Un bellissimo film uscito ormai più di vent’anni fa e diretto da Alejandro Aménabar racconta la storia di una famiglia composta da una madre, Grace (interpretata magistralmente da un’incantevole Nicole Kidman), e dai suoi due bambini alle prese con delle strane presenze, degli spiriti che infestano la loro casa di campagna. Dai disegni inquietanti della figlia più piccola, Anna, la madre capisce che la loro dimora è abitata da quella che sembra a tutti gli effetti essere un’altra famiglia: un padre, un’altra madre, un bambino e una quarta figura che Anna dice essere una strega. L’arrivo di due misteriosi anziani signori che si propongono come domestici, il ritrovamento di un album fotografico del diciannovesimo secolo in cui, secondo un’antica usanza, persone decedute vengono ritratte in posa come se fossero vive e l’insistenza ossessiva, da parte di Grace, di non far mai entrare neanche uno spiraglio di luce nelle stanze della casa, poi, sono solo alcuni degli elementi che scandiscono l’incedere di un thriller psicologico tra i più avvincenti e originali, e contribuiscono a rendere The Others (2001) un horror che non si limita a riproporre il classico topos della casa stregata ma, anzi, arriva a sovvertirlo.
In un raccapricciante susseguirsi di scene al cardiopalma, infatti, lo spettatore è accompagnato verso l’agghiacciante realizzazione, da parte di Grace, che in realtà la vera famiglia di spettri che infesta la sua residenza è proprio la sua. Lei e i suoi figli – colpo di scena – sono i veri fantasmi, e la strega che terrorizza la sua bambina è in verità una medium al soldo dell’altra famiglia, quella che si rivela essere nel sorprendente finale una famiglia di persone vive e vegete, benché spaventate a morte. Se si trovano lì, infatti, è solo perché hanno comprato una casa di campagna nella quale era stato compiuto un crimine ignominioso: un doppio infanticidio del quale la responsabile è Grace stessa, che dopo aver soffocato i figli aveva deciso, in preda alla disperazione, di suicidarsi…
Ma lo stesso espediente narrativo per cui il protagonista di una storia di fantasmi si scopre essere, alla fine, un fantasma esso stesso lo incontriamo anche in un altro film, ben più celebre e uscito solo due anni prima: Il sesto senso (1999). Qui Bruce Willis veste i panni di uno psicologo, Malcolm, che aiuta il piccolo Cole a superare l’orrore che gli impedisce di vivere: il bambino è infatti dotato del potere soprannaturale di entrare in contatto con i morti, e la cosa (giustamente) lo terrorizza. Dopo avergli spiegato che i fantasmi lo contattano perché lui, Cole, ha il potere di ascoltarli e quindi di regolare i conti in sospeso che questi hanno lasciato nella loro vita terrena, giunge anch’egli alla fine a realizzare di essere un fantasma. E così, nella celeberrima scena finale, Malcolm si accorge di essere lo spirito disincarnato di sé stesso quando scopre che la moglie, che durante tutto il film sembrava semplicemente ignorarlo e fare finta che egli non esistesse come a seguito di una lite, è in realtà letteralmente incapace di percepirne la presenza in quanto lui, ormai da molto tempo, ha smesso di vivere. Solo Cole, dotato del potere di comunicare con i deceduti, ha davvero interagito con lui durante tutto il film.
Ora: c’è una logica ben precisa che fa funzionare le sceneggiature di questi due film così bene, un criterio che impedisce di far si che i protagonisti realizzino anzitempo, ovvero prima del colpo di scena finale, che tutte le loro azioni sono mosse, in ultima analisi, dal fatale misconoscimento della loro natura di spettri. Ne Il sesto senso è lo stesso Cole a riferire a Malcolm, nell’iconica scena in cui pronuncia la celebre frase “vedo la gente morta…”, la formula di questa logica. I fantasmi dei morti, sussurra il bambino, “vedono solo quello che vogliono vedere”.
Non c’è forse formula migliore di questa per richiamare il tema centrale del quattordicesimo seminario di Lacan, “La logica del fantasma”[1], recentemente – e finalmente… – pubblicato anche in italiano da Einaudi. E quella di Cole è a tutti gli effetti una massima che potrebbe ben figurare accanto ad altri mantra nel formulario psicanalitico lacaniano, come quella che recita “l’inconscio è strutturato come un linguaggio”, o ancora “non esiste rapporto sessuale”. Dire che “i fantasmi vedono solo quello che vogliono vedere” può ben fungere infatti, come queste altre espressioni ormai divenute idiomatiche, da bussola per orientarsi nel fitto labirinto di riflessioni filosofiche e di acrobatiche cogitazioni psicanalitiche che infarciscono i testi di Lacan, e al netto dell’assonanza tra il fantasma che compare nel titolo di questo quattordicesimo seminario ed i fantasmi protagonisti dei due film che abbiamo richiamato. Questo perché il termine francese “fantasme”, che in italiano viene tradotto con “fantasma”, non ha (quasi) nulla a che fare con gli spettri, con i poltergeist in quanto tali – soprattutto da un punto di vista linguistico, in quanto gli spiriti dei morti che appaiono a mezzanotte nei castelli disabitati, sotto forma di lenzuoli volanti o di sagome traslucide, in francese si chiamano fantômes. “Fantasme”,al contrario, è un termine tecnico che nel linguaggio lacaniano indica la dimensione fantasmatica del soggetto, la coappartenenza o la coincidenza strutturali di questo alle sue facoltà immaginarie e simboliche ovvero la sua reale (per quanto spettrale) consistenza ontologica. La stoffa metafisica della soggettività così come questa è intesa dalla psicoanalisi, infatti, è irriducibile a qualsivoglia riduzione deterministica e ben si presta ad essere còlta nei termini del fantasticare, della fantasia e del fantastico. Di qui, insomma, la scelta strategica del temine-chiave francese “fantasme” che, se da una parte segna tutta la distanza possibile tra la disciplina freudiana e le neuroscienze (impegnate nella localizzazione cerebrale, e quindi nella riduzione fisica, delle facoltà psicologiche), dall’altra costringe ognuno di noi a misurarci con la stessa sconcertante verità che coglie Grace e Malcolm alla fine di The Others e Il sesto senso. Anche noi, come loro, conduciamo esistenze fondamentalmente illusorie, annaspiamo nell’inconsapevolezza di noi stessi e anche noi, in fondo, siamo fantasmi che vedono solo quello che vogliono vedere.
Il fulcro della questione, va da sé, come si tratterà di scoprire nel corso del seminario su La logica del fantasma (come nel corso di una psicoanalisi, ma questo è un altro discorso…), sta in quel “vogliono”, in ciò che anche noi vogliamo, e nel grado di consapevolezza riguardo a quei moti più reconditi del nostro stesso spirito che noi, come loro, siamo disposti a tollerare. Grace e Malcolm infatti sono fantasmi, ma in quanto fantasmi inconsapevoli (leggasi: inconsci) il loro stesso essere è confuso durante tutta la durata del film con i pensieri che questi possono e non possono fare. Il loro essere (termine-chiave per la filosofia del novecento, e riferimento imprescindibile per Lacan che non ha mai smesso di guardare ad Heidegger – il filosofo dell’Essere – come ad un maestro) si sostiene quindi su di un regime, su di una logica per l’appunto, che impone un rigido ordine di pensabilità (e quindi di speculare non pensabilità) da cui dipende niente di meno che la tenuta stessa della loro esistenza. E il centro, il nucleo della profonda meditazione condotta nel seminario La logica del fantasma è proprio questo rapporto, oscuro e vertiginoso, che sussiste tra il pensiero, l’inconscio e l’essere dell’ontologia – rapporto dal quale dipende la struttura logica del nostro volere, delle cose che vogliamo vedere e quindi, in senso lato, il nostro stesso essere.
Sarebbe davvero impossibile provare a riassumere il contenuto o anche solo proporre una breve rassegna ragionata dei temi trattati ne La logica del fantasma, seminario tra i più ricchi dell’intera avventura didattica aperta al pubblico presieduta da Lacan, a Parigi, ogni mercoledì dal 1953 al 1980. Basti dire a tal riguardo che questo corso, che si tiene a cavallo degli anni 1966 e 1967 e che costituisce un unicum con quello dell’anno successivo dedicato all’atto analitico (la cui pubblicazione in italiano è attesa per l’anno prossimo), è quello in cui la questione della formalizzazione logica dell’inconscio entra nella sua fase più viva. Certo, quest’operazione ha da sempre costituito l’obiettivo ultimo dell’approccio di Lacan alla psicoanalisi ed era stata da lungo approntata dal lavoro compiuto nel corso degli anni precedenti. Ma se nel seminario su Ildesiderio e la sua interpretazione[2] quest’impresa sembrava essere giunta ad un risultato soddisfacente, con l’elaborazione del grafo del desiderio, nell’anno successivo aveva subito una forte battuta d’arresto ed era entrata in una fase di stallo nella misura in cui l’accento, li, veniva spostato sul godimento. Al corpo intessuto di quella che in lacanese si chiama jouissancee alle sue zone erogene, ovvero al versante pulsionale, ingovernabile ed incandescente della psiche umana, Lacan aveva infatti associato, nel seminario sull’Etica della psicanalisi[3] in cui si consuma questa svolta epocale nel suo insegnamento, il concetto più problematico dell’ontologia heideggeriana: Das Ding. Lo psichiatra francese innestava in questo modo la vexata quaestio del trascendentalismo kantiano (benché mediata dalla lettura esistenzialista di Heidegger) sul corpus freudiano, e rivoluzionava così la psicanalisi in modo talmente radicale ed originale da condannare intere generazioni di psicoanalisti e di filosofi a seguirlo, come uno sherpa metafisico, nelle sue impervie escursioni nel campo di un inconscio, secondo la fortunata formula di Colette Soler, completamente reinventato. Di lì in poi infatti tutti i tentativi di tradurre logicamente i processi psichici e di fondare, in ottemperanza al mandato strutturalista, una scienza il più esatta possibile della psiche umana saranno drammaticamente destinati ad un fallimento speculativo a dir poco delizioso, e ad una disfatta (filosofica in senso lato) tanto inesorabile quanto sublime. Inesorabile, in quanto si rivelerà inattuabile rendere conto di quegli eventi imperscrutabili che sono i desideri ed i godimenti umani in assenza di un saldo fondamento ontologico (e Heidegger, com’è noto, di fondamenti ontologici non ne offre…), e sublime in quanto proprio il tracciato, la mappa di queste stesse sconfitte della ragione andranno a delineare il profilo, la sagoma del sapere psicanalitico – un sapere per definizione zoppicante, incompleto ed imperniato sull’impossibile…Ma di lì in poi, allo stesso tempo, tra desiderio e godimento andrà a scavarsi una voragine che porrà questi due poli della soggettività in un’opposizione sempre più radicale tra di loro.
Sono queste, anche se davvero in breve, le ragioni che decretano la necessità di elaborare il concetto di fantasma ovvero di ciò che funziona come uno schermo che si frappone tra il soggetto e la realtà che questi vive.E Lacan, in questo seminario, tratta di questo fantasma e della logica che lo governa alla stregua di una matrice algoritmica (di cui la sezione aurea, alla quale vengono dedicate pagine e pagine tra le più confusive, non è che una metafora dal forte valore evocativo) che organizza, scandendolo in partizioni ben definite e non ulteriormente scomponibili, il rapporto del soggetto con i suoi oggetti secondo modalità che sono indipendenti, e in un certo senso anteriori, sia al desiderio che al godimento. Per questo Il mathema del fantasma è formulato così: $◊a, e rappresenta graficamente il rapporto (simbolizzato dalla losanga: ◊) del soggetto ($) con la panoplia di oggetti piccoli a dai quali trae come per luce riflessa quel che si potrebbe intendere, anche se non senza qualche riserva, come la sua vera e propria sostanza. Ma se gli oggetti piccoli a sono oggetti di cui il soggetto può godere, o che il soggetto può desiderare, quel che è più importante è che il soggetto non abbia la benché minima idea – come i protagonisti di The Others e Il sesto senso – dei meccanismi che presiedono al rapporto che questi intrattiene con loro. D’altronde i fantasmi, come dice Cole a Malcolm, “vedono solo quello che vogliono vedere”, ma non sanno davvero cosa vogliono, altrimenti non esisterebbe l’analisi…
Sullo sfondo di tutto ciò, e per meglio capire quel che c’è in ballo in questo seminario, vale la pena ricordare quello che è il grande tema che accompagna ogni dibattito filosofico di quegli anni, il problema attorno al quale si avvolgono come in una matassa tutti i fili che intessono la trama della temperie culturale parigina degli anni sessanta e settanta: la destituzione del cogito cartesiano. Lacan ritrova infatti proprio nella psicanalisi, e in quegli stessi anni, un punto di vista elettivo per operare lo smantellamento del cogito ovvero del soggetto moderno, il soggetto della scienza al quale siamo tutti innegabilmente debitori ma che troppo presto, e incautamente, trae la sua folle conclusione: ergo sum. Certo, questo è il soggetto al quale si deve tanto lo sviluppo del sapere scientifico quanto l’avanzamento tecnologico che hanno innalzato l’uomo da uno stato di quasi totale servaggio nei confronti della natura, e di insicura e frugale sussistenza, ad una condizione di dominio della stessa che non trova pari nel mondo animale. Ma la storia del novecento, con le sue trincee e le sue fabbriche di morte, aveva reso ormai palpabile già nel secondo dopoguerra come questo dominio, ed il mito del progresso che alimenta, non fossero altro che il volto imbellettato della più turpe violenza dell’uomo cogitante contro la natura e contro sé stesso. All’impostura del cogito, negli anni in cui Lacan tiene il suo seminario, è imputata allora l’accusa di essere il dispositivo mitopoietico che nel promettere all’uomo il suo essere più autentico non gli riconsegna altro, oltre che al suo ben-essere materiale, se non la smorfia feroce della sua bestialità. Non a caso si profila proprio in quegli anni (siamo in piena Nietzsche reinassance, tant’è che a Nietzsche, in Francia, ogni filosofo che voglia dirsi tale dedica almeno un libro: Foucault, Deleuze, Klossowski, Bataille, per citarne solo alcuni…) l’idea che la storia dell’umanità, la genealogia delle sue morali ed il cammino verso le progressive e magnifiche sorti della stessa sia una storia raccontata solo a metà, una narrazione filtrata dagli interessi di chi, ancora, “vede solo quello che vuole vedere”, ovvero di chi nel celebrare la ragione e nell’esercitare la disciplina si dimentica della follia e trae un piacere perverso dall’infliggere macabre punizioni (si pensi, ovviamente, ancora a Michel Foucault). Una storia, quella del destino di un continente intero e delle sue propaggini che vanno ben al di là dei suoi confini geografici, che è una storia di progresso materiale e civile vero, innegabile, ma sulla quale grava da sempre una fatale e silenziosa rimozione che ha, in gergo psicanalitico, il sapore di un rifiuto (ververfung) senza tempo. Il disagio della civiltà, il nichilismo quale approdo ultimo della cultura europea e la ridda di nevrosi che recinge la vita civile si rivelano essere allora le spie, le timide avvisaglie di una più grande rivelazione ontologica che la finzione del cogito cartesiano aveva impedito di giungere alla luce, e che in quegli stessi anni assurge a tema portante l’intera riflessione filosofica in Europa. Anche Lacan, dal canto suo, partecipa a quest’avventura intellettuale che mira a dissodare il fondo inumano ed impersonale[4] della soggettività e lo fa, da psicoanalista, percorrendo la via dell’inconscio. Restando in ascolto dell’inconscio dei suoi analizzanti sdraiati sul lettino in 5, Rue de Lille, Lacan riesuma così a suo modo, dal suo millenario oblio, la questione che si pone al di là del cogito e che ci ingiunge di ripensare l’uomo, la sua surreale sostanza, la sua posizione nel mondo, il suo rapporto con la storia (sia collettiva che singolare) e la sua pensabilità, la questione – per essere più precisi – dell’Essere.
“L’essere dell’uomo”, dice Lacan in una lezione di questo quattordicesimo seminario – del quale si rischia di non capire nulla se prima non si è inquadrata, da un’angolazione grandangolare, l’altissima posta in gioco filosofica – “ha un nome” e “per scoprire questo nome, e quello che designa, basta uscire di casa un giorno, in campagna, per fare una passeggiata. Attraversando la strada si incontra un camping, e tutt’attorno al camping, a demarcarlo con un cerchio di scorie incontrerete quell’essere verworfen (rigettato, ndr) dell’uomo che riappare nel reale. Si chiama detrito”[5].
Ora: se la funzione del fantasma consiste precisamente, come abbiamo già detto, nell’ottundere il rapporto percettivo e fenomenologico del soggetto con il mondo affinché esso giunga all’essere dimidiato (scisso tra un versante conscio ed uno inconscio, come ben raffigurato dal suo mathema: $), ovvero al prezzo di vedere solo quello che vuole vedere, va da sé che l’essere dell’uomo in quanto detrito è ciò cheviene rigettato nell’inconscio perchéè esattamente quello che il soggetto non vuole vedere. Ed è proprio qui che risiede il nucleo, il cuore pulsante di tutta la disamina del fantasma e della sua logica condotta da Lacan nel seminario in questione.
Certo, non si faticherà a riconoscere come tutto questo ci riporti per l’ennesima volta a Freud, come tutto questo non consista in altro se non nel ritornareda una parte alla negazione freudiana[6] (vero e proprio punto archimedeo dello psichismo) e, dall’altra, a quel celebre breve articolo apparso nel 1917 in Imago[7], in cui il padre della psicanalisi sostiene che il progressivo sviluppo della conoscenza, in occidente, abbia avuto come sua diretta conseguenza l’umiliazione narcisistica dell’uomo (in quanto le tre ferite narcisistiche infertegli prima da Copernico, poi da Darwin e infine da Freud stesso lo hanno costretto a ridimensionare la sua supposta centralità nel cosmo, costringendolo a vedere proprio quello che non voleva vedere)…Ma che cos’è, in fondo, tutta l’opera di Lacan se non un perpetuo ritorno a Freud?
Lungi dal profilarsi come una mera riproposizione o rimasticatura dei temi freudiani, quel che compie Lacan nel suo percorso intellettuale, ed in modo eminente ne La logica del fanatasma, è una sorta di traduzione, di aggiornamento o di rivitalizzazione del testo originario. In questo seminario si rileva infatti, e con grande brio intellettuale, la mutua embricazione di psicanalisi e filosofia, si pongono l’ontologia e la questione dell’Essere al cuore della psiche umana e si cala il dibattito sulla soggettività, della sua emergenza e del suo sviluppo, entro precise coordinate storiche. Ne emerge così l’idea assolutamente originale (e destinata a sedurre generazioni di studiosi) per cui l’intreccio tra il pensiero, l’essere e l’inconscio sia governato da una ferrea logica, da una specifica ontologia che si sostiene sull’esclusione, sul rigetto della componente più scabrosa e ripugnante del soggetto stesso. E che questi, rampollo dell’epoca moderna ed imbevuto di umanesimo e civiltà, si rifiuti di accogliere proprio la verità metafisica che gli si impone, che gli si rivela in quanto egli vive in un’epoca segnata dalla predominanza di quello che Lacan chiama il discorso della scienza. Un discorso, quello del materialismo e del riduzionismo assurti a uniche fonti di verità, che ordina a chiunque giovi degli innegabili frutti prodotti dal progresso tecnico-scientifico di accettare, a mo’ di scotto, il proprio essere essenzialmente e senza riserve lo scarto, l’inutile avanzo di processi impersonali ed anonimi che, a guardarli bene, fanno convergere su di un orizzonte assolutamente insignificante tanto il destino del soggetto quanto quello del mondo intero. “L’orrore della relazione con la dimensione dell’inconscio”, dice Lacan a tal proposito, “è tale che […] tutto è permesso all’inconscio…tranne articolare dunque io sono”[8].
E così, forte della lezione heideggeriana sull’esito nichilistico della storia occidentale ed in aperta polemica con il concetto marxista di alienazione (“È chiaro che l’alienazione nel senso marxista non ha nulla a nulla in comune con ciò che, per essere precisi, non è altro che confusione”)[9], con la fenomenologia (abbagliata dal miraggio della Selbstbewusstein, l’autocoscienza) e con la filosofia esistenzialista di Sartre (al quale, avendo affermato in una celebre pièce teatrale che “l’inferno sono gli altri”, risponde con un sonoro: “Se l’inferno è da qualche parte, si trova in Io”[10]) Lacan si impegna a fornire qui gli strumenti concettuali utili a mostrare le dinamiche sottese alla quotidiana impostura che chiamiamo la nostra identità, ai raggiri che architettiamo per assicurarci le nostre (in)soddisfazioni e, in breve, ai fantasmi che ci burattinano. Gli stessi fantasmi, cioè, che occultano il segreto più inaccettabile, più osceno e scabroso della psicanalisi: la struttura sadica e masochistica che giace al fondo dell’animo umano[11] e che condanna ognuno di noi alla ricerca, spasmodica e vana, di soddisfazioni artificiali e sintetiche. Ed è proprio in questo corso, infatti, che Lacan porrà le fondamenta concettuali per la sua originalissima e pirotecnica critica alla società dei consumi, quell’assemblaggio frankensteiniano di Hegel, Freud e Marx che giunge a maturazione nei seminari degli anni successivi, in concomitanza con l’esplosione a Parigi della grande contestazione e quasi come in risposta agli attacchi mossi al suo indirizzo da Deleuze e Guattari nell’Antiedipo.
Per concludere queste brevi riflessioni che, lungi dal voler sintetizzare il contenuto de La logica del fantasma, si limitano a richiamarne alcuni snodi concettuali decisivi, vale la pena menzionare un paio di ragioni per cui crediamo che questo seminario, cronologicamente a dir poco datato, abbia ancora molto da dire e offra più di uno spunto utile per comprendere il presente in cui viviamo. Al lettore attento, infatti, non sfuggirà come due temi di stringente attualità, due veri e propri fantasmi del mondo contemporaneo, compaiano fugacemente, come lampi, in queste lezioni tenute nell’anno accademico 1966 – 1967 e ripubblicate oggi, a distanza di più di cinquant’anni. L’impressione a dir poco perturbante che accompagna la lettura di questi passi è quella di un Lacan redivivo che torna, come uno spettro, dal regno dei morti per indicarci l'assurdità e l’apparente infondatezza di due delle illusioni che infestano il mondo contemporaneo. Ci riferiamo alla negazione del dimorfismo sessuale, così come questa viene propugnata in alcuni circoli (sedicenti) intellettuali, e all’illusione che soggiace al culto tecnopagano dell’Intelligenza Artificiale.
Se nel primo caso è vero che il tema dell’orientamento sessuale e dell’identificazione con uno dei due sessi (“gender”, in quegli anni, non era una parola in uso) verrà sviluppato più a fondo nei seminari degli anni seguenti e che manchi, ne La logica del fantasma, un vero approfondimento in merito, è comunque interessante notare come Lacan si riferisca in una lezione di questo quattordicesimo seminario al dimorfismo sessuale come all’“idea infernale di Dio”[12]. E se è interessante notarlo è proprio perché oggi, a mezzo secolo di distanza, la negazione del dimorfismo sessuale avallata dai gender studies tradisce un evidente orrore, per riprendere le stesse parole di Lacan citate più sopra, della relazione con la dimensione dell’inconscio. Disconoscere la realtà della differenza sessuale in tutta la sua inemendabile ed inaggirabile evidenza, infatti, non può essere che una questione relativa alle fantasie, alle fantasticherie e ai fantasmi che circolano in certi ambenti accademici. Ambienti in cui la mera constatazione di un fatto elementare come la differenza biologica tra maschi e femmine viene sovrainvestita di significati politici ed è intesa, in sé, come qualcosa di inammissibile – di infernale, per l’appunto. Sarebbe interessante indagare il perché di questo rigetto, di questo palese ed irrazionale rifiuto (ververfung) del corpo, inteso nella sua più viva carnalità, come oggetto piccolo (a). Qui però ci limitiamo a sottolineare l'allarmante similitudine tra i personaggi interpretati da Nicole Kidman e Bruce Willis nei due film che abbiamo citato, i quali si rifiutano di accettare l’idea di essere morti, e chi nel nome di un’identità di genere (per altro in alcun modo oggettivabile…) si rifiuta di essere sessuato. Non c’è forse parallelismo più calzante che possa esemplificare, e nel modo più paradigmatico, quel che in psicanalisi si intende per fantasma.
Per quanto riguarda l’Intelligenza Artificiale, invece, in una delle prime lezioni Lacan riporta al suo uditorio le impressioni suscitategli dalla lettura di un articolo in cui veniva descritto uno dei primi, rudimentali chatbot. Il programma, prodotto dall’IBM, si chiamava Eliza ed è curioso notare come Lacan si riferisca, più che al meccanismo di questo dispositivo che ricombina dei significanti in un modo che ricorda vagamente il funzionamento dell’apparato psichico, all’effetto suggestionante prodotto dall’interazione con questa applicazione come ad una sorta di transfert. “Il punto”, dice Lacan, “non è che una macchina sia capace di dare risposte articolate semplicemente quando le si parla” perché quel che c’è di davvero interessante, nell’uso di questi marchingegni, è “che si rivela essere un gioco […] che mette in questione ciò che, per il fatto di ottenere tali risposte, può prodursi in chi parla alla macchina”[13]. In poche battute il lungimirante psichiatra parigino presagiva così quella che sarebbe stata, e solo in anni recenti, una vera e propria sbornia collettiva davvero poco giustificata sul piano razionale ma molto comprensibile se teniamo conto del fatto che i fantasmi, ancora, “vedono solo quello che vogliono vedere”. Per quanto sia dilettevole (e possa risultare in qualche occasione anche utile, è innegabile) interagire con dei motori di ricerca molto più avanzati di Google e dotati della capacità di rispondere in prima persona all’interlocutore, infatti, è necessario ammettere senza riserve che le aspettative affidate allo sviluppo dell’Intelligenza Artificiale sono quantomeno malriposte. Il disorientamento che coglie chi crede davvero di avere a che fare con forme di coscienza artificiali, ad esempio, e che ha ingenerato ingiustificati timori dal retrogusto distopico-fantascientifico[14], non tiene conto del fatto che queste tecnologie che simulano la condotta di entità coscienti non sono in verità altro che simulacri, fantocci. Nessun rischio e nessuna reale minaccia esistenziale proviene davvero da questi programmi – i quali, per parte loro, non sono dotati di nessun tipo di intenzionalità e si limitano a riprodurre associazioni tra simboli che, se risultano funzionali, è solo perché sono state decretate statisticamente rilevanti dai loro programmatori…Se esiste un vero pericolo, insomma, e se c’è qualcosa che merita non senza ragione le nostre preoccupazioni apocalittiche, questo non è di certo l'immaginaria vendetta delle macchine divenute come per magia senzienti, ma è proprio la struttura primitiva e fondamentalmente superstiziosa della soggettività umana. A costituire oggi una reale minaccia esistenziale per la nostra specie, infatti, è soprattutto la nostra naturale proclività a credere nelle illusioni, alle chimere, e a proiettare sugli oggetti il contenuto rimosso della nostra volontà per celare la reale indifferenza del mondo nei nostri confronti…in altre parole: l’architetturafantasmatica dell’animo umano. La stessa che Lacan coglie sapientemente, in questo seminario, nei termini di un groviglio inestricabile tra pensiero, essere e inconscio.
Questo intreccio, questo imbroglio che avviluppa da una parte la storia della cultura umana e dall’altra l’evoluzione biologica (benché quest’ultima resti confinata al di fuori del discorso lacaniano, in quanto di psicologia evolutiva si comincerà a parlare solo negli anni settanta) alligna nelle profondità oscure del processo adattativo che ha condotto all’emergenza della psiche così come noi oggi la conosciamo. Gettare lo sguardo in questo abisso senza fondo di processi adattativi randomici, di gelidi meccanismi impersonali che hanno plasmato tanto il corpo quanto la mente dell’uomo nell’indifferenza più totale della natura e nel silenzio più agghiacciante dell’universo, infatti, è qualcosa che val bene un rigetto (ververfung) in quanto lì lumeggia un orrore dal quale siamo portati comprensibilmente, come i protagonisti di The others e Il sesto senso, a volgerci altrove. Ma di fronte a questo spettacolo raccapricciante ed insopportabile, letteralmente insimbolizzabile – ovvero l’orrore del Reale, a paragone del quale anche il film horror più spaventoso rischia di sembrare una barzelletta… – le scelte, sembra dirci Lacan, sono solo due: guardare dall’altra parte, e scegliere di continuare a vedere solo quello che vogliamo vedere, o fissare lo sguardo proprio su ciò che non vogliamo vedere. Il rapporto del soggetto con l’inconscio, ed il nostro destino di soggetti, dipende da questa decisione tra l’illusione e l’orrore. “L'inconscio” infatti, come ebbe a dire Lacan, “così fragile sul piano ontico, è etico...e comunque sia bisogna andarci dentro”[15].
Filippo Zambonini
Bibliografia:
Benvenuto S., La psicanalisi e il reale.“La negazione” di Freud, Orthotes, Napoli, 2015
Lacan J., Il seminario VII. L'etica della psicanalisi (1959 – 1960), Einaudi, Torino 2008
Lacan J., Il seminario VI. Il desiderio e la sua interpretazione (1958 – 1950), Einaudi, Torino 2015
Lacan, J. (2003). Seminario XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Einaudi, Torino
[5] J.Lacan, Il seminario XIV. La logica del fantasma (1966 – 1967), op. cit., p. 103
[6] Ci permettiamo a tal proposito di segnalare l’imprescindibile S. Benvenuto, La psicanalisi e il reale.“La negazione” di Freud, Orthotes, Napoli, 2015
[7] S. Freud, Una difficoltà della psicoanalisi, in “Opere”, Bollati Boringhieri, Torino, 1976, vol. 8, pp. 657-644.
[8] J. Lacan, Il Seminario XIV. La logica del fantasma. 1966 – 1967 , Einaudi, Torino 2024, p. 88
[11] La struttura sadica e masochistica del soggetto lacaniano, sia detto per inciso e con una punta di ironia, è forse da leggersi come un pleonasmo e non risparmia in fondo davvero nessuno (anche se, ironia a parte, la vera lezione della psicanalisi consiste proprio nel porre in altissima considerazione il conflitto del soggetto contro sé stesso, colto in tutta la sua brutale gratuità, ed è precisamente in questo punto che converge tutta l’analisi dell’alienazione condotta ne La logica del fantasma). Basti pensare, a tal riguardo, che lo stesso redattore dei seminari di Lacan, il genero e testamentario Jacques Alain Miller, sta centellinando da anni e a dir poco sadicamente la pubblicazione di un’opera che a detta sua è già stata completamente stilata (tant’è che, com’è noto, se ne può trovare anche una versione completa in francese, benché a cura di un altro allievo di Lacan, su questo sito: http://staferla.free.fr), e mai come in questo seminario si rivela avaro di riferimenti e di dettagli la cui assenza rende ancor più ostica, se possibile, la lettura del testo. Nella prima parte, ad esempio, mancano due indicazioni bibliografiche che sono imprescindibili per capire quel che si intende in questo seminario per logica. A pagina 44 dell’edizione Einaudi la relazione di Miller di cui si parla è "La Sutura" (pubblicata in italiano in Cahiers pour l'analyse. Scritti scelti di analisi e teoria della scienza. Bollati Boringhieri, 1977), mentre a pagina 67 l'articolo che cita Lacan è "Le sens du mot « structure » en mathématiques", di Marc Barbut (reperibile solo in francese in Les temps modernes, n°246, nov. 1966). L’intervento di Roman Jakobson del primo febbraio 1967, invece, non è stato proprio trascritto, né vi sono riferimenti che permettano di rintracciarlo.
“L’uno non è nato ieri, ma è nato a proposito di due cose completamente differenti, a proposito di un certo uso degli strumenti di misura e, contemporaneamente, a proposito di qualcosa che non c’entrava niente, ossia la funzione dell’individuo.” J. Lacan,“Leggere… o peggio." Il Seminario XIX, 1971 – 1972”, Einaudi, Torino, 2020, p. 154 "Leggere… o peggio."
Con la pubblicazione di Leggere…o peggio. Il Seminario XIX di Jacques Lacan, volume collettaneo curato magistralmente dal giovane filosofo Marco Ferrari, la casa editrice Galaad prosegue nell'impresa di scolastica e certosina delucidazione dei seminari tenuti dal poliedrico psicanalista francese per più di vent’anni a Parigi, dal 1953 fino a poco prima della sua morte. In questi seminari, trascritti dall’allievo-testamentario-genero Jacques Alain Miller, sono infatti condensati ancor meglio che negli Scritti [1] tanto il sapere quanto il metodo che definiscono la pratica psicoanalitica ad orientamento lacaniano e la loro frequentazione permette di osservarne direttamente, come in un cantiere, il work in progress teoretico. Ma, com’è noto, leggere Lacan e accompagnare in itinere lo sviluppo delle sue folgoranti intuizioni, il suo perdersi nei vicoli ciechi della ragione ed il suo riemergere infine vittorioso dai flutti di quel fiume acheronte che già per Freud era da considerarsi metafora eminente dell’inconscio non è cosa facile, anzi. E così, assieme al precedente volume curato da Chiara Massari e dedicato al seminario XVI [2], questo pregiato testo della collana chiamata per l’appunto “Leggere Lacan” può ben fungere da bussola, o da mappa, per chi voglia provare ad orientarsi nella fase più complessa ed oscura, la più tarda dal punto di visto cronologico, del suo insegnamento.
L’enigmatico titolo del seminario XIX, “…o peggio”(in francese: …ou pire), con quei tre puntini di sospensione seguiti da un’apparentemente ingiustificata formula peggiorativa, lascia infatti già presagire quelle che saranno le continue allusioni, le ambiguità e le aporie che accompagnano, sincopandone il passo, gli inciampi dialettici, le contorsioni logiche e le funamboliche misture di biologia, linguistica e filosofia di cui questo seminario, tra i più difficili, è letteralmente infarcito. E così, per consentire un accesso facilitato ai molteplici temi lì trattati (il rapporto della psicanalisi con la sessualità, della sessualità con la metafisica, l’inesistenza del rapporto sessuale e la logica dei processi inconsci…per citarne solo alcuni), il curatore Marco Ferrari ha deciso di chiamare a raccolta uno stuolo di filosofi e psicanalisti che si sono occupati, ognuno singolarmente o in coppia, di una o al massimo due lezioni del seminario in questione. Il risultato è un concerto ermeneutico polifonico che non esaurisce, non congela il testo di Lacan in una serie di interpretazioni definitive e statiche, ma anzi amplifica il contenuto già di per sé ricchissimo di “…o peggio” nella misura in cui, per l’appunto, ne offre diversi scorci, diversi punti di vista anche tra loro contradditori.
Il primo intervento è firmato da Silvia Lippi, psicanalista bolognese che esercita a Parigi, e offre una rilettura queer della psicanalisi freudiana e lacaniana che pone un particolare accento sulle identità trans. L’autrice muove dall’assunto per cui “secondo Lacan ci sono e ci saranno sempre due sessi” [3], ma visto che “come sostiene giustamente Judith Butler, è il discorso che determina la differenza sessuale” [4] allora si deve ammettere, anzitutto, che “pensare che un uomo debba avere il pene e la donna una vagina è una convenzione sociale e come tutte le norme non ha valore universale” [5] e, in secondo luogo, che la psicanalisi debba essere mondata dalle sue tare fallogocentriche. Il testo, che si propone di interpretare le prime due lezioni di “…o peggio” in cui viene sviscerato il tema del fallo (simbolizzato da Lacan con il simbolo phi: Φ) e degli effetti che questi ha sulla logica soggettiva (un tema a dir poco centrale per la disciplina psicanalitica) potrebbe fungere benissimo da manifesto per una psicanalisi queer all’italiana [6] e non mancherà certamente di entusiasmare chi è impegnato nella battaglia per la liberazione del desiderio – sia anche nelle già liberalissime, lussuriose e ultrapermissive società occidentali. Certo, il rischio di queste letture inclusive e queer che sembrano riscuotere oggi molto successorisiede paradossalmente nel fatto che sottoscrivere le posizioni di Butler, e confondere il sesso con il genere, può portare ad abbandonare una forma di (supposto) riduzionismo biologista in favore di un’altra (questa volta senz'altro riduzionista…): quella del costruttivismo sociale radicale. Sacrificare una visione in cui biologia e cultura concorrono, anche se in modo giocoforza asimmetrico, a definire l’identità di soggetti liberi di autodeterminarsi entro i confini dettati, oltre che dalla cultura, anche dalla fisicità e dalla materialità del corpo in favore di una concezione marcatamente costruttivista (secondo cui il sesso altro non è che un indice, un’etichetta assegnata dal biopotere medicale da intendersi sempre, comunque ed inesorabilmente in termini oppressivi) come quella promossa da Judith Butler potrebbe, infatti, rivelarsi un operazione che non solo non aiuta nessuna minoranza ad emanciparsi ma, anzi, corre il rischio di minare la credibilità di queste stesse battaglie…come si suol dire: dalla padella alla brace. Senza contare, poi, che non è Lacan a credere che i sessi siano due: quanti e quali sarebbero precisamente gli altri sessi e quale branca della scienza dovrebbe supportare quest’idea? [7] Leggere… o peggio.
Nel secondo capitolo il filosofo Felice Cimatti azzarda un felice parallelismo tra godimento femminile e postumano. Seguendo il solco tracciato da Lacan e senza cercare di forzarne o di travisarne il testo, l’autore cerca di sbrogliare il nodo che lega come in un unico groviglio il godimento di La Donna, la castrazione ed il celebre tema metafisico dell’Uno, che Lacan riprende storpiandolo nella formula Yadl’un (C’è dell’uno):
“Quindi il Yadl’un è la condizione, affatto singolare, in cui si viene a trovare un essere umano che sia passato attraverso l’universalità della castrazione senza esserne completamente schiacciato. Ma siccome per Lacan è umano solo chi è individuato da Φx, allora il “c’è dell’uno” si colloca in qualche modo al di là dell’umano”
Cimatti mostra chiaramente come per Lacan sia La Donna la figura che incarna al meglio lo statuto singolare ed irriducibile che contraddistingue quegli individui che hanno assunto una postura esistenziale tale da permettere un superamento della castrazione (anch’essa simbolizzata nell’algebra lacaniana dal simbolo Φ), ovvero gli individui che nelle intenzioni degli psicanalisti hanno conquistato questa posizione perché hanno portato a termine un’analisi. Ciò a cui agogna l’analizzante, infatti, per gli psicanalisti lacaniani non è tanto il raggiungimento di una non meglio specificata sanità mentale o, peggio ancora, il ritorno ad una mitologica e stereotipica “normalita” ma, all’opposto, la possibilità di “superare il linguaggio […] rimanendo però nel linguaggio” [8], ovvero la chance di bypassare “la logica della definizione e quindi dell’imposizione” [9] che costituisce, fuori di metafora, il vero senso della castrazione. Se “la posizione femminile sfugge alla condanna di tutti i viventi che si trovano invece intrappolati nel desiderio dell’Altro” [10], allora, è proprio perché lungi dal profilarsi come un riduzionista fallogocentrico, Lacan concepisce la femminilità come ciò che incarna uno stile (che nel seminario dedicato al godimento femminile, Ancora [11], troverà il suo riferimento illustre nell’esperienza mistica di Santa Teresa, di Ildegarda di Bingen o di San Tommaso, che donna di certo non era…) tipico di chi riesce ad assumere su di sé la strutturale incompletezza ontologica della realtà senza per questo farsi annichilire da essa [12]. Che le donne si trovino facilitate, rispetto agli uomini, in questo gioco in cui in ballo vi è niente poco di meno che la soggettivazione è un fatto che Lacan da per scontato al punto da orientare tutta la sua tecnica analitica nel verso di uno spossessamento, di un abbandono che ricordano dappresso una sorta di femminilizzazione del soggetto. Tant’è che come osserva puntualmente Cimatti da quella tecnica postumana che è l’analisi ci si aspettano risultati postumani nella misura in cui ciò che si paventa è una trasformazione corporea che però, quasi magicamente, non ricorre a nessun tipo di intervento chirurgico:
“Il corpo che esce dall’analisi è allora un corpo che ha assunto la posizione femminile (questo vuol dire che può assumere questa posizione anche un uomo e che non è affatto detto che tutte le donne siano capaci di assumerla). La posizione femminile è quella di un corpo capace di un godimento non fallico, ossia fuori castrazione, e quindi anche fuori dal controllo dell’Io” [13]
In ballo, in un’analisi, c’è infatti proprio la possibilità di andare a maneggiare l’articolazione logica della soggettività dell’analizzante ovvero la struttura psichica che altro non è se non quel che per millenni è stato chiamato “l’anima” – ed il cui sapore metafisico è ripreso da Lacan proprio mediante la formula “C’è dell’uno” che ritorna, lungo tutto l’arco del seminario “…o peggio”, con l’insistenza di una goccia cinese. Ma l’inesausta ripetizione di questo adagio, come a voler motteggiare la millenaria riflessione filosofica sull’Uno (quell’ἕν – hen – che da Parmenide a Schelling, passando per Plotino e Spinoza, allude alla possibilità di conchiudere la totalità dei fenomeni in un’unità concettuale che sintetizza l’infinito ed il finito nell’apprensione metafisica dell’Assoluto), fa da contrappunto ad un altro mantra del lacanismo ortodosso, il ben più celebre “non esiste rapporto sessuale” (il n’y a pas de rapport sexuel) e si pone rispetto a questo come una sorta di integrazione o, meglio, di polo dialettico capace di generare una tensione concettuale decisamente prolifica. Come mostrano bene l’intervento in tandem di Pierpaolo Cesaroni e Mavie Loda ed il seguente, quello della psicanalista Stefania Napolitano, infatti, il fatto che Lacan tra gli anni sessanta e settanta si sia dedicato ad una rilettura della tradizione logica e metafisica occidentale è da intendersi come il mastodontico tentativo di rifondare le premesse teoriche della psicanalisi sulle impasse, sulle aporie e sui fallimenti che hanno punteggiato la storia della filosofia e che sembrano riproporsi, come in controluce, nel vissuto degli analizzanti. L’interesse per i quantificatori aristotelici, per la logica formale e per la riflessione metafisica sull’essenza che negli anni di “… o peggio” acquistano via via sempre più centralità, e che soggiace alle formalizzazioni matematiche della vita psichica come i quattro discorsi o la tavola della sessuazione, indica per l’appunto un luogo di pulsazione centrale nell’economia dell’insegnamento lacaniano, il luogo dell’intersezione, dell’incrocio tra la filosofia e la psicanalisi. E “C’è dell’uno”, la formula ottenuta dalla copula del verbo essere con il sostantivo che allude ad una mitica unità tra l’uomo e il mondo, di questa intersezione è un po' il condensato, il significante che indicherebbe – come già ricordato nell’esergo di questa recensione – il rapporto tra “un certo uso degli strumenti di misura” così come questi vengono codificati nella storia della cultura occidentale “e […] qualcosa che non c’entrava niente, ossia la funzione dell’individuo”. E così dalle parole proferite dai pazienti sul lettino degli psicanalisti, in breve, trasparirebbero come su scala ridotta, sul piano soggettivo e singolare, le stesse aporie e lo stesso smarrimento che per millenni hanno animato quell’avventura del pensiero che passa sotto il nome di filosofia, gli stessi crucci metafisici, le stesse tensioni verso un Assoluto tanto irraggiungibile (con il quale non esiste il rapporto) quanto allettante e che la psicanalisi ha interpretato come il fantasma, la copertura immaginaria e simbolica della piena soddisfazione libidica. Quando Cesaroni e Loda scrivono, ad esempio, che:
“…fin dall’inizio del suo insegnamento, Lacan insiste sull’errore di considerare la comunicazione come un passaggio lineare di messaggi. “Non è questo” non si trova tra domanda e offerta, consiste nella loro distanza, non loro non essere uguali né corrispondenti” [14]
quello a cui i riferiscono è allora l’interdipendenza, la reciprocità intrinseca tanto del fatto che “non c’è rapporto sessuale” quanto del fatto che “c’è dell’uno”: l’assenza dell’uno implica la presenza dell’altro ed il continuo fallire la ricerca di una risposta definitiva sul piano filosofico e di una soddisfazione completa su quello psicologico è proprio ciò che anima, sia dal punto di vista della storia collettiva (o storia della filosofia) che di quella soggettiva, l’infinito articolarsi della catena significante, lo scorrimento metonimico del desiderio e quindi il ritorno inevitabile, benchè parziale, della jouissance...Come a dire che il fallimento connaturato ad ogni forma di comunicazione (quel che potremmo intendere come il pane della psicanalisi, ma anche come il presupposto ultimo della millenaria ruminazione che passa sotto il nome di filosofia) reca con sé le tracce, le impronte e gli indizi che permettono agli analisti di raccapezzarsi nella loro pratica: orientarsi attorno ad un punto di impossibilità (“Non c’è rapporto sessuale”) ed interpretare le modalità attraverso cui la soddisfazione così inizialmente impedita ritorna in modalità surrogate e parziali (“C’è dell’uno”) sarebbero così gli estremi, i veri e propri Scilla e Cariddi per la direzione della cura nella clinica psicanalitica.
Certo, una volta appurato tutto questo rimane inevasa la questione del perché alla donna, o al femminile piuttosto che al maschile, sia riservato un accesso privilegiato a quel che Lacan definisce godimento mistico, così affine e simile al godimento dell’Uno che c’è, e che è l’unica alternativa all’inesistenza del rapporto sessuale. Ad occuparsi di questo annoso problema è Federico Leoni in un testo molto ispirato in cui dimostra, attraverso un sapiente uso della metafora, come la postura del femminile per Lacan si ponga al di là della logica fallica ossia al di là delle contrapposizioni dialettiche che istituiscono ogni tipo di macchinazione e di manipolazione razionali del mondo, essendo queste pratiche invischiate nell’oscillazione dialettica del significato, dei suoi limiti e della sua assenza (ragion per cui sia il fallo che la castrazione sono simbolizzati, come abbiamo già ricordato, dal significante Φ). La Donna starebbe allora nell’economia generale della psicanalisi lacaniana come il supporto stesso, la condizione di possibilità stessa della ragione che svanisce e diviene inaccessibile ogni qual volta la ragione stessa viene applicata:
“..la questione del femminile è appunto la questione del supporto, o se preferiamo, la questione del supporto è la questione del femminile. In questo caso, il non-rapporto non si impone come un abisso che separa il maschile dal femminile intesi come una mela e una pesca, si impone semmai come un abisso che separa la mela e la pesca dal cesto in cui stanno, o dallo scaffale su cui sono appoggiate”
Com’è noto, infatti, sin dall’articolo “La significanza del fallo” [15] per Lacan il Φ è il significante che conferisce significato ad ogni altro significante, e porsi al di là della castrazione (che del significato ne indica per l’appunto il limite) non significa necessariamente ricadere in un mondo privo di senso ma, piuttosto, raggiungere una postura soggettiva collocata al di là della sua sfibrante ricerca, dell’inseguimento del significato come problema maniacale e assillante – un al di là che ne costituisce paradossalmente la premessa, la condizione di possibilità. Quando Lacan parla di La Donna parla infatti proprio di questo: di un’attitudine soggettiva che sappia sottrarsi alla caccia ossessiva e maniacale dell’Assoluto, di un’inclinazione teorica e metafisica priva della smania di quell’Uno che ha tenuto occupati per millenni i filosofi e in nome del quale sono state riempite (da uomini, non a caso…) intere biblioteche di trattati e manuali: come se si trattasse di un esercizio o di uno stile, per l’appunto, teso a sovvertire e a mettere a soqquadro il mondo così come questo è stato pensato per millenni nei termini squisitamente utilitaristici e strumentali dagli uomini. Quale colpo di scena, allora, e soprattutto per chi taccia Lacan di fallogocentrismo, ritrovare nel femminile (e segnatamente nelle figure che meglio ne esemplificano l’orientamento mistico come le già citate Ildegarda di Bingen o Santa Teresa, figure da sempre marginalizzate quando non addirittura escluse nella storia della filosofia…) un modello o un paradigma innovativo per intendere la filosofia stessa?
In continuità con questi temi e sempre a proposito dell’annosa questione del rapporto tra psicanalisi, mistica e filosofia ritorna anche lo psicanalista Ettore Perrella nel suo intervento che mette a fuoco l’interesse nutrito da Lacan per la dimensione sapienziale tipica delle forme più antiche di conoscenza:
“Lacan aveva fatto di tutto per aprire l’esoterismo della saggezza a un insegnamento che, pur non volendosi universitario, aveva finito per rivolgersi a centinaia di persone. […] E il più grande tentativo di Lacan di aprire alla scienza l’esoterismo delle scuole di saggezza fu, proprio negli anni in cui teneva il seminario …o peggio, la proposta della passe” [16]
La femminilizzazione come esito di una psicanalisi, la mistica e lo stile esistenziale de La Donna allora non sono che esempi paradigmatici che illustrano, ognuno a modo loro e ognuno con sfumature diverse, quel che Lacan intendeva come obiettivo o fine della pratica analitica: sono figure o concetti che recano con sé una forma di incompletezza ontologica radicale rispetto alla quale si rende necessario quel che la passe dovrebbe riuscire a ratificare, ovvero l’avvento di una “posizione etica individuale coerente con le esigenze pratiche della formazione” [17]. Detto altrimenti: per evitare la riduzione accademica e burocratica della psicanalisi e per scongiurare quel che sarebbe poi avvenuto comunque, nonostante tutto (ovvero la rimasticatura libresca e nozionistica della sua opera) Lacan avrebbe tratto dalle antiche scuole sapienziali oltre che l’afflato metafisico che traspira dalla sua originale reinterpretazione dell’Uno anche la passione – assolutamente incompatibile con qualsiasi etica utilitaristica disponibile nelle società capitaliste – per l’ingaggio morale, per la scelta individuale e per la centralità dell’esperienza etica. Ed è qui che, finalmente, le opache e cerebrali elucubrazioni di Lacan sull’Uno condotte nel seminario “…o peggio” acquistano il loro proprio vigore e si rivelano in tutta la loro ammaliante, stringente attualità.
Il godimento che vi è in ballo quando si evoca il “C’è dell’uno” lacaniano, infatti, è quel tipo di godimento incontrollato e coatto che si qualifica come ripetizione involontaria e che, nella reiterazione dello stesso, esibisce come in controluce la struttura del soggetto che vi si trova implicato e che così vi si scopre, per l’appunto, fatalmente assoggettato. Miller ne sottolinea esemplarmente il carattere coercitivo quando ricorda che, nell’ultima fase del suo insegnamento, Lacan passa da una concezione di ciò che anima gli individui che all’inizio è intesa alla stregua di “un’insondabile decisione dell’essere” ma poi, dopo la svolta di cui “…o peggio” testimonia gli avanzamenti critici, è descritta come un “insondabile decisione dell’Altro” [18], ovvero come effetto forzoso e incontrollato dell’ordine simbolico, come una successione di significanti che si ripetono automaticamente e che quasi meccanicamente fanno godere il corpo. È quel “godimento assoluto, quello prodotto dall’incidenza del significante sul corpo, che fa del corpo un corpo (di) godimento, cioè un corpo fissato in un’alterazione di sé, in uno sfasamento di sé” [19] di cui parlano il curatore del volume, Marco Ferrari, e l’analista Alex Pagliardini nel loro intervento in coppia che chiude il volume – e che in un certo senso condensa i risultati dei loro due ricchissimi interventi individuali tesi ad offrire una lettura davvero rischiaratrice dell’algebra lacaniana.
Come porci, quindi, di fronte a questo strapotere dell’automatismo simbolico e come reagire d’innanzi a questa tanto scabrosa quanto fondamentale caratteristica della psiche umana scrutata da Lacan negli anni settanta, quasi a preconizzare l’avvento della nostra odierna società turboconsumista? Come opporsi a questo godimento uniano, a questo godimento autistico che, anche grazie alla diffusione di dispositivi che letteralmente incollano lo sguardo di ogni-uno alla parata infinta del significante, ha assunto oggi una portata tale da risultare difficilmente circoscrivibile in quanto interessa fenomeni tutt’affatto eterogenei (dal doom scrolling alle più gregarie manifestazioni di piazza condotte nel nome di ideali posticci, passando per gli hikikomori e per la riduzione del discorso politico a mera passerella identitaria), come a voler sancire la diffusione ormai capillare di soggettività richiuse su sé stesse, che hanno come loro unico orizzonte l’Altro della ripetizione significante? Posto che non esistono, al di là dei richiami populisti che provengono sia da destra che da sinistra, risposte univoche a queste domande e una volta appurato con sconforto lo stato in cui riversa la realtà sociale, può essere utile anche solo – ma forse è già molto… – ritornare umilmente a frequentare i classici, a Freud, ritornare a Lacan. E ritornare a leggere Lacan non tanto con l’intento di elaborare nuove teorie o di rinnovare nominalmente, formalmente, la psicanalisi o la filosofia ma per assumere su di sé, singolarmente ed in modo giocoforza unico, quello stesso godimento dell’Uno per rivoltarlo contro sé stesso attraverso “un’operazione che riporta l’insopportabile al suo posto” [20]. Solo così è possibile rendere urgente, inaggirabile e inderogabile l’azione, la decisione insondabile che arricchisce il reale scabro e desertico con qualcosa di inedito, di singolare. È questo infatti il limite critico della scienza, incapace com’è di valicare i suoi scopi descrittivi, che la mistica ed il femminile secondo Lacan dovrebbero riuscire a scardinare ed è questa, in breve, la grande lezione etica della psicanalisi:
“Forse solo una considerazione epistemologica della scienza, se riuscisse ad allargarne il concetto fino ad includervi anche la psicanalisi, e quindi l’etica, potrebbe rendere il contributo di Freud e di Lacan centrale non solo nella storia della psicanalisi, ma in una teoria della formazione” [21]. "Leggere… o peggio."
Filippo Zambonini
Note:
[1] Lacan, Scritti, 2 Voll, Einaudi, Torino, 1974
[2] Chiara Massari, “Leggere…Da un Altro all’altro. Il Seminario XVI di Jacques Lacan”, Galaad Edizioni, 2021
[3] Marco Ferrari, “Leggere…o peggio. Il Seminario XIX di Jacques Lacan”, Galaad Edizioni, 2023, p. 55
[4] Ivi., p. 53
[5] Ivi., p. 54
[6] Il riferimento qui è a Fabrice Bourlez, Queer Psicanalisi. Clinica minore e decostruzione del genere, Mimesis, Milano – Udine, 2022
[8] Marco Ferrari, “Leggere…o peggio. Il Seminario XIX di Jacques Lacan”, op.cit., p. 74
[9] Ibidem.
[10] Ivi, 75
[11] Jacques Lacan, Il Seminario XX. Ancora, Einaudi, Torino, 2011
[12] Lacan scrive La Donna barrandone l’articolo proprio in modo da ricordare lo statuto di negatività radicale che Heidegger attribuisce all’Esserci (Dasein) alla fine di “Essere e Tempo”, dove per indicare che “l’Essere” (Sein) dell’Esserci non è esso stesso un Essere – e quindi irriducibile a qualsivoglia ontologia – si ricorre all’espediente tipografico “Essere” (Sein).
[13] Ivi, 76
[14] P. 97
[15] Lacan, J, La significazione del fallo: Die Bedeutung des Phallus, in Scritti, op. cit.
[16] Pp. 194 - 195
[17] P. 200
[18] Jacques Alain Miller, Cause et consentement, corso inedito del 1997 – 1998, lezione del 2 Dicembre 1987
[19] P. 211
[20] P. 244
[21] P. 204
Bibliografia:
Fabrice Bourlez, Queer Psicanalisi. Clinica minore e decostruzione del genere, Mimesis, Milano – Udine, 2022
Psychoanalyse als Anthropotechnik, psicoanalisi come antropotecnica, potrebbe benissimo essere – perché no? – il titolo di un immaginario saggio disperso nel mare della vasta produzione del filosofo tedesco, tuttora vivente, Peter Sloterdijk. Se non fosse per la sua nota tendenza a irridere la concettualità psicoanalitica, con quell’ironia di chi non è in fondo così distante da ciò che intende allontanare, potremmo quasi immaginarcene un abbozzo in attesa di pubblicazione tra le sue carte. Dunque, perché no? Porsi la domanda “è la psicoanalisi un’antropotecnica?” potrebbe non essere un passatempo del tutto ozioso. Stando alla definizione più recente che il filosofo di Karlsruhe ha offerto del concetto, vale a dire quella contenuta nel magnum opus del 2009 Devi cambiare la tua vita, si definiscono antropotecniche tutte le condotte mentali e fisiche basate sull’esercizio, con le quali gli esseri umani delle culture più svariate hanno tentato di ottimizzare il loro status immunitario sia cosmico sia sociale, dinnanzi ai vaghi rischi per la propria vita e alla certezza di morire (Sloterdijk 2010, 14).
Laddove con “esercizio” si intende ogni sorta di routine abituale e operazione ripetuta tramite la quale «la qualificazione di chi agisce viene mantenuta o migliorata in vista della successiva esecuzione della medesima operazione, anche qualora essa non venga dichiarata esercizio» (Sloterdijk 2010, 7) e con “immunità” un’immunità culturale, risultante di «pratiche simboliche ovvero psicoimmunologiche […] di prevenzione immaginaria ed equipaggiamento mentale» (Sloterdijk 2010, 13). Esercizio e immunità, dunque, come i due cardini della definizione del concetto, sotto il quale ricade uno spettro di fenomeni amplissimo. Dai monaci del deserto ai filosofi greci, dagli asceti indiani ai moderni scienziati, dai biocosmisti russi agli atleti olimpionici, dai funamboli ai fenomenologi. Quanto alla psicoanalisi, si tratta di verificare se, nella sua dimensione pratica come in quella teorica, sia in grado di superare il duplice requisito antropotecnico.
Partendo dal primo punto, l’esercizio e la dimensione abitudinaria che esso comporta, nulla sembrerebbe più estraneo alla scena dell’esperienza analitica. È quanto suggerisce Lacan nel suo Seminario dedicato all’etica della psicoanalisi quando afferma, allo scopo di mostrare lo scarto che separa la dimensione etica inaugurata dalla psicoanalisi dall’etica nel suo sviluppo storico e dall’etica aristotelica in particolare – scarto che permette di misurare tutta l’originalità dell’invenzione freudiana – che l’etica dell’analisi comporta «la cancellazione, la messa in ombra, persino l’assenza di una dimensione di cui basta il temine per cogliere ciò che ci separa da tutta l’elaborazione etica prima di noi – è l’abitudine, la buona o cattiva abitudine» (2008, 14). Se di ripetizione si parla, in analisi, è sempre dal lato del sintomo, della coazione a ripetere un’esperienza traumatica che comporta una certa sofferenza per il soggetto, nulla a che vedere insomma con quel continuo gioco di rimandi tra ἔθος ed ἠθος, di azione buona come frutto di un addestramento alla buona scelta, che è il fulcro dell’etica aristotelica. La psicoanalisi è tutt’altra cosa, perché «l’essenza stessa dell’inconscio si inscrive in un registro diverso» (Lacan 2008, 14) – quello del desiderio e della sua interpretazione. E il desiderio, come ben si sa, non si sceglie.
In analisi infatti si tratta di venire a capo di una domanda, di quella domanda di felicità che l’analizzante pone all’analista, una felicità tuttavia peculiare, né comoda né accomodante, che potrebbe certo non coincidere con le immediate aspettative del soggetto. «La questione etica» dice infatti Lacan «nella misura in cui la posizione di Freud ci fa compiere un progresso, va articolata a partire da un orientamento dell’individuazione dell’uomo in rapporto al reale» (2008, 15), vale a dire in rapporto a quel Reale che nella formulazione lacaniana non coincide con la realtà, ma con ciò che nella realtà costituisce un’impasse, una contraddizione, un inciampo, ciò che, in altre parole, il soggetto non riesce a soggettivare, ciò che rimuove come altro da sé e che ritorna a reclamare i suoi diritti ma anche ciò che il soggetto non simbolizza (Benvenuto & Lucci 2014) e che «non può inscriversi che per un’impasse della formalizzazione» (Lacan 2011, 87).
La posta in gioco dell’analisi è, detto altrimenti, porre in contatto il soggetto con il Reale, con ciò che in esso fa problema, con quell’estimità che lo caratterizza. Proprio perciò Lacan (2008, 11 sgg.), nelle volute che caratterizzano il Seminario VII, procede a distinguere con una certa nettezza l’etica che si esprime nella pratica analitica, nello spazio che separa analizzante e analizzato, dalla triplice serie di ideali analitici i quali, dice Lacan, emergono in abbondanza laddove si intende la pratica analitica come un servizio di asilo e conforto per supplici e sofferenti di vario genere. Vale la pena richiamarli brevemente alla memoria. L’ideale dell’amore umano, l’ideale dell’autenticità, l’ideale della non-dipendenza – mancano tutti il punto circa i fini dell’analisi, o perché si basano su un supposto primato della pulsione genitale, cui dovrebbe essere ricondotta la brulicante pluralità delle pulsioni parziali, o perché introducono una tacita dimensione normativa che sfocia in una concezione dell’analisi come armonizzazione psichica, o perché, infine, ricadono in una dimensione banalmente ortopedica (Lacan 2008).
Di contro a tutto questo si tratta invece di prendere le mosse da ciò che qui Lacan (2008) chiama curiosamente l’ascesi freudiana – sorta di lapsus che conferma il ritorno di quel rimosso che è l’esercizio – condensata nella massima Wo Es war, soll Ich werden. Essa viene interpretata da Lacan attraverso un rovesciamento di prospettiva che ne fa non un’impresa di colonizzazione dell’inconscio da parte della coscienza, un rafforzamento dell’Io alle spese dell’estraneità che lo abita, «un’opera di civiltà, come ad esempio il prosciugamento dello Zuriderzee» (Freud 2012, 489), bensì, nella misura in cui l’analisi comporta una certa tecnica di smascheramento che tiene infaticabilmente dietro agli alibi del soggetto, una ricerca di quella «verità liberatrice» che «non è quella di una legge superiore» ma «una verità particolare» la quale «si presenta per ciascuno nella sua intima specificità con un carattere di Wunsch imperioso» (Lacan 2008, 28-29). Il vero desiderio, insomma dell’analizzante. Perciò Lacan afferma
Questo Ich, infatti, che deve avvenire là dove Es era, e che l’analisi ci insegna a misurare, non è altro che quello di cui abbiamo già la radice nell’io (je) che si interroga su ciò che vuole. Esso non è solo interrogato, ma mentre avanza nella sua esperienza, si pone tale interrogativo, e se lo pone proprio rispetto a degli imperativi spesso estranei, paradossali, crudeli propostigli dalla sua esperienza morbosa (2008, 10).
Così, con l’andamento circolare che caratterizza il Seminario VII, dopo quell’immenso détour che passa per l’interpretazione dell’Entwurf del 1895, la dialettica tra principio di piacere-principio di realtà-pulsione di morte, lo strutturarsi del campo di das Ding, la Cosa nel suo rapporto con la sublimazione e con l’oggetto, l’amor cortese come anamorfosi, il sadismo di Kant e il kantismo di Sade quale cifra della paradossalità del godimento, il tragico fulgore di Antigone, quell’apparente digressione, dunque, che assume la forma di un lungo periplo attorno al vuoto centrale di das Ding, tutta la questione dell’etica della psicoanalisi si riduce – ed è forse poco? – alla domanda «avete agito conformemente al desiderio che vi abita?» (Lacan 2008, 364).
Una domanda, questa, che esprime tutto lo iato che sussiste tra la prospettiva della psicoanalisi e quella funzione che Lacan chiama il «servizio dei beni» – tema privilegiato della riflessone sull’etica da Aristotele a Bentham – perché nell’analisi non ne va né di una coincidenza tra il bene e il piacere, negata dalla condizione di quell’$ che è il soggetto dell’inconscio, né di una rettifica del rapporto tra il desiderio e la dimensione sociale dei beni, «beni privati, beni di famiglia, beni della casa, e altri beni ancora che ci sollecitano, beni del mestiere, della professione della città» (Lacan 2008, 351). Pensare che un’analisi di successo si riduca al raggiungimento di «una posizione di agio individuale», il «farsi garante» da parte dell’analista «che il soggetto possa in qualche modo trovare il suo bene anche nell’analisi è una sorta di truffa» (Lacan 2008, 351).
L’analisi, in quanto fondata sull’ipotesi freudiana dell’inconscio, la quale presuppone che tanto il sintomo quanto l’agire per così dire normale dell’uomo abbiano un senso nascosto che il lavoro analitico può scoprire, configurandosi come un «ritorno al senso dell’azione» contiene in sé «la forma embrionale di un antichissimo γνῶθι σεαυτόν» che tuttavia, a differenza di tante sue forme antiche e moderne, dà adito a un’«esperienza tragica della vita» (Lacan 2008, 362 -363). Laddove tragico assume il senso di irrisolto e indecidibile.
Lo si può apprezzare meglio guardando a quel motore della seduta analitica che è il sintomo. Esso coincide sempre con una soluzione di compromesso ad un conflitto pulsionale, con una soluzione quantomai soggettiva e particolare ad una contraddizione, pur sempre risolta nonostante la sofferenza che tale “soluzione” comporta: di fronte a ciò il lavoro analitico interviene non tanto per appianare la contraddizione, ma per portarla alla luce, per consentire al soggetto di riconoscerla come propria e prendere attivamente posto in essa (Zupančič 2018, cfr. 102 sgg.).
È precisamente in questo punto che si percepisce lo scarto tra la prospettiva analitica condensata nel ritorno a Freud di Lacan e tutte le altre prassi psicoanalitiche post-freudiane e, ancor di più, ogni altra forma di psicoterapia cognitivo-comportamentale, uno scarto che deriva da orientamenti etici di fondo tra loro inconciliabili. Se queste ultime si propongono di consolidare le labili forze dell’Io, di portare il soggetto a gestire e amministrare i propri sintomi – si pongono, in breve, dal lato della padronanza – l’analisi di orientamento lacaniano – fondata fin dalle origini sull’approfondimento dell’intuizione freudiana della vasta estensione del soggetto dell’inconscio (je), nella quale l’Io (moi) non è che una tra le varie istanze in gioco, peraltro risultato di una configurazione immaginaria, dunque aggregato di successive identificazioni (Recalcati 2012, 1-10) – passa, come implicito nelle formulazioni precedentemente citate, per una presa di posizione rispetto alla totalità, molteplice, conflittuale, e sempre irrisolta di se stessi.
Quanto acquisito finora è espresso, quale attento testimone, dalla formalizzazione del discorso analitico.
In esso troviamo l’oggetto a ad occupare la posizione dell’agente, sostenuto dal significante del sapere che si situa, sotto la sbarra della rimozione, nel posto della verità. Da qui, dalla posizione dell’agente, interpella il suo altro, vale a dire il soggetto barrato, il soggetto dell’inconscio e il tutto sfocia nella produzione di S₁, quel significante, dice Lacan (2011, 86), per cui si possa risolvere il rapporto del soggetto con la verità. Con la verità, è ormai chiaro, discordante, eccedente, talvolta persino inaccettabile del proprio desiderio.
A questo punto parrebbe legittimo chiedersi, che resta qui di antropotecnico? Il quadro finora delineato sembra infatti avvalorare l’idea che la psicoanalisi operi in un territorio, la vasta geografia dell’inconscio, in cui viene negato ogni potere all’influenza dell’abitudine. Il che non deve certo sorprendere. Tuttavia non bisogna dimenticare né la grande elasticità intrinseca al concetto sloterdijkiano di antropotecnica, che permette di sussumere sotto di esso i fenomeni apparentemente più disparati, anche ciò che in prima battuta pare l’opposto di un esercizio, né il fatto, invero piuttosto banale, che la dimensione stessa del setting analitico, il susseguirsi delle sedute, l’instaurarsi del transfert, presuppongono tacitamente l’inscriversi di routines e abitudinarietà, una tacita ripetizione di esercizi da entrambe le parti.
È qualcosa che emerge nella domanda freudiana sulla terminabilità dell’analisi, perché nonostante Freud (1977) ritenga la questione della fine di un’analisi un affare prettamente pratico – legato al raggiungimento di obiettivi minimi quali l’imbrigliamento egosintonico delle pulsioni e il loro farsi permeabili agli influssi che promanano le altre tendenze del soggetto – l’intero testo di Analisi terminabile e interminabile, con la sua insistenza sui problemi e gli ostacoli che si frappongono al termine della terapia, sta lì a dichiarare l’implicita adesione all’idea dell’analisi quale percorso interminabile, interminabile esercizio, incessante prodursi di Costruzioni nell’analisi – come recita il titolo del breve articolo coevo – le quali peraltro, nella loro provvisoria precarietà, esprimono tutta la refrattarietà della teoria come della pratica analitiche a una chiusura definitiva. A quella chimera, dunque, che è la «liquidazione permanente di una richiesta pulsionale» (Freud 1977, 31).
Certo, tornando all’etica della psicoanalisi proposta da Lacan, è innegabile la presenza in essa di una certa disposizione dionisiaca, come di un certo determinismo rispetto alla presa del significante su di noi (Benvenuto & Lucci 2014) ma è altrettanto innegabile – e qui si trova uno spiraglio di libertà – che «possiamo cambiare la nostra posizione soggettiva rispetto a quel che siamo» (Benvenuto & Lucci 2014, 105).
Si diceva che quell’Io che noi siamo, o meglio, quell’Io che è parte di noi e con cui noi tendiamo esclusivamente ad identificarci, altro non è che un aggregato di identificazioni, legato al registro dell’immaginario e alle dinamiche di alienazione narcisistica che pertengono, inevitabili, all’esperienza di ciascuno. Ed è proprio a questo livello che si manifesta un’altra possibile accezione della psicoanalisi intesa antropotecnicamente, cioè il suo configurarsi come pratica di critica gestione delle nostre identificazioni. In questo campo infatti – campo in realtà più esteso delle sole dinamiche identificatorie, perché bisogna sempre ricordare come il campo della libido dell’Io, delle identificazioni e dei rapporti tra Ideal-Ich e Ich-Ideal, sia in realtà un continuum del quale i fenomeni dell’innamoramento, degli investimenti d’oggetto e della libido oggettuale, sono l’esatto rovescio speculare – si può rintracciare il secondo lato della definizione sloterdijkiana di antropotecnica, l’incremento dell’immunità del soggetto.
Ma da che cosa è utile che il soggetto diventi immune? Dalle proprie identificazioni o, il che è lo stesso, dall’illusione della propria consistenza, della propria monolitica unità, che il lavoro analitico spazza via mostrando al soggetto il suo essere attraversato dal discorso e dal desiderio dell’Altro, da un’eccentricità che deborda il suo semplice identificarsi con un significante – «penso dove non sono, dunque sono dove non penso» (Lacan 2002, 512). Ma anche dalla dimensione fantasmatica, anch’essa in fondo ineliminabile, dell’esperienza amorosa, rispetto alla quale Lacan, con il consueto stile gnomico non privo di ironia, sembra dire l’ultima parola sentenziando – non c’è rapporto sessuale. Non si può porre il rapporto sessuale perché è impossibile, in breve, che due facciano Uno. Si tratta di mettere in discussione, innanzitutto, l’idea che il godimento sessuale – espressione tautologica – si identifichi con l’amore. «Il godimento dell’Altro» afferma Lacan «[…] del corpo dell’Altro che lo simbolizza, non è segno dell’amore» (Lacan 2011, 5). Ma, sotto la lente d’ingrandimento della psicoanalisi, anche il godimento del corpo si sfalda e si pluralizza, sfociando in una miriade di rivoli:
come sottolinea mirabilmente quella specie di kantiano che era Sade, si può godere soltanto di una parte del corpo dell’Altro, per il semplice motivo che non si è mai visto un corpo avvolgersi completamente, fino a includerlo e fagocitarlo attorno al corpo dell’Altro. […] Il godere ha questa proprietà fondamentale, che insomma è il corpo dell’uno a godere di una parte del corpo dell’Altro (Lacan 2011, 23).
Di qui il doppio genitivo implicito nell’espressione godere del corpo in cui si gioca, nel Seminario XX, la distinzione tra il godimento fallico e il suo al di là, la nota estatica del godimento femminile. Si tratta, infine, di mettere tra parentesi quell’idea, cruciale nella tradizione occidentale, per cui amare sarebbe fondersi in un’unità indistinta.
Siamo una cosa sola. Tutti sanno, naturalmente, che non è mai capitato che due facessero uno, ma insomma, siamo una cosa sola. È da qui che parte l’idea dell’amore. È veramente il modo più rozzo di dare al rapporto sessuale, a questo termine che evidentemente sfugge, il suo significato. L’inizio della saggezza dovrebbe consistere nell’iniziare a rendersi conto […] che l’amore, se è vero che ha rapporto con l’Uno, non fa mai uscire nessuno da se stesso (Lacan 2011, 45).
Dopo questa traversata, inevitabilmente parziale, è bene ancorarsi a qualche punto fermo, ben sapendo che ogni approdo non è che un provvisorio punto di partenza. Che cos’è, dunque, la psicoanalisi? La psicoanalisi è quella strana antropotecnica, che ci immunizza – di un’immunità che è essa stessa immune dal sogno illusorio di un’immunità totale e definitiva – dal credere che l’amore e il godimento siano la stessa cosa, che desiderio e godimento coincidano sempre giungendo a soluzione, che l’amore sia fondersi in un’unità inscindibile e cannibalesca, che l’in-dividuo sia realmente tale…immunizzarsi, in fondo, dal fantasma dell’Uno in ogni sua forma, dalla credenza che la sintesi del molteplice nell’unità sia chiusa una volta per tutte.
È quindi assodata l’appartenenza della psicoanalisi al campo dell’etica, nel quale apporta una prospettiva originale, che è in fondo, come notava un osservatore ad essa estraneo quale Foucault (2011, cfr. 26-27), una riemersione di una forma di cura di sé e direzione spirituale interamente focalizzata sui rapporti tra soggetto e verità, sul prezzo che il soggetto paga per dire il vero su se stesso e sull’effetto che ciò comporta. Ed è altrettanto assodato che il tutto si traduca in un saperci fare con le proprie identificazioni. Può tutto questo avere a che fare con una dimensione latamente politica? Occorre rammentare la centralità che Freud attribuisce, in Psicologia delle masse e analisi dell’Io, saggio cruciale perché contiene il nucleo della «dottrina socio-politica della psicoanalisi» (Benvenuto 2021, 10), ai meccanismi identificatori come base della formazione dei collettivi.
Tale grafico è il risultato dell’enunciazione della «formula della costituzione libidica di una massa», la quale prende corpo quando «un certo numero di individui» è giunto a porre «un unico e medesimo oggetto al posto del loro ideale dell’Io» identificandosi in tal modo «gli uni con gli altri nel loro Io» (Freud 2011, 234-235). I membri di un collettivo, dunque, dal partito fascista allo stesso movimento psicoanalitico, si riconoscono e si amano l’un l’altro in quanto tutti fanno riferimento a quello stesso oggetto esterno, opportunamente idealizzato, che è il capo.
Per Freud infatti non c’è Masse senza capo, perché ogni formazione collettiva rappresenta una regressione, seppur parziale, a quello stadio arcaico di soggezione che Freud indica con il mito dell’Urhorde e dell’uccisione del padre primordiale e che testimonia della «funzione costitutiva del politico rispetto al sociale» (Benvenuto 2021, 55). Ciò equivale a riconoscere, anche pensando agli aggregati umani dichiaratamente più aperti e tolleranti, che «per Freud ogni collettivo è nel fondo fascista» (Benvenuto 2021, 37). E ciò accade anche, come sottolinea Benvenuto (2021) operando una rilettura in chiave lacaniana della Massenpsychologie, quando a unire il gruppo non è tanto un individuo fisico ma un’idea-guida: basta infatti guardare alla formula del discorso del maître per notare come ogni capo individuale sia tale in quanto occupa il luogo del capo, identificandosi con quell’S₁, significante-padrone, identificandosi e facendosi identificare con una visione statuaria di sé che rimuove il suo essere dotato d’inconscio, attraverso un’operazione che ricorda la kantiana sussunzione del molteplice della sensibilità sotto la categoria che, a priori, chiede riempimento.
Che dire, dunque? Se è implicita nella psicoanalisi la possibilità di una prassi di disinnesco, attraverso esercizi reiterati di affinamento dello sguardo critico, delle proprie identificazioni – di cui le identificazioni politiche sono una parte preponderante – è allora giustificato un uso mediatamente politico della stessa. Mediatamente perché la psicoanalisi, figlia dell’età delle democrazie liberali, è quel legame sociale sciolto da ogni altro legame sociale, nella dimensione a tu per tu tra analizzante e analista, che consente di rimettere in scena sempre di nuovo il dramma originario del parricidio, dell’emersione della psicologia individuale dal magma della psicologia collettiva, emancipando così il soggetto dai rapporti densi e immediati della Gemeinschaft e introducendolo in quell’ambito, forse un po’più freddo e dominato dalla mediazione tra istanze contrapposte che è la Gesellschaft (Benvenuto 2021). Si può così insegnare al soggetto a stare in guardia – a immunizzarsi, sempre nel senso di un’immunità mai garantita fino in fondo e perciò bisognosa di un esercizio interminabile, dall’essenza fascista di ogni collettivo. E a immunizzarsi, ancora, da tutta una serie di dinamiche, quantomai attuali, spiegabili attraverso quell’integrazione alla Massenpsychologie freudiana che è il diagramma del circolo dell’alienazione politica proposto da Benvenuto (2021).
Se l’immagine ideale del capo-S₁, nel corso del processo di idealizzazione, tende sempre a scindersi espellendo da sé il suo contrario, l’anti-ideale come oggetto-scarto su cui si riversa l’odio e l’aggressività che contribuisce a tenere unito il collettivo, coalizzato contro ogni possibile nemico esterno o interno, ecco che si presenta la possibilità, per tramite della psicoanalisi, di una profilassi da ogni inevitabile dinamica settaria, da ogni nazionalismo, sovranismo e populismo…da tutti quegli -ismi che, nel dibattito pubblico come in quello accademico, contribuiscono a irrigidire e polarizzare la discussione sfociando in una triste «miseria identitaria» (Benvenuto 2021, 121). Una contrapposizione, insomma, tra posizioni identitarie dimentiche della loro labile natura immaginaria e del loro essere, come tutti, soggetti dell’inconscio – dimenticanza, questa, che quella strana antropotecnica che è la psicoanalisi, in quanto ci insegna qualcosa sul politico, può contribuire a colmare.
di Luca Valsecchi
Bibliografia
Benvenuto, S. (2021). Soggetto e masse. La psicologia delle folle di Freud. Roma: Castelvecchi.
Benvenuto, S. & Lucci, A (2014). Lacan oggi. Sette conversazioni per capire Lacan. Milano-Udine: Mimesis.
Foucault, M. (2011). L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège deFrance(1981-1982). Trad. it. di M. Bertani. Milano: Feltrinelli.
Freud, S. (1977). Analisi terminabile e interminabile. Costruzioni nell’analisi. Trad. it. di R. Colorni. Torino: Bollati-Boringhieri.
Id. (2011). Psicologia delle masse e analisi dell’Io. Trad. it. di E. Panaitescu. Torino: Bollati-Boringhieri.
Id. (2012). Introduzione alla psicoanalisi. Trad. it. di M. Tonin Dogana & E. Sagittario. Torino: Bollati Boringhieri.
Lacan, J. (2002). L’istanza della lettera dell’inconscio o la ragione dopo Freud. In Scritti (I). A cura di G. Contri. Torino: Einaudi.
Id. (2008), Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi (1959-1960). A cura di A. Di Ciaccia. Torino: Einaudi.
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Recalcati, M. (2012). Jacques Lacan. Desiderio, godimento, e soggettivazione. Milano: Raffaello Cortina.
Sloterdijk, P. (2010). Devi cambiare la tua vita. A cura di P. Perticari. Milano: Raffaello Cortina.
Zupančič, A. (2018), Che cos’è il sesso? Trad. it. di P. Bianchi. Milano: Ponte alle Grazie.
“E’ una bella buffoneria, il parlare: con esso l’uomo danza su tutte le cose.
Come è gradevole ogni discorso e ogni bugia di suoni!
Con i suoni il nostro amore danza su arcobaleni multicolori”
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra
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Nel 1973 un giovane psicologo allora poco più che ventenne convinse altre sette persone mentalmente sane a farsi internare assieme a lui in dodici ospedali psichiatrici americani, omogeneamente distribuiti tra la East e la West Coast, per condurre un esperimento scientifico.
Gli pseudomalati si presentarono presso questi centri specialistici esponendo una problematica specifica: sentivano delle voci proferire affermazioni confuse, oscure e dalle quali era possibile distinguere solo parole come “Empty” (Vuoto), “Thud” (rumore sordo) e “Hollow” (cavo), lamentando inoltre un senso di insoddisfazione generalizzato: come l’impressione di vivere per l’appunto una vita “vuota e priva di significato”.
Sette su otto pazienti vennero internati con una diagnosi di schizofrenia e furono poi dimessi, da una settimana fino a due mesi dopo, una volta accertata la “remissione” della loro fantomatica crisi psicotica.
Ironia della sorte, solo alcuni tra i pazienti psichiatrici ricoverati in questi ospedali si accorsero che in effetti c’era qualcosa che non quadrava, ovvero che questi sedicenti malati mentali non avevano nulla a che spartire con gli altri (quelli veri…), mentre i dottori si limitarono a giustificare i tempi record in cui erano state guarite queste psicosi immaginarie evocando il potere taumaturgico degli psicofarmaci somministrati.
Come se già questi risultati sperimentali, letteralmente raccolti sul campo, non bastassero da soli a insinuare qualche dubbio relativamente all’affidabilità dell’impianto nosografico e dottrinario di quella branca della medicina che passa sotto il nome di “psichiatria”, il noto esperimento – il Rosenham experiment, che prende il nome dallo psicologo David Rosenham, l’ideatore ed il primo sperimentatore di questa entusiasmante beffa epistemologica… – continuò anche dopo che tutti i sedicenti malati mentali furono dimessi dai reparti in cui erano stati maldestramente ricoverati. Lo staff di questi sanatori, infatti, venne informato che nei tre mesi successivi alla dimissione degli pseudomalati (i quali, per parte loro, avevano già palesato la loro identità ed i loro intenti al personale sanitario) negli stessi ospedali sarebbero stati inviati altri individui mentalmente sani per continuare a mettere alla prova la plausibilità e la veridicità delle categorie diagnostiche allora in uso. In un ospedale lo staff tacciò addirittura quarantuno pazienti su centonovantratrè nuovi ricoverati di essere dei finti malati, dei simulatori sperimentali di psicosi, ma nessun individuo era stato in realtà inviato da Rosenham in quell’istituto – come d’altronde negli altri, che caddero però tutti nello stesso tranello…
Ora: se l’esperimento in questione da una parte prova a rispondere alla domanda “Se la sanità e la malattia mentale esistono, come facciamo a conoscerle?” (Rosenham 1973, 250), dall’altra – e forse proprio perché offre una risposta a dir poco perturbante a questo quesito… – fa piombare gli studiosi di psicologia, scienze sociali, medicina e filosofia in un vero e proprio paradosso istituzional-epistemologico.
La psichiatria infatti esiste, esiste il TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio) quale sua extrema ratio ed esistono le pratiche di contenzione farmacologica che in alcuni casi compromettono irreversibilmente il funzionamento psichico e sociale dei pazienti che le ricevono, ma non esiste nulla che assomigli, anche solo lontanamente, ad una definizione scientifica, irrefutabile e chiara, di cosa sia la malattia mentale, di quali siano i parametri oggettivi che la definiscono e le cause che la innescano. Mancano, in breve (oggi come all’epoca del Rosenheim experiment), i criteri tali per cui la malattia psichica possa essere istituita come categoria scientifica ontologicamente opposta, in modo definitivo e non ambiguo, a quella altrettanto problematica di “sanità mentale”.
Ebbene: lo strumento atto a risolvere (anche se solo a livello legale, istituzionale e squisitamente formale, come vedremo) questo paradosso ontologico - politico di per sé insolubile è il DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders 2014) ovvero il testo sacro della psichiatria occidentale, in costante aggiornamento ed ormai giunto alla sua quinta edizione, sul quale Sergio Benvenuto getta uno sguardo spietato ed ironico in una delle sue più recenti pubblicazioni: Lo psichiatra e il sesso. Una critica radicale del DSM – 5 (Mimesis, 2020).
L'indagine di Benvenuto (rinomato psicanalista e filosofo napoletano, allievo di Laplanche ed interprete sui generisdell’opera di Freud e Lacan) si distingue per originalità e audacia dalle innumerevoli, viete e monotone critiche al DSM di matrice antipsichiatrica. Il testo si propone per l’appunto di rilevare le criticità, le aporie e le contraddizioni che emergono da una lettura, certosina e attenta come solo l’ascolto psicoanalitico può permettere, della sezione dedicata ai disturbi sessuali. Certo, non manca un intero capitolo dedicato all’indagine della filosofia e dello spirito intellettuale che animano il monumentale progetto enciclopedico-nosografico del tanto celebre quanto bistrattato manuale diagnostico e ciò che lì traspare, in controluce, oltre all’assoluta infondatezza scientifica di quello che nel DSM-5 è affermato con inflessibile rigore, è anzitutto la torbida collusione ed il fatale intreccio tra le funzioni normative e descrittive, disciplinari ed analitiche che animano tale opera. L’autore sostiene infatti che «il DSM non è creatura della sperimentazione scientifica; è una costruzione essenzialmente etico-politica, addirittura un artefatto filosofico. Un costrutto “ideologico” direi, se io fossi marxista» (p. 53).
D’altronde anche solo per quanto riguarda la sfera dei disturbi sessuali – quella su cui si concentra la maggior parte del libro – l’autore evidenzia come lungi dal porre dei problemi relativi all’eziopatogenesi o al decorso clinico dei disturbi esaminati, e piuttosto di porsi questioni relative all’elaborazione teorica dei concetti che definiscono le patologie in questione, il DSM-5 aspiri anzitutto a perpetrare in ambito medico ed istituzionale una vera e propria finzione epistemico-ontologica. Il DSM-5, “l’artefatto filosofico” che Benvenuto nel suo libro smonta e demolisce pagina dopo pagina, non sarebbe nient’altro allora che lo strumento atto a sostenere e a diffondere il miraggio, l’illusione o la conciliante utopia secondo cui la sessualità potrebbe essere intesa come qualcosa di governabile, amministrabile e rendicontabile. E nel fare questo il manuale più utilizzato dagli psichiatri di tutto il mondo per produrre delle diagnosi psichiatriche sembrerebbe rispondere più a necessità di ordine igienico-sociale (come d’altronde già rilevato dallo stesso Foucault, e proprio a proposito della storia della psichiatria…) che ad esigenze di tipo scientifico o meramente medico-sanitario.
Il DSM viene infatti presentato dall’autore come un testo che, non misurandosi con i criteri di veridizione e validazione scientifici canonicamente intesi, si profila come il risultato di una calibrazione di varie correnti ideologiche e culturali presenti anzitutto nella psichiatria americana ed in secondo luogo nel cosiddetto “senso comune”. Basti pensare al caso esemplare dell’omosessualità: questa è stata depennata dalla ridda dei disturbi mentali elencati nel DSM solo nel 1974, durante la stesura della terza edizione e non a seguito di uno studio scientifico, statistico o quantitativo che ne stemperasse la supposta nocività ma letteralmente per alzata di mano…
In fondo è come se la metodologia che presiede alla definizione della malattia mentale e segnatamente dei disturbi sessuali, nel DSM, si limitasse a replicare passivamente l’andamento delle morali secolari, delle ideologie dominanti e del senso comune che si susseguono, di volta in volta e di epoca in epoca, come vere e proprie mode – così da offrirne una sorta di sanzione pseudoscientifica, una convalida istituzionale che ha lo scopo precipuo di assicurare stabilità (per quanto debole e basculante, in quanto teoricamente infondata…) all’assetto istituzionale e politico della psichiatria.
Quello che rimarca Benvenuto, allora, è che grazie ad una strategia che si basa su una sorta di formalizzazione grossolana ed approssimativa del senso comune dominante e collocandosi negli anfratti di quell’interdipendenza esiziale e per certi versi ineluttabile tra l’istituzione medica e quella giuridica, «la diagnostica psichiatrica – DSM-5 incluso – non è affatto oggettiva” ma “assorbe invece come una spugna visioni diffuse, mentalità, tropismi politico-filosofici alla moda, pregiudizi correnti, insomma, quelle che chiamerò Filosofie Popolari Dominanti, e dà a questo assorbimento una sorta di avvallo scientifico» (p. 31).
Esemplare, a tal proposito, è il caso del diverso trattamento riservato dai redattori del DSM-5 a quei due atteggiamenti che potremmo localizzare agli estremi della sessualità umana ovvero la castità e la promiscuità: quali sono i criteri che definiscono patologica l’assenza di eros e interessi sessuali (detta “anerosia”) tra i sedici ed i quarantaquattro anni (e perché non quattordici, quarantacinque o cinquanta?) e che permettono d’altra parte di soprassedere silenziosamente su di un’eventuale patologizzazione dell’ipersessualità, ovvero della dipendenza morbosa da rapporti sessuali con molti partner? La risposta dell’autore è netta ed ha un valore paradigmatico per quanto riguarda l’impianto pseudo-teorico e pseudo-scientifico del DSM:
«La ragione […] è etico-filosofica, non certo scientifica. Il punto è che oggi una certa promiscuità sessuale non solo è pienamente accettata, anche nelle donne, ma in molti casi è persino esaltata. Ammettere una categoria di sessuo-dipendenza potrebbe diventare una mina per un manuale diagnostico, in quanto potrebbe patologizzare chiunque sia un po' promiscuo. […] È la prevalenza di una filosofia popolare favorevole ad un’intensa attività sessuale, sia negli uomini che nelle donne, ad aver fatto scartare questo comportamento come disordinato» (p. 86).
Ora: è proprio nella misura in cui risulta logicamente e materialmente impossibile offrire un rendiconto sistematico, scientifico ed obiettivo di quei fenomeni cangianti e plastici che sono i costumi e le morali sessuali che i redattori dei vari DSM sono stati costretti ad adottare una metodologia non solo antiscientifica, ma anche assolutamente priva di qualsiasi riferimento critico all’epistemologia o alla filosofia della scienza. D’altronde ad essere recepita dagli autori del manuale diagnostico, secondo Benvenuto, non sarebbe nient’altro che la richiesta di senso avanzata dai più reconditi ed inconfessati anfratti della realtà sociale, e relativamente a questioni che potremmo benissimo derubricare – in un’ottica non ossessionata dalla medicalizzazione o dalla politicizzazione di ogni intimo recesso dell’esperienza umana… – come “esistenziali”, “ontologiche” o più semplicemente “metafisiche”. Tanto il concetto di sanità mentale quanto quello di una sessualità articolabile nei termini sanzionati e previsti dai linguaggi medico e giuridico solleverebbero per l’appunto interrogativi difficilmente liquidabili ricorrendo ad una terminologia e ad un metodo scientifici, con studi statistici o con generalizzazioni “da manuale” ad usum consumi di medici e giuristi. Là dove il DSM-5 e le edizioni che lo hanno preceduto falliscono, o quantomeno mostrano la corda, insomma, non è allora tanto nell’uso improprio di un impianto assolutamente privo di solide basi scientifiche ma è, al contrario, proprio nella pretesa (…delirante?) e nella perversa velleità di rendicontare e misurare, a fini tutto sommato disciplinari ed organizzativi, un fenomeno così proteiforme e variegato com’è quello della sessualità umana. Ma mai come in questo caso è proprio l’oggetto in sé (l’oggetto che in un linguaggio lacaniano ed heideggerianeggiante potremmo chiamare Das Ding…) che non si presta ad essere regolato, ordinato ed addomesticato da nessun discorso oggettivante e scientifico.
Come giustamente saprà Benvenuto, infatti, non v’è altra lezione che la psicoanalisi possa offrire per quanto concerne il rapporto del soggetto con il sesso e con il godimento ivi implicato se non questa: che “il sesso fa buco nel sapere” (per dirla con una celebre espressione di Lacan) e che il vuoto scavato da questa assenza deve essere assunto soggettivamente, secondo modalità sempre individuali e non generalizzabili. La sessualità umana costituisce infatti l’ostacolo, l’incaglio inaggirabile di ogni ontologia proprio perché quel che vi è in ballo, in questioni del genere, è davvero impermeabile ad ogni riduzionismo (manualistico, ideologico, politico) e refrattario ad ogni tipo di generalizzazione (enciclopedica, giuridica, ma anche identitaria…) in quanto radicalmente e fondamentalmente privo di senso[1]. Ed è qui che il libro di Benvenuto si presta ad una lettura inaspettatamente attuale e decisamente controcorrente.
Quando l’autore afferma che «i DSM non sono affatto liquidabili come aggeggi conservatori; al contrario, sono molto porosi a tutte le lobbies “identitarie” che oggi dilaniano l’America» (p. 86) sembra proprio che suggerisca un insolito parallelismo tra il programma diagnostico/disciplinare propalato dai redattori del DSM ed il programma emancipazionista che anima i vari movimenti identitari, come il movimento LGBTQIA+, che oggi imperversano ovunque nel mondo (o almeno in quello occidentale, democratico e liberale).
Per cogliere appieno il senso di questa sublime coincidentia oppositorum indicata quasi subliminalmente dall’autore basti pensare, ad esempio, che l’espansione costante a cui è sottoposta la sigla acrostica “LGBTQIA+” (e che varia a seconda di quanti genders o quante espressioni della sessualità umana vengano…come dire…scoperte? Ma poi: da chi?) sembra essere direttamente proporzionale all'aumento cui è sottoposto il tanto vituperato manuale psichiatrico (le pagine del DSM passano in sessant’anni, dalla prima alla quinta edizione, da 130 a 886 mentre le diagnosi psichiatriche quasi triplicano, aumentando da 106 a 297). In fondo è come se sia la sigla “LGBTQIA+” che il DSM fossero spronati da una sorta di forza motrice, invisibile e costante, che se da una parte concede a quelle minoranze che di volta in volta si scoprono tali il lusso di farsi rappresentare da una letterina maiuscola all’interno della sigla ufficiale della loro community dall’altra, al rovescio, produce una differenziazione ed una moltiplicazione incessante delle voci indicanti le patologie psichiatriche. Ad un prima occhiata è proprio come se vi fosse una sorta di paradossale comunione d’intenti (e che concerne la classificazione, la numerazione e la schedatura…) tra un programma politico liberatorio e la redazione di un manuale diagnostico…ma il punto, ovviamente, non è questo. Il punto è che entrambi i discorsi che stanno dietro a quegli “artefatti filosofici” che sono il movimento LGBTQIA+ da una parte e il DSM dall’altra (ovvero il discorso emancipatorio e quello disciplinare), proprio perché sono lungi dal porsi i problemi relativi all’elaborazione ontologica ed epistemologica delle loro premesse possono benissimo essere ascritti alla risma di quelle Filosofie Popolari Dominanti che per Benvenuto non fanno altro, come abbiamo già detto, che condensare il turbinio di “visioni diffuse, mentalità, tropismi politico-filosofici alla moda e pregiudizi correnti”. Ma non è tutto.
Il parallelismo tra DSM e movimento LGBTQIA+ può essere spinto ancora più in la, sino al cuore della questione che interessa le premesse ideologiche del DSM. Infatti è proprio il concetto che funge da pietra angolare ai gender studies, il concetto di “disforia di genere”, ad essere chiamato in causa da Benvenuto quale vera e propria “chiave di volta” dell’intera architettura pseudo-teorica del manuale diagnostico nella misura in cui, secondo l’autore, «per il DSM tutti i Disordini, tutto lo psicopatologico, sono disforie. Avrebbe potuto chiamarsi Diagnostic and Statistical Manual of Disphorias» (p. 98). Il termine in questione difatti non ha un preciso significato medico e non si riferisce a nulla che possa essere in un qualsiasi modo rilevato, verificato o testato ma, anzi, «connota qualcosa di squisitamente affettivo. Il termine greco δυσϕορία deriva da δυσ- (“cattivo”) e φέρω- (“porto”); letteralmente: “portare del cattivo”. Quindi, il termine ha una marcata connotazione emotiva, patetica. Si oppone a “euforia” e potremmo tradurlo con malessere» (p. 97).
È evidente, allora, come in un contesto in cui risulta impossibile separare e distinguere il normale dal patologico o il sano dal malato in modo netto, oggettivo e con l’obiettivo di produrre generalizzazioni profittevoli tanto sul piano nosografico quanto su quello politico-rappresentativo, il concetto di disforia possa funzionare come vero e proprio asso piglia tutto, come un jolly retorico. Tagliando corto su questioni di non poco conto come l’elaborazione di parametri atti ad individuarne la cogenza, o l’istituzione di soglie di tolleranza tali da rendere i disturbi psichici in questione più o meno gravi, il concetto di disforia funziona come passepartout retorico sia sul piano politico-identitario che su quello psichiatrico. D’altronde qual è il miglior discrimine per creare consenso attorno a ciò che non va, nella realtà sociale così come nella psiche individuale, che l’accorato appello ad una forma di inesprimibile, privato ed insondabile malessere?
Come abbiamo visto la critica radicale al DSM che Benvenuto propone nel suo acuto ed originalissimo libro è tesa a vagliare, ad indagare e a contestare la credibilità e la plausibilità della nosografia psichiatrica con gli strumenti offerti dalla psicanalisi e dalla filosofia. Per concludere si potrebbe però affermare, ed al netto di ogni ironia, che tanto i risultati del Rosenheim experiment condotto negli anni settanta quanto le riflessioni proposte più recentemente da Benvenuto confermano indirettamente quanto ebbe a dire Giacomo Contri, in una delle sue ultime interviste, a proposito della figura di Jacques Lacan: "Il manicomio di Lacan era il mondo!". Per quanto perturbante e scomodo possa sembrare, infatti, è necessario ammettere che il ricorso a quelle finzioni epistemico-ontologiche che sostengono l’infrastruttura istituzionale della psichiatria è reso necessario da un’urgenza antropologica specifica – magari inconscia, certo, ma comune ad ogni cultura... – che è quanto di più simile vi sia all’evitamento di un’incipiente psicosi. In ballo non c’è niente di meno che l’ineludibile esigenza di istituire un ordine simbolico, l’inaggirabile bisogno di demarcare dei significati, di perimetrare la comunicazione e di istituire quei confini soggettivi ed intersoggettivi senza i quali l’esperienza (ogni tipo di esperienza) è destinata ad inabissarsi nel fondo indistinto e magmatico del non-differenziato. In un simile contesto, quello che connota la condizione umana come sulla soglia del costante crollo psicotico, è chiaro come le categorie di sanità e di malattia mentale (così come quelle di uomo e di donna, verrebbe da dire…) rivestano un ruolo cruciale, fondamentale e cardinale nell’economia della verità, ovvero all’interno di quella pratica specificamente umana che consiste nel riempire di senso quelle pure entità differenziali che sono i significanti. Ma è altrettanto chiaro, soprattutto dal punto di vista psicanalitico, come sia impossibile produrre generalizzazioni, definizioni e categorizzazioni definitive, immutabili e dalla valenza universale – e questo è tanto più vero quanto più la discussione verte su tematiche quali la salute mentale, l’erotismo e la liceità dei costumi sessuali…
Il bisogno di quelle finzioni epistemico-ontologiche di cui parla Benvenuto, insomma, è un bisogno inaggirabile e propriamente umano al quale il Manuale Diagnostico e Statistico delle malattie mentali cerca di rispondere con tutti i limiti del caso ed in modo parziale, certo, ma obbedendo a criteri minimali di efficacia non solo burocratico-istituzionale. Il DSM assolve ad una funzione stabilizzante sul piano simbolico anche a livello, giocoforza, comunicativo ed esistenziale. Per quanto possa risultare difficile o quasi impossibile da riconoscere per gli studiosi di scienze sociali, per gli attivisti e per i filosofi – soprattutto per quelli che non riescono a muoversi al di fuori del recinto della critica, forse un po' dogmatica, al potere costituito… –, in fondo, forse è opportuno ammetterlo e accettarlo senza riserve: l’uomo si nutre di finzioni funzionali, di compromessi simbolici e di definizioni approssimative per evitare di rimettere costantemente in discussione le basi della comunicazione, le premesse del proprio agire e, in ultimo, per non impazzire…
Per tutto il resto ci sono la filosofia e la psicanalisi (e una menzione speciale, qui, spetta ai preziosi libri di Benvenuto). D’altro canto è stato proprio Freud – reclutato suo malgrado tra le file dei filosofi, o quantomeno assurto a punto di riferimento cardine per un certo modo di intendere la filosofia… – a tributare accanto all’ineluttabilità della finzione che ci tiene in ostaggio la necessità di rielaborare, di ripensare e di re-inventare nuovi confini, nuove regole del gioco simbolico individuale e collettivo – egli per primo, infatti, «ha considerato che non c’è nulla se non il sogno, e che tutto il mondo (se ci è concesso usare quest’espressione), tutto il mondo è folle, cioè delirante» (Lacan 1979, 278).
di Filippo Zambonini
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Bibliografia
Benvenuto S. (2021). Il teatro di Oklahoma. Miti e illusioni della filosofia politica contemporanea, Castelvecchi, Roma 2021.
Benvenuto S. (2021). Lo psichiatra e il sesso. Una critica radicale del DSM – 5, Mimesis , Milano – Udine.
Clemente L. F. (2018). Jacques Lacan e il buco del sapere. Psicoanalisi, scienza, ermeneutica, Orthotes, Nepoli – Salerno.
_ (2014). Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Quinta edizione, DSM-5. Raffaello Cortina Editore, Milano.
La meccanica quantistica, occupandosi delle particelle elementari della materia – della sostanza del mondo, diremmo in termini metafisici –, ha dovuto convenire che a quel livello non si incontrano cose, ma solo relazioni. Non c’è una particella in sé, ad esempio l’elettrone, ma una serie di relazioni tra l’elettrone e tutto ciò con cui interagisce.
La grande popolarità riscossa dai libri divulgativi di Carlo Rovelli ha avuto il merito di sollevare questioni filosofiche di fondo a proposito della ricerca fisica di oggi, anche tra non specialisti.
Rovelli è uno dei massimi esponenti della lettura detta “relazionale” della fisica quantistica. Ovvero, spiega – a un pubblico che non dovrebbe essere il proprio – la propria visione scientifica. Approfitterò allora di questo suo testo, Helgoland (Rovelli 2020), per mostrare l’importanza filosofica di alcuni problemi aperti dalla teoria scientifica più rivoluzionaria del XX° secolo, la fisica dei quanti, soprattutto nella prospettiva della filosofia di Wittgenstein.
Quando il fisico fa buona divulgazione, fa per forza filosofia: potremmo dire che le questioni scientifiche diventano filosofiche quando le si guarda fuori dalla pratica scientifica, e infatti nella divulgazione il fisico guarda la fisica dall’esterno, dal punto di vista di chi sa di non sapere. Non entrerò quindi nel merito dell’elaborazione propriamente fisica di Rovelli, piuttosto discuterò la sua interpretazione filosofica (divulgativa) della sua elaborazione.
1.
La teoria [quantistica] non descrive come le cose “sono”: descrive come le cose “accadono” e come “influiscono l’una sull’altra”. Non descrive dov’è una particella, ma dove la particella “si fa vedere dalle altre”. Il mondo delle cose esistenti è ridotto al mondo delle interazioni possibili, la realtà è ridotta a interazione. La realtà è ridotta a relazione (Rovelli 2015, loc. 1632)[1].
Ora, Wittgenstein aveva ricordato ai filosofi (e anche agli scienziati) che essi lavorano sempre con parole, e con parole poste in una successione molto particolare: quella della proposizione. Ogni discorso teorico parla per proposizioni, non con parole alla rinfusa. Questo è il succo di quel che poi si è convenuto chiamare linguistic turn in filosofia: questa non deve mai dimenticare di quale materiale è fatta, del materiale proposizionale.
La proposizione è sempre una relazione. Classicamente si dice che una proposizione è formata da un soggetto e un attributo. Ad esempio in “Giulio Cesare morì pugnalato.”, il soggetto è “Giulio Cesare”, l’attributo è “morire pugnalato”. Wittgenstein nel Tractatus ha semplificato la cosa, dicendo che una proposizione è sempre la relazione tra due oggetti, appunto “Giulio Cesare” e “morire pugnalato.” Questo significa che Giulio Cesare non si è limitato a essere ucciso con pugnalate, ma ha fatto tantissime altre cose. Ed è ovvio che siano morte pugnalate molte altre persone oltre Cesare. Ovvero, i due oggetti si combinano nella proposizione, ma si suppone che esistano indipendentemente dalla loro relazione.
Aggiungiamo (perché questo ci servirà dopo) che secondo Wittgenstein ogni proposizione è un Bild, un’immagine dello stato-di-cose del mondo, di “dati di fatto”: la proposizione di cui sopra ci dà una certa immagine non di Cesare e nemmeno dell’essere uccisi, ma del “dato di fatto” (che sappiamo storicamente vero) che Cesare morì pugnalato. Le proposizioni sono immagini del mondo, non immagini delle cose stesse, dato che il mondo è relazione tra cose per Wittgenstein. Del resto “Giulio Cesare” e “morire pugnalato” sono a loro volta delle relazioni (ad esempio “morire pugnalato” è una relazione tra pugnalare e morire), e così via…. All’infinito? Non arriveremo mai a una cosa veramente elementare? No. Ma qui si apre un altro problema che non tratteremo qui.
Potremmo dire allora che, se “Giulio Cesare morì pugnalato” fosse una proposizione della teoria quantistica (secondo Rovelli), avremmo Cesare solo quando viene pugnalato e muore. Non ci sarebbe un Cesare indipendente dal suo venir pugnalato. Come anche non ci sarebbe un morire-pugnalato che non sia cesarista, per dir così. Il che certo cozza con il nostro senso comune riguardo alla significazione del linguaggio. È quel che Rovelli esprime dicendo che nel mondo delle particelle elementari non ci sono entità, ma solo eventi.
Prima che venisse formulata la fisica dei quanti, alcuni scrittori erano giunti abbastanza vicini a una ontologia del genere. Nel 1893 Henry James (1893) aveva pubblicato un racconto, The Private Life. Tra i personaggi di questo racconto c’è Lord Mellifont, un gentleman perfetto, molto socievole, irreprensibile nel comportamento sociale, il miglior host mondano che si possa incontrare. Ma il narratore scopre un piccolo difetto del Lord: che quando non c’è qualcuno in sua presenza, si dissolve. E si ricompone non appena qualche altra persona appare. Quando Lord Mellifont dipinge un quadro davanti a un’altra persona, se questa si allontana, lui scompare; quando l’altra persona torna, troverà il quadro allo stesso punto in cui il Lord l’aveva lasciato. Persino sua moglie pare non essersi accorta di questo handicap del marito, anche se sembra nutrire qualche sospetto…
Insomma, Lord Mellifont anticipa le particelle elementari secondo la fisica quantistica: esiste se si fa vedere dagli altri. Questo racconto può essere preso come un’allegoria della crisi del pensiero proposizionale a opera della fisica quantistica.
In effetti, su un piano filosofico, la teoria relazionale delle particelle elementari di Rovelli dice che la fisica dei quanti trasgredisce la struttura proposizionale del sapere. Perché la proposizione è sempre una relazione tra cose che vengono presupposte come esistenti al di fuori della loro relazione, abbiamo detto.
Quindi, quando la meccanica quantistica giunge alla conclusione che l’elettrone, ad esempio, è un ente solo relazionale, un evento, si varcano i limiti del linguaggio proposizionale stesso. La scienza, come la filosofia, descrive e spiega la natura attraverso proposizioni: ma quando essa raggiunge il livello del più elementare, questa forma linguistica si mostra inadeguata.
Per questa ragione, si dirà, la scienza preferisce sempre più, anziché parlare per proposizioni, parlare con relazioni matematiche, con equazioni. Ad esempio, con matrici matematiche, come fece Heisenberg, o con “le variabili che non commutano” di Dirac. Perché nessuna proposizione del linguaggio comune può dire i fenomeni degli enti più piccoli. Ora però le equazioni matematiche sono anch’esse delle proposizioni, anche se di tipo particolare.
(Il punto è che Rovelli, non appena si impegna a scrivere opere divulgative, non può fare a meno di ricorrere a proposizioni non matematiche. Insomma, deve dare una forma proposizionale alla fisica dei quanti, anche se questa sembra dare un’immagine non proposizionale della natura. Qui tocchiamo una sorta di paradosso. Ovvero, come esprimere con proposizioni ciò che non è proposizionale?)
Per Wittgenstein le proposizioni matematiche e logiche sono proposizioni analitiche, cioè, in fin dei conti, delle tautologie. Di fatto, esse equivalgono a definizioni. Ad esempio
“5 = 2 + 3”
è sì una proposizione (“cinque è la somma di due e tre”), che di fatto è una delle (infinite) definizioni possibili di “5”. Quelle matematiche sono proposizioni tautologiche o definitorie. Ad esempio “scapolo è un uomo non sposato” potrebbe sembrare una scoperta, in realtà è una semplice definizione di ‘scapolo’, è stabilire una sinonimia tra due significanti (‘scapolo’ e ‘uomo non sposato’).
Ricorrendo sistematicamente a equazioni matematiche, o a equazioni in generale, la scienza di fatto traduce le proprie scoperte in proposizioni definitorie. Per esempio,
“acqua = H2O”
È una definizione dell’acqua? Oggi sì, perché crediamo nella chimica odierna e quindi per acqua intendiamo qualcosa che è formato da due parti di idrogeno e una di ossigeno. Ma quando nel 1783 Lavoisier scoprì questa struttura chimica dell’acqua, allora si trattava di una proposizione sintetica, che dava un’informazione precisa sull’acqua. L’equazione, matematica o chimica che sia, è un atto di forza: scommette sul fatto che una relazione scoperta possa valere come definizione. In questo senso, la scoperta scientifica – ad esempio, la struttura dell’acqua – cambia il senso stesso dell’oggetto di ciò che essa spiega[2]. Da Lavoisier in poi, chiamiamo acqua solo H2O; e tutto ciò che sembra acqua ma non è H2O non sarà acqua (e in effetti, distinguiamo l’acqua dai vari sali che vi sono sciolti). Scoprendo certe strutture, la scienza modifica l’assetto semantico dei nostri linguaggi.
Come in ogni proposizione, anche qui abbiamo entità indipendenti tra loro: l’acqua, l’idrogeno e l’ossigeno. Perché questa formula abbia senso, occorre che i suoi componenti siano già noti, che siano insomma delle entità riconosciute. Se un elemento invece non è noto, avremo un’incognita. Nella scienza non si è contenti finché non si dà il nome di un’entità a questa incognita.
2.
In effetti, dimentichiamo che noi interroghiamo la natura – attraverso la scienza, ma non solo - attraverso il nostro linguaggio, che è strutturato più o meno, come ha dimostrato Noam Chomsky (1970), in un modo che alla scuola media studiavamo come “analisi logica”[3]. C’è una logica del linguaggio (proposizionale) che è a priori, un po’ come le sintesi a priori di Kant. Sostantivo, predicato nominale o verbale, complementi, attributi, ecc. È il tipo di rete che gettiamo sulla natura perché essa ci parli. In effetti, questo non lo dice Wittgenstein, lo dico io elaborando quel che lui dice: fare scienza non è dare semplicemente un’immagine della natura, è prima di tutto una serie di domande che poniamo alla natura e ciò che la natura risponde a esse[4]. È un gioco di domande e risposte. Domande secondo una griglia che lo scienziato appronta, e che può dimostrarsi più o meno perspicua o pertinente. È un po’ come quei sociologi e sondaggisti che pongono alle persone domande con risposta multipla: chi risponde può scegliere, ma solo al di dentro di una griglia data. È previsto anche “Non so”. E in effetti la natura spesso risponde “Non so”. O risponde in modo contraddittorio: per esempio, per secoli la luce, alla domanda “sei fatta di corpuscoli?” o “sei fatta di onde?”, in certi casi rispondeva che era fatta di corpuscoli, in altri casi rispondeva che era fatta di onde…
Ora, le domande poste dalla scienza alla natura hanno una forma proposizionale basilare, anche se, come abbiamo detto, il ricorso a vari tipi di matematica consente di domandare in modo variegato. Il nostro concetto di “ente” in effetti è assolutamente inscindibile dalla forma proposizionale, che implica un sostantivo, qualcosa di sostanziale. Anche se possiamo, a rigore, cambiare il ruolo di sostantivo e attributo. Ad esempio, anziché dire “il mio tavolo è verde” potrei dire “la verdità si particolarizza nel mio tavolo”, dove il sostantivo diventa “la verdità”. Perché no? Probabilmente la forma proposizionale – comune a tutte le lingue, come dimostra la grammatica trasformazionale – è non il nostro modo umano di percepire il mondo, ma di interpretarlo, di ordinarlo ab initio. Comunque è il nostro, non è detto che sia quello della natura stessa. In effetti, se – come asserisce Wittgenstein - ogni proposizione è immagine del mondo, la conseguenza è che il mondo stesso ci dà un’immagine di sé come proposizionale.
Qui avvertiamo l’eco delle fondamentali distinzioni kantiane: c’è uno scarto tra il soggetto e il reale che nessun idealismo potrà colmare. Un’eco kantiana che ritroviamo nell’affermazione di Niels Bohr: “Non c’è un mondo quantistico. C’è solo un’astratta descrizione quantistica. È sbagliato pensare che il compito della fisica sia descrivere come la Natura è. La fisica si occupa solo di quanto possiamo dire della Natura”[5]. Ovvero, la Natura è cosa-in-sé, possiamo dire solo come essa si manifesta a noi. O, in altri termini, una cosa è la natura, altra cosa è quel che possiamo dirne. Ma il paradosso è questo: possiamo dire che di una parte della natura non possiamo dir nulla?
E così, tornando al nostro esempio di “Cesare morì pugnalato”, diamo per scontato che Cesare esista anche quando non viene ucciso. Wittgenstein però si chiede: quando dico a qualcuno “Cesare morì pugnalato”, che cosa intendo per “Cesare”? Per me Cesare è il conquistatore delle Gallie, per te è quello che passò il Rubicone, per un altro è quello che dette a Cleopatra un figlio chiamato Cesarione... Al limite, possiamo associare a Giulio Cesare tratti del tutto diversi, in modo che il mio Cesare non avrà alcun tratto in comune col tuo. Possiamo dire che abbiamo allora “comunicato”? Crediamo di capirci perché usiamo le stesse parole, in realtà per ciascuno di noi le parole significano cose diverse. Gottlieb Frege (1892) direbbe: siamo sicuri che al di là dei Sinne (sensi) delle nostre proposizioni, ci riferiamo alla stessa Bedeutung (denotazione)? Da qui la necessità di definire le nostre parole con altre proposizioni, che a loro volta esigeranno altre proposizioni, e così via….[6] Non all’infinito, perché alla base – si pensa - ci sono degli oggetti sostanziali (“oggetti elementari” dirà Wittgenstein nel Tractatus). Ma lo stesso Wittgenstein si renderà conto che questo presupposto della “sostanza” è puramente immaginario. Per cui darà poi una risposta diversa (nelle Ricerche filosofiche): quando parliamo tra noi, ci capiamo nel senso in cui giochiamo a uno stesso gioco. È come giocare a scacchi: se entrambi conosciamo le regole del gioco, possiamo giocare assieme. Alla base del parlare non ci sono “oggetti” comuni ma giochi linguistici comuni. Parlare in modo sensato non è raffigurare, ma giocare assieme.
3.
Che cosa significa che la scienza viene fatta con proposizioni? Ora, come abbiamo visto in Wittgenstein, le proposizioni sono immagini del mondo, che possono essere anche false, ovviamente. Se dico “Cesare morì di tubercolosi”, dò un’immagine falsa del mondo, ma sempre immagine del mondo è. Quindi la scienza, siccome è un sistema di proposizioni, ci dà un’immagine del mondo, vera o falsa che sia (oggi si parla molto di fake news: ovvero, abbiamo un’immagine essenzialmente falsa del mondo). In filosofia queste immagini del mondo si chiamano modelli. La fisica di Newton ci ha dato una certa immagine dell’universo, Einstein ce ne ha data un’immagine un po’ diversa. E Rovelli ci dice: la fisica dei quanti invece non ci dà alcuna immagine del mondo. E questo al dispetto del fatto che per Rovelli – dico: giustamente – la scienza non si limita a fare previsioni. La scienza non dice solo “se riscaldi l’acqua a 100° C od oltre, allora evaporerà”, del resto si sono fissati 100° C della scala Celsius partendo proprio dal punto di ebollizione dell’acqua… Lo scienziato non avrà pace finché non avrà spiegato il perché l’acqua bolle e a quella temperatura. Ovvero, la scienza non si limita a prevedere, ma cerca di darci un’immagine intellegibile dei fenomeni. Quindi, ci fornisce modelli di come funziona il mondo.
Si prenda la teoria darwiniana, che è comunque una teoria scientifica, vera o falsa che sia: essa non prevede assolutamente nulla del futuro della vita (che in gran parte, del resto, dipende ormai da decisioni umane[7]), ma ci offre un modello storico della vita, cioè ci rende comprensibile ciò che è accaduto e ciò che accadrà degli esseri viventi. Ma rendere intellegibile la natura significa appunto costruire un sistema di proposizioni. La teoria darwiniana è un sistema di proposizioni.
Il punto è che la scienza si trova spesso di fronte a enigmi, ovvero non trova alcuna proposizione per certi fenomeni. Prenderò come esempio un enigma risolto (per ora) e due irrisolti: (1) l’attrazione a distanza tra sole e pianeti nella teoria di Newton, (2) il gatto di Schrödinger, (3) il paradosso EPR.
La teoria di Newton della gravitazione universale all’epoca fu criticata – in particolare dai fisici cartesiani – perché essa supponeva che il sole attraesse i pianeti attraverso il vuoto. Ma come facevano i pianeti a sapere che il sole li attraeva, se tra loro non c’era nulla? Newton non lo sapeva, perciò scrisse “hypothesis non fingo”[8], “non avanzo alcuna ipotesi”. In effetti la difficoltà nasceva dal fatto che i fisici all’epoca accettavano il postulato cartesiano secondo cui ci deve essere contatto diretto tra due oggetti perché l’uno influenzi l’altro. E a distanza non può esserci contatto[9]. Ovvero, certe proposizioni di Newton erano in contrasto con un’altra proposizione considerata fondamentale in fisica, quella del contatto tra gli oggetti perché l’uno fosse causa dell’altro. Riprendendo da Jacques Lacan la nozione di reale[10], dirò allora che l’inspiegabile attrazione a distanza segnalava qualcosa di reale, nel senso che nessuna proposizione fisica all’epoca riusciva a darne un’immagine. L’attrazione a distanza era “miracolosa”.
Dovremo aspettare l’elaborazione della teoria del campo grazie a Maxwell e Faraday, e all’uso che Einstein ne ha fatto, perché l’enigma newtoniano fosse risolto: quella che Newton vedeva come attrazione tra corpi celesti, va interpretata ora come percorrenza in uno spazio curvo. La massa solare curva lo spazio attorno a sé e quindi i pianeti, nella misura in cui vanno dritti… girano attorno. Possiamo quindi dire, col senno di poi, che il campo era il reale per la teoria newtoniana. Quando la scienza è stata in grado di descriverlo – cioè di dargli forma proposizionale – ha cessato di essere reale (nel senso lacaniano).
L’esperimento mentale del gatto di Schrödinger (del 1935) era una provocazione, da parte di Schrödinger, nei confronti dei colleghi quantistici, nel senso che esso sfida un punto fondamentale della teoria dei quanti: l’indeterminatezza. Possiamo dire insomma che Schrödinger stava ai quantistici “puri” (come Bohr e Heisenberg) così come i fisici cartesiani stavano a Newton: entrambi sfidarono i loro avversari facendo appello a un sapere che la teoria non ammette: “come le cose fanno a sapere che…?”
Non descrivo qui il “gatto di Schrödinger” perché basta la descrizione di Rovelli[11]. Va detto comunque che è abusivo dire che, finché non si apra la scatola, il gatto sarà allo stesso tempo vivo e morto, perché il gatto è un oggetto macroscopico. Per gli oggetti macroscopici vale il buon senso, cioè il determinismo: se la scatola fosse trasparente, ad esempio, vedremmo bene che o il gatto resta sempre vivo, oppure a un certo punto muore. Resta però un problema per la fisica quantistica: come spiegare il fatto che a livello macroscopico non si riveli la struttura indeterministica delle particelle elementari? In effetti la fisica dei quanti vale per oggetti molto isolati, mentre nel nostro mondo macroscopico tutto risulta deterministico perché tutto è interconnesso. Abbiamo quindi oggi una visione indeterministica a livello delle particelle elementari, e una visione deterministica a livello degli oggetti macroscopici.
Un altro paradosso, elaborato lo stesso anno del gatto di Schrödinger, è l’EPR (Einstein-Podolsky-Rosen 1935). Il problema sollevato da EPR era la violazione del principio di località, in quanto l'entanglement[12] si mantiene indefinitamente anche tra due particelle (dei fotoni, secondo l’interpretazione più corrente) che hanno interagito e si sono allontanate. Ciò implica che se si misura una grandezza fisica di una, risulta determinata istantaneamente anche quella dell'altra, a prescindere dalla distanza. Anche qui: siccome l’informazione non può superare la velocità della luce, come fa la seconda particella a “sapere” istantaneamente la grandezza della prima e a uniformarsi?
Il paradosso era volto a dimostrare l’incompletezza della meccanica quantistica (essa presupporrebbe cioè delle variabili nascoste). In ogni caso, Wittgenstein diceva che ogni teoria fisica è incompleta[13].
Il termine entanglement non viene mai tradotto nelle varie lingue, data l’ambiguità del suo senso in inglese. Non è una semplice correlazione. Il termine indica qualcosa come groviglio, garbuglio. Il termine più appropriato mi sembra: invischiamento. Ma anche – si badi – imbroglio, truffa… Insomma, il termine connota qualcosa di raffazzonato, se non addirittura di fraudolento… La scelta del termine mi pare che la dica lunga.
Di fatto è la riedizione del dibattito sull’attrazione a distanza: come oggetti sanno quel che succede ad altri oggetti distanti? Sottolineo sanno perché la fisica si basa sul presupposto che “sapere” è una nozione che riguarda solo la mente; la nozione di informazione non implica ipso facto che un oggetto sappia di cosa è informato. Ovvero, la scienza – non solo la fisica – separa nettamente l’epistemico (il sapere) dall’ontico (ciò che è). È quel che Einstein chiamava, a proposito del paradosso EPR, realismo: la fisica dei quanti, secondo lui, infrange il presupposto realista della fisica. Degli animali e degli esseri umani possono sapere, ma una sedia, una foresta, una galassia, non possono sapere… a meno appunto di non riformulare completamente il senso del termine “sapere”, come ha cercato di fare la teoria dei sistemi[14], per esempio. Ma allora, si sospetta sempre un po’ la truffa, l’entanglement…
Eppure il concetto di sapere non solo ammette, ma esige una distanza tra chi sa e cosa è saputo. Sarebbe ridicolo pensare che l’orbita della luna sia deviata dal fatto che un astronomo la osservi con un telescopio. Sappiamo che la luna come massa interagisce con la terra, ad esempio producendo maree. Ma come un puro sapere – animale, per definizione – può interagire con la cosa saputa, che appartiene a tutt’altro ordine ontico? Certo, se sono un osservatore posso interagire con la cosa che osservo: se osservo che mi arriva una palla in faccia, interagisco alzando il braccio e deviando la palla. Ma non interagisco in quanto osservatore, interagisco in quanto massa corporea, il che è molto diverso. L’osservatore in quanto puro osservatore non interagisce, eppure la teoria quantistica dice che si interagisce come osservatori.
Ora, se si segue la falsariga di Wittgenstein, si capirà che la funzione del soggetto (parlante, osservante, percipiente…) è inerente allo stesso concetto di proposizione. Non il soggetto psicologico, sottolineerà Wittgenstein, ma un soggetto che chiamerà metafisico (o trascendentale). Ogni proposizione implica un soggetto che la crea, la dice o la scrive, perché ciò è una conseguenza della definizione stessa di proposizione. Prendo un esempio semplice: “X è in relazione con Y”. Appena leggiamo una proposizione di questo tipo, subito ci chiediamo: Chi l’ha scritta? Quando l’ha scritta? Come l’ha scritta? Che cosa voleva dirci? … Ovvero subito supponiamo un soggetto che sia in relazione con la proposizione “X è in relazione con Y”. Diamo per scontato insomma che ogni relazione, descritta da una proposizione, implichi un’altra relazione, tra la proposizione stessa e chi l’ha emessa. Certo, possiamo giungere alla conclusione che quella frase non l’ha emessa nessuno, che un computer casualmente l’ha prodotta. Ma anche quella tra il computer e la frase che esso ha generato è una relazione.
Ora, voler inserire l’osservatore nell’osservato – come propone Rovelli – significa esplicitare questa relazione? Ad esempio, scrivo
“P scrive che ‘X è in relazione con Y’”
E siccome scrivere è una forma di relazione, possiamo dire anche genericamente: "P è in relazione con 'X è in relazione con Y'"
Come si vede, abbiamo messo una bambolina russa dentro un’altra bambolina russa. Ora la nostra proposizione si occupa della relazione tra P e la sua proposizione. Questo significa che il gioco delle bamboline russe può proseguire potenzialmente all’infinito. Noi che ci occupiamo della proposizione (2) potremmo scrivere a nostra volta:
“Noi N siamo in relazione con “P è in relazione con ‘X è in relazione con Y’””
E così via.
Come si vede, ogni proposizione e ogni meta-proposizione implicherà sempre, da qualche parte, un soggetto enunciante che resta sempre al di qua della proposizione stessa. Un soggetto che viene sempre ricacciato all’indietro. Sartre – ad esempio – chiamò coscienza[15] questo soggetto puntuale, un quasi-nulla, direi un non-nulla. Non si tratta di un soggetto concreto ma di una funzione: ogni proposizione, nella misura in cui è immagine del mondo, rimanda a un per chi questa è immagine. Questo per chi non è nessuno di preciso. Certo possiamo creare immagini del mondo in cui il “per chi” è incluso, ma di fatto non esautoreremo mai la funzione soggettiva implicata da ogni proposizione. Un soggetto resta sempre extra, fuori-del-mondo, per il quale il mondo si manifesta. È come nel mondo polare descritto da E.A. Poe (1838) in Gordon Pym, dove nulla è bianco, tutto è nero o scuro. Ma anche se di fatto non c’è alcuna cosa bianca, “il bianco” è sempre presupposto a ogni cosa proprio nella misura in cui ogni cosa è percepita come nera.
Questo del resto è il limite dell’empirismo filosofico. Esso è consistito nel dire che ogni descrizione del mondo va preceduta da una clausola: “Io vedo (o odo, o tocco, od odoro) che ‘X è in relazione con Y’”, ma si tratta solo di un’inscrizione della descrizione del mondo a un altro livello, che non muta affatto la descrizione del mondo. In questo senso l’empirismo filosofico, nato come scettico (Hume), è stato reintegrato dal realismo più severo: l’aggiungere una clausola soggettiva non muta nulla dell’enunciato oggettivo. Trasforma l’enunciato oggettivo in un enunciato-oggetto da parte di un soggetto, ma non ne cambia affatto la struttura. Dire
“Io penso che il mondo è descritto bene dalla meccanica quantistica”
non cambia nulla della valutazione della meccanica quantistica, equivale insomma a dire:
“il mondo è descritto bene dalla meccanica quantistica”[16]
Possiamo togliere benissimo quell’”Io penso che”. Ogni enunciato assertivo implica sempre un “io penso che”, “io credo che”, “io dico che”… che possiamo togliere senza che il senso generale dell’enunciazione cambi. L’empirismo assoluto de facto coincide con un realismo assoluto[17]. E Wittgenstein si situa su questa linea.
Ma è proprio ciò che non vuol dire Rovelli: non crede che introdurre l’osservatore (o l’enunciatore) nella cosa osservata sia costruire enunciati metalinguistici che includano l’osservatore, perché questi, abbiamo visto, sono superflui. Intende dire, al contrario, che l’osservatore modifica sempre l’osservato, quindi ne è parte.
Da notare che Wittgenstein aveva affrontato il problema nel Tractatus, solo che aveva usato una figura visiva (l’occhio) e non una figura enunciativa (chi dice).
5.632 Il soggetto non appartiene al mondo ma è un limite del mondo.
5.633 Dove, nel mondo, un soggetto metafisico andrebbe visto? Tu dici che questo caso è proprio come quello dell’occhio e del campo visivo. Ma tu non vedi realmente l’occhio.
E nulla nel campo visivo fa concludere che esso sia visto da un occhio.
5.6331 Perché il campo visivo non ha una forma come questa:
5.634 Ciò inerisce al fatto che nessuna parte della nostra esperienza è anche a priori (Wittgenstein 1922)[18].
Quel che Wittgenstein chiama qui soggetto metafisico è qualcosa che non può mai essere incluso nel campo, perché è presupposto a ogni campo – posto prima di ogni campo. Si ritira sempre più indietro, fino a coincidere con un “punto senza estensione”, come abbiamo già visto. È solo la distanza che c’è in ogni enunciato rispetto al suo enunciatore supposto. L’Io metafisico insomma è vuoto, eppure ineliminabile. Non è parte del mondo perché per Wittgenstein il mondo è sempre relazioni che una proposizione descrive, mentre nessuna proposizione può descrivere questo soggetto al di qua di ogni proposizione. È questa la differenza con la fenomenologia di Sartre, ad esempio, che ha sempre cercato di tematizzare proposizionalmente il soggetto metafisico, chiamandolo per-sé.
Ma cosa succede se proviamo invece a introdurre davvero l’enunciante nella proposizione?
Abbiamo visto come Henry James ci abbia descritto un essere puramente relazionale. Due artisti, Picasso e Braque, hanno anch’essi preceduto la fisica dei quanti con il cubismo (peraltro evocato da Rovelli [2020, p. 46] stesso a proposito del q-bismo). Un quadro cubista è costruito mettendo insieme molteplici punti di vista su uno stesso oggetto: il risultato, come è noto, è che non c’è più “oggetto”. In effetti, provate a descrivere un quadro cubista!
Parliamo di arte figurativa quando siamo in grado di descrivere il contenuto di un quadro, ovvero descrivere (enunciare proposizioni su) un oggetto. Ma con quali proposizioni possiamo descrivere un oggetto cubista?
In realtà, pensiamo che un “oggetto” cubista sia il risultato di svariati punti di vista su un oggetto perché ce l’hanno detto i pittori, ma potremmo vedere quei quadri anche come semi-astratti. Ovvero, l’idea cubista di moltiplicare gli osservatori era un modo per dare senso proposizionale a quello che facevano. Vedremo un’operazione simile anche in Rovelli.
Il punto è che, anche dopo questo primo tentativo, si dissolve l’oggetto figurativo, ovvero ci possono essere parole per descrivere un quadro cubista, ma non proposizioni… Forse dovremmo ricorrere piuttosto alla musica per descrivere un quadro cubista.
4.
Ma cosa significa, in fisica, che ogni oggetto è osservatore rispetto all’altro? Qui si attinge al concetto di informazione: le interazioni fisiche possono essere descritte come scambi di informazioni. Eppure “informazione” resta un concetto, se non antropomorfico, certamente bio-morfico: estendiamo alla realtà inorganica quel che attribuiamo a enti viventi. Il che è perfettamente legittimo.
Ora, Rovelli vuol dare a informazione un senso puramente fisico: esclude che informazione debba presupporre una mente informata. Di fatto, riduce il concetto di informazione a quello di interazione. Eppure ogni tanto usa il termine manifestare: dice anzi che un ente esiste solo se un altro si manifesta a lui. Ma il concetto di “manifestazione”, ancor più di quello di informazione, implica una mente. Dico che, quando non è luna nuova, la luna mi si manifesta perché io la vedo. Possiamo dire che la luna si manifesta all’acqua del mare, quando c’è alta marea? Possiamo dirlo in modo metaforico. Ma la scienza può far passare delle metafore come spiegazioni? A meno di non cambiare completamente il senso di “manifestazione”, ma allora occorre aver scoperto qualcosa che legittimi questa modificazione di senso. Ovvero, non è cambiando il senso di alcune parole del linguaggio comune – o creando sinonimi del linguaggio comune - che possiamo fornire una vera spiegazione scientifica.
Il punto forte del gatto di Schrödinger o dell’EPR è che in entrambi i casi si denuncia, per dir così, un presupposto che nemmeno la fisica quantistica può accettare: l’intersecarsi tra epistemologia e ontologia. Altrimenti sarebbe magia. Il mago pretende di fare proprio questo: usa dei significanti, dei simboli, per influire sulla realtà. Pronuncia alcune frasi tipo abracadabra, e afferma che quelle parole agiscano sulla natura. Ma la fisica parte dal presupposto che il rapporto natura-scienziato non è magico. Il significante deve restare separato dalla cosa.
Sarebbe come se Newton per cavarsela di fronte ai suoi critici, avesse detto “la terra e il sole sono due oggetti entangled”. Ma sarebbe stata questa una vera risposta? Il fatto che siano entangled – invischiati l’un l’altro - è un dato di fatto che dobbiamo spiegare, appunto, è un explanandum (qualcosa che deve essere spiegato), non un explanans (qualcosa che spiega). Altrimenti si è tentati di dare a entanglement il senso che pure il termine ha, di inganno.
[Alcuni non credono che la spiegazione scientifica consista nel determinare le cause dei fenomeni. “La causa”, dicono, è un concetto metafisico, ma non esiste. In realtà dobbiamo considerare, come Aristotele, almeno quattro cause. Il punto non è comunque sapere se la causa esista o meno, il punto è chiedersi: nel linguaggio comune come in quello scientifico, che cosa si intende per causa? Cosa vogliamo dire quando diciamo, ad esempio, “il calore ha causato la dilatazione di quel pezzo di ferro”? Certo non esiste l’ente causa, ma che cosa significa dire quella frase? Un’analisi del concetto di “causa” esigerebbe un libro a sé, per lo meno. Qui mi limiterò a dire quel che, secondo me, intendiamo, sia nel discorso comune che in quello scientifico, per “causare qualcosa”. In “il calore ha causato la dilatazione del ferro” diciamo che assumiamo qualcosa – il pezzo di ferro – come stabile, qualcosa che non muta. Poi a un certo punto questo oggetto muta, ad esempio si dilata. Oppure si muove. Assumiamo che qualcosa di esterno al ferro abbia disturbato il ferro, lo abbia dilatato o lo abbia mosso, e per “causa” intendiamo questa forza esterna che l’ha modificato. Il concetto di causa implica sempre una modificazione, la fine di una stabilità, e pensiamo di aver trovato la causa quando possiamo asserire che una certa cosa ha modificato un’altra cosa. Certo la scienza può trovare eventi senza causa, ma questo non significa che li spieghi altrimenti. L’indeterminazione è un limite della spiegazione, non è una spiegazione di ordine superiore. Se scopro ad esempio che quel pezzo di ferro si dilata due volte al giorno sempre alla stessa ora in assenza di qualsiasi aumento di calore, è certamente un successo aver constatato questa regolarità, ma la regolarità non è la spiegazione della dilatazione. La scienza non è costretta a spiegare tutto – può anche semplicemente descrivere – ma quando essa spiega, diciamo allora che ha trovato una causa. Ovvero, ha messo in relazione due fenomeni, in cui il primo ha modificato il secondo.]
5.
In sostanza, Rovelli propone qualcosa che anche Newton avrebbe potuto fare se avesse risposto ai suoi critici “dobbiamo assumere che nello spazio c’è un’attrazione a distanza”, ovvero viene proposta come soluzione una riformulazione del problema stesso. L’attrazione, da explicandum che era, viene messa in posizione di explicans. Ma Newton non ha fatto così, innanzitutto perché questo avrebbe violato il rasoio di Occam (entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem), introducendo un ente particolare come l’attrazione a distanza, e soprattutto perché la cosa sarebbe stata accolta come un trucco. Si sarebbe potuta accostare questa sua “soluzione” alla “spiegazione” data dai medici di Molière: “l’oppio fa addormentare perché possiede una virtus dormitiva”. Quei medici ci fanno ridere perché spacciano come spiegazione una semplice riformulazione del fenomeno che dovrebbero spiegare: il potere dell’oppio di far dormire.
Ma ciò che ci fa ridere nel teatro di Molière, smette di farci ridere quando Rovelli dice che, di fatto, l’entanglement, il garbuglio,fra due particelle non è qualcosa che bisogna spiegare, ma è la spiegazione stessa. L’entanglement è si una relazione, ma speciale: un invischiamento. Se due particelle si influenzano, in qualsiasi modo, pur essendo distanti tra loro, ciò che spiega questa informazione senza informazione è il loro entanglement. Come considerare filosoficamente una manovra del genere?
Di fatto, la fisica dei quanti vince ogni obiezione grazie alla sua forza predittiva. Per esempio, Rovelli parla di un’esperienza con un apparecchio fotonico di cui lui stesso è stato testimone (Rovelli 2020, pp. 34-37). Lo sperimentatore spezza un fascio di fotoni facendoli passare per due percorsi paralleli. Dopo di che i due spezzoni si riuniscono e devono “scegliere” tra due percorsi, diciamo “alto” e “basso”. Si constata che, in questo caso, tutti i fotoni prendono il percorso “basso” e nessuno “alto”, e non metà “alto” e metà “basso” come la probabilità farebbe prevedere. A meno che un osservatore non misuri uno dei due percorsi precedenti: allora effettivamente i fotoni prenderanno metà e metà i percorsi “alto” e “basso”. Anche in questo caso, hypothesis non fingo, ovvero la teoria non ha alcuna spiegazione per questa variazione in cui pare prodursi un corto-circuito tra sapere e realtà (tra significanti e cose).
Quel che conta, allora, è che questa esperienza permetta una previsione precisa. Ovvero: “solo se interferisco con uno solo dei fasci di fotoni divisi in due percorsi, potrò avere una distribuzione eguale di fotoni nei due percorsi divaricati successivi”. Posso fare questa predizione, anche se non so perché accade.
Eppure Rovelli aveva detto che la scienza non si limita a prevedere, vuole anche capire perché, vuole rendere intellegibile il mondo. Ora, mi pare che invece la grande forza della teoria dei quanti sia proprio nella sua potenza predittiva, accanto a un deficit esplicativo. Il che non deve sorprenderci. Questo, ancora una volta, accadde con la controversia tra newtoniani e cartesiani. La fisica cartesiana spiegava tutto ma non prevedeva nulla, la fisica newtoniana aveva grandi falle esplicative ma prevedeva tante cose. Alla fine ha prevalso la fisica newtoniana perché la scienza ha messo la capacità predittiva in una posizione preminente: si è auto-promossa come soprattutto gioco predittivo. Non ha certamente buttato alle ortiche ogni volontà esplicativa, comunque ha messo la prevedibilità in una posizione diciamo dirimente. È quel che si ripete oggi con la fisica dei quanti: la sua straordinaria forza predittiva ne assicura il successo. La prevedibilità compensa, per dir così, l’indeterminazione. La filosofia della scienza e la stessa scienza hanno optato per una visione pragmatista.
Possiamo vedere allora questo deficit esplicativo della fisica dei quanti in due modi. Un modo è quello di aspettarci una soluzione, per dir così, dalla storia. Ovvero, accettare il deficit esplicativo della teoria come un deficit effettivo ma provvisorio, e aspettare un nuovo Einstein il quale troverà un giorno la teoria che finalmente darà una ragione all’indeterminismo quantistico, così come Einstein – quello vero – trovò la risposta all’enigma dell’attrazione a distanza. La fisica dei quanti dovrebbe riconoscere un proprio relativo scacco esplicativo, ovvero un’incompletezza che andrà riparata.
C’è poi un altro modo – quello preferito da Rovelli, suppongo – che consiste invece nel dire (nella nostra terminologia) che l’indeterminazione è reale. Ovvero, non ci sarà mai una teoria più forte della fisica quantistica che darà ragione delle indeterminazioni quantistiche. Che davvero, a livello delle particelle elementari, abbiamo scoperto quella che chiamerei la libertà della Natura dal determinismo. Si ripete spesso la frase di Einstein “Dio non gioca a dadi” come critica della fisica quantistica, e così la risposta che gli dette Bohr: “La vuoi smettere di dire a Dio che cosa deve fare?” Ovvero, Dio è libero, può fare quello che vuole. In questa ottica, potremmo anche accettare che Dio (ovvero la Natura) crei qualcosa dal nulla. Perché proibirglielo? (Ammettere che si crei qualcosa dal nulla non implica che ci debba essere per forza un creatore, del resto.) La scienza non dovrebbe partire da alcun presupposto che ci dica a priori che cosa la Natura può fare o non può fare. Che è poi quel che aveva detto Wittgenstein: “nessuna parte della nostra esperienza è anche a priori” (vedi più sopra).
Ovvero, potremmo dire che la teoria scopre, a livello delle particelle elementari, qualcosa che dobbiamo presupporre a livello non del molto grande (sistemi solari, galassie), ma del più grande che ci sia: a livello del tutto. La fisica dei quanti ci dice che le particelle non sono entità, ma eventi. Ora, anche l’universo tutto – a meno che non ci siano altri universi a noi ignoti – può essere descritto solo come evento. In effetti, se è il tutto, non può essere in relazione con altro-dal-tutto. Ovvero, l’universo tutto non può essere determinato, insomma non ci possono essere cause dell’universo. È evento perché è absolutus, assoluto, sciolto da qualsiasi altra cosa: altrimenti non sarebbe tutto l’universo, ma solo una parte.
Oggi la maggior parte degli scienziati accetta la teoria del Big Bang, che sembra una teoria implicitamente creazionista. Il Big Bang ci dice che il nostro universo è conseguenza di un evento singolare, un’esplosione che del resto è ancora in corso, a partire da un volume piccolissimo, probabilmente quello di un protone. Ora, questo evento è connesso a un’assoluta singolarità. Con singolarità si intende qualcosa che è impossibile ma che pure esiste (definizione stessa del reale nella nostra accezione ripresa da Lacan). Nessuna teoria fisica può minimamente descrivere cosa abbia provocato quest’esplosione.
6.
Ora, mi distacco da un commento del libro di Rovelli e cerco di rispondere comunque alla questione di fondo che il suo approccio solleva: che cosa significa spiegare qualcosa in fisica, e nelle scienze in generale?
Le scienze esplicative, prima tra tutte la fisica, pretendono fornirci leggi universalmente valide. Secondo molti, queste leggi universalmente valide (che non ammettono quindi eccezioni) descrivono le vere cause degli eventi. (Secondo Koyré [1965, 1966] e Kuhn [1977, pp. 21-30] la fisica moderna privilegia le cause formali, come direbbe Aristotele, distinte dalle cause materiali, efficienti e finali). E le leggi causali sono dei "come" che trovano il loro senso nell'esigenza del "perché?" È questa la molla che fa sì che la scienza non si accontenti mai della propria capacità predittiva, ma si ponga domande sulle cause vere, allargando grazie a questa pretesa il proprio campo predittivo. L’impostazione di Hume, secondo cui la scienza punta alla pura prevedibilità grazie a regolarità riscontrate (ciò che chiamiamo “causa” è di fatto una concomitanza regolare), senza curarsi di ciò che è reale e ciò che non lo è, non coglie il bisogno essenziale alla base della scienza. Un vero scienziato non si accontenta mai della previsione pratica: punta sempre a capire il perché delle cose. Per esempio, Copernico e Kepler avevano descritto con una certa precisione i moti dei pianeti attorno al sole, ma ben presto i cosmologi si sono chiesti: perché girano? Newton fornì la risposta, interpretando quel “girare attorno” come risultato di un “cadere nel”. E poi a sua volta ci si è chiesti: “perché i corpi cadono nel…?” E così via di seguito. All’infinito?
Come abbiamo detto, la fisica di Newton lasciava inesplicata l'attrazione a distanza. Per due secoli, gli scienziati non hanno smesso di cercare il perché (cioè la causa) dell'attrazione a distanza. Da qui l'ipotesi dell'etere cosmico, ecc. Se la scienza si fosse limitata al "come" della gravitazione, ci saremmo fermati alla fisica newtoniana[19]. È vero però che i "perché?" della scienza sono a loro volta strutture di calcoli predittivi. La scienza rimanda sempre più in là la risposta al why? allargando l'ambito del because. Ma la regola delle sequele di because è in un why? trascendentale, potremmo dire.
In un film di Jean-Luc Godard, Alphaville (1965), siamo in una galassia che assomiglia molto alla terra: qui tutto è dominato dalla razionalità scientifica e da un computer tipo Matrix. Così è proibito dire “pourquoi?” (il why? inglese), si può dire solo “parce que” (il because inglese). L’ideale della scienza è esaurire la domanda esplicativa?
Significa questo che la scienza può imbattersi nell'evento puro, cioè in qualcosa senza causa, sine ratione? Wittgenstein nel Tractatus pensava che "il mondo è tutto ciò che accade [o cade][20]"; allora può anche accadere qualcosa senza causa? Per Wittgenstein la scienza non può scoprire un puro evento senza cause per la semplice ragione che questo non fa parte del proprio gioco. In questo senso la scienza non potrà mai legittimare i miracoli, ad esempio; potrà al massimo dire che certi fenomeni sono provvisoriamente non spiegati.
Immaginiamo, disse Wittgenstein (1967, pp. 5-19), che mentre sto qui parlando la testa di uno dei miei ascoltatori si trasformi nella testa di un leone. Sarà mai ciò un miracolo per un uomo di scienza? No, l'uomo di scienza cercherà di trovare le cause del fenomeno - cioè, cercherà di formulare delle leggi in cui quella metamorfosi potrebbe rientrare. Che ci riesca o meno è solo una questione di tempo, si pensa - l'umanità potrebbe estinguersi prima di aver trovato una risposta.
Eppure, in un certo senso, l'essere umano, lo stesso che poi opta per la scienza, è sempre confrontato - nota Wittgenstein - al miracolo: al fatto che esista l'universo. E ciò - nota Wittgenstein - "mi riempie di meraviglia". La causa di tutto ciò che accade è qualche altra cosa che accade, ma qual è la causa dell'accadere delle cose? A questa domanda la scienza non ha risposta, perché tutte le sue risposte sono un avvicinarsi asintotico a questa risposta impossibile. Ovviamente, nemmeno la riflessione filosofica sarà mai in grado di dare una risposta a questa ingenua domanda.
Scrive Rovelli (2020, p. 34), “Una ‘sovrapposizione quantistica’ è quando sono presenti insieme, in un certo senso, due proprietà contraddittorie”. Ora, in logica la contraddizione ha la modalità dell’impossibile: è come dire “piove e non piove”. La fisica quantistica ci dice insomma che “il reale è l’impossibile” (come diceva Lacan). Ma questo reale o impossibile è il limite della spiegazione scientifica (che quindi risulta incompleta), non il suo trionfo. Ed è proprio questa l’importanza della fisica quantistica: che determina i limiti della fisica stessa. La fisica quantistica è una fisica limitativa della spiegazione fisica, così come – suol dirsi – il teorema di Gödel è una limitazione della dimostrabilità matematica: non tutto il vero matematico è dimostrabile.
7.
Popper ha fatto rilevare, contro la tradizione empirista, che l'aumento di contenuto delle teorie scientifiche è inversamente proporzionale al crescere della probabilità che l’evento descritto dalla teoria si produca. Se chiamo a l'enunciato "venerdì pioverà" e chiamo b l'enunciato "sabato non pioverà", la congiunzione ab avrà ovviamente un contenuto più ricco dei due enunciati isolati, è una proposizione più informativa. Ma, fa notare Popper, questo aumento di contenuto - cioè di informatività - implica anche una maggiore improbabilità, e quindi una maggiore rischiosità della previsione. La previsione "venerdì pioverà e sabato non pioverà" è difatti più improbabile (è un pronostico più rischioso) di dire "sabato non pioverà" o “venerdì pioverà”. Da qui la formula:
Dove Ct(a) è il contenuto di ‘a’, Ct(b) è il contenuto di ‘b’, e Ct(ab) è il contenuto di ‘ab’.
Questa formula, fa notare Popper, è l'inverso della formula classica della probabilità:
p(a) ≥ p(ab) ≤ p(b)
dove p(a) è la probabilità di ‘a’, p(b) è la probabilità di ‘b’, e p(ab) è la probabilità di ‘ab’.
Quindi,
se l'accrescersi della conoscenza significa che operiamo con teorie di contenuto crescente, ciò deve anche significare che operiamo con teorie di decrescente probabilità (nel senso del calcolo delle probabilità). [...] Nella misura in cui la scienza aspira al massimo contenuto, essa aspira all'improbabilità. [...] Il calcolo delle probabilità, nella sua applicazione ("logica") alle proposizioni o asserti, non è altro che un calcolo della debolezza logica, o mancanza di contenuto di questi asserti. (Popper 1972, pp. 373-5).
Il caso estremo sono asserti del tipo
"venerdì pioverà o non pioverà"
Questo asserto è assolutamente vero proprio perché è tautologico, ovvero lapalissiano. I logici di un tempo dicevano che enunciati del tipo (8) sono "veri in tutti i mondi possibili", ovvero hanno probabilità 1 (che equivale alla necessità), ma proprio per questo hanno un contenuto informativo 0. Le verità logiche e matematiche sarebbero di questo tipo: hanno la probabilità massima di essere vere (nel senso che sono necessarie, certe) ma non dicono nulla del mondo esterno, hanno contenuto 0. (Anche se Popper e Wittgenstein si sono sempre cordialmente detestati, bisogna dire che essi danno comunque questo punto come assodato: solo la logica è necessaria, e proprio per questo non dice nulla del mondo.)
Ora, la ricostruzione empirista classica della spiegazione scientifica vedeva le teorie scientifiche come enunciati sempre più probabili, in una convergenza asintotica verso la necessità logica (probabilità 1). Nella filosofia logica moderna è il contrario: le teorie scientifiche, proprio perché mirano a un contenuto più ampio - il cui massimo è il tutto, ovvero l'insieme di tutti gli enti -, tendono a un'improbabilità sempre maggiore, tendono insomma verso l'impossibile, la probabilità 0. "Venerdì pioverà e non pioverà", enunciato sicuramente falso perché enuncia una contraddizione, è ciò verso cui tutte le spiegazioni scientifiche asintoticamente tendono, nel senso che non raggiungono mai questa probabilità zero, questo impossibile. E abbiamo visto, con Rovelli, che la fisica quantistica ci è molto vicina. Ma il fatto che vi tendano presuppone questo evento: è l'evento allo stato puro, senza alcuna causa, più che improbabile. È il fatto che ci sia questo universo di enti e non un altro. Ovvero, il tendervi comporta il fatto che l’universo abbia una storia, piuttosto che essere pura entropia. Il reale come impossibile non è qualcosa che la scienza scopre, insomma, ma qualcosa di presupposto dal suo “gioco”. Così come è presupposto a ogni gioco di scacchi che esso non possa continuare dopo lo scacco matto, per esempio. Il "fatto" che ci siano enti è impossibile, eppure è presupposto dalla scienza. La scienza non può mai porre la creazione, ma deve sempre in qualche modo presupporla – porla come presupposto, porla prima, supporla come precedente - come l’impossibile che contiene le possibilità del mondo.
La scienza biologica, ad esempio, ha eliminato giustamente il vitalismo, che si riduceva a un limite della capacità esplicativa del tutto vivente. La moderna biologia studia i tessuti viventi come fatti chimici, ovvero come fenomeni deterministici. Ma così facendo ha rimandato il paletto all’indietro, dato che la biologia non sa rendere conto come dall’inorganico si passi all’organico nella storia della materia; ovvero, come possa essere accaduto qualcosa di così improbabile, fino a sfiorare l’impossibile, come il formarsi della vita. L’estrema improbabilità della vita – si dice – rende verosimile la tesi che la vita forse si sia sviluppata una volta sola nell’universo, sulla terra.
Ma allora, che cosa succederebbe se tutto l'universo fosse finito[21], e se quindi la scienza ampliasse il proprio contenuto fino a poter spiegare, cioè prevedere, tutto quello che avverrà, da ora in poi, fino alla fine dei tempi, come il Dio di Laplace? Questa amplificazione massima del contenuto coinciderebbe con una probabilità bassissima - e quindi, secondo Popper, con una controllabilità massima? - oppure avverrebbe il salto nell'impossibile? Tutto lascia presumere che saremmo in questo secondo caso. Ergo, è impossibile spiegare il reale, cioè il tutto dell’universo, in quanto reale.
[Qualcuno può obiettare che do l’universo come un tutto, ein Ganz, ma non è detto. Personalmente, non ho alcuna idea di come sia l’universo, se sia finito o infinito, tutto o non-tutto, non so se ci siano infiniti universi o uno solo, ecc. Siccome non sono un metafisico, non ho alcuna idea a priori dell’universo. Considero qui l’universo così come lo concepisce la cosmologia di oggi, 2021, una concezione che un giorno potrebbe dimostrarsi falsa, ovviamente. Che poi nel nostro universo ci possano essere dei buchi che lo mettono in contatto con altri universi, con infiniti universi…. può darsi, ma chi può dirlo? Mi attengo al sapere scientifico, che parla dell’universo come di un tutto chiuso. E che, come tutto chiuso è destinato all’entropia. Tutta la teoria del Big Bang e dell’universo in espansione implica il presupposto che l’universo sia un tutto finito, anche se illimitato].
Prendiamo i dadi. L'enunciato "il dado cadrà su uno dei sei lati" ha probabilità 1 e contenuto informativo 0[22]. Un enunciato che prevedesse il risultato dei prossimi mille miliardi di lanci avrebbe un contenuto esplicativo enorme e una probabilità bassissima. Ma la previsione di tutti i risultati dei lanci possibili sarebbe impossibile, o ancora possibile mantenendo una sua probabilità infinitesima? È una domanda metafisica senza risposta intelligibile?
Ora, spiegare tutto significherebbe anche rispondere alla questione di Leibniz: spiegare perché c'è qualcosa piuttosto che nulla. Il tutto deve restare malgrado tutto contingente, cioè non necessario - altrimenti avrebbe probabilità 1, la sua occorrenza sarebbe certa, e quindi l'onni-spiegazione avrebbe contenuto informativo 0. Questo implica che debba esistere un minimo di non-impossibilità perché appunto il mondo sia. Ma questa infinitesima probabilità che il mondo sia quello che è, che il mondo resti evento - cioè nel suo insieme non necessario - coincide con la differenza infinitesima per cui "spiegare tutto" non sarebbe appunto tale, una spiegazione di tutto. Spiegare tutto – ovvero, rendere ragione del Tutto - è impossibile perché altrimenti il mondo sarebbe necessario, come pensavano le vecchie metafisiche, prima di Kant. E ogni metafisica che voglia spiegare il Tutto finisce sempre con ciò che a Napoli si chiama “finale a tarallucci e vini”, il lieto fine è assicurato: l’ente ha un senso, il mondo è il migliore dei mondi possibili, tutto va bene, Dio è buono…[23] Ma è proprio escludendo la necessità dell'universo nel suo insieme che ha senso la scienza empirica, la scienza tout court. La scienza si sviluppa sulle ceneri di ogni metafisica sorridente che in tutto vede una necessità, dunque un senso, anche nell’orrore della vita.
Il paradosso è questo: che la scienza, escludendo che il mondo sia necessario, ne presuppone l'esistenza come impossibile da spiegare - nel doppio senso, che è impossibile spiegarlo tutto, ma anche un impossibile che pur va spiegato. L'universo nel suo insieme appare alla scienza (questo è corollario del gioco della scienza) come un evento senza probabilità, come uno sprazzo di luce che emerge dalla notte invadente dell'impossibile. L'intero universo risulta, agli occhi della scienza, un’infinitesima differenza dall'impossibile. In questo senso la tesi di Lacan "il reale è l'impossibile" va interpretata come: il reale è impossibile, eppure esiste. Ed è verso questo reale come impossibile - vale a dire il mondo come puro evento - che la spiegazione scientifica si dirige, come Achille di Zenone tende a raggiungere la sua tartaruga, senza raggiungerla mai. La scienza è la corsa infinita che ci avvicina all'impossibile, cioè all'emergenza stessa di ciò che è. La scienza salva il salvabile dell'essere, punta sul resto infinitesimo che separa l'essere dall'assurdo.
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[1] C. Rovelli, La realtà non è come ci appare, Raffaello Cortina, Milano 2015, loc. 1632.
[2] Ho sviluppato questo concetto in Benvenuto (2002).
[3] Il famoso parse tree, albero analitico, di Chomsky ricalca la vecchia analisi logica: ogni frase comprende un Nome e un Tratto verbale, quest’ultimo a sua volta comprende un Verbo e un Tratto nominale (complemento oggetto)….
[4] Mi rifaccio qui alla ricostruzione di Hintikka (1975; 1998; 1999).
[6] In modo più tecnico, Wittgenstein dice che le proposizioni sono funzioni di verità di proposizioni elementari.
[7] A questo proposito, alcuni filosofi che non hanno capito il darwinismo mi dicono che Homo sapiens avrebbe rotto i meccanismi dell’evoluzione darwiniana, dato che l’uomo decide lui, oggi, quali specie devono sopravvivere e quali no. Ma questo potere di Homo sapiens rientra perfettamente nel gioco dell’evoluzione darwiniana: nella quale ogni specie determina più o meno l’esistenza delle altre (così i predatori regolano la demografia delle prede, ad esempio).
[8] I. Newton, “General Scholium”, Principia, Second edition, 1713. Per una discussione su questo enunciato, cfr. Koyré (1972).
[9] Possiamo dire che la fisica è tornata a questo presupposto cartesiano nel XIX° secolo, quando è stato elaborato l’elettromagnetismo.
[10] Spiego la nozione lacaniana di reale in Benvenuto (2013).
[12] Definizione: “L'entanglement quantistico, o correlazione quantistica, è un fenomeno quantistico, non riducibile alla meccanica classica, per cui in determinate condizioni due o più sistemi fisici rappresentano sottosistemi di un sistema più ampio il cui stato quantico non è descrivibile singolarmente, ma solo come sovrapposizione di più stati. Da ciò consegue che la misura di un osservabile di un sistema (sottosistema) determini simultaneamente il valore anche per gli altri.”
[13] “Se cercavate di concepire la fisica come una mera registrazione su dati osservati fino ad oggi, manchereste il suo elemento più essenziale, la sua relazione al futuro. Sarebbe allora come la narrazione di un sogno. Gli enunciati della fisica non sono mai completi. Assurdo pensare che siano completi.” Waismann (1975, p. 101).
[15] Si veda in particolare l’opera di esordio filosofico di Sartre (1936).
[16] Ma non nel caso che io dica (6) “Rovelli pensa che il mondo sia descritto bene dalla meccanica quantistica”, perché Rovelli potrebbe non essere affatto d’accordo con questo giudizio. Quando il soggetto è “un altro” esso non può essere eliminato dalla proposizione.
[17] Wittgenstein non parlava di empirismo ma di solipsismo, il che in fondo è lo stesso. Scriveva nel Tractatus (Wittgenstein 1922): “5.64 Qui si può vedere che il solipsismo, quando si seguono rigorosamente le sue implicazioni, coincide col puro realismo. Il sé del solipsismo si restringe a un punto senza estensione, e vi resta la realtà coordinata con esso”.
[18] È una riformulazione della formula empirista essenziale, articolata da Hume (1748): “Non vi è alcuna cosa tale che la negazione della sua esistenza implichi contraddizione.”
[19] Come è noto, la fisica newtoniana lasciava inesplicato solo un piccolo particolare, all’epoca: la precessione o rotazione del perielio di Mercurio, fenomeno che risultava anomalo. La relatività la spiegò. Ben poca cosa. Certo Einstein non aveva elaborato la teoria della relatività per spiegare quella precessione del perielio…
[20] Tractatus, 1, “Die Welt ist alles, was der Fall ist” (Wittgenstein 1922).
[21] Oggi quasi tutti i cosmologi danno per scontato che l’universo che conosciamo è finito. Se non lo fosse, di notte non ci sarebbe il buio dove poche stelle brillano, ma sarebbe tutto un brillare continuo di tutto il cielo. Alcuni pensano che l’universo sia una bottiglia di Klein, figura illimitata ma finita.
[22] Nella realtà, un dado potrebbe cadere su uno spigolo e restare in equilibrio – evento rarissimo, ma non impossibile. Comunque, basta mettere la regola che per “risultato” si intende solo quando un dado cade su un lato solo.
[23] È da metafisico, non da scienziato, che Einstein poté dire: “Raffiniert ist der Herr Gott, aber boshaft ist Er nicht" (frase riferita da Oswald Veblen, aprile 1921), “Il Signore Iddio è sofisticato, ma non è perfido”. La fisica quantistica, per fortuna, non ci autorizzerà mai a dire questo. Ma nemmeno a dire che Dio è boshaft.
Il campo semantico che gravita attorno alla parola “mistico” è comunemente riferito a riflessioni e, ancor più, a esperienze che sembrano riguardare esclusivamente l’ambito dell’esperienza religiosa o della rivelazione. Il vocabolario online dell’EnciclopediaTreccani, per esempio, indica come significato primario del termine mistico ciò ch’è relativo alla mistica, una «esperienza di vita interiore che porta il soggetto verso un’intima unione con una realtà superiore, diversa, assoluta, fuori delle forme ordinarie di conoscenza e di esperienza». Poco più avanti, invece, esso è riferito a ciò che potremmo chiamare il “misticismo”, termine con cui s’indicano quegli atteggiamenti e quelle posizioni che interpretano la realtà trascendendo «i dati sensibili» e rapportandoli «con forze soprannaturali». A un primo sguardo, dunque, il termine “mistico” sembra essere direttamente riassorbito nel dominio di pertinenza della mistica e del misticismo, che interseca le sfere del religioso e della metafisica. Uno sguardo più attento, però, è in grado di rivelare una situazione ben più complessa: un filone importante della riflessione filosofica del Novecento ci ha insegnato che con “mistico” si può indicare un’esperienza che non collima necessariamente con questi due significati. E che, anzi, proprio la definizione e l’esplorazione della dimensione aperta da quest’ulteriore esperienza possono condurci al cuore di nodi e problemi teorici cruciali per determinare il senso dell’esperienza umana in genere.
L’ultimo libro di Stefano Oliva, intitolato Il mistico. Sentimento del mondo e limiti del linguaggio, pubblicato per i tipi di Mimesis nel 2021, sembra far propria quest’ultima constatazione, da cui prende le mosse, per proporre un percorso teoretico di ampio respiro e di grande attualità attraverso alcuni fra i principali luoghi teorici del pensiero novecentesco. Come si legge nelle pagine dell’Introduzione, con “Mistico” (la maiuscola ricalca la grafia prediletta dall’autore) si designa qui, innanzitutto e soprattutto, un sentimento «connesso a una specifica modalità di visione del mondo» e «radicato in ciò che più di ogni altra cosa caratterizza la forma di vita umana», ovvero la «facoltà di linguaggio» (p. 9). Tale sentimento non va inteso pertanto nel senso di una rivelazione «riservata a pochi eletti, spiriti elevati o patologicamente eccitabili», bensì dev’essere compreso come una «esperienza paradossale» che «costituisce una possibilità antropologica basilare, inscritta nella stessa articolazione linguistica del pensiero umano» (ibid.). Anche per questo motivo l’interrogazione di Oliva sulla specificità dello sguardo mistico è condotta sempre in relazione a ciò che lo distingue dallo sguardo dell’uomo comune.
Il rapporto fra questi due è uno dei fil rouge più evidenti del libro, continuamente ripreso fino al capitolo conclusivo, in cui l’autore sancisce che la differenza fra il sentimento mistico e lo sguardo comune è dovuta alle rispettive modalità di relazione al mondo che essi dischiudono (cfr. p. 94-98). Più precisamente, nella prospettiva istituita e indagata da Oliva il Mistico possiede alcuni caratteri che in filosofia sono stati a lungo «attribuiti all’esperienza estetica», ovvero «i tratti della riuscita e del compimento» (p. 96). Uno degli aspetti che contraddistinguono la modalità propria del Mistico è, infatti, quello della finalità senza fini, che almeno da Immanuel Kant in poi ha rappresentato per il pensiero critico ed estetico uno dei segni distintivi del bello. Per esempio, immerso nel sentimento mistico è, come si legge nel testo, il camminatore che avanza «con la gratuità di chi è senza meta e può così dedicarsi semplicemente al fatto stesso di camminare» (p. 95), di chi cammina, a rigore, “senza perché”. Similmente, osserva Oliva, l’osservazione del mondo sub specie artis «vuol dire vederlo al di fuori dei consueti interessi pratici che indirizzano la nostra attenzione» (p. 96). Per tale motivo la locuzione “senza perché”, che ricorre sovente in relazione al tema del mistico (in particolare nella mistica renana), possiede una «risonanza» potente con l’ambito estetico e permette pertanto di comprendere il Mistico come un’esperienza la cui possibilità è radicata nella struttura esistenziale dell’essere umano.
Il quotidiano e il Mistico, in altre parole, divergono per atteggiamento, per modalità, e non per essenza, ontologicamente. Così, a nostro avviso il libro di Oliva si propone come una riflessione sul secolo Mistico nel duplice senso cui la parola secolo può rinviare: da una parte, il periodo di riferimento principalmente (ma, come vedremo, non esclusivamente) indagato dall’autore, ovvero il pensiero filosofico del Novecento che sul Mistico è ritornato in numerose circostanze; e, dall’altra, il Mistico nel suo radicamento nella dimensione della quotidianità, dunque di ciò ch’è secolare in quanto contrapposto alla vita spirituale, religiosa o ultraterrena.
Nel primo dei sette capitoli che strutturano il testo, Oliva riprende appunto la distinzione citata in apertura fra mistico, mistica e misticismo per impostare la propria indagine. Questa necessaria operazione preliminare di precisazione terminologica è condotta con riferimento alle opere di Michel de Certeau e alla sua analisi della mistica, ad alcune note di Bertrand Russell sul tema del misticismo e ad alcuni passi di Ludwig Wittgenstein. È il pensiero di quest’ultimo, infatti, a costituire la stella più luminosa della costellazione filosofica che guida il testo: dalle pagine del filosofo austriaco è possibile ricavare strumenti teorici accuratissimi per affrontare una lettura rigorosa e profonda del secolo mistico poiché troviamo in esse, formulato con la massima radicalità, il problema cruciale incarnato dall’esperienza-limite del mistico, quel «sentimento del mondo come totalità delimitata» (Tractatus Logico-Philosophicus, prop. 6.45) indagato da Oliva. Dal momento che l’intenzione di quest’ultimo è di non relegare il Mistico esclusivamente alla sfera dell’estatico e del religioso per indagarlo piuttosto nel campo del quotidiano e, più generalmente, per cogliere il senso ch’esso può rivestire in riferimento alla struttura esistenziale dell’essere umano, allora è proprio Wittgenstein il filosofo che ha inaugurato tale pista interpretativa e più di tutti ha saputo ricavare dall’esperienza del mistico un inedito e proficuo angolo prospettico per osservare la costituzione dell’animal loquens. Tale proficuità è dimostrata dall’autore anche nel capitolo successivo, che insiste e scava ancor più profondamente nella filosofia di Wittgenstein mostrando come non siano soltanto i passi più noti ch’egli dedica al tema del Mistico – con riferimento a das Mystische che appare nelle celebri proposizioni finali del TractatusLogico-Philosophicus (1921) – a rappresentare un terreno di confronto fruttuoso per una simile indagine, ma rilevando la persistenza, composta beninteso pure attraverso tensioni e slittamenti, di problemi affini a quelli del Mistico anche nella sua produzione successiva, riferendosi per esempio alla Conferenza sull’etica (1929) e ad alcuni passi delle Ricerche filosofiche (1953). Infatti, le occorrenze del Mistico presenti nelle proposizioni finali del Tractatus, che, sottolinea Oliva, si configurano sia in forma di sostantivo sia in luogo di aggettivo (cfr. p. 24), sembrano riflettere e, insieme, istituire i limiti fra il mondo e l’ineffabile lasciando aperto il problema di un sentimento «senza soggetto e senza oggetto, ma che non per questo perde la propria specifica connotazione affettiva» (p. 27). In altre parole, il Mistico nel Tractatus appare connesso a una «visione del mondo sub specie aeterni» (p. 35) senza però che la dimensione dischiusa da quest’ultima sia esplorata fino in fondo, in linea con l’ultima proposizione dello stesso Tractatus la quale prescrive di tacere su ciò di cui non si può parlare. In tal senso, il Mistico rinvia qui a un’esperienza pre-logica, al di qua del linguaggio e al limite del mondo, che precede ogni possibile analisi logico-filosofica. Nel “secondo Wittgenstein”, invece, pur diradandosi i riferimenti espliciti al mistico (in merito cfr. p. 84), sono presenti talvolta passi e considerazioni in cui sembra affiorare una configurazione logica e problematica simile a quella che scaturisce da esso – come nella Conferenza sull’etica, dove il filosofo austriaco si confronta col sentimento di stupore per l’esistenza del mondo e con quello di assoluta sicurezza. Secondo Oliva, la distinzione e la «divaricazione» fra queste due fasi del pensiero wittgensteiniano in merito alle configurazioni problematiche ingenerate dal mistico «si gioca sul terreno logico e modale» (p. 30): il mistico del Tractatus si lega alla «contingenza del mondo […] vista come necessità» (p. 35), mentre la meraviglia per l’esistenza del mondo è un sentimento riconducibile alla “possibilità” dell’esistenza del mondo.
Col terzo capitolo Oliva tenta quasi una prosecuzione delle riflessioni wittgensteiniane attraverso i testi di Simone Weil, autrice che, pur apparendo molto lontana dai temi e dai problemi affrontati dal filosofo austriaco, sembra possedere nondimeno alcuni punti di contatto singolari con la sua produzione che riguardano perlopiù il tema dell’impersonalità e dell’indipendenza dalla forma soggettiva. In primo luogo, la prospettiva adottata dall’autore rileva nel concetto weiliano di persona impersonale «una delle possibili traduzioni» del Mistico wittgensteiniano poiché ne specifica un aspetto caratteristico. Nel Mistico, infatti, sarebbe esibito un «divenire-mondo» dell’individuo che, «coinvolto in un simile processo trasformativo», giunge a deporre la forma soggettiva, «il proprio Io», per divenire «impersonale […] ‘morendo’ come persona» (pp. 40-41). La configurazione logico-sentimentale del mistico, dunque, possiede un carattere impersonale che Weil sembra esplorare laddove l’analisi di Wittgenstein si arresta molto prima. In secondo luogo, nel «sentimento di realtà» che secondo Weil accompagna l’esperienza mistica si ravvisa un movimento concettuale analogo a quello presente nell’analisi wittgensteiniana poiché, similmente a quanto accade per quest’ultimo, nel sentimento di realtà «non vi è più un soggetto che stia lì a provarlo» e, «liberato dalle profondità interiori entro cui viene abitualmente relegato» tale sentimento sprigiona la propria «natura effusiva e atmosferica» (p. 43). Occorre aggiungere, infine, come rileva puntualmente Oliva, che questi accostamenti sono resi possibili anche dai lavori di alcuni allievi di Wittgenstein, come Maurice O’Connor Drury, Drush Rees e Peter Winch, che hanno in qualche misura favorito l’evidenziazione di prospettive teoriche inedite fra le posizioni dei due autori.
Nel quarto capitolo è soprattutto Jacques Lacan a figurare come l’intercessore privilegiato del percorso sulle tracce del Mistico compiuto da Oliva. Da una parte, lo psicoanalista francese ha disseminato qui e lì nel proprio insegnamento e nei propri scritti riferimenti e considerazioni su questo tema. In merito si possono ricordare, per non fare che qualche sparuto esempio, tanto l’affermazione contenuta nel SeminarioXX secondo cui i suoi scritti apparterrebbero all’ordine della mistica, quanto le sezioni del medesimo in cui riflette su desiderio e godimento a partire dal Camino de Perfección di Teresa d’Avila, dalla mistica di Hadewijch di Anversa e san Giovanni della Croce; tanto il commento ad alcuni brevi passi del Peregrino Cherubico di Angelus Silesius nel Seminario I, quanto l’idea che l’accesso al godimento sia accessibile soltanto alla mistica esposta fulmineamente con la consueta allusività durante il corso del Seminario VI. Dall’altra parte, invece, la nozione lacaniana di «Reale» e l’insistenza con cui, almeno a partire da un certo momento, egli vi ritorna per svilupparla, rivela dei tratti e delle sfumature che collimano con i caratteri del Mistico indagati da Oliva in questo libro. Entrambe le nozioni, infatti, si situano aldilà di ciò che cattura e costituisce la rete del simbolico e del linguistico; entrambe si determinano come un punto cieco degli strumenti categoriali che il soggetto utilizza per la propria autopoiesi e per la strutturazione del mondo; entrambe sembrano implicare un sentimento, un modo di sentire, come testimoniato dall’analisi della «gioia dolorosa» osservata da Simone Weil (punto di partenza concettuale del capitolo) e dal godimento indagato da Jacques Lacan; entrambe, infine, come mostra Oliva passando attraverso e riformulando un accostamento di Alain Badiou, possono essere accostate grazie al concetto lacaniano di matema, il cui «contatto con il reale […] condivide con il Mistico l’individuazione dei limiti del linguaggio come operazione che ha luogo all’interno del linguaggio stesso» (p. 63). Un paragrafo del medesimo capitolo, inoltre, compie un breve détour che ha per oggetto il «non-sapere» di Georges Bataille, inquadrato criticamente attraverso alcune annotazioni di Alexandre Kojève – secondo il quale è contraddittorio, come fa Bataille, contrapporre l’«esperienza interiore» alla «speculazione filosofica» determinando una sorta di ritiro al di qua della parola per parlare del quale, tuttavia, è necessario l’uso del linguaggio. Secondo Oliva, in tal modo Bataille «scade nel misticismo», secondo l’accezione prima osservata, poiché, diversamente dal Mistico «inteso come mossa integralmente filosofica di ‘interruzione della filosofia’», le sue posizioni compiono un «un passo oltre l’“estremo del possibile”», terreno dove non può darsi alcun progetto, foss’anche «quello di uscire dal campo del progetto» (p. 53).
La sezione successiva, invece, osserva le riflessioni di Martin Heidegger relative alle «tonalità emotive», seguendone le vicissitudini, gli avanzamenti e gli slittamenti sino a sorprendere nel concetto di Stimmung «il limite del domandare e del chiedere ragioni» (p. 79). E il sesto capitolo prende le mosse da questo limite per far ritorno ancora una volta a Wittgenstein e per considerare le proposizioni contenute nella sua ultima grande opera – Della certezza (pubblicata postuma nel 1969) – rilevandone alcune possibili consonanze proprio con la fenomenologia heideggeriana della tonalità emotiva. Tanto nell’indagine heideggeriana sulle tonalità emotive fondamentali – come l’angoscia che appare in Essere e tempo (1927) e in Che cos’è metafisica? (1929) o la noia abbordata nel corso I concetti fondamentali della metafisica (1929-1930) – quanto la riflessione dell’ultimo Wittgenstein, infatti, a tenere banco sono la questione dei limiti del linguaggio e quella della visione del mondo «come tutto concluso» (p. 80). Entrambe “compendiate” nella lettura del Mistico esposta al termine del Tractatus, tali questioni sembrano risuonare in numerosi luoghi degli itinerari filosofici dei due autori, conducendo il lettore al settimo e ultimo capitolo, di cui abbiamo anticipato precedentemente alcune argomentazioni, che si conclude riflettendo sulla modalità che abita intrinsecamente il gesto del Mistico. Come abbiamo visto, per Oliva ciò che tiene insieme tutte queste riflessioni apparentemente disparate che vanno dagli albori agli anni conclusivi del XX secolo è l’aver rilevato, osservato, approfondito e studiato una peculiare modalità di guardare il mondo dischiusa dal mistico. Esso si configura pertanto come un gesto che trasforma lo sguardo comune. In questo esso non è un gesto necessariamente filosofico, eppure è di grandissima pregnanza per la disciplina perché esibisce e suscita esemplarmente alcune questioni al centro dell’interrogazione filosofica del Novecento. In ciò il Mistico figura come «un gesto conclusivo che, in una inaspettata inversione del pensiero wittgensteiniano, non aggiunge nulla sul piano del ‘che’ ma modifica – come in un improvviso cambiamento d’aspetto – la determinazione del ‘come’» (p. 96). In altre parole, nel Mistico non è più ciò che vediamo di fronte a noi a determinare il nostro sguardo, ma è quest’ultimo a presentarsi secondo una modalità radicalmente altra.
Ai sette capitoli sin qui osservati, si aggiungono, inoltre, una postfazione a firma di Daniela Angelucci, la quale sottolinea la pregnanza delle argomentazioni di Oliva per il modo in cui quest’ultimo riconfigura ed elabora la «dimensione estetica» connessa al tema del Mistico rivendicandone «la pesantezza, la necessità, la solidarietà con gli aspetti essenziali della nostra vita» (p. 123); e, soprattutto, un denso Post-scriptum sul quale vogliamo soffermarci per terminare le nostre considerazioni. In questa sede, infatti, Oliva prolunga ulteriormente la riflessione sul “secolo mistico” mostrando la persistenza dell’interesse per il mistico nella filosofia contemporanea più recente.
Il poscritto inquadra il prepotente ritorno, sulla scena filosofica mondiale degli ultimi quindici-venti anni, di posizioni che a vario titolo si richiamano al realismo (dal nuovo realismo di Maurizio Ferraris al realismo speculativo di Graham Harman) concentrandosi in particolar modo su Quentin Meillassoux e il suo libro Dopo la finitudine (2006). La critica al «correlazionismo» avanzata da quest’ultimo, infatti, giunge a considerare il Mistico e dipingerlo come una figura affatto rivelatrice, a suo dire, di alcuni esiti estremi cui la filosofia correlazionista del Novecento può dar luogo. Il Mistico, rileva l’autore, «diviene nelle pagine di Meillassoux la figura di una riduzione della filosofia a pietas, in cui l’accettazione dei limiti della pensabilità si traduce in una apertura nei confronti della credenza irrazionale e del fanatismo» (p. 103). Eppure, a ben vedere, grazie a un’argomentazione puntuale, Oliva rovescia le posizioni del filosofo francese mostrando che, contrariamente a quanto egli afferma, ciò ch’è contenuto nella declinazione wittgensteiniana (quella considerata da Meillassoux) del Mistico «non è il frutto scettico-fideistico del correlazionismo forte», bensì, piuttosto, «l’incarnazione di un realismo ancor più radicale di quello speculativo» (p. 108). Tale rovesciamento è operato da Oliva attraverso la dimostrazione che la maniera adottata da Meillassoux per inquadrare il Mistico (o, perlomeno, la sua declinazione wittgensteiniana) è viziata da un errore piuttosto vistoso. Il filosofo di Vienna, infatti, «non ha mai inteso il Mistico in maniera diversa da un assoluto» (p. 106) e dunque comprenderlo come l’esito di una posizione correlazionista vuol dire, in realtà, non averlo compreso affatto. Il poscritto si chiude con una riflessione che prende le mosse dalla constatazione di Badiou secondo cui in Wittgenstein si disvela il compimento di un atto teorico definibile come «arci-estetico» (cfr. p. 110) e gettare le basi per la formulazione di un «realismo mistico» o «estetico» (p. 113).Il mistico è un testo decisamente rilevante per numerosi problemi che interessano e abitano il dibattito filosofico contemporaneo. Essi vanno dal rapporto fra l’uomo e il mondo, in un’epoca di globalizzazione e crisi ecologica in cui diventa sempre più urgente la riflessione sulle modalità in cui esso si realizza, all’interrogazione della specificità dello sguardo estetico contemporaneo; dalla diatriba contemporanea sui nuovi realismi, sui correlazionismi e sul senso del filosofare oggi, alla discussione dell’eredità filosofica consegnataci dal Novecento; dalle nuove possibili configurazioni della teoria psicoanalitica, alla questione, sempre aperta, relativa ai limiti del linguaggio. Il libro di Oliva pone così il lettore di fronte a un’esperienza radicale, e lo invita a riflettere sui possibili sensi che la determinano e che a partire da essa si dipanano, fedele all’esigenza filosofica di riflettere sui limiti che ci attraversano e ci costituiscono.
Se si vuol comprendere la posta in gioco del pensiero di Gilles Deleuze, ci sono due luoghi da frequentare, strettamente connessi e corrispondenti in buona sostanza alle sue due grandi opere teoriche degli anni ’60 (Differenza e ripetizione e Logica del senso): nel primo troviamo il progetto di un “empirismo trascendentale” o “superiore”, che non ricalchi più, come nel criticismo kantiano, le condizioni di possibilità della conoscenza sugli atti empirici della coscienza, ma che ci permetta di cogliere in se stessa la genesi trascendentale della differenza, ossia di “ciò per cui il dato è dato” (Deleuze 1997, p. 287). Nel secondo possiamo apprezzare il modo in cui Deleuze cerca di mettere in atto questo progetto, tramite la nozione-chiave di evento: dalla correlazione soggetto-oggetto – vera e propria impasse su cui si è incagliata buona parte del pensiero moderno – si può uscire, sembra dirci Deleuze, mostrando come la ragione trascendentale di entrambi si trovi proprio in una dimensione evenemenziale, ossia in quel vettore che dà conto da un lato di ciò che accade concretamente nella realtà, dall’altro dell’atto processuale che ha portato alla sua stessa realizzazione. L’evento possiede infatti per Deleuze una “struttura doppia”: è tanto “incorporeo” (trascendentale), slegato dalle sue concrete effettuazioni spazio-temporali quanto “incorporato” (empirico), incistato nella singolarità di ogni sua reale occorrenza (Deleuze 1975, p. 135).
Alessandra Campo, in Fantasma e sensazione. Lacan con Kant (Aesthetica Preprint, 2020) si inserisce nel progetto disegnato da Deleuze, percorrendo però una via che potremmo definire laterale. Pur appoggiandosi all’opera deleuziana, Campo tenta di mostrare come l’esigenza di un empirismo trascendentale – di una scienza compiutamente trascendentale del sensibile – abiti alcuni luoghi decisivi della filosofia kantiana e della psicanalisi lacaniana. Si tratta di una prospettiva originale, per almeno due motivi: in primo luogo perché ci costringe a ritornare analiticamente al criticismo kantiano, con cui l’autrice ingaggia un vero e proprio corpo a corpo, mostrandone la straordinaria attualità; in secondo luogo – e soprattutto – perché, ben al di là di un semplice confronto (ormai fin troppo percorso) tra filosofia e psicanalisi, tenta di avvicinare il progetto kantiano – a prima vista così saldo nella sua ricerca della certezza epistemica – alla prospettiva lacaniana, forse troppo frettolosamente autocertificatasi come anti-filosofica. In altri termini, come sembra emergere tra le righe del testo, se è vero che nella domanda kantiana intorno alla conoscenza si può intravedere in controluce un percorso in direzione dell’inconscio, nel reale lacaniano assistiamo altresì a un profondo sforzo speculativo volto a ghermire la genesi della realtà.
Al centro del saggio troviamo l’analisi della sensazione secondo Kant; appoggiandosi in particolare alle letture di Luigi Scaravelli (Scritti Kantiani) e Tommaso Tuppini (Kant.Sensazione, realtà, intensità), Campo mostra come per analizzare a fondo il senso dell’estetica kantiana non ci si debba affatto confrontare, come ci si dovrebbe aspettare, con l’omonima sezione della Critica della ragion pura, quanto piuttosto con quella dedicata alle Anticipazioni della percezione (p. 19), pagine non a caso definite da Deleuze “straordinarie” (Deleuze 2004, p. 81). Qui Kant analizza infatti la sensazione ben prima della sua trasformazione – mediante il decisivo ruolo delle intuizioni – in percezione spazio-temporalmente localizzata, mostrando innanzitutto la sostanziale passività del soggetto, affetto e modificato da un fuori a-dimensionale. Nelle Anticipazioni Kant ci mostra così il modo del tutto peculiare in cui i sensi pensano (p. 57), un modo intensivo che costituisce una sorta di tertium nella distinzione tra fenomeno e noumeno. Per Kant “il reale che è oggetto di sensazione, ha una quantità intensiva, cioè un grado”: prima della realtà estesa, quantificata spazio-temporalmente e in seguito sintetizzata dalle categorie, vi è insomma un reale intenso, graduato e qualitativo, condizione trascendentale di ogni successiva operazione di sintesi.
Parente prossimo – se non omonimo – della sensazione è, secondo Campo, il fantasma freudo-lacaniano. Come la sensazione per Kant, anche il fantasma assurge a condizione trascendentale dell’esperienza. Formatosi come consolazione contro l’angoscia per l’interruzione di un primordiale stato di godimento, il fantasma, secondo il Lacan del Seminario VI, è un’istanza in grado di costituire il soggetto al tempo stesso proteggendolo dall’irruenza del reale. Compito del fantasma è allora quello – come la sensazione kantiana – di rendere la conoscenza possibile, eseguendo una traduzione o un transito tra il reale (intenso) che non è lingua e la realtà (estesa) che lo è (p. 45). Il fantasma, paradossale figura al contempo genetica e di frontiera, è allora, in senso heideggeriano, ciò che a un tempo maschera e rivela la natura dirompente del reale (p. 84). Così come ogni sensazione possiede un grado che permetterà la sintesi operata prima dalle intuizioni e poi dalle categorie, allo stesso modo il fantasma trova la propria condizione trascendentale nell’oggetto a piccolo, argine che impedisce al soggetto di svanire di fronte al reale (p. 86) e che innesca l’impresa conoscitiva.
Nella complessa analogia a quattro termini (sensazione e grado da un lato, fantasma e oggetto a piccolo dall’altro) è la relazione di transizione a fare da protagonista dell’analisi di Campo: tanto per la sensazione quanto per il fantasma si tratta – si è visto – di figure che permettono il transito da una dimensione condizionante intensa che esiste atemporalmente, ma che colpisce e dunque è sentita, a una dimensione estesa che accade, ma risulta inevitabilmente condizionata, derivata. È un passaggio che Campo descrive in vari modi: come “mediatizzazione” tra un “nulla d’origine” a partire da cui sorge il grado/a piccolo e un “nulla di destino” verso cui inderogabilmente si consuma (p. 80); come barra/frazione che genera i poli (esteso e intenso) di un campo (p. 98); come skia-grafie (scrittura d’ombra) che fa transitare la luce verso il buio (p. 51); come abbassamento del profilo cosale dallo choc alla rappresentazione (p. 100). Ciò che emerge è l’idea che esista “un altro modo di ricevere” (p. 19), ossia un modo differente di intendere la passività e l’aisthesis: non più come percezione spazio-temporalmente localizzata e rappresentabile, ma come choc o trauma tale per cui il soggetto viene modificato/toccato proprio là dove non sente e non vede (p. 51), sul crinale tra l’insensibile/impercettibile (a priori) e il sensibile (a posteriori). La sensazione e il fantasma si sviluppano insomma per caduta e annullamento del proprio grado di intensità nell’esteso: l’andare a 0 dell’intenso diventa così paradossale legge di sviluppo (p. 78). Nei più classici termini della metafisica occidentale, si può intendere tale passaggio come transito dall’essere effetto (modificato, colpito) all’essere causa (ossia percipiente).
A questo proposito, il testo di Campo risulta permeato da una polemica nei confronti delle pretese di oggettività proprie di ogni regime epistemico: se tutta la realtà oggettivamente conoscibile va ricondotta in ultima battuta alla sensazione, ecco riemergere l’inquietante quesito che aveva tormentato la filosofia moderna: ciò che garantisce l’esistenza empirica della realtà è la stessa istanza che ne sancisce la dimensione inevitabilmente soggettiva, in quanto modificazione della sensibilità (p. 47). Ciò significa che l’approdo ultimo della sensazione kantiana e del fantasma lacaniano va derubricato nella cornice di un solipsismo senza alcuna via d’uscita? Al contrario: il riconoscimento di un’embricazione costitutiva tra soggettività e oggettività nella conoscenza – discorso che riguarda tanto la psicanalisi quanto la filosofia – rilancia l’opportunità di un empirismo trascendentale, superiore e radicale, capace di ritrovare in una dimensione estetico-cosmologica la ragione stessa della correlazione soggetto-oggetto.
Fantasma e sensazione. Lacan con Kant è un testo che indaga questioni filosofiche profonde e fondamentali con un focus interpretativo efficace. Ha il pregio dell’ambizione e dell’assoluto rigore dell’analisi – specialmente per quanto riguarda la filosofia kantiana – e, forse, il difetto di un’eccessiva densità: l’importanza dei quesiti mobilitati e delle loro implicazioni risulta a volte implicita, a svantaggio in particolare di chi non avesse immediata dimestichezza con molte delle questioni affrontate. Si sarebbe altresì apprezzato qualche approfondimento ulteriore rispetto all’originale tema estetologico che emerge dalle analisi – ossia quello di un’estetica dell’aniconico o di una figuratività non-figurativa (p. 51) – che, tra Francis Bacon e Paul Klee, si sforza incessantemente di rendere visibile l’invisibile. Ciononostante, il saggio di Campo è un riuscito tentativo di afferrare con le armi della speculazione filosofica e in un modo decisamente poco battuto il problema della sensazione e del fantasma. Al di là della doppia neutralizzazione, secondo cui essi sono, nella migliore delle ipotesi, una sorta di trasparente pharmakon propedeutico a più alte e “libere” forme di cognizione oppure, nella peggiore, mera illusione da correggere con i metodi quantitativi della scienza (psichiatrica o fisica), Campo ci mostra in che modo i sensi e l’inconscio “pensano”, cioè – in senso whiteheadiano – esibiscano una qualità (e una logica) che precede la loro “prima quantificazione” (p. 15); soglie atopiche e atemporali capaci di realizzare il campo della conoscenza, essi, proprio nei termini dell’evento secondo Deleuze, non smettono di insistervi.
L’intento di questa raccolta, che prende il titolo di “Soggettivazioni”, è stato quello di aprire una riflessione attorno alla teoria della soggettivazione lacaniana, così per come ce l’ha lasciata in eredità Lacan, a singhiozzi, nei testi stabiliti a partire dai suoi trent’anni di insegnamento orale. Cosa può dirci una psicoanalisi asistematica, distante dalle istituzioni universitarie rispetto a problemi di una concretezza innervata di realtà? Chi frequenta i dipartimenti di Psicologia e assieme l’insegnamento lacaniano sa che è incommensurabile la distanza che intercorre tra la specificità e la settorializzazione degli strumenti istituzionali a confronto con l’universalità dei concetti larghi e volontariamente mai definiti dello psicoanalista parigino. Tra l’estremamente particolare (l’ad hoc della psicologia contemporanea) e l’estremamente universale (il concetto, unità sintetica della filosofia) si rischia di incorrere in un deragliamento del punto focale, causato da uno scontro di metodi epistemologici che si sono stabilizzati ai bordi opposti l’uno rispetto all’altro. Nella scelta di prendere in considerazione un tema vasto e generale come la teoria della soggettivazione c’era l’interesse, da parte nostra, di porlo in dialogo con il campo altrettanto vasto e generale del presente. Speriamo che questa prima ricerca possa costituirsi come un’indagine (sebbene parziale) sullo statuto del soggetto in quanto campo epistemologico aperto: attingendo dalla teoria psicoanalitica e dal dibattito che ne è scaturito, il presente volume segue molteplici sentieri analitici e sottolinea di contributo in contributo la difficoltà di giungere a un’idea organica di soggetto, per la varietà di ipotesi spesso contrastanti in merito alla sua rappresentazione, formalizzazione e interpretazione. In questa raccolta crediamo che i punti maggiormente messi in rilievo da chi ha collaborato riguardino il problema della genesi, lo statuto della trasformazione, e infine un’attenzione specifica è stata rivolta al registro del Reale e ai suoi effetti.
Alla ricerca del reale perduto (Mimesis, 2016) è l’ultimo libro di Alain Badiou; titolo ostentatamente evocativo, e chiaro proprio in forza del riferimento all’evocazione. Se non fosse che, anche solo per un vago e sterile (o probabilmente no) principio d’associazione, ancor prima di addentrarsi nella lettura del testo, si è come costretti a pensare contemporaneamente a ciò che di altro l’evocazione porta con sé, alla sua necessaria e conseguente implicazione, e così il pensiero scorrendo tra i ricordi sostituisce quel perduto in un forse più appropriato ritrovato. Semplici associazioni mentali, s’è detto, sino a quando, a fine lettura, si scopre in effetti una certa corrispondenza tra queste e il contenuto effettivo del testo. L’eterno equivoco che un simile titolo corre il rischio di perpetuare è quello di confondere il risultato della ricerca con la ricerca stessa, ovvero di produrre un discorso su ciò che si è perso quando in realtà lo si è già trovato, elidendo in tal modo i confini della classica distinzione agostiniana tra quo eundum est e qua eundum est.
Ma in cosa consiste questo sempre sottratto, che sembrerebbe tuttavia un già da sempre ritrovato, di cui parla Badiou? Il filosofo lo spiega nell’introduzione con una lapidaria constatazione: «Dobbiamo preoccuparci costantemente del reale, obbedirgli, dobbiamo comprendere che non si può fare nulla contro il reale» (p. 7). Il reale dunque, principio d’inemendabilità che per Badiou si presenta subito come «fonte di imposizione, figura di una legge ferrea» (p. 7) da cui non si può prescindere, presieduta dalle regole auree dell’economia, che del reale stesso si fa garante. Questa la base dalla quale può scaturire la domanda filosofica sul reale, che si presenta però sotto una forma particolare, tale da contenere già in sé la propria risposta; il gioco delle circolarità inaugurato dal titolo prosegue qui a livello teoretico nel momento in cui non ci si interroga preliminarmente sulla esistenza o su una possibile definizione fondativa di ciò che chiamiamo reale, ma ci si chiede solo se esso, assunto implicitamente come condizione preliminare necessaria, possa darsi «se non in quanto base di un’imposizione» che esiga solo in ogni circostanza una «sottomissione piuttosto che un’invenzione» (p. 7). Si può comprendere già da qui perché in fondo questo reale di cui si invoca la scomparsa non è mai stato veramente perso: fare della questione del reale non un problema che investe la sua legittimità o la sua possibilità, ma solo la sua origine. Il nostro avere a che fare con una realtà, del mondo e delle cose, non è messo in discussione nella prospettiva dell’autore; il nodo teorico risiede invece nella possibilità di pensare, platonicamente, un vero reale, al di là del volto mistificatore e fallace rappresentato dalla presunta realtà del contesto economico-politico attuale. Si tratta, prosegue Badiou, di «sapere se, dato un discorso secondo il quale il reale genera una costrizione, si possa, o non si possa, modificare il mondo in maniera tale che si presenti un’apertura, prima invisibile, attraverso la quale si possa sfuggire a questa costrizione pur senza negare che esistano sia il reale sia la costrizione» (p. 10). L’affermazione mette ora in mostra, nel punto più denso della teorizzazione, l’artificio concettuale che prima appariva solo dal meccanismo a effetto messo in moto dal titolo; in queste parole, in effetti, si può rintracciare quel fondamento necessario di cui si promuove la ricerca, che, se posto attraverso l’impossibilità di negarne la realtà e la costrittività, si presenta già da sempre come un originariamente già dato, una base per un reale già da sempre a disposizione, che occupa una posizione per cui si può già da sempre trovarlo: un reale che probabilmente non può dunque dirsi realmente perduto. La questione si risolverebbe, in un certo modo, solo in un problema di posizionamento: dopo aver detto che il punto non sta nell’interrogarsi sulle condizioni di possibilità della realtà, ma solo sulla necessità di trovare quella vera rispetto a quella apparente nella quale ci troveremmo, la mossa successiva è quella di rintracciare dove e come questo nuovo, autentico accesso al reale può darsi. Qui Badiou ripropone la sua prospettiva filosofica di fondo, caratterizzata dalla centralità data al concetto di evento, quella modalità inedita «che ci costringe a decidere una nuova maniera d’essere» (1994, p. 40) che assume la forma particolare di un incontro. Come già riguardo alla formulazione di una nuova base di legittimità per un pensiero etico e per una ridefinizione del fenomeno amoroso, anche l’incontro con la realtà si instaura essenzialmente grazie a un processo di ricollocazione, di un radicamento al livello della situazione, dove si può «approcciare il reale in un processo ogni volta singolare» (p. 15).
Prende così l’avvio, con questo percorso diagonale, un viaggio sul sentiero, presuntivamente interrotto, che conduce a quella sorta di disvelamento ultimo, a quell’incontro in cui il reale si mostrerebbe per ciò che è, rivelandosi attraverso tre momenti costitutivi che dell’incontro ne definiscono la natura. Il primo, rifacendosi all’episodio della morte in scena di Molière, delinea la forma preliminare dell’incontro come processo di smascheramento e divisione. La morte, reale, di Molière mentre recita il Malato immaginario crea «una sorta di attrito del tutto particolare tra il reale e la finzione» (p. 19) capace di ristabilire, dialetticamente, il primato del primo nei confronti del secondo; l’effetto di finzione della recitazione viene squarciato per mezzo della violenza del reale, che fa, paradossalmente, di un malato immaginario un morto reale. Il reale, ancora molto platonicamente, è pensato come «crollo di una finzione» (p. 20), come disinfestante per l’apparenza, che fornisce la maschera al reale e lo divide, creandone il suo sembiante polimorfo e illusorio.
Il secondo momento permette un avvicinamento al reale per mezzo di un incontro teoretico. Utilizzando la definizione, in verità solo una delle varie possibili, che Lacan fornisce del concetto di reale come impasse della formalizzazione, Badiou spiega che l’accesso a esso avviene nel momento in cui si pone la sua condizione di possibilità proprio dove questa andrebbe a costituire la sua negazione, vale a dire nell’impossibilità: «il numero infinito come impossibile è il reale dell’aritmetica» (p. 28), afferma con un esempio matematico. La formalizzazione della realtà, la sua condizione di realizzabilità, è sempre frutto di un suo punto di informalizzabilità; ecco perché se l’affermazione del reale come formalizzazione risiede nel momento dell’impasse questa sarà sempre anche in parte la distruzione di questa formalizzazione. In termini lacaniani l’idea potrebbe tradursi così: eliminare quel tanto di immaginario e di simbolico ‒ la «formalizzazione sostanziale della nostra esistenza» (p. 31) ‒ che impedisce di conquistare quel punto di impossibile che è il reale; gesto teorico interessante, ma che alleggerisce non di poco l’essenziale distinzione, prevista dallo stesso Lacan, tra reale e realtà, distinzione che in certo modo ripropone un altro celebre parallelismo, quello tra significante e significato; ma come il significante ‒ il senso ‒ non si risolve integralmente nel significato, anzi lo eccede, in quanto non solo sua semplice manifestazione ma anche sua fonte di produzione, così il reale, trovandosi allo stesso tempo dentro e fuori la simbolizzazione, dentro ma costitutivamente fuori dalla parola e dal soggetto, non pone le basi per la costruzione della realtà di quest’ultimo, «giacché il reale non attende, e non attende il soggetto, […] Ma è lì, identico alla sua esistenza, rumore in cui si può tutto intendere, e pronto a sommergere dei suoi bagliori quel che “il principio di realtà” vi costruisce sotto il nome di mondo esterno» (2002, p. 380).
Il terzo e ultimo momento dà accesso al reale attraverso la poesia, quel luogo linguistico che «estorce alla lingua un punto reale impossibile da dire» (p. 37). Le ceneri di Gramsci di Pasolini fornirebbe l’esempio artistico per eccellenza sull’interrogarsi del reale della storia. Inevitabilmente, trattandosi di Gramsci, il reale è quello del comunismo come possibilità irrealizzata, divenuta cenere appunto, le cui forme, storico-politiche e sociali, assumono la maschera grottesca del divertissement. Essa rappresenterebbe quella disperata passione d’essere nel mondo, senza realizzarlo, senza comprenderlo come prodotto d’una Storia che, nonostante se stessa, può lavorare ancora per noi, nella prospettiva di una nuova «dialettica affermativa» (p. 50), per cui la rinuncia «alla fede in un lavoro della storia che sarebbe di per sé stesso strutturalmente orientato verso l’emancipazione» consente anche di «continuare ad affermare che è certamente nel punto di impossibile di tutto ciò che si situa la possibilità dell’emancipazione» (p. 48)
La chiusura di questa tripartizione porta Badiou a concludere, dialetticamente, che il viaggio non è però concluso. Si tratta di puntare più in alto, iperuranicamente alla «ricerca di ciò che di reale vi è nel reale» (p. 52).
di Enrico Zimara
Bibliografia
Badiou, A. (1994). L’etica. Saggio sulla coscienza del male (1993). Parma: Nuova Pratiche Editrice.
Lacan J. (2002) Risposta al commento di Jean Hyppolite sulla «Verneinung» di Freud, in Scritti, vol. I (1966). Torino: Giulio Einaudi editore.
Dalla psico-analisi all'analisi critica del soggetto politico
In Lacan politico (Cronopio, 2015), Bruno Moroncini si cimenta nell'impresa, quantomai ardita, di estrarre dal corpus letterario di uno dei pensatori più controversi dell'ultimo secolo una serie di concetti di matrice politica, rilanciando così la partita della politicità intrinseca alla pratica psicoanalitica - in particolare se di orientamento freudo-lacaniano - e insieme la riflessione sull'annosa questione del “disagio della civiltà” che, pur latitando dall’attuale orizzonte filosofico, non può che rimandare direttamente alla questione dell’ordinamento politico. L'impresa è davvero ardita, e lo è al netto di ogni retorica se si considera che lungo l'intero arco del suo insegnamento Jaques Lacan si è sempre ben guardato dal parlare esplicitamente di politica e non ha mai nascosto un certo qual disprezzo per il materiale antropologico di cui dispone ogni partito, governo o istituzione impegnati in un progetto teso a migliorare le condizioni di vita di una collettività. Significativa, a tal riguardo, è un'intervista rilasciata a Roma nel 1974: Lacan arriva qui addirittura ad affermare che gli scienziati «cominciano ad avere un'ideuzza che si potrebbero creare dei batteri resistenti a tutto, che nessuno potrebbe più fermare. Forse così si ripulirebbe la superficie della terra da tutte le cose merdose, in particolare umane, che la abitano», per poi lasciarsi andare a una fantasia: «che sollievo sublime sarebbe se tutto d'un tratto avessimo a che fare con un vero e proprio flagello, un flagello uscito dalle mani dei biologi. Sarebbe veramente un trionfo» (Lacan, 2006, p. 96).
L'aneddoto dovrebbe bastarci a diffidare dell’autore degli illeggibili Scritti qualora ci trovassimo, come accade oggi, a dover rivitalizzare un discorso politico che riversa esangue a partire almeno dal 1989, data che inaugura la cosiddetta “fine della storia” e consegna all'ultimo uomo quella condizione di languido tormento, quell'eterno sabato di nietzscheana memoria che è un po' la cifra della civiltà occidentale post-moderna o, che dir si voglia, contemporanea. L'invito di Moroncini, invece, è quello di scavalcare la radicale impoliticità del pensiero di Lacan per provare a scovare, nei meandri della sua scrittura mistica e respingente, dei punti cardinali per la riflessione politica odierna e degli strumenti concettuali raffinati che possano orientare una critica del presente alternativa all’usuale paradigma marxista.
Il libro si apre con un dialogo serrato tra lo psicanalista francese e Alain Badiou sulla possibilità, per le scienze umane, di individuare una logica collettiva sulla quale fondare movimenti di resistenza, ovvero degli insiemi politici che possano alterare l'ordine di cose esistente. Attraverso una dettagliata analisi de Il tempo logico e l'asserzione di certezza anticipata (Lacan, 1974, pp. 191-207)¹, forse lo scritto che sintetizza al meglio le basculanti e difficili relazioni tra psicanalisi e politica, Moroncini mostra come per entrambi gli autori il cominciamento del politico possa essere individuato nel processo di decifrazione del reale in cui ogni singolo soggetto è necessariamente implicato, e evidenzia come lo stesso processo, che per la psicanalisi non è altro che il meccanismo attraverso cui si istituisce il soggetto individuale, sia assunto da Badiou come direttiva pratica per la creazione di un movimento politico.
Il tentativo di far rientrare la psicanalisi all'interno della prospettiva rivoluzionaria-comunista, però, deve fare i conti con alcuni fra i postulati più importanti del pensiero di Lacan: «Se Lacan parte dal soggetto singolare - singolarizzato dal significante che lo rappresenta nell'ordine simbolico -, il rapporto intersoggettivo non potrà mai essere pensato come preesistente e fondante, ma dovrà essere compreso come il risultato di uno scambio ambiguo e complesso fra il soggetto e l'Altro. Nè appunto quest'ultimo può essere confuso con un'intersoggettività fungente di stampo fenomenologico; l'Altro da questo punto di vista è solo una batteria ordinata di significanti e non è né un Soggetto-sostanza, come lo spirito hegeliano, né una pluralità di soggetti da sempre in relazione fra di loro come per Husserl o per Arendt. Per Lacan il soggetto è sempre quello barrato che ex-siste rispetto all'Altro, che, giusta la figura topologica dell'otto interno, è dentro-fuori l'Altro. Perché si costituisca qualcosa come una relazione intersoggettiva o anche un'organizzazione politica nel senso di Badiou, è necessario allora partire dal tentativo di decifrazione che ogni soggetto fa per proprio conto di ciò che vuole l'Altro dal momento che il significato soggettivo è contenuto in quest'ultimo come un tesoro sta nascosto in uno scrigno (è il motivo d'altronde per cui Lacan lo chiama il tesoro del significante). Una decifrazione appunto ai limiti dell'impossibile dal momento che l'Altro è (l')inconscio» (Moroncini, pp. 29-30).
Porre l'accento sulla natura costitutivamente separata del soggettomina infatti alle basi la possibilità stessa di un'intersoggettività immediata, assunta spesso dalla riflessione filosofica alla stregua di un dato naturale e appunto postulata nella riflessione di Badiou, che sembra occuparsi della definizione di una soggettività collettiva senza minimamente problematizzare quella del singolo. Si staglia con precisione, in questo passaggio, la differenza radicale che distanzia la psicologia di Lacan dalla filosofia e che rende impossibile, anche per Badiou, l'assimilazione del lacanismo a qualsiasi progetto politico che si affidi alla forma-partito: la necessità di pensare il soggetto come fondamentalmente isolato, resto individuale, come sintomo sociale del reale, prodotto dal discorso e dilaniato dal linguaggio che presiede alla sua stessa costituzione. La caustica ironia che, come nell'aneddotosopracitato, Lacan sfodera nei suoi seminari e negli interventi pubblici, lascia infatti trasparire un pensiero politicamente disilluso, animato da una sobria e lucida solitudine, che non riesce a sganciarsi dall'assunto radicale secondo cui il dramma dell'insolubilità che definisce i conflitti politici non sia altro che la manifestazione di una soggettività separata a se stessa, votata alla mancanza e costitutivamente insoddisfatta. E'questo il senso da attribuire alla massima «non esiste rapporto sessuale», con la quale Lacan allude all'impossibilità per due soggetti di «fare uno», di unirsi in un rapporto altro da quello puramente fantasmatico, essendo i soggetti appunto già divisi in se stessi da una lacerazione costitutiva.
Ma se a sbarrare l'unità del soggetto è il «discorso dell'Altro», la catena significante che insiste quale condizione materiale del pensiero, Moroncini approfondisce e problematizza, nella seconda parte del testo, il concetto di «discorso» sviluppato nel Seminario XVII, non a caso intitolato Il rovescio della psicanalisi², e propone di leggerlo alla luce della differenza saussuriana tra langue e parole: «Il discorso è una realtà linguistica che si pone fra la langue e la parole: della prima conserva il carattere formale, di struttura, della seconda l'aspetto determinato e singolare; il discorso insomma da un lato indica relazioni concrete, specifiche, modi determinati di produzione del sapere, ruoli e posizioni assunti dagli attori coinvolti in queste relazioni, dall'altro evita la proliferazione potenzialmente illimitata delle emissioni di paroles, la dispersione disordinata di enunciati singolari, l'assenza di invarianti e quindi l'impossibilità di qualunque insegnamento e trasmissione» (Moroncini, pp. 77-78). Moroncini individua quindi nel concetto lacaniano di «discorso» quel «legame sociale attraverso il quale si compie il processo della produzione, accumulazione e trasmissione del sapere, e insieme quello in cui si produce il soggetto del sapere, il fondamento cioè su cui questi poggia o si regge» (p. 80), ovvero lo strumento concettuale più adatto a fondare una critica filosofica e psicoanalitica del campo politico odierno, ponendo l'accento, più che sui rapporti di sfruttamento capitalistici, sui processi di soggettivazione. Disposizione strategica del pensiero, questa, che si fa carico dell'alto grado di complessità che caratterizza il mondo contemporaneo, sempre più intasato da narrazioni salvifiche, escatologie low-cost e programmi politici di stampo paranoide, dei quali una certa critica mainstream non sempre riesce a rendere conto.
E' così allora che nella terza parte del libro, intitolata Politiche dell'angoscia, richiamandosi agli studi freudiani sulla psicologia delle masse e facendo dialogare Heidegger con Lévinas, Moroncinipone l'accento su come il politico si ponga sin dalle sue fondamenta storiche come quell'ontologia tesa a suturare il reale «bucato» dal discorso dell'Altro, attraverso l'impossibile instaurazione di un metalinguaggio, e su come l'insistita reviviscenza nella storia della «massa primordiale» altro non sia che «l'origine della civiltà umana in generale, la cui tematizzazione è resa possibile però solo dalle attuali condizioni della vita soggettiva. Come la conoscenza dello scheletro umano permette quello della scimmia, così la realtà delle folle urbanizzate dissolve le brume dei primordi ancestrali» (p. 145).
Considerazioni, queste, che dovrebbero risuonare in tutta la loro carica sovversiva di fronte allo spettacolo increscioso e barbaro offerto dalla politica contemporanea, condannata allo stallo da una sorta di coazione a ripetere che riproduce il fenomeno della campagna elettorale nei contesti più disparati, esemplificando al meglio la deriva che può assumere il dibattito politico – e l'esercizio stesso dell'autorità istituzionale – qualora non siano esplicitati e messi in causa i moventi libidici, gli interessi particolari e strumentali che questo dibattito presuppone o nel caso in cui non si disponga di un arsenale interpretativo tale da poter decostruirne il linguaggio o meglio, il «discorso». «L'intrusione nel politico può essere fatta solo riconoscendo che non c'è discorso, e non solo analitico, se non del godimento, almeno quando ci si aspetta il lavoro della verità» (Lacan, 2001, p. 93): è con questa massima, allora, che potremmo riassumere la posizione privilegiata detenuta oggi dalla psicanalisi nel dibattito filosofico-politico. Concentrando le sue attenzioni sulla dimensione puramente impersonale del linguaggio e sottomettendo l'attività conscia del soggetto a qualcosa che è disciplinare per necessità, Lacan pone così le basi per un ripensamento critico delle forme concrete in cui si articola il nostro vivere sociale, e rilancia così la partita politica sul campo dell'interpretazione e dell'atto soggettivo che rende conto dei rapporti di subordinazione strutturali, istituiti a partire dalla realtà politica in quanto «realtà di linguaggio».
E' questo, allora, il contributo concreto che la psicoanalisi può fornire oggi al dibattito filosofico, per favorire una riflessione che dislochi il reale della politica dall'arena pubblica in cui è condannato a essere mimato, rimosso e mistificato allo spazio intimo e interno al soggetto, radicando così nell'atteggiamento individuale di fronte al mondo e nello sforzo singolare verso la comprensione quella tensione eticain grado di realizzare, anche se per poco, una relazione intersoggettiva scevra da illusioni e fantasie sociali. Una relazione che sia però consapevole dei limiti intrinseci dell'essere parlante: «L'inconscio, che vi dico così fragile sul piano ontico, è etico...e comunque sia bisogna andarci dentro» (Lacan, 2003, p. 34).
Note
1. Testo nel quale al lettore è sottoposto il famoso apologo dei prigionieri, rompicapo logico che riassume le problematiche sollevate dall'introduzione dell'inconscio (quello di Lacan, strutturato come un linguaggio) come variabile nella riflessione filosofico politica.
2. L'allusione è proprio la filosofia come disciplina che, pur fruendo delle potenzialità creative del linguaggio, non ne considera quegli effetti che potremmo considerare di «rinculo», o di «contraccolpo», che sono invece il campo dell'esperienza psicoanalitica: «Attraverso lo strumento del linguaggio si instaura un certo numero di relazioni stabili, all'interno delle quali è di certo possibile iscrivere qualcosa che è molto più ampio e che va ben oltre le enunciazioni effettive. Nessun bisogno di queste perché il nostro comportamento, i nostri atti si iscrivano eventualmente nel quadro di certi enunciati primordiali» (p.5)
Bibliografia
Lacan, J. (1974). Il tempo logico e l'asserzione di certezza anticipata (in Scritti, Vol. I). Einaudi : Torino
Lacan, J. (2001). Il Seminario XVII: Il rovescio della psicanalisi. Einaudi : Torino
Lacan, J. (2003). Seminario XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Einaudi : Torino
Lacan, J. (2006). Dei Nomi del Padre seguito da Il trionfo della religione. Einaudi : Torino
La vulgata dice che Freud era maschilista: di questo fu accusato più o meno velatamente, anche nell’ambito della psicoanalisi, e questa accusa ancora oggi ha i suoi echi. Ma che cosa ha apportato Freud intorno alla questione del femminile? Potremmo dire che il lascito maggiore su questo tema è stato aver aperto delle interrogazioni su punti per lui oscuri, e di averle lasciate aperte. Non poco come insegnamento in un mondo dove non c’è più posto per il fallimento, per il dubbio, per la ricerca, ma solo per il risultato e la riuscita performativa. Aveva lasciato queste domande aperte chiedendo esplicitamente alle donne psicoanaliste di provare a trovare delle risposte, perché forse, essendo donne, avrebbero avuto maggiore facilità. Non sono state invece le donne psicoanaliste a far avanzare la faccenda, ma è stato uno psicoanalista francese, Jacques Lacan, colui che ha apportato del nuovo in questo campo.
Tutti sappiamo, dalla nostra stessa esperienza e da quello che ci circonda nel mondo, che l’assunzione dell’identità sessuale non corrisponde all'appartenenza anatomica a un sesso o a un altro. Dunque, Freud si domanda innanzi tutto come si introduce la differenza sessuale. E rileva che questa prende avvio primariamente a partire dall’immagine, dato che è a partire dall’immagine del corpo che un nuovo nato, fin da subito, è inscritto simbolicamente come maschio o femmina. Due corpi differenti, quello maschile e quello femminile, la cui differenza appunto, data da un pezzo di carne presente o assente a livello dell’immagine, si traspone immediatamente su un piano simbolico: maschio o femmina, ce l’ha o non ce l’ha, + o -. E per sottolineare la separazione di ciò di cui si tratta dalla realtà fattuale, cioè dal livello puramente organico, Freud gli ha dato il nome degli antichi misteri: il fallo.
La bambina, dice Freud, manca di qualcosa: manca del fallo. Sarà Lacan, introducendo le categorie di Simbolico, Immaginario e Reale, a permetterci di situare questa mancanza al livello che le è proprio. Infatti, una simile mancanza è tale a livello immaginario e simbolico, ma dato che il nostro mondo è essenzialmente un mondo organizzato dal simbolico, ovvero dal linguaggio, questa mancanza ha la sua incidenza, e la bambina dovrà, volente o nolente, farci i conti. Freud immaginava che la bambina potesse recuperare quella stessa mancanza attraverso un sostituto del fallo (il termine stesso di sostituzione ci dice che siamo in un campo simbolico), ovvero con il bambino che, un giorno, avrebbe potuto avere al posto del fallo. Ne deduceva così che la migliore via d'uscita per la sessualità, dal lato femminile, fosse la maternità. Ma alla fine della sua vita, si è accorto che questa soluzione, la soluzione della sostituzione fallica, non era sufficiente per spiegare completamente la questione del femminile, che per lui resterà “il continente nero”.
Dunque Freud scopre che a livello della rappresentazione simbolica non c’è che un solo simbolo: il fallo. Lacan ci dirà, utilizzando i termini della linguistica, che mentre c’è un significante per rappresentare l’uomo, non ce n’è analogamente uno per la donna. Se c’è l’universale maschile non c’è quello femminile. E non si tratta solo di rappresentazione, ma anche di godimento. La donna può trovare la propria rappresentazione attraverso il fallo, ma non tutta. La donna può godere del fallo (cioè di ciò che ha: il bambino, diceva Freud, ma in quel posto di sostituto si può trovare qualsiasi altro oggetto), ma non tutta. Non tutto del femminile è preso dal versante fallico.
Freud aveva presentito questo, e si domandava infatti: che cosa vuole una donna? Sarà con Lacan che la questione potrà avanzare: se non c’è un universale femminile, le donne si contano solo una per una. Se la donna non gode solo del fallo, c’è un godimento femminile che eccede, che non è dicibile proprio in quanto non rappresentabile e non universalizzabile. Questioni accademiche? Non tanto, se pensiamo alle difficoltà della relazione fra i sessi, che toccano tutti gli esseri parlanti ma che oggi, forse più che un tempo, sfociano nella violenza: violenza che mira ad annientare quella differenza, a rigettarla, di cui non si vuole sapere nulla.
Bibliografia:
S. Freud (1978). Alcune conseguenze psichiche della differenza anatomica fra i sessi. In Id., Opere. Vol. 10. Torino: Bollati Boringhieri.