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“Quando l’Agnello aprì il quarto sigillo, udii la voce del quarto essere vivente che diceva: “Vieni”. Ed ecco, mi apparve un cavallo verdastro. Colui che lo cavalcava si chiamava Morte e gli veniva dietro l’Inferno.”
Apocalisse (6, 7-8)
Nell’Apocalisse la fine del mondo è rappresentata come un’epocale resa dei conti tra il bene e il male, tra il dio dei cristiani e il suo acerrimo nemico, Satana, che emerge dal mare sotto forma di immonda bestia cornuta e getta nello scompiglio più totale l’umanità prima di essere sconfitto da un angelo salvatore e rigettato negli abissi dove resterà incatenato per mille anni. L’epico scontro con il quale si conclude la Bibbia inoltre è annunciato dall’avvento di quattro figure misteriose, i quattro cavalieri dell’apocalisse che per millenni hanno infestato gli incubi e l’immaginario occidentale al punto da saturarne l’universo iconografico: dalle xilografie di Dürer alla musica heavy metal (basti pensare al brano The four Horseman dei Metallica) fino al riferimento subliminale presente nelle prime, memorabili scene di Terminator 2: il giorno del giudizio, in cui si vede una giostra sulla quale bruciano quattro cavalli che hanno gli stessi colori di quelli immaginati dall’apostolo Giovanni. Secondo l’interpretazione allegorica del testo invalsa sino ad oggi, infatti, ogni dettaglio numerico, lessicale e cromatico presente nel libro dell’Apocalisse dovrebbe avere un significato esoterico e così il cavallo bianco starebbe a simboleggiare la guerra poiché chi lo cavalca brandisce un arco, quello rosso sangue sarebbe la metafora della violenza umana, quello nero rappresenterebbe la morte ed il cavallo verdastro (spesso raffigurato con tinte che ricordano la carne in putrefazione) sarebbe l’effige della peste e della malattia. E se l’avvento stesso dei quattro cavalieri è da intendersi come un’infausta allegoria dell’incipiente giudizio universale è perché per millenni l’umanità è stata veramente afflitta da guerre, carestie, violenze e pestilenze che hanno lasciato pronosticare la fine imminente di tutte le cose.
Ora, se è vero che grazie allo sviluppo scientifico e alle innovazioni tecnologiche l’umanità è riuscita ad affrancarsi, o quantomeno a mettersi al riparo, dai poderosi colpi sferzati da quei mali che per millenni hanno falcidiato e svilito la vita umana su questo pianeta è anche vero che, se volessimo riscriverlo oggi, al passo dell’Apocalisse in questione dovremmo aggiungere almeno una nuova figura.
All’emblematico corteo di sciagure che l’umanità è destinata a fronteggiare da sempre, e che segnalano come oscuri presagi una catastrofe incombente, manca infatti il riferimento figurativo a quella nuova e nefasta condizione mentale che connota il nostro vissuto quotidiano. Questo si scopre oggi afflitto da una condizione storicamente inedita di assoluto disorientamento cognitivo e di totale mancanza di punti di riferimento, sia simbolici che ideologici, frammista ad una patologica dipendenza da news (vere o fake che siano) e da stimoli percettivi filtrati attraverso gli schermi di tablet e telefonini. Il flagello che ammorba l’epoca contemporanea potremmo allora immaginarlo, in continuità con la lisergica visione giovannea, come un cavallo pixelato montato da un cavaliere che regge in mano un cellulare mentre è intento a twittare un articolo in cui si dimostra, ad esempio, che la terra in realtà è piatta. E se è vero che quest’immagine esula dalle capacità immaginifiche dell’apostolo Giovanni, è altrettanto indubbio che la comparsa di un tale spauracchio oggi si profila come una vera e propria piaga che nulla ha da invidiare alle altre (fame, guerra, pestilenza e malattia) e come il segno inequivocabile di una catastrofe sociale tanto inevitabile quanto imminente.
Nel suo ultimo saggio dal titolo Apocalypse Cognitive, Gérald Bronner (professore di sociologia all’Université Paris-Diderot e membro del rinomato Institut Universitaire de France) scandaglia con salacia, eclettismo e con grande rigore scientifico le ragioni che hanno condotto la nostra specie a smarrirsi nel vicolo cieco della distrazione permanente, nella palude dell’infotainment e nel baratro cognitivo che, se da una parte non lascia pronosticare nulla di buono per quanto riguarda il futuro della nostra specie, dall’altra offre quantomeno la possibilità di gettare uno sguardo inedito sui moventi ultimi e sugli apriori psicologici della natura umana. Il lavoro di Bronner infatti è da sempre incentrato sullo studio dei fenomeni sociali e culturali a partire dalla prospettiva offerta dalla sociologia cognitiva. Nei suoi libri si analizzano, con una particolare attenzione posta all’analisi statistica e quantitativa dei fenomeni presi in esame, tanto i meccanismi psicologici che presiedono alla formazione delle credenze collettive (Bronner 2006) quanto quelli che inducono a forme di radicalizzazione ideologica (Bronner 2012), tanto la naturale proclività umana a commettere grossolani errori di valutazione (Bronner 2015) quanto il costo sociale e politico, per le democrazie occidentali, della disinformazione e della credulità (Bronner 2016). Apocalypse Cognitive costituisce a tal riguardo una sorta di ricapitolazione e di rilancio dell’intera opera del sociologo francese, è un lavoro figlio di una lunga e ponderata gestazione intellettuale e suscita un particolare interesse per chi si occupa di filosofia. L’autore, infatti, oltre ad esaminare la problematica relazione che sussiste tra lo sviluppo tecnologico e l’evoluzione della mente umana, solleva questioni relative al senso della storia, al ruolo dell’intellettuale nel mondo contemporaneo e al concetto stesso di “verità”, intesa nel suo senso eminente di “disvelamento” e di “rivelazione”.
L’assunto principale dal quale muove Bronner consiste nel prendere atto che «la situazione inedita di cui siamo testimoni è quella relativa all’incontro tra il nostro cervello ancestrale e la concorrenza generalizzata degli oggetti di contemplazione mentale associata ad una liberazione, fino ad ora impensabile, del tempo cerebrale a disposizione» (p. 21). In altre parole secondo l’autore il mondo in cui viviamo sarebbe contraddistinto da una sorta di collisione tra da una parte l’attività psichica (finalmente liberata, grazie allo sviluppo tecnico e all’evoluzione della civiltà, da quegli oneri che per millenni hanno gravato tanto sulla disponibilità quantitativa quanto sulle modalità qualitative d’impiego dell’attenzione) e dall’altra la cornucopia di oggetti virtuali offerti dall’esplosione incontrollata del mercato cognitivo. Con questa formula ci si riferisce a quel bazaar globale di nozioni, idee e concetti le cui origini sono tracciabili all’incirca con l’invenzione della carta stampata, ma rispetto al quale l’impulso più determinante è stato dato, in anni recenti, dall’avvento e dalla diffusione di internet. In Apocalypse Cognitive i meccanismi squisitamente economici sottesi alla ricerca di un equilibrio tra la domanda e l’offerta all’interno del suddetto mercato vengono interpretati, in modo assai originale, come un vero e proprio esperimento sociopsicologico su scala globale. Il punto di equilibrio che ne risulta lascia emergere, come vedremo, uno specifico profilo antropologico.
Ogni secondo vengono prodotti nel mondo ventinovemila Gigabyte di informazione. Nel 2017 sono stati inviati, in media, duecentocinquantatremila messaggi al secondo e nello stesso lasso di tempo su Google venivano effettuate sessantamila ricerche sui temi più disparati. I numeri relativi alla quantità di informazione che la nostra civiltà globale produce e consuma sono sconcertanti (basti pensare, ad esempio, al fatto che il novanta percento delle informazioni disponibili in questo momento al mondo è stato prodotto negli ultimi due anni…) (p. 97) – ma a cosa servono precisamente tutti questi dati?
Anche se Homo Sapiens fosse genuinamente intenzionato a capire il mondo che lo circonda, infatti, dovrebbe comunque fare i conti con quei meccanismi ancestrali che regolano, inibendola e stornandola alla bisogna, la sua attenzione.
Ad esempio, se nel bel mezzo di una festa siamo immersi nel chiacchiericcio che rende indistinguibile ogni conversazione e qualcuno nella sala pronuncia il nostro nome ecco che, come per magia, questo si staglia sullo sfondo del brusio. Certo, è la prova più evidente che il cervello umano è stato plasmato dalla selezione naturale per prediligere ogni stimolo inerente a ciò che che ci riguarda. Ma questo fenomeno, studiato per la prima volta nel 1953 e definito “effetto pop up”, (p. 94) se da una parte ci permette di disporre immediatamente delle informazioni di cui abbiamo più urgentemente bisogno, dall’altra limita inevitabilmente il nostro accesso alla realtà nella misura in cui rigetta tutto ciò che non pertiene al nostro interesse personale. E la perversa alleanza che è venuta a crearsi in anni recenti tra questi meccanismi modellati dall’evoluzione e quella tecnologia che, oltre a facilitare le nostre ricerche su internet anticipa, prevedendole, le nostre preferenze, è tale da suscitare qualche legittimo timore dal retrogusto apocalittico. I “tunnel attenzionali” nei quali l’evoluzione ci ha condotti lungo il tortuoso sentiero dell’adattamento trovano infatti nella struttura algoritmica dei motori di ricerca uno strumento il cui utilizzo spesso amplifica a dismisura le convinzioni degli utenti che se ne servono. In fondo è come se quella preziosa risorsa che è la nostra attenzione confluisse, per ristagnarvi all’infinito, in virtuali casse di risonanza per ogni tipo di credenza, anche per le più ottuse e irragionevoli. Non solo risulta così impossibile fuoriuscire dal loop autocatalitico di superstizioni infondate: il rischio è quello di alimentare forme di ignoranza collettiva, di causare catastrofiche diffusioni di notizie fasulle e di nutrire i bias cognitivi proprio attraverso le modalità dalle quali ci si aspetterebbe il contrario. Ma la nostra attenzione può essere deviata e sussunta in altri modi.
Nella cacofonia informazionale costituita da tutto ciò che circola in modo assolutamente deregolamentato all’interno del mercato cognitivo si stagliano infatti, al di là di questi vicoli ciechi, alcuni elementi dotati di un intrinseco vantaggio concorrenziale. Non a caso l’umanità intera ammira attonita ogni anno centrotrentasei miliardi di video hard che corrispondono a ben un terzo dei filmati attualmente visionabili su internet. La somma totale del tempo immolato da tutti gli utenti del mondo alla visione di materiale pornografico annualmente ammonta a seicentonovantaduemila anni, mentre ne servirebbero solo centosessantanove ad un solo individuo (senza calcolare le pause fisiologiche come dormire e mangiare) per guardare tutti i filmati proposti solo da PornHub, (pp. 103-104) il primo sito al mondo nel settore. Anche in questo caso, certo, è perfettamente comprensibile leggere il fenomeno in questione come una continuazione, magari imprevista da un punto di vista strettamente naturale, degli automatismi comportamentali che presiedono alla riproduzione nella misura in cui la sessualità gioca un ruolo cruciale nella perpetuazione della vita. Quel che stupisce e che merita l’attenzione dell’indagine sociopsicologica di Bronner è semmai la smodata quantità di tempo, energie e risorse che ogni anno letteralmente evapora tra le mani di un’umanità avvinta nelle grinfie della masturbazione compulsiva.
Oltre al sesso, poi, nel cocktail globale di stimoli offerti sul mercato cognitivo c’è almeno un altro ingrediente che risalta in modo deciso: la paura. Ne più né meno dello zucchero o della cocaina, ogni informazione finalizzata ad allertarci riguardo a qualsiasi tipo di pericolo crea in noi dipendenza. È così difficile resistere allo stimolo del terrore che nel 2016 il quaranta per cento degli articoli letti su internet aveva come suo contenuto principale un evento cruento (incidenti stradali, morti improvvise, cataclismi naturali) (p. 116). Nel 2014 il sito d’informazione russo CityReporter è stato addirittura al centro di un involontario esperimento sociopsicologico teso a capire se per un giornale deciso a pubblicare solo notizie positive fosse possibile sopravvivere nel mercato editoriale: dopo poche settimane il crollo del settanta percento dei lettori ha obbligato la redazione ad una repentina retromarcia. Il direttore del giornale ha commentato l’esperienza con questi toni amareggiati: «Noi abbiamo cercato di pubblicare notizie positive, e pensavamo di averle trovate. Ma forse nessuno ne ha bisogno: è questo il problema» (pp. 201-202). E come nel caso della pornografia e dei tunnel attenzionali, anche quando si tratta di spiegare l’appetibilità suscitata dalla paura Bronner ricorre alla teoria dell’evoluzione, ponendo l’accento sugli inaspettati sentieri verso cui è stata condotta la vita nel suo sforzo di adattarsi ad un ambiente sempre meno naturale e via via più virtuale:
«C’è qui in ballo una logica preistorica. Questa logica radicata nella nostra biologia ha avuto la sua utilità evolutiva, ma provoca degli effetti collaterali nelle nuove condizioni storiche generate dall’esplosione del mercato cognitivo. Il rischio più evidente nel quale incappiamo è quello di consacrare le nostre risorse per delle lotte contro dei pericoli infondati o di costruire delle gerarchie di pericoli fondamentalmente arbitrarie» (p. 117)
Tutti gli esempi qui riportati indicano anzitutto come «la captazione della nostra attenzione, che è una merce limitata, molto spesso non obbedisce alla qualità dell’informazione scambiata ma piuttosto alla soddisfazione mentale che essa induce» (p. 215) e dimostrano anche come i moventi ultimi di questi mercanteggiamenti facciano capo ad una serie di bisogni innati che non trovano di che soddisfarsi. E se da una parte questo disorientamento rende palese la condizione di fondamentale incompletezza ontologica in cui riversa la psiche umana, dall’altra esprime, al negativo, le preferenze che indicano un particolare, connaturato interesse per alcuni oggetti e non per altri. Se «nel mondo contemporaneo, certi elementi fondamentali della nostra natura mentale sono presi in carica più facilmente dall’offerta» (pp. 164-165) è perché allora, evidentemente, la mano invisibile che regola il mercato cognitivo è mossa da una volontà sulla quale il sesso, la paura e le informazioni riferite al proprio sé esercitano una sorta di fascino irresistibile, e questo è il vero e proprio oggetto di studio di Apocalypse Cognitive.
Bronner presenta infatti un’analisi che si serve delle indagini quantitative offerte dalla statistica, dei dati raccolti dalle rilevazioni informatiche e dei risultati sperimentali in più di un secolo di indagini psicologiche, come di una sorta di setaccio che rileva il peculiare vantaggio concorrenziale di tutti i prodotti offerti dal mercato cognitivo – e questi, come per riflesso, offrono preziosi spunti per inedite ed originali riflessioni antropologiche. Scandagliando le fluttuazioni di questa compravendita dell’attenzione è infatti possibile (seguendo modalità non dissimili da quelle che nel mondo del marketing vengono definite customer profiling) azzardare una sorta di analisi incrociata che a ritroso offre un’immagine piuttosto verace del soggetto economico che agisce dietro a questi scambi. E così, forte di un solido impianto bibliografico che spazia da Bernard Stiegler ad Antonio Damasio, dalle neuroscienze fino alle rilevazioni prodotte da multinazionali come Youtube e Google, e attraverso una fitta rete di riferimenti alla cronaca e agli episodi di Black Mirror, l’autore di Apocalypse Cognitive avanza una tesi solenne, una sorta di diagnosi epocale relativa al nucleo scabroso e abietto che pulsa al cuore della nostra natura.
E il profilo dell’umanità che si intravede tra le pagine del libro è lo stesso, verrebbe da dire, di quel soggetto che vediamo riflesso negli schermi opachi di quei telefonini che assorbono implacabilmente, giorno dopo giorno e sempre di più, il nostro prezioso capitale attenzionale:
«Il mondo contemporaneo, così come viene dispiegato dalla deregolamentazione del mercato cognitivo, offre una rivelazione – ovvero un’apocalisse – fondamentale per comprendere sia la nostra natura che i rischi che ci attendono. Questa deregolamentazione ha come sua conseguenza primaria la fluidificazione generale tra la domanda e l’offerta, in particolare per quanto riguarda il mercato cognitivo, e questa coincidenza tra l’una e l’altra non fa apparire né più né meno che le grandi invarianti specie specifiche dell’umanità. La rivelazione, allora, è relativa a quella che definirei un’antropologia non ingenua. Il fatto che il nostro cervello sia recettivo rispetto ad ogni informazione egoriferita, agonistica, legata in qualche modo alla sessualità o alla paura, per esempio, disegna un profilo piuttosto verace di Homo sapiens. La deregolamentazione del mercato cognitivo attualizza in un certo senso quello che esisteva solo sotto forma di possibilità. Nei tempi lunghi della storia queste potenzialità sono state limitate da ogni sorta di regolamentazioni e di impedimenti: censura, interdetti religiosi, ostacoli geografici, limiti informazionali, forme di paternalismo più o meno permissive…Oggi, grazie alla deregolamentazione del mercato cognitivo, l’offerta e la domanda si accordano al meglio – e al peggio – e ci permettono di scrutare da vicino l’immagine di noi stessi». (pp. 191-192)
Lungi dal configurarsi quale semplice avvisaglia della fine del mondo o come il mero epilogo della plurimillenaria avventura del genere umano, l’apocalisse di cui ci parla Bronner va intesa allora nel senso etimologico più proprio all’etimo greco: ἀποκάλυψις (apokálypsis), ovvero “rivelazione”. Il termine ha un significato drammaticamente prossimo a quello di ἀλήθεια (aletheia), comunemente tradotto con “verità” ma che può essere meglio reso come “lo stato del non essere nascosto; lo stato dell'essere rivelato”, e com’è noto fu Martin Heidegger a dedicare più di una pagina alla questione di quale verità sarebbe stata disvelata all’uomo dallo sviluppo tecnologico (Heidegger 1991). Ma Heidegger, così attento ai movimenti tortuosi del disvelamento, si muoveva a sua volta sul solco teoretico tracciato da Immanuel Kant. Nella sua Critica della ragion pura, (Kant 1997) il titanico filosofo di Köningsberg si era posto come obiettivo proprio l’indagine relativa alle condizioni di possibilità della conoscenza che precedono ogni esperienza empirica e che, non potendo essere raggiunte dai sensi, devono essere descritte da un'analisi critica svolta dalla sola ragione. E siccome lo scopo che accomuna Kant e Bronner sembra proprio essere quello di voler rivelare, seppur con metodi e strumenti concettuali differenti, la verità che in fondo pertiene alle “grandi invarianti specie specifiche dell’umanità”, noi non possiamo che accogliere le recenti osservazioni condotte in Apocalypse Cognitive se non come una sorta di continuazione alla o di compendio della filosofia trascendentale. Il parallelismo, al contrario di come può sembrare a tutta prima e nonostante il fatto che Kant non figuri tra i riferimenti di Bronner, non è affatto forzato. Infatti, se Kant cercava di estrarre per via squisitamente speculativa dalle fonti della ragion pura (in quanto scevra da ogni contaminazione empirica) le forme intellettuali che regolano, limitano e lavorano a priori ogni pensiero, per Bronner al contrario la scommessa della sociologia cognitiva consiste proprio nell’individuare il sostrato impuro dell’animo umano: quella dimensione che plasma a nostra insaputa le nostre performance cognitive ma che può essere approcciata solo a posteriori.
Ma la dialettica tra purezza e impurità, che ci permette di leggere Apocalypse Cognitive come una vera e propria Critica della Ragion Impura, può essere interpretata anche in senso lato, più letterale: se infatti l’analitica trascendentale risultante dalla speculazione filosofica kantiana elicita quanto di più razionale e puro l’animo umano disponga (i concetti, le categorie ed i principi) l’indagine promossa da Apocalypse Cognitive rivela al contrario i funzionamenti atavici che regolano tutto quello spettro della cognizione umana filosoficamente spurio, istintuale e irriducibile all’intelletto. La dipendenza dai vari bias di conferma, la viscosa attrazione esercitata dal sesso e dalla paura, così come la zavorra mentale costituita dalla strutturale incompletezza ontologica della natura umana, sono infatti caratteristiche precipue ed inemendabili di questa natura, vere e proprie strutture trascendentali che fungono da contrappeso a tutto l'equipaggiamento razionale individuato da Kant, e che contribuiscono così a restituire un’immagine di Homo Sapiens più realistica, meno astratta e intellettualistica.
Un’immagine più respingente e scabrosa di quella tanto in voga presso quegli ambienti intellettuali nei quali fermentano teorie critiche alla moda e vengono prodotte analisi sociali intellettualmente seducenti, ma in cui è diffuso, nelle parole dell’autore, un approccio “antropologicamente ingenuo”. Quando Bronner afferma, ad esempio, che «non ci sono forze sociali misteriose e potenti che orientano il comportamento degli individui, come si crede quando si pratica della sociologia ingenua, ma micro-anticipazioni che producono effetti collettivi involontari, benché prevedibili» (p. 214), sembra allora riferirsi alla disinvoltura con cui molti degli intellettuali di oggi sono portati ad accanirsi contro il saracino dell’assoggettamento sistemico – sia esso incarnato dal capitalismo, dal neoliberalismo o da quella cangiante chimera dalla discutibile credibilità che è l’eterocispatriarcato…
Gli strali polemici del libro sono infatti indirizzati a tutti quegli autori stregati dalla militanza e inebriati dall’attivismo che, anteponendo le loro schematiche concezioni del mondo all’esperienza diretta dei fatti più elementari, rimangono vittima di una concezione parziale, romantica e idealista tanto delle scienze sociali quanto della politica:
«Piuttosto che degli esseri eteronomi sballottati dalle malvage intenzioni di un misterioso sistema di dominazione, gli individui sono spesso degli attori che tentano strategicamente di conciliare i loro interessi materiali e simbolici. A volte dissimulano nei loro discorsi delle virtù che sono disposti a sottoscrivere a giorni alterni. Alcuni tra loro, certo, lo fanno solo per ipocrisia ma non è il caso di generalizzare sposando una tesi così misantropa. Basta ricordarsi dell’esistenza di quei conflitti che risiedono al cuore stesso del nostro cervello. La soluzione a questi conflitti, spesso, è tributaria di quelle soddisfazioni a breve termine rispetto alle quali siamo disposti ad indulgere e che ci illudono di risolvere problemi a lungo termine» (pp. 291-292).
L’invito a valutare la portata di “quei conflitti che risiedono al cuore stesso del nostro cervello” quindi va letto come un’esortazione di stringente attualità indirizzata tanto ai fruitori quanto ai produttori dei manufatti virtuali in vendita sugli scaffali del mercato dell’informazione. E la rivelazione cognitiva epocale che descrive Bronner, come sarà ormai chiaro, riguarda proprio la carsica rilevanza culturale e politica dei funzionamenti inconsci che governano il rapporto tra informazione, consumo e soddisfazione e che allignano nel profondo della psiche umana, da dove preferiremmo distogliere lo sguardo. Apocalypse Cognitive costringe al contrario il lettore a scrutare nei meandri di questa rivelazione come se si trattasse di fissare gli occhi della testa di Medusa (la stessa che, dipinta dal Caravaggio, campeggia non a caso sulla copertina del libro…) il cui potere, secondo il mito, era quello di pietrificare chiunque l’avesse guardata.
È infatti solo vincendo le resistenze mentali nei confronti di quelle verità scomode che fanno capo ad una “antropologia non ingenua” che è possibile oggi assolvere seriamente al ruolo dell’intellettuale. E al contrario di quanto affermato da Thomas Jefferson, secondo cui “solo l’errore necessita di un aiuto da parte del governo, la verità si difende da sola” (p. 216), Bronner sostiene che la verità nel mondo in cui viviamo non si difenderà affatto da sola ma, anzi, avrà bisogno dello sforzo di studiosi, giornalisti e ricercatori capaci di discernere il vero dal falso, e il plausibile dall'irragionevole, in un contesto di assoluta anarchia informazionale. Il lavoro intellettuale, oggi, non può dunque prescindere dal dovere di riconoscere l’ombra lunga che le strutture psichiche ancestrali proiettano nel bailamme indifferenziato del mercato cognitivo. E al fine di scongiurare la deriva identitaria del dibattito politico, per limitare la circolazione incontrollata di idee ingannevoli e per imparare a muoversi con disinvoltura in quella “battaglia di narrazioni” (p. 312ss) che imperversa nell’agone multimediale della società globale informatizzata, l’autore di Apocalypse Cognitive consiglia saggiamente che imparare a resistere allo sguardo pietrificante della verità, prima ancora che a difenderla, è un compito duro ma inevitabile.
Filippo Zambonini
Bibliografia:
Bronner G, Vie et mort des croyances collectives, Hermann Editeurs des sciences et des arts, Paris 2006
Bronner G, Il pensiero estremo. Come si diventa fanatici, Il Mulino, Bologna 2012
Bronner G., L’empire de l’erreur. Éléments de sociologie cognitive, PUF, Paris 2015
Bronner G, La democrazia dei creduloni, Aracne, Roma 2016
Bronner G, Apocalypse Cognitive, PUF, Paris 2021
Heidegger M., La questione della tecnica, in Saggi e Discorsi, a cura di Gianni Vattimo, Mursia, Milano 1991
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PK#21 \ settembre 2024
a cura di Carlo Deregibus e Aurosa Alison
Siamo abituati a guardare alle forme dell’architettura come portatrici di significati. Quello tra forma e significato era un nesso così ovvio, così connaturato alla costruzione e alla realtà sociale, da rimanere perlopiù implicito, premessa a qualsiasi discorso e trattato. Valeva nell’architettura classica come in quella medievale, in quella egizia come in quella barocca, in quella moderna come, persino, in quella propriamente detta postmoderna. Solo in tempi relativamente recenti, quando il postmodernismo fa vacillare non tanto quel legame, quanto la la sua univocità, il significato diventa un problema per l’architettura. Da un lato, perché la missione del Moderno, così assoluta da polarizzare qualsiasi dibattito, si rivela alla prova del tempo quantomeno aleatoria. Dall’altro, perché si avvertono i primi sentori di quel cambiamento, fatto di globalizzazione e moltiplicazione del pensiero che diverrà travolgente nel nuovo millennio. Nasce cioè l’idea che la forma sia parte di un sistema di comunicazione di significati, più che la latrice di un univoco messaggio.
In questo contesto usciva in Italia, ormai 50 anni fa, Il significato in architettura, curato da Charles Jencks e Georges Baird e pubblicato a Londra cinque anni prima. Raccoglieva una quindicina di testi tra loro spesso in contrasto, editati e commentati, che indagavano il significato da vari punti di vista: secondo approcci semiotici o fenomenologici, con accenti teoretici od operativi, con critiche o proposte, i testi tracciano una storia del significato possibile. Tanto che proprio il contrasto, a volte violento ed esplicitamente sobillato dai curatori, diventa il tratto più distintivo del volume: un contrasto reso possibile dalla convinzione, vana, che fosse ancora possibile definire il rapporto tra significato e forme.
Cosa resta, cinquant’anni dopo, di quel dibattito? Poco, in effetti. Lungi dall’essere sparito dai radar degli architetti, in questi decenni il significato si è moltiplicato in rivoli talmente frammentati da non permettere più una geografia culturale precisa. Nuovi significati - la globalizzazione appunto, ma anche i temi dell’antropocene, della gentrification, delle ecologie, della resilienza, dei gender studies, e così via - offrono infinite possibilità di teorizzazione, sempre legate a pratiche tra loro distinte, separate e che non comunicano. Ma che si considerano tutte Architettura. È uno sfilacciamento riflesso anche dalle teorie sull’arte e dalla crescente distanza tra arte e mercato, tra significato e esperienza, tra percezione e comprensione. Eppure, continuiamo a progettare, a produrre e a criticare l’Architettura, continuamente attribuendo alle sue forme significati, e rivestendola di intenzioni e speranze.
Così, questo numero di PK esplora, una volta di più, questa sfuggente ma insieme ineludibile relazione tra significato e architettura. Lo fa secondo tre assunti metodologici. Il primo è che, lungi dall’essere scomparso, il significato oggi ecceda, e largamente, la forma, e dunque sia sempre e di nuovo possibile riscoprire e riprogettare la loro relazione: certo quel legame muta a velocità variabili, secondo sistemi diversi la cui reciproca irritazione produce cambiamenti spesso imprevedibili, ma tuttavia esiste. Il secondo è che le dimensioni teoretica e pratica dell’architettura non siano pensabili separatamente, se non come coppia oppositiva derridiana: il progetto dell’architettura deve essere sempre inteso nella sua dimensione performativa e secondo gli effetti che questo produce, e la distinzione tra progetto e progetto di architettura è ad essi strettamente quanto problematicamente legata. Il terzo è la dimensione sistemica dell’architettura, che deve essere intesa nelle sue condizioni socio-tecnico-economiche: questo vale sempre, storicamente, e oggi implica una relazione costitutiva con un pervasivo sistema neoliberale, un confronto con una dimensione produttiva che cancella le tensioni artigianali, e la modifica delle modalità di produzione del progetto che, circolarmente, ne stravolgono concezione e quindi significato. Le connessioni tra i tre assunti - ad esempio nella tensione tra agire individuale e dimensione sistemica, da cui emerge una valenza tattica e strategica del progetto - sono altrettanto decisive.
Le proposte possono affrontare il tema del significato in architettura da una prospettiva ontologica ed epistemologica, anche con una prospettiva storico-critica, oppure rientrare in uno dei quattro nuclei tematici qui enucleati, anche esplorandone connessioni e interrelazioni e trattandoli da diversi punti di vista - storico, teoretico, critico:
- Nuove forme del significato. I luoghi sono sempre stati collettori del senso di comunità, sia in senso simbolico sia in senso esperienziale. Come coordinare il continuo moltiplicarsi di forme di socializzazione reale e digitale (dal metaversale alla visual turn) con l'aspetto ontologico e reale della progettazione? Sulla scorta della retorica di una democratizzazione dei processi comunicativi, sociali e relazionali, è davvero possibile innestare un significato nello spazio pubblico, o questi progetti non fanno altro che illudere i partecipanti di farlo? È il processo, o il programma, a dare un significato a un’architettura in cui le forme non hanno rilevanza alcuna se non come trasposizione tecnica o, al contrario, l’architettura va considerata e trattata come un palinsesto che vive persino indifferentemente dagli usi, diventandone uno sfondo neutrale? Nel mezzo, un’infinita sfumatura di pratiche e approcci.
- Nuovi significati delle forme. Vorremmo riflettere su quei significati che più sembrano trasversali e sostanziali nell’impattare l’architettura. Il primo è ascrivibile al tema della sostenibilità: ad esempio, come superare pratiche estetizzanti e approcci puramente prestazionali e sviluppare una dimensione autenticamente ecologica del progettare? È un tema di norme, di cultura, di azioni, di tecniche, di approcci, di forme, di strategie, o ancora di altro tipo? Il secondo è il cosiddetto design for all, che raccoglie questioni pratiche - come l’accessibilità - e culturali - come l’urbanistica di genere - e che però, curiosamente, si sostanzia in limitazioni burocratiche variamente normate: quasi che il progetto non definisse, ontologicamente, i limiti di qualche libertà. Come superare questa visione, aggrappata a una logica di tutela dei gruppi di minoranza, per sviluppare il tema della libertà nel progetto e nelle forme?
- Resilienza dei significati. C’è Architettura e architettura. Gran parte dei progettisti nel mondo non si occupano di quelle rare opere “straordinarie” (auditorium, chiese, musei), cioè i tradizionali portatori di significati condivisi: bensì di ordinarie, comuni, quotidiane costruzioni. Non parliamo dell’ordinario sperimentale e d’élite esplorato dagli architetti di punta, ma proprio della pratica comune, di quel significato che nasce e si sostanzia in una continua variazione e ripetizione, nel real estate come negli slum. Spogliata dalle stratificazione semantiche dell’Architettura, resta cioè un’architettura: lontana dalle accademie e dalle pagine patinate, ma che traccia il nostro mondo. A livello ontologico e pratico, il progetto di questa architettura è diverso da quello di Architettura? E in che modo si evolve, ad esempio guardando all’ascesa impressionante dei software basati sull’Intelligenza Artificiale?
- Resilienza delle forme. Il costruito ha una immensa capacità resiliente. Certo, non sempre questa va d’accordo con gli usi, e i significati di quelle forme. Il caso italiano è emblematico, tra tensioni verso la rigenerazione e l’esigenza di tutela e conservazione del patrimonio. Casi come Palazzo dei Diamanti a Ferrara o lo stadio Meazza a Miano sono solo le evidenze mediatiche di un problema diffuso e in inevitabile crescita: lo scontro tra valori e significati diversi, che si sovrappongono nelle forme. La risposta è nella qualità del progetto? Oppure in quella del processo? È un problema di procedure e soggetti decisori, oppure di proposte e gestione? In che modo significati sempre più essenziali e inconciliabili - ad esempio la fruizione dei beni storici, la sicurezza in caso di sisma, il risparmio energetico, il costo degli interventi, vincoli antincendio, di accessibilità e così via - si intersecano nelle forme?
È nostra intenzione, in omaggio al tratto più distintivo de Il significato in architettura, promuovere una circolazione dei contributi tra gli autori prima della pubblicazione, in modo da raccogliere commenti specifici da parte di tutti gli autori e offrire una possibilità di controreplica ai commenti da parte degli autori stessi. Un dibattito interno al volume, unico quanto prezioso.
Bibliografia:
Ando, T., (1990), Complete Works, Taschen
Armando, A. & Durbiano, G. (2017). Teoria del progetto architettonico. Dai disegni agli effetti. Roma: Carocci.
Aureli P.V. (2008). The Project of Autonomy: Politics and Architecture Within and Against Capitalism. Hudson: Princeton Architectural Press.
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Procedura:
Per partecipare alla call, inviare all'indirizzo redazione@philosophykitchen.com, entro il 16 luglio 2023, un abstract di massimo 4.000 caratteri, indicando il titolo della proposta, illustrando la strutturazione del contributo e i suoi contributi significativi, e inserendo una bibliografia nonché una breve biografia dell’autore o dell’autrice.
L'abstract dovrà essere redatto secondo i criteri scaricabili qui [Template Abstract], pena esclusione.
Le proposte verranno valutate dai curatori e dalla redazione. I contributi selezionati, che saranno sottoposti a double-blind peer review.
Lingue accettate: italiano, inglese, francese.
Calendario:
- 16 luglio 2023: consegna degli abstract
- 03 settembre 2023: comunicazione degli esiti
- 17 dicembre 2023: consegna dei contributi selezionati
- 03 luglio 2023: comunicazione degli esiti della selezione
- Primavera 2024: circolazione dei pezzi tra gli autori
- Settembre 2024: pubblicazione del volume
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CFP#19 \ Fuori tema I
Call for Papers / Giugno 2022PK#19 \ settembre 2023
a cura di Philosophy Kitchen
Mai nella storia si è scritto tanto, e mai, in proporzione, letto così poco. Nel vortice delle pubblicazioni, in una sempre più faticosa ricerca di una (supposta) scientificità fatta di riferimenti e citazioni, in una sempre più marcata parcellizzazione dei campi operativi, in una sempre più feroce protezione di nicchie di competenza esclusiva e autoreferenziale, spesso dimentichiamo che la ricerca è, sempre e di nuovo, una esplorazione.
Jenny Holzer: Inflammatory Essays offset lithographs on colored paper, 1979-1982 (Flickr: anokarina) Naturalmente, le esplorazioni sono faticose e, soprattutto, pericolose. Non sempre portano a qualche risultato e, spesso, ciò che si trova non è ciò che si stava cercando. Ma sono ciò che davvero consente l’avanzamento del pensiero e delle pratiche. Esplorare richiede la capacità di andare oltre il già noto, il coraggio di osare una strada alternativa, la propensione a non dare per scontato esiti e significati, l’attitudine a evadere dalle logiche iterative delle odierne pubblicazioni. Insomma, è una attività rara.
E a questa attività, Philosophy Kitchen ha deciso di dedicare un numero – il primo di una serie, in effetti. È un numero particolare perché non è monografico in senso stretto, cioè “dedicato a un argomento specifico”: anzi ambisce ad avere un’apertura massima verso tutti quei pezzi che, fin troppo spesso, nei casellari delle monografie non riescono a trovare posto. Quegli scartamenti, quei sondaggi dell’inesplorato che hanno davvero il coraggio di proporre interpretazioni inconsuete, ipotesi non scontate e letture transdisciplinari.
Nessuna rilettura, nessuna applicazione su nuovi casi di vecchi metodi, nessun pezzo compilativo, nessun riaffermazione di concetti già diffusi o discussi: solo coraggiose fuoriuscite dai canoni consolidati.
Le strade possono essere molte e riguardare tutti gli ambiti di cui Philosophy Kitchen normalmente si occupa:
- Filosofia teoretica
- Logica, storia e filosofia della scienza
- Filosofia morale
- Estetica e filosofia dei linguaggi
- Storia della filosofia
- Scienze giuridiche
- Architettura
- Scienze politiche e sociali
- Scienze dell’antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche
Lingue accettate: italiano, inglese, francese, tedesco.
Procedura: si prega di inviare, all'indirizzo redazione@philosophykitchen.com, entro il 30 novembre 2022, un abstract di massimo 6000 caratteri, indicando il titolo della proposta, le modalità in cui si intende sviluppare il tema e l'argomentazione, una bibliografia essenziale e ragionata nonché una breve biografia dell’autore o dell’autrice. L'abstract dovrà essere redatto secondo i criteri scaricabili qui [Template Abstract], pena esclusione. Le proposte verranno valutate dai curatori e dalla redazione. Gli esiti della selezione verranno resi noti, via mail, entro il 16 dicembre 2022. I contributi selezionati dovranno poi essere inviati entro il 30 aprile 2023 e saranno sottoposti a double-blind peer review. La pubblicazione del volume è prevista per settembre 2023.
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Capita spesso che alcune idee filosofiche abbiano una cattiva fama; fino a qualche secolo fa, per esempio, nell’Europa cristiana era piuttosto rischioso professare l’ateismo. Da questo punto di vista la situazione è migliorata e se si porta avanti delle idee proibite più che un rogo si rischia una shitstorm, ma è comunque interessante vedere quali sono i tabù filosofici di un’epoca. Che sia per via dei suddetti retaggi cristiani o a causa di una struttura sociale che ci vuole prima di tutto consumatori, a Occidente una di queste tesi sgradite è il rifiuto del libero arbitrio. La libertà dopotutto è un fondamento ideologico di democrazia e neoliberismo e negarla viene interpretato come un’aggressione filosofica. Mi auguro dunque di non ricevere troppo biasimo, perché mi trovo nella sgradevole condizione di sposare un’idea che la maggior parte delle persone aborre, ovvero che il futuro sia determinato. In breve, credo nella necessità degli eventi: non esistono eventi meramente possibili, ogni fatto o non ha luogo o ha luogo necessariamente.
Più che esserne convinto la trovo addirittura un’ovvietà – ed è proprio questa sicurezza a insospettirmi, perché l’esperienza insegna che spesso ovvietà e verità non vanno d’accordo. Voglio dunque mettere al vaglio questa opinione, che per mia fortuna ha illustri precursori e sostenitrici. Oltre all’antico filosofo greco Diodoro Crono, che ha aperto la strada al determinismo col suo “Argomento dominatore”, come scrive il filosofo lettone Nicolai Hartmann nel suo Possibilità ed effettività,
«la concezione, per cui solo l’effettivo è realmente possibile, storicamente non è affatto svanita. Crisippo la combatté con argomenti che permettono di riconoscere ancora la sua forza. Cicerone l’adoperò volgarizzata nella sua dottrina del fato. Al culmine della Scolastica riemerse in forme nuove e – come pare – completamente autonome. Abelardo la applicò al fare creativo della divinità (Dio “può” soltanto creare ciò che crea effettivamente); Averroè sostenne una dottrina dello sviluppo secondo la quale tutto ciò che è possibile diviene anche effettivo».
Nella fisica moderna questa posizione ha prevalso fino allo sviluppo della meccanica quantistica, che ha messo in dubbio il determinismo einsteiniano a favore della tesi che a livello microscopico i fenomeni della natura sono descrivibili solo in termini probabilistici. Anche in quest’ambito però sussistono dei disaccordi, come dimostra la posizione superdeterminista di una studiosa come Sabine Hossenfelder, per la quale l’apparente casualità dei fenomeni quantistici deriva dalla nostra ignoranza di variabili nascoste, un’ipotesi che è stata scartata erroneamente. Per Hossenfelder,
«L’errore che i fisici hanno fatto decenni fa è stato quello di trarre la conclusione sbagliata da un teorema matematico dimostrato da John Bell nel 1964. Questo teorema dimostra che in qualsiasi teoria in cui le variabili nascoste ci permettono di prevedere i risultati delle misurazioni, le correlazioni tra i risultati delle misurazioni obbediscono a un limite. Da allora, innumerevoli esperimenti hanno dimostrato che questo limite può essere violato. Ne consegue che le teorie a variabili nascoste a cui si applica il Teorema di Bell sono state falsificate. La conclusione che i fisici hanno tratto è che la teoria quantistica è corretta e le variabili nascoste no, ma il teorema di Bell fa un’assunzione che non è supportata da prove: che le variabili nascoste (qualunque esse siano) siano indipendenti dalle impostazioni del rivelatore. Questa assunzione, chiamata “indipendenza statistica”, è ragionevole finché un esperimento coinvolge solo grandi oggetti come pillole, topi o cellule tumorali. (E in effetti, in questi casi una violazione dell’indipendenza statistica suggerirebbe che l’esperimento è stato manomesso). Se questo valga anche per le particelle quantistiche, tuttavia, resta ignoto. Per questo motivo possiamo anche dire che gli esperimenti che provano il teorema di Bell, piuttosto che sostenere la teoria quantistica, dimostrano che l’indipendenza statistica è stata violata».
La posizione di Hossenfelder è minoritaria e non ho le competenze per valutarla, ma finché non avremo una visione pacifica della fisica quantistica appellarsi a essa per confermare o negare una tesi resta una mossa rischiosa. Dopotutto il fatto che esistano eventi casuali resta ancora un’ipotesi e in ogni caso la loro esistenza, che falsificherebbe il determinismo causale, non avrebbe alcun effetto sul determinismo acausale che difendo – e che devo spiegare[1].
Nella Stanford Encyclopedia of Philosophy, sotto la voce determinismo, si legge che «Il mondo è governato dal (o è sotto l’influenza del) determinismo se e solo se, dato un determinato stato in cui le cose sono in un momento t, lo stato in cui le cose saranno in seguito è fissato da una legge naturale». Questa definizione sembra più vicina a quel che chiamo determinismo causale, ovvero l’idea che gli eventi futuri siano prevedibili o comunque causalmente determinati dagli eventi passati. La mia proposta è più debole: ciò che accade nel futuro è determinato, ma non è necessariamente legato al passato. Gli eventi futuri, infatti, potrebbero avvenire per caso o essere del tutto imprevedibili, ma non sarebbero per questo meno determinati.
Per spiegare questo inusuale concetto propongo un esempio: diciamo che cade una tegola da un tetto. Per l’indeterminismo, che è la posizione più vicina al senso comune, potevano darsi diverse condizioni tali che la tegola non sarebbe caduta; poteva non subire urti, non essere erosa dalla pioggia o spostata da un forte vento, eccetera. Il futuro è aperto e può accadere in vari modi. Per il determinismo causale, quello sostenuto da Einstein e Hossenfelder, è scritto nelle leggi della natura che la tegola sarebbe caduta, perché è altresì scritto che pochi istanti prima un colpo di vento l’avrebbe spostata, che le condizioni meteorologiche siano tali da far alzare il vento e così via, di causa in causa, fino all’inizio dell’universo. Il futuro è chiuso ed è causato dal passato. Anche per il determinismo acausale era necessario che la tegola cadesse, ma non che l’evento sia collegato alla ventata, come sostiene il determinista causale. Potrebbe infatti avvenire spontaneamente, senza una causa. Il futuro è chiuso, quale che sia il suo legame col passato.
Ora che ho chiarito (spero) cosa intendo per determinismo acausale, devo spiegare perché credo che gli eventi siano determinati al netto della loro relazione col passato. Per farla breve, il motivo per cui penso che necessità e possibilità coincidano è che credo nella verità di questa frase: «domani accadrà qualcosa, anche se non so cosa»; tanto basta per sapere che quel che avverrà domani è determinato, sebbene adesso lo ignori – qualsiasi cosa accada, infatti, non può che accadere così come accadrà. Ora non so se tra cinque minuti berrò un caffè, ma, qualora accada, non poteva che andare così. Un attimo: potevo decidere di non prendere il caffè! Sì, ma in tal caso sarebbe questo secondo evento a esser stato determinato. C’è insomma una previsione che posso sempre fare con assoluta certezza: qualcosa avverrà e a venire in essere sarà esattamente il fatto che ora ignoro. Se vivessi in un universo di cui concepisco solo due possibilità, come il “testa o croce” del lancio di una moneta, sarei sicuro che una di esse si verificherà – e sarà esattamente quella – ma non potrei dire quale. Insomma, so che accadrà un fatto e che nulla potrà impedirlo; l’unica differenza rispetto a un evento del passato è che non ne conosco la natura, perché è fuori dalla mia portata. Quel che accadrà è dunque inevitabile, perché una volta accaduto non può cambiare – anche se si potesse cambiare, inoltre, a essere inevitabile sarebbe l’evento modificato. Persino qualora si creda che per ogni evento la realtà si moltiplica in dieci, cento o infiniti piani temporali, a essere determinati saranno tutti gli eventi nei vari rami del tempo.
L’ipotesi che esistano alternative al passato mi sembra una proiezione retroattiva degli schemi che usiamo per prevedere e immaginare cosa accadrà nel futuro. Per quel che riguarda il passato, infatti, so che gli eventi sono accaduti in un solo modo. Cosa mi fa supporre che poteva andare diversamente? L’unica conoscenza di cui dispongo è che è accaduto esattamente quel che è accaduto. La possibilità è un concetto bifronte; applicato al futuro è una bussola per navigare nella nostra ignoranza, ma rivolta al passato è semplicemente un errore. Tutto il futuro però diventerà passato; come scrive Vladimir Jankélévitch in La morte,
«Tutto il possibile, dice Schelling, deve accadere; e noi aggiungiamo: tutto l’avvenire avverrà, essendo avvenire solo per venire effettivamente un giorno. Qualunque cosa accada, il futuro (come indica il suo nome) sarà, vale a dire finirà per essere, poiché è un essere semplicemente posticipato».
Anche se il tempo fosse infinito, infatti, ogni istante accade dopo un intervallo finito, dunque prima o poi diventa effettivo. Data la nostra abitudine ad anticipare il futuro tutto questo suona molto strano, eppure non abbiamo alcun indizio a favore del fatto che un evento non dovesse accadere esattamente com’è accaduto. Al contrario, ne abbiamo almeno uno a favore del fatto che doveva andare proprio in quel modo: il fatto stesso che sia accaduto. Su cosa fondiamo l’idea che “sarebbe potuta andare diversamente”, se sappiamo che l’ipotetica alternativa non è accaduta né accadrà mai?
Tra i primi paladini del determinismo troviamo, come accennavo, il filosofo greco Diodoro Crono (fine 4° – inizi 3° sec. a.C). L’argomento da lui sviluppato contro la possibilità (noto con il nome di κυριεύων, il «dominante») schiaccia la nozione di possibile su quella di necessità: se una cosa è possibile, o è o sarà vera, giacché: a) ogni cosa passata è vera e necessaria; b) dal possibile non consegue l’impossibile. Nelle parole di Epitteto, l’idea di Crono è come segue:
«[...] c’è un mutuo conflitto tra le seguenti tre proposizioni insieme: [1] ogni verità passata è necessaria, [2] al possibile non segue l’impossibile, [3] c'è del possibile che né è vero né sarà vero. Diodoro, avendo visto questo conflitto, si valse della plausibilità delle prime due per stabilire che nulla, che né sia vero né sarà vero, è possibile».
Questo argomento ha subito varie riformulazioni, come quella del filosofo neozelandese Prior, e molte critiche, tra cui Crisippo, Occam, Pierce e lo stesso Hartmann, che pur sposando le conclusioni del dominatore, sostiene che «dopo un buon inizio, cala molto di livello». Non voglio addentrarmi in un’analisi della tesi di Crono, ma ne proporrò una versione ibridata con il celebre esempio che Aristotele fa nella sezione 9 di Sull’interpretazione, quello della battaglia navale. Invece delle navi però, userò Napoleone Bonaparte.
(1) Un evento impossibile è un evento che non è mai accaduto né potrà mai accadere. (2) Che Napoleone vinca a Waterloo non è vero nel passato, nel presente e nel futuro. (3) “Napoleone viene sconfitto a Waterloo il 18 giugno 1815” è vero in qualunque momento nel tempo, quindi era impossibile che vincesse.
Ancora una volta è la certezza che il futuro sarà esattamente in un modo, per quanto ignoto, che mi porta a credere nel determinismo (acausale); la possibilità è una proiezione della nostra ignoranza, più che una realtà effettiva.
Che un evento possieda varie versioni possibili è un’ipotesi che chiunque esclude per il passato e il presente, perché abbiamo (o crediamo di avere) una buona conoscenza dei fatti. Per il futuro invece la pensiamo diversamente. Eppure, come si diceva, tutto il futuro prima o poi diventa passato e anche se continuo a immaginare che “poteva andare altrimenti”, una volta accaduto il futuro non suggerisce in alcun modo altre opzioni. Se proietto sulla realtà questa mia fantasia è perché ho esperienza di fatti analoghi veri (ad esempio di altri condottieri che vincono o perdono battaglie), ma non ne ho mai di quel preciso fatto, come la vittoria di Napoleone a Waterloo, che non esiste né esisterà mai. Una previsione esatta espressa nel passato, se confermata dal futuro, resta tale anche nel passato e se un francese nel 1814 avesse affermato che “Napoleone viene sconfitto a Waterloo il 18 giugno 1815” avrebbe detto il vero, anche se la sua affermazione precede di un anno la battaglia.
Riprendo ora il precedente esempio di un universo con solo due stati immaginabili, come testa o croce: mentre lancio la moneta so che nel futuro un esito è vero e l’altro falso. Non so ancora quale sia falso, ma in ogni caso non è “possibile” – è solo falso.
Chi crede come me nella necessità del futuro, a questo punto si domanderà che cosa rende questa ipotesi assurda per la maggior parte delle persone. Un’ipotesi è che questa reticenza sia dovuta alla radicata abitudine di cercare di prevedere il futuro, un’operazione mentale per cui è indispensabile l’idea di “possibilità”. Un altro ostacolo nell’accogliere il determinismo è che va contro alla necessità psicologica di considerare le persone responsabili delle proprie azioni, soprattutto quando si parla di errori. Dato che il determinismo implica l’assenza del libero arbitrio, chi sposa questa tesi deve difendersi dalla critica che senza la libertà di scelta l’umanità sprofonderebbe in un caos etico, perché le persone si sentirebbero libere di compiere ogni efferatezza sapendosi prive di una reale responsabilità. Questa critica è filosoficamente debole, perché le conseguenze spiacevoli di un’ipotesi non dicono nulla sul suo valore di verità – è un po’ come ribattere a un medico che diagnostica una malattia che si sbaglia perché non si desidera essere malati.
L’idea che abbandonare il libero arbitrio sia un pericolo etico, inoltre, mi sembra priva di fondamento. Come scrive Sabine Hossenfelder in un articolo in cui cerca di smontare dieci errori in materia di determinismo, «se il risultato dei tuoi processi cerebrali rende difficile la vita di altri, sarai tu a essere incolpato, recluso, mandato in psicoterapia o preso a calci. È del tutto irrilevante che la tua elaborazione difettosa delle informazioni sia o meno inscritta nelle condizioni iniziali dell’universo; la questione rilevante è ciò che ti porterà il futuro, se altri cercano di sbarazzarsi di te» e ancora, «anche senza il libero arbitrio, le persone devono comunque prendere decisioni e saranno comunque biasimate se rendono infelice la vita di altre persone». Determinate o meno, le nostre azioni hanno conseguenze e a scomparire non è l’idea di responsabilità ma semmai quella di colpa – la cui sparizione non ritengo affatto un male.
In un lungo articolo sul libero arbitrio sul Guardian, Oliver Burkeman porta l’esempio di un assassino e di un pedofilo i cui crimini erano legati alla presenza di un tumore al cervello; una malattia che, in determinate condizioni, può mutare drasticamente i comportamenti e i desideri di chi la sviluppa. Una volta scoperta la vera causa del male, la nostra opinione su questi criminali cambia inevitabilmente. Se non esistesse il libero arbitrio, ogni delinquente sarebbe da considerare come una persona condannata alle sue azioni. Questa idea ci porta a rivedere la giustizia in chiave riabilitativa o come una quarantena per motivi di salute pubblica, rinunciando così alla legittimità della nostra indignazione. Sembrerebbe un effetto negativo, se non fosse che l’accanimento morale non ha alcuna utilità sociale, anzi, porta alla erronea impressione di essere immuni al male e alla giustificazione di ulteriori atti immorali, come un trattamento violento nei confronti dei criminali. La società non rischierebbe di sprofondare nel caos, perché il male resterebbe tale e le norme per proteggersi da chi lo attua rimarrebbero intatte, senza però indulgere in sadismi o accanimenti. Sempre nello stesso articolo Burkeman scrive:
«se il libero arbitrio si dimostrasse davvero inesistente le implicazioni potrebbero non essere del tutto negative. [...] È un buon motivo per essere più gentili con noi e con gli altri. Per chi tende a essere duro con se stesso, è terapeutico pensare di aver fatto esattamente quello che poteva fare e che, nel senso più profondo, non avrebbe potuto fare di più. E per chi tende a infuriarsi con gli altri per i loro piccoli misfatti, è rassicurante pensare con quanta facilità le loro colpe avrebbero potuto essere le nostre. Alcune ricerche hanno collegato l’incredulità nel libero arbitrio a una maggiore gentilezza. Harris sostiene che se comprendessimo a pieno la tesi dell'assenza di libero arbitrio, sarebbe difficile odiare gli altri: come si può odiare qualcuno che non si incolpa per le sue azioni? Ma l’amore ne uscirebbe in gran parte indenne: dal momento che “amare significa volere che coloro che amiamo siano felici, ed essere noi stessi felici di quel legame etico ed emotivo”, nessuna di queste cose ne risulterebbe indebolita. Anche altri aspetti positivi della vita rimarrebbero indenni. Come dice Strawson, in un mondo in cui non si crede nel libero arbitrio, “le fragole avrebbero comunque un buon sapore”».
Se si parla dell’effetto che fa una credenza, la risposta non può che essere personale. L’idea del “nulla” ad esempio, pur nelle sue molteplici declinazioni, è capace di causare sconforto a Occidente e di risultare salvifica a Oriente. Anche per quel che riguarda il determinismo non esiste l’effetto giusto, ma solo una moltitudine di reazioni che questa idea genera una volta a contatto con delle individualità che si diversificano per storia biografica, costituzione fisica e contesto culturale – ogni risposta, insomma, è personale e tutto quel che posso offrire è la mia.
Come ho detto non ho mai confidato nel libero arbitrio e in ogni mio gesto mi sono sempre sentito come spinto da una volontà che vivo senza decidere; come aveva già detto Schopenhauer, una persona fa ciò che vuole ma non può non volere ciò che vuole. Se osservo i miei processi mentali, mi sembra di notare che i pensieri, più che un deliberato prodotto della mente (quale mente decide cosa pensa la mente?) sono qualcosa che accade, su cui non ho alcun controllo. Ma non è una consapevolezza dolorosa, tutt’altro. Nei rari momenti in cui riesco a contemplare senza giudicare desideri e repulsioni, lo spettacolo che intessono coi miei pensieri ha la bellezza di un’innocua catastrofe.
Il determinismo acausale, inoltre, mi aiuta a essere più indulgente con me e con gli altri, senza per questo negare o rifiutarmi di correggere i miei errori – in fondo se non mi impegnassi per risolverli sarebbe solo una dimostrazione che sono destinato a non farlo. L’idea che il futuro esista di già mi permette di non avere troppa paura del tempo che passa, perché nulla nasce e nulla scompare, se non alla mia vista. Decostruendo l’idea di colpa, infine, mi sono convinto che nessuna persona merita il dolore e mi è più facile essere tollerante nei confronti di chi la pensa diversamente, perché nessuno decide come nascere. E se questa è la tanto temuta débâcle etica, be’, ben venga.
[1] Tra i nomi sotto cui ho trovato questo concetto segnalo anche “fatalismo logico” o “fatalismo metafisico”. Uso determinismo acausale perchè in italiano la parola “fatalismo” è un po’ fuorviante (cfr. Conee, Earl Brink, and Sider, Theodore. Riddles of Existence: A Guided Tour of Metaphysics. Clarendon Press 2014).
di Francesco D'Isa
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