stando di fronte al basamento della celebre statua di Rodin Le penseur (allora situata di fronte al Panthéon, a Parigi), si rivolge alla folla. L’occasione è data del fatto che, pochi giorni prima, un gruppo di scrittori burloni (tra cui Jules Romains, Georges Duhamel e Max Jacob) ha avuto l’idea di conferirgli il titolo di Principe dei Pensatori, organizzando festeggiamenti in suo onore. Brisset, però, non ha colto l’intento scherzoso dei promotori dell’iniziativa. Nella foto, ci appare come un piccolo uomo anziano, dalla barba bianca, che indossa un paltò e ha un cappello a cilindro sul capo. Gli astanti lo osservano incuriositi e, a giudicare dall’espressione di alcuni di essi, con divertito stupore. Ne hanno motivo, visto il carattere alquanto bizzarro delle idee esposte da questo singolare linguista autodidatta. Spetta soprattutto a scrittori e artisti in vario modo legati al surrealismo il merito di aver valorizzato le sue opere, in apparenza destinate ad un rapido oblio. Così nel 1934 Raymond Queneau include un’ampia scelta di passi di Brisset nella propria raccolta (apparsa postuma) di scritti dei cosiddetti fous littéraires, mentre nel 1946 Marcel Duchamp dichiara grande ammirazione per l’autore, ricordando che «l’opera di Brisset era un’analisi filologica del linguaggio – analisi condotta attraverso un’incredibile rete di giochi di parole». Lo stesso capofila del surrealismo, André Breton, nella nota con cui introduce, nell’Anthologie de l’humour noir, alcune pagine di Brisset, ne giudica l’opera «notevole fra tutte» e segnala il paradosso per cui, se essa «merita di essere esaminata nel suoi rapporti con l’humour, non può in nessun modo passare per umoristica la volontà che la informa. Infatti in nessuna occasione l’autore si discosta dall'atteggiamento più serio ed austero».
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A cura di
Giuseppe Zuccarino è critico e traduttore. Ha pubblicato vari saggi:La scrittura impossibile, Genova, Graphos, 1995; L’immagine e l’enigma, ivi, 1998; Critica e commento. Benjamin, Foucault, Derrida, ivi, 2000; Percorsi anomali, Udine, Campanotto, 2002; Il desiderio, la follia, la morte, ivi, 2005; Il dialogo e il silenzio, ivi, 2008; Da un’arte all’altra, Novi Ligure, Joker, 2009; Note al palinsesto, ivi, 2012; Il farsi della scrittura, Milano-Udine, Mimesis, 2012; Prospezioni. Foucault e Derrida, ivi, 2016. Tra i libri da lui tradotti figurano opere di Mallarmé, Bataille, Klossowski, Blanchot, Caillois e Barthes. Ha inoltre curato un fascicolo monografico della rivista «Riga» (n. 37, 2017) dedicato a Maurice Blanchot.
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START-UP: L’ENTUSIASMO
Serial, Start up / Aprile 2017Il presente: Palazzo di Ghiaccio, Milano, 14 dicembre 2015. Sulle note de “Gli immortali” di Lorenzo Jovanotti e “Lo stadio” di Tiziano Ferro si è svolto a Milano l’Italia Startup Open Summit. L’evento, «impensabile fino a qualche anno fa» nelle parole di Riccardo Luna, presentatore della giornata, è «la festa di Natale delle start-up italiane, un momento di celebrazione di storie di coraggio».
Luna, nuovo direttore dell’AGI e già Digital Champion italiano, dà avvio alla mattinata in un modo spettacolare: con la musica ad alto volume che lo accompagna («[…] E cambieremo il mondo, se cambierà davvero […]») e ripreso frontalmente da una telecamera, percorre di corsa il corridoio del parterre dove è disposto il numeroso pubblico lungo file di sedie, ne cerca lo sguardo e il coinvolgimento, "batte il cinque". La società civile è presente: rappresentanti delle istituzioni locali e nazionali, imprenditori start-up, investitori, giornalisti, grandi aziende, curiosi. L’atmosfera è eccitante, si percepisce «una partecipazione emotiva al bene» (Kant, 1994, p. 167). E il fine comune, ideale e puramente morale qual è? «Un bel percorso che possiamo fare per l’innovazione (enfasi aggiunta) in questo paese», dichiara uno degli autorevoli ospiti della giornata.
Tutto chiaro. O forse no. «Riavvolgendo il nastro», questo frammento etnografico che ha destato una certa meraviglia in chi scrive, invita ad un’interpretazione: di che cosa stanno parlando queste persone? E che cosa stanno facendo? La percezione è di essere spettatori di qualche cosa di singolare, ma già in buona sostanza di senso comune (almeno per alcuni collettivi dotati di un certo capitale à la Bourdieu).
Nel tentativo di fare un po’ di chiarezza, si può iniziare dicendo che nella contingenza attuale un tale linguaggio non è per nulla astruso, ma al contrario assai comune. O meglio, non è astruso nella misura in cui ciò che esprime è una cosa percepita come bella e desiderabile tanto a livello di singolo quanto di collettivo. Di questi tempi, l’innovazione desta una simpatia disinteressata nel pubblico (Ivi., p. 165): d’altronde, chi si spenderebbe contro di essa o chi può non dirsi sedotto da questa parola?
Al tempo stesso però, la significazione di innovazione è oscura proprio in virtù della sua popolarità e della declinazione in campi semantici svariati. A ben pensarci, il segno linguistico “innovazione”, là dove il segno linguistico è l’atto di unificazione di un'immagine acustica ad un concetto, è ovunque. Non corrisponde più soltanto a una pratica economica specifica, ovvero la traduzione di un’idea in un prodotto acquistabile sul mercato, ma a una pratica antropologica, a un certo modo di essere che sembra andare ben al di là della sola sfera di produzione di beni e servizi. L’innovazione è precisamente una disposizione d’animo e la sua confusa significazione linguistica è una metafora, come il linguaggio sa essere, di una trasformazione culturale profonda e in corso (Williams, 1983). Ma qual è dunque il segno di tale trasformazione?
Facciamo ora un passo indietro.
Il passato: Collegè de France, Parigi, 5 gennaio 1983. Durante la prima ora di lezione, Michel Foucault situa ciò di cui intende trattare nel Corso i.e. il governo di sé e degli altri praticando un’ontologia del presente, in continuità con un breve testo di Immanuel Kant: Che cos’è l’Illuminismo? del 1784. Nell’esposizione, Foucault pone in dialogo il tema «dell’uscita dell’uomo da uno stato di minorità di cui egli è colpevole» (Kant, 2012) con un’altra questione molto cara al filosofo tedesco: se e come la specie umana sia in continuo progresso. Più precisamente, Foucault ricorda come Kant, ritornando in varie occasioni sulla questione, nel 1798 abbia posto i lumi in relazione ad un altro evento che «non si può dimenticare» (Kant, 1994, p. 169): la Rivoluzione francese. Nella parte seconda de Il Conflitto delle facoltà del 1798, Kant individua in un avvenimento che lascia un indizio storico, la condizione di possibilità del progresso: «un segno rimemorativo, dimostrativo e prognostico di un progresso costante che trascina il genere umano nella sua totalità» (Foucault, 2009). Ciò che è interessante è la lettura che Kant propone della rivoluzione: se essa è il segno di tale avvenimento, non lo è per «il dramma rivoluzionario in se stesso. […]» (Foucault, 2009) e neppure poiché corrisponde a «importanti fatti o misfatti compiuti dagli uomini. […] No, nulla di tutto ciò» dice Kant (1994, pp. 165). Piuttosto, dobbiamo ricercare una disposizione di base degli spettatori: «una partecipazione, sul piano del desiderio, prossima all’entusiasmo (enfasi aggiunta)» (Ivi., pp. 165-166). E’ propriamente questo entusiasmo che riguarderebbe la totalità di un collettivo[1], secondo Kant, ad autorizzare alcune osservazioni antropologiche.
Innovazione, dunque, quale discorso sull’antropologico e quale questione antropologica che va, cioè, a interrogare un insieme i modi di esistenza individuali e collettivi. Sotto queste spoglie, l’innovazione avanza una richiesta a chi è sensibile al richiamo del suo discorso: di crederci e soprattutto, di credere alla cifra trasformativa, intrinsecamente positiva e perciò desiderabile che lo caratterizza. In questo senso, essa non appare come un discorso tra tanti né business as usual. Al contrario, potrebbe intendersi come un nuovo discorso di tipo fondativo, che si intreccia ad altri e che avanza una precisa richiesta ai soggetti contemporanei: la richiesta di “trasformare se stessi”.
Qual è quindi il problema? «Che c’è di tanto pericoloso nel fatto che la gente parla e che i suoi discorsi proliferano indefinitamente» (Foucault, 1972, p. 9)? La parola “innovazione” è forse un pericolo?
Riprendendo Kant (1994, p. 165), si legge, a proposito del segno storico di un tempo rivoluzionario di cui sopra, quanto segue:
«Si tratta solo del modo di pensare degli spettatori che in questo gioco di grandi trasformazioni si palesa pubblicamente e manifesta a gran voce una generale e tuttavia disinteressata simpatia per i giocatori di una parte contro quelli dell’altra (enfasi aggiunta)».
Ci si può dimenticare cioè, di ciò che è politico, dunque conflittuale. Tornando all’episodio di apertura, in quella giornata di festa delle oltre cinquemila start-up italiane, il primo a salire sul palco è stato il Presidente dell’associazione Italiastartup, Marco Bicocchi-Pichi. «Il papà […] dell’ecosistema», dichiara Luna, «ma alcuni quando parlano dicono anche il Papa, per questo approccio ecumenico (enfasi aggiunta), inclusivo che ha». Ecco allora la comunione e la cooperazione capaci di superare la divisione politica e confessionale rispetto ad un fine comune che può celare il conflitto. Tale attitudine, come vedremo, si riflette bene in alcuni spazi del “discorso dell’innovazione”, per esempio gli spazi di co-working e “l’eco-sistema”, metafora biologica a indicare l’insieme e la varietà degli attori che si mettono al lavoro “per l’innovazione”.
In conclusione, si potrebbe dire che il fascino che evoca e la presa di cui è capace tale discorso rendono difficoltoso l’esercizio di de-soggettivizzazione del soggetto, arte indispensabile, scrive Foucault (2007), al fine di non essere governati eccessivamente.
Bibliografia
Kant, I. (1994), Der Streit der Fakultäten (1798); edizione italiana a cura di Domenico Venturelli: Il conflitto delle facoltà. Brescia: Editrice Morcelliana.
Kant, I. (2012),“Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo?” in Foucault, M. e Kant I., Che cos’è l’Illuminismo. Milano, Mimesis (edizione digitale).
[1] Kant parla di “genere umano” nel suo scritto e lo fa in riferimento alla Rivoluzione francese. La presente riflessione, com’è ovvio, non vuole estendersi a questa totalità. Nonostante sia verosimile che quanto argomentato mostri una certa assonanza rispetto a quanto avviene in altri luoghi nel Nord e Sud Globale, il contributo si limita a una lettura del contesto italiano contemporaneo.
* Parte di questo scritto apparirà in Anna Paola Quaglia, "Innovazione, imprenditorialità, tecnologia: la promessa di una nuova urbanità” in Ambiente, Società e Territorio, 2, 2017
Di Anna Paola Quaglia
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L’arte della similitudine. Foucault e Magritte
Sconfinamenti, Serial / Ottobre 2016È piuttosto insolito incontrare, negli scritti di un pittore, riferimenti ai filosofi. Eppure, nell’ampio corpus di quelli redatti nel corso dei decenni da René Magritte, capita a volte di imbattersi nei nomi di Eraclito, Socrate, Platone, Descartes, Berkeley, Kant, Hegel, Schopenhauer, Marx, Nietzsche, Bergson, Bachelard, Heidegger, Sartre, Merleau-Ponty. Inoltre, anche se i testi dell’artista belga non sono certo di carattere filosofico, in alcuni di essi si può ravvisare un’originale riflessione sul linguaggio. Ricordiamo per esempio un celebre scritto illustrato del 1929, Les mots et les images, che contiene enunciati lapidari come i seguenti: «Un oggetto non è mai tanto legato al suo nome che non se ne possa trovare un altro che gli si adatti meglio»; «Un’immagine può prendere il posto di una parola in una proposizione»; «Tutto tende a far pensare che ci sia scarso rapporto tra un oggetto e ciò che lo rappresenta»; «A volte il nome di un oggetto può sostituire un’immagine»; «In un quadro, le parole sono della stessa sostanza delle immagini»; «Si vedono in un modo diverso le immagini e le parole in un quadro». Date queste premesse, non desta sorpresa il fatto che Magritte si sia affrettato a leggere un libro di Michel Foucault dal promettente titolo Les mots et les choses, senza farsi intimorire dalla mole e dalla complessità della trattazione. Resta strano, però, il fatto che, a poco più di un mese dall’uscita del volume, un pittore anziano e affermato come lui abbia sentito l’esigenza di scrivere a Foucault una lettera al fine di comunicargli le proprie idee su una questione specifica, ossia il tema della somiglianza. In effetti nel libro, riferendosi alla cultura del Cinquecento, il filosofo aveva evidenziato l’onnipresenza, in vari campi del sapere, dell’idea di somiglianza o similitudine...Scarica PDF
A cura di:
Giuseppe Zuccarino è critico e traduttore. Ha pubblicato vari saggi: La scrittura impossibile, Genova, Graphos, 1995; L’immagine e l’enigma, ivi, 1998; Critica e commento. Benjamin, Foucault, Derrida, ivi, 2000; Percorsi anomali, Udine, Campanotto, 2002; Il desiderio, la follia, la morte, ivi, 2005; Il dialogo e il silenzio, ivi, 2008; Da un’arte all’altra, Novi Ligure, Joker, 2009; Note al palinsesto, ivi, 2012; Il farsi della scrittura, Milano-Udine, Mimesis, 2012. Tra i libri da lui tradotti figurano opere di Mallarmé, Bataille, Klossowski, Blanchot, Caillois e Barthes.
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Femminile in un uomo
Lacaniana, Serial / Aprile 2015«Che ne è del femminile nell'analisi di un uomo?» Domanda tutt’altro che semplice e ingenua quella postami da una collega psicoanalista e che dava il là a queste note. Tale domanda infatti presuppone non solo che il femminile riguardi un uomo, non meno di una donna, ma anche che l'esperienza analitica possa incidere sul modo in cui un uomo può fare posto e trattare il femminile che lo abita piuttosto che espellerlo sulla via di quelle che, con Freud, possiamo chiamare le “insegne falliche”. Lungi dall'essere riducibile all'organo sessuale maschile, il fallo è piuttosto quel simbolo che, nel linguaggio, viene a rappresentare ciò che l'essere parlante incontra come mancanza fondamentale che specifica del suo essere al mondo. In un certo senso la scoperta freudiana dell'inconscio va di pari passo alla constatazione che, a livello dell'inconscio, esiste una certa “democrazia” tra i sessi per ciò che concerne il fallo. Proprio in quanto il fallo non coincide con l'organo, il pene, esso riguarda entrambe i sessi, pertanto, almeno per il discorso analitico, non è su questo piano che si può operare la differenziazione sessuale tra maschile e femminile. Il fallo è una risposta in termini di avere/non avere a una questione che concerne l'essere nel suo rapporto con il reale del sesso e, al contempo, con il linguaggio in cui esso viene al mondo. Il fallo, dunque, apre e struttura il campo della significazione dell'esperienza umana, introducendo il soggetto a una dialettica fondata sul dono, dialettica che, per quanto illusoria, renderebbe possibile lo scambio tra l'uno e l'altro.
Concepire la differenza tra maschile e femminile a partire dalla logica fallica, logica binaria, fondata sull'opposizione di un più a un meno, lascia aperta l'idea o quanto meno l'illusione che tale differenza sia “eliminabile” in base a un principio di parità tra i sessi del tipo: “Ciò che non ho oggi potrò averlo un domani o, al rovescio, ciò che ho posso prodigarmi a donarlo all'altro, riconosciuto come sprovvisto di tale bene”. Si tratta della dialettica dello scambio che, lungi dall'essere istintivamente predeterminata o “naturale”, tenta di organizzare il rapporto tra gli umani delimitandone il campo della più parte delle manifestazioni cosiddette affettive che presiedono alle condotte dell'individuo nel rapporto coi suoi simili: gelosia, invidia, aggressività, oblatività, amore narcisistico... In questo senso la logica fallica tenderebbe a situare la differenza sessuale lungo una scala graduata che va dal più al meno, in una sorta di gerarchia che determina anche tutte le sfumature immaginarie del potere. Come detto poco fa non è tuttavia su questo piano che, già a detta di Freud, si iscrive la differenza tra maschile e femminile, non meno che sul piano dei caratteri primari che ci si ritrova tra le gambe o, ancora, a partire della prevalenza di una lettera X o Y scritta geneticamente su un'elica alla quale oggi l'essere parlante cerca sempre più di ancorare il suo destino.
Lacan, riprendendo la lettera freudiana, esplora inizialmente la differenza tra i sessi passando anch'egli attraverso la dialettica del fallo, ma operando al contempo uno spostamento e una nuova condensazione rispetto al Freud che troviamo nel testo La significazione del fallo. In relazione al fallo l'uomo si situerebbe dal lato dell'averlo, a differenza della donna che viceversa tenderebbe a collocarsi dal lato dell'esserlo. Queste due differenti posizioni in relazione al fallo specificherebbero la commedia dei sessi e tutta la parata amorosa, soprattutto per ciò che concerne la dimensione del desiderio che interviene tra il maschile e il femminile, qui presi come posizioni sessuate al di là del sesso “biologico”. Biologico è qui tra virgolette in quanto, per ciò che concerne l'essere parlante, il ritrovarsi dal lato uomo o donna non può prescindere dal linguaggio, dalla dimensione simbolica e da come ciascuno, letteralmente, la incarna. Per tale ragione, almeno per il discorso analitico, è improprio parlare di identità sessuale, per il semplice fatto che rispetto all'assunzione del sesso entra in gioco un impossibile, l'impossibile di fare Uno. Il sesso non solo non fa identità ma, al rovescio, è proprio ciò su cui ciascun soggetto incontra la sua disparità assoluta, l'alterità sia nel rapporto con l'altro da sé che in se stesso.
Ebbene, sia in Freud che in Lacan, il femminile, proprio perché non prendibile nella logica regolata dal fallo, a cui può essere invece ricondotto il maschile, si presenta come l'alterità per eccellenza, come quel “continente nero” che sfugge alla presa da parte del simbolico, del linguaggio e che piuttosto rinvia al reale del corpo godente. Lacan non indietreggerà di fronte a questo “continente nero” e negli ultimi anni del suo insegnamento riprenderà la questione del femminile proprio a partire dall'elaborazione di un godimento Altro non regolato e sottomesso alla logica fallica, godimento caratterizzato da una certa infinitezza a cui una donna, non meno di un uomo, può accedere senza tuttavia poterne dire niente poiché strutturalmente imprendibile dal linguaggio. Lacan esplorerà il godimento propriamente femminile non solo a partire dall'elaborazione dell'esperienza analitica, ma anche attraverso lo studio delle testimonianze di alcuni mistici, quali San Giovanni della Croce e Santa Teresa D'Avila.
Torno ora alla domanda di partenza postami dalla collega: «Che ne è del femminile nell'analisi di un uomo?». Non saprei! Ciò che tuttavia da questo non sapere posso dire è che l'analisi si è per me caratterizzata come una sorta di percorso a ostacoli, dove ogni ostacolo rappresentava l'identificazione inconscia prelevata nel campo dell'Altro a cui il mio essere si era come abbarbicato nell'impossibile tentativo di darsi un'identità, un Io con cui rispondere alla meno peggio al proprio essere nel mondo. Ebbene l'analisi, con mia grande sorpresa e non senza orrore, conduceva alla caduta di queste identificazioni che, in ultimo, scoprivo ruotare attorno a un unico perno, a un'identificazione primaria agita rispetto al padre, inteso qui come funzione più ancora che come individuo. La caduta di queste identificazioni “falliche”, su cui tanto il sintomo quanto l'Io si sostenevano, lasciava ora il posto al confronto con un altro “substrato identificatorio” che, con Freud, potremmo chiamare identificazioni per “appoggio” o anaclitiche, radicate in misura maggiore al legame col materno, legame tanto oscuro quanto difficile da sbrogliare, per il carattere tenace di un attaccamento ancorato più alla parzialità di alcuni oggetti afferenti al corpo (bocca, ano, sguardo, voce) che al linguaggio, ovvero all'Altro simbolico. Allora se qualcosa del femminile ha potuto trovare posto nella mia analisi è stato non solo nell'andare appunto al di là delle identificazioni falliche inconsce su cui l'Io si sosteneva, ma anche operando il distacco da quegli oggetti parziali su cui il soggetto basava la sua singolare e ripetitiva modalità di godimento. In questo litorale ritagliato tra il linguaggio ridotto alla sua dimensione di catena significante insensata e il corpo preso non tanto nella sua forma o immagine quanto nella sua esperienza pulsionale, il femminile poteva tratteggiarsi quale effetto “leggero” di un atto che apriva al nuovo, all'impensato, all'inedito, all'intima alterità.
Il fatto che il femminile non si possa dire non toglie tuttavia che, a posteriori, ogni soggetto, uno per uno, non possa rintracciare le contingenze in cui tale incontro avrà potuto effettuarsi. Almeno questo è quanto Freud, prima, e Lacan, dopo, invitano gli analisti a fare. Forse le colleghe analiste potranno, ancora una volta e un domani, tornare a dirne ulteriormente qualcosa e a interrogare i colleghi analisti proprio su questo enigma.
di Sergio Caretto
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Corpo e linguaggio
Lacaniana, Serial / Gennaio 2015Jacques-Alain Miller (2006a), nel commento al Seminario XXIII – Il sinthomo di Lacan (2006a), sottolinea che, da un punto di vista psicoanalitico, «il corpo è paragonabile a un ammasso di pezzi staccati. Non ce ne rendiamo conto tanto che restiamo catturati dalla sua forma, tanto che la pregnanza della sua forma impone l’ideale della sua unità» (p. 13). Lo statuto primitivo del corpo, contrariamente all’evidenza del visibile, è infatti di essere in pezzi staccati e, affinché il bambino possa percepire il proprio corpo come una unità, occorre che sia passato attraverso quello che Lacan (2002a) considera un vero e proprio «crocevia strutturale» (p. 107) nello sviluppo. Nel 1936, riprendendo le ricerche sperimentali sulla percezione compiute da Henri Wallon, Lacan indica con il nome di stadio dello specchio quella fase in cui il lattante, tra i sei e i diciotto mesi, ancora immerso in uno stato di frammentazione, impotenza e di prematurazione fisiologica, risponde in modo giubilatorio alla vista della propria immagine riflessa nello specchio. L’immagine speculare permette al bambino un primo riconoscimento, una prima identificazione e, contemporaneamente, segna uno iato incolmabile poiché egli non potrà mai ricongiungersi all’immagine che lo specchio gli rimanda. Scrive Lacan (2002b): «questa Gestalt […] simbolizza la permanenza mentale dell’io e al tempo stesso ne prefigura la destinazione alienante» (p. 89). In questo passo, possiamo già trovare l’idea del soggetto lacaniano come strutturalmente diviso ed è per questa via che Lacan (2002a) sottolinea la dimensione tragica dello stadio dello specchio, la cui essenza è quella di essere una «lacerazione originale» (p. 110) in cui l’essere del soggetto è per sempre separato dalla sua proiezione ideale.
Da una parte, dunque, lo stadio dello specchio permette quell’operazione simbolica che offre al soggetto la possibilità di individuarsi come un “io” mentre, dall’altra, è ciò che lo divide irrimediabilmente dalla sua immagine. È a questo livello che si pone la «Spaltung tra il moi che viene a costituirsi e il soggetto dell’inconscio je, che non si lascia reperire nell’immagine speculare, e che troverà modo di presentarsi nei punti di vacillamento dell’io» (Cosenza, 2003, p. 23-24). Nell’analisi di questo momento così importante nella costituzione dell’immagine del corpo Lacan evidenzia il ruolo fondamentale e preliminare svolto dalla madre: ella è colei che tenendo in braccio l’infans gli indica che l’immagine che lo specchio rimanda è la sua. È quindi attraverso l’azione operata da un elemento terzo – in questo caso la madre – eterogeneo alla dimensione della similarità, che «il soggetto si pone come operante, come umano, come io (je), a partire dal momento in cui appare il sistema del simbolico» (Lacan, 2006b, p. 66).
Quanto detto mette in rilievo come il corpo si strutturi a partire dall’apporto dell’immagine e l’esperienza del corpo in frammenti, di cui testimoniano i soggetti schizofrenici, si pone come caso paradigmatico degli effetti provocati dal non accesso alla funzione unificante dell’immagine speculare. Per Eva, una ragazza schizofrenica, per esempio il corpo è piuttosto il luogo di un ritorno nel reale della libido: Eva in certi momenti di vacillazione deve cingere la testa con una fascia perché possa avere la tranquillità «che tutto ciò che è all’interno della testa resti dentro». Quando il bambino viene al mondo, viene già al mondo nel campo dell’Altro simbolico ed è il simbolico che per Lacan costituisce uno dei tre registri, oltre all’immaginario e al reale, che presiede alla nascita e alla formazione del soggetto. Il simbolico, in particolare, è ciò che umanizza il soggetto sottraendolo alla condizione di puro vivente per immetterlo nel legame sociale.
Nelle Due note sul bambino, Lacan (1987) ci dice che il bambino diventa soggetto solo tramite il desiderio dell’Altro, cioè a partire dal modo in cui la madre, il suo Altro primordiale, ne ha fatto causa del proprio desiderio. Da ciò si coglie che il corpo per l’essere parlante non è più solo un organismo, prodotto di puri bisogni biologici, ma è la risultante della relazione che intercorre tra l’organismo di un vivente e l’Altro del linguaggio. È quindi il simbolico a trasformare l’organismo in corpo e il parlare di corpo implica una trilogia che comporta, oltre al corpo, la parola e l’essere. Per un verso, l’entrata nel campo del linguaggio fa pertanto perdere all’umano lo statuto di essere naturale ma, contemporaneamente, fa guadagnare al corpo uno statuto inedito perché diviene tempio della pulsione: «Come tempio della pulsione il corpo è libidicamente erotizzato, sublimato, sessualmente portatore di una differenza che fa problema, sede di un desiderio che ha fonte in quella perdita di godimento che è correlativa alla iscrizione stessa del simbolico. Ma il corpo è anche ciò che patisce di “quello che non va” e che Lacan chiama “il reale”. È questo reale che si manifesta nel sintomo e che insiste rendendo sofferente il corpo come un impossibile da sopportare ma di cui però non si riesce a fare a meno: “godimento”, lo chiama Lacan» (Miller, 2006b, p. 8).
Bibliografia:
Cosenza, D. (2003). Jacques Lacan e il problema della tecnica. Roma: Astrolabio.
Lacan, J. (1987). Due note sul bambino. La Psicoanalisi, 1, 22-23.
Id. (2006a). Il seminario. Libro XXIII. Il sinthomo (1975-1976). Roma: Astrolabio.
Id. (2006b). Il seminario. Libro II. L’io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi (1954-1955). Torino: Einaudi.
Id. (2002a). Aggressività in psicoanalisi (1948). In Id., Scritti. Vol. 1. Torino: Einaudi.
Id. (2002a). Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io In Id., Scritti. Vol. 1. Torino: Einaudi.
Miller, J.-A (2006a). Pezzi staccati. Introduzione al seminario XXIII “Il sintomo”. Roma: Astrolabio.
Id. (Ed.) (2006b). Gli imbrogli del corpo. Roma: Borla.
di Monica Buemi