L’opposizione tra le filosofie della sostanza e quelle del processo si può far risalire ai tempi di Parmenide ed Eraclito. Mentre tra le prime sono comunemente annoverate quelle filosofie che si basano sui concetti di sostanza ed essere, le seconde partono dal riconoscimento del divenire come fondamentale. Sono state considerate processuali delle filosofie molto eterogenee tra loro, quali quelle di Leibniz, Schelling, Hegel e Nietzsche. Tuttavia, è solo dall’inizio del secolo scorso, tra Inghilterra, Francia e Stati Uniti, che si può cominciare più propriamente a parlare di “pensiero processuale” (Process Thought), in riferimento specialmente alla filosofia di Alfred North Whitehead, nonché a quella di pensatori a lui coevi quali Henri Bergson e William James e anche di Charles Sanders Peirce, John Dewey, Samuel Alexander e C. Lloyd Morgan. Al cuore di questa concezione vi è la centralità della temporalità e delle relazioni, intese come elementi primi e imprescindibili per comprendere tanto le strutture della realtà quanto quelle del pensiero, su un piano sia ontologico che epistemologico. Il pensiero processuale cerca infatti di cogliere e descrivere i fenomeni nella loro intrinseca temporalità e relazionalità, superando e abbandonando le dicotomie concettuali che, come quelle di soggetto-oggetto e sostanza-qualità, hanno segnato la storia della metafisica.
Benché resti una linea minoritaria nella storia della filosofia antica e moderna (si veda Ronchi 2017), nel corso del Novecento l’approccio processuale ha esercitato una significativa influenza (più o meno diretta) su diversi autori, da Maurice Merleau-Ponty a Gilbert Simondon, da Gilles Deleuze a Isabelle Stengers e Bruno Latour, ma non solo. È nel nesso con altri campi del sapere che il pensiero processuale ha mostrato la sua peculiare fecondità: si consideri su tutti il caso della biologia, in particolare le ricerche di Joseph Needham, Joseph Woodger e Conrad Waddington (e poi, in filosofia della biologia, Nicholson e Dupré 2018). La filosofia del processo non si esaurisce però nel porre le basi per una nuova “filosofia della natura”. Al centro dell’interesse rinnovato verso la filosofia processuale vi è primariamente la ricerca di categorie e strumenti concettuali che permettano di comprendere nella loro irriducibile complessità fenomeni vecchi e nuovi, in relazione tanto alle scienze umane quanto a quelle naturali: oltre alla filosofia dell’ecologia (Latour 2020, Stengers 2021), si pensi alla filosofia della fisica (Epperson 2004, McHenry 2015), alla filosofia della tecnologia (Hui 2019, Coeckelbergh 2021), alla filosofia dell’educazione (Petrov 2020), ma anche alla psicologia (Stenner 2018) e non solo.
La sfida di questo numero di Philosophy Kitchen è quella di chiarire quali sono i capisaldi dell’approccio processuale, ossia di mettere in luce i punti di forza teoretici di questa impostazione, che risulta oggigiorno così promettente. Sviluppare gli strumenti concettuali, logici, epistemologici e ontologici per pensare il processo è un compito urgente, se si vuole evitare che la dicitura “filosofia del processo” si riduca a un vacuo ritornello indicante una generica e sommaria opposizione alla presunta staticità della metafisica tradizionale.
Come indicato dal sottotitolo, le vie suggerite per giungere a un tale chiarimento sono tre. La prima via (“Storia”) si incentra su un’analisi teorica delle proposte già avanzate da alcuni pensatori del secolo scorso (e non solo). Ad esempio, la possibilità di spingere il pensiero al di là della forma soggetto-predicato e della correlata metafisica della sostanza caratterizza molte delle filosofie sopra menzionate, si veda a tal proposito la logica dei relativi di Peirce (Brioschi 2023). La seconda (“Categorie”) si concentra sull’elaborazione di una logica, epistemologia e teoria delle categorie propriamente processuale, mettendola a confronto con altri indirizzi e orientamenti filosofici. Infine, la terza (“Applicazioni”) mostra la forza di un approccio processuale in atto considerandolo in riferimento a singoli case studies o temi specifici.
I contributi possono essere rivolti alle seguenti questioni, nonché ad altre affini:
- Come collocare dal punto di vista della storia della filosofia i vari tentativi di cogliere la realtà come processo, anziché come sostanza o insieme di sostanze? Quali pensatori o correnti di pensiero non possono essere trascurati a questo fine? Quale il loro apporto teorico specifico?
- Spesso la filosofia del processo è presentata come una filosofia dell’esperienza: come si può definire la sua peculiarità, a confronto con altre tradizioni?
- È possibile comprendere il processo? Se sì, quali sono le “categorie” che meglio permettono di concettualizzarlo? Quale rapporto istituire tra il processo e quegli aspetti dell’esperienza che, almeno apparentemente, si sottraggono ad esso (come le leggi di natura)?
- Quali strumenti formali (ad esempio, la logica delle relazioni) possono sostenere una filosofia di tipo processuale? Quale rapporto intrattengono con il pensiero speculativo?
- Quali sono le possibili applicazioni del processo, da un punto di vista sia epistemologico che ontologico, nei vari ambiti del sapere: dalla biologia all’economia, dalla tecnologia all’educazione?
- Uno dei temi caratteristici della filosofia del processo è quello della creatività. A fronte degli avanzamenti delle ricerche interdisciplinari sul tema, qual è il contributo che un approccio di tipo processuale può avere oggi?
A partire dalle domande sollevate, ecco un elenco non esaustivo dei temi che invitiamo a considerare nelle proposte:
- la filosofia del processo come alternativa a quella della sostanza nella tradizione del pensiero occidentale (e non solo): autori e peculiarità
- i concetti propri della filosofia del processo: categorie e paradigmi
- filosofia del processo e filosofia analitica: quali punti di intersezione?
- relazione possibile tra la filosofia del processo e la centralità della temporalità quale orizzonte ultimo della costituzione tanto delle oggettualità quanto del soggetto conoscente in seno alla tradizione fenomenologica, con particolare riferimento a Husserl e Merleau-Ponty
- approcci formali e logiche del processo
- logica e metafisica delle relazioni
- l’evento come categoria processuale
- creatività e novità
- orientamenti processuali in filosofia della scienza (fisica, biologia, matematica, medicina)
- il pensiero processuale in letteratura e arte, psicologia ed educazione
- il tema del processo in architettura (teorie del progetto, sociologia e teoria dell’architettura, ecc.)
- applicazioni della filosofia processuale (case studies)
Bibliografia:
Brioschi, M.R. (2020). Creativity between Experience and Cosmos: C.S. Peirce and A.N. Whitehead on Novelty. Freiburg/München: Verlag Karl Alber.
Brioschi, M.R. (2023). “The Dismissal of ‘Substance’ and ‘Being’ in Peirce’s Regenerated Logic”, Logic and Logical Philosophy 32, pp. 217-242.
Coeckelbergh, M. (2021). “Time Machines: Artificial Intelligence, Process, and Narrative”, Philosophy & Technology 34, pp. 1623–28.
Epperson, M. (2004). Quantum Mechanics and The Philosophy of Alfred North Whitehead. Fordham: Fordham University Press.
Frigerio, C. (2023). Ricomporre un cosmo in frammenti: Il dibattito sulle relazioni interne ed esterne. Milano: Mimesis.
Hui, Y. (2019). Recursivity and Contingency. London & New York: Rowman & Littlefield.
Latour, B. (2020). La sfida di Gaia: il nuovo regime climatico. Tr. D. Caristina, Milano: Meltemi.
McHenry, L. (2015). The Event Universe: the Revisionary Metaphysics of Alfred North Whitehead. Edinburgh: Edinburgh University Press.
Nicholson, D. & Dupré, J. (2018). Everything Flows: Towards a Processual Philosophy of Biology. Oxford: Oxford University Press.
Petrov, V. (2020). Elements Of Contemporary Process Philosophical Theory of Education and Learning. Louvain-la-Neuve: Les Editions Chromatika.
Rescher, N. (2000). Process Philosophy: A Survey of Basic Issues. Pittsburgh: University of Pittsburgh Press.
Ronchi, R. Il canone minore: verso una filosofia della natura. Milano: Feltrinelli.
Stengers, I. (2021). Nel tempo delle catastrofi: resistere alla barbarie a venire. Tr. N. Manghi, Torino: Rosenberg & Sellier.
Stenner, P. (2018). Liminality and Experience: a Transdisciplinary Approach to the Psychosocial. London: Palgrave Macmillan.
Vanzago, L. (2021). Concrescence and Transition. Whitehead and the process of subjectivation. Milano: Mimesis International.
Whitehead, A.N. (1929). Process and Reality. Corrected Edition. a cura di D.R. Griffin and D.W. Sherburne. New York: Free Press, 1978. Whitehead, A.N. (1938). Modes of Thought. New York: Free Press, 1968.
Procedura:
Per partecipare alla call, inviare all'indirizzo redazione@philosophykitchen.com e a quello dei curatori in cc. mariaregina.brioschi@unimi.it e christian.frigerio1@unimi.it entro il 28 febbraio 2025, un abstract di massimo 4.000 caratteri, indicando il titolo della proposta, illustrando la strutturazione del contributo e i suoi contributi significativi, e inserendo una bibliografia nonché una breve biografia dell’autore o dell’autrice.
L'abstract dovrà essere redatto secondo i criteri scaricabili qui [Template Abstract], pena esclusione.
Le proposte verranno valutate dai curatori e dalla redazione. I contributi selezionati, che saranno sottoposti a double-blind peer review.
Lingue accettate: italiano, inglese.
Calendario:
- 28 febbraio 2025: invio abstract
- 31 marzo 2025: notifica accettazione/rifiuto della proposta
- 30 settembre 2025: invio dell'articolo
- 31 gennaio 2026: comunicazione degli esiti della double-blind peer review
Esiste un elemento in comune tra una passeggiata, un viaggio in treno o una visita al museo: il paesaggio. Guardato, rappresentato, vissuto, il paesaggio, come da definizione, restituisce e precisa tanto una porzione di territorio quanto un’immagine. Ma dov’è allora la differenza – e quale la sua natura - tra un paesaggio dipinto da Cézanne e un paesaggio che si erge all’orizzonte e si percorre con i sensi durante un’escursione? Questo il primo quesito con cui si apre il libro di Justine Balibar, dottoressa e professoressa di filosofia, Qu’est-ce qu’un paysage?, edito da Vrin nel 2021.
Il termine paesaggio è intendibile in due sensi: uno realista, l’altro iconico. La differenza sostanziale, specifica nelle prime pagine Balibar, è data dalla « situazione spaziale del soggetto percettore in relazione allo spazio percepito » (trad., p.8). Nel caso del paesaggio rappresentato, il soggetto si posiziona in uno spazio distinto rispetto a quello che percepisce; una fotografia, un quadro e, più generalmente un’immagine, racchiudono uno spazio a due dimensioni – delimitato da un’eventuale cornice o bordo – sottolineandone la lontananza e l’inaccessibilità fisica e ontologica; « noli me tangere » sarà l’ordine costitutivo del paesaggio rappresentato. Al contrario, il paesaggio reale circonda il soggetto che si situa e si muove all’interno dello spazio percepito, trovandosi in una relazione di continuità con esso. Ne consegue dunque, seguendo il ragionamento di Balibar, che il paesaggio rappresentato e quello reale rilevano due spazialità distinte da cui dipendono due esperienze estetiche differenti: « da una parte, spiega la filosofa, l’esperienza contemplativa della percezione di uno spazio separato dal nostro, uno spazio al di fuori del quale siamo situati, dall’altro l’esperienza immersiva o integrativa della percezione di uno spazio in continuità con il nostro, uno spazio in cui siamo situati.» (trad., p.11). Inoltre, rispetto al paesaggio rappresentato, quello reale mette in gioco non soltanto un’esperienza estetica della percezione – dall’aisthésis greca, esperienza fondata sulla percezione sensibile – ma anche da un’esperienza pratica del movimento, dell’attività fisica del corpo nello spazio.
Poste queste prime differenze, quali rapporti intrattengono il paesaggio reale e quello rappresentato? Si possono pensare a dei legami di interdipendenza tra questi due paesaggi? Per rispondere a queste domande, Justine Balibar ripercorre la storiaetimologica della parola ‘‘paesaggio’’ cercando di contestualizzarne l’uso lessicale e di comprendere l’origine della confusione contemporanea tra i sensi, realista e iconista, del termine. Per una curiosa inversione del rapporto che vorremmo spontaneamente instaurare tra la realtà e la sua rappresentazione, ai nostri giorni, osserva Balibar, l’idea di paesaggio, inteso nel suo senso realista, è stato contaminato dall’idea della rappresentazione « come se il paesaggio reale dovesse essere sempre compreso e percepito in termini di paesaggio rappresentato, o addirittura come se, alla fine, esistesse solo un paesaggio rappresentato » (trad., p.12). L’origine? Il topos iconista, secondo cui il paesaggio rappresentato eserciterebbe un’ascendenza sul paesaggio reale. Complici di questo pensiero sono la teoria settecentesca del pittoresco e, nell’età contemporanea, i teorici del paesaggio come Augustin Berque (1995), Anne Cauquelin (2004) e Alain Roger (1978 ; 1997). Questo primato tradizionalmente attribuito al paesaggio rappresentato rispetto al paesaggio reale è inteso nel senso di una precedenza cronologica e logica. Secondo Alain Roger l’esistenza di rappresentazioni paesaggistiche, nella sua prima formulazione rinascimentale, avrebbe permesso la costituzione di un metodo di percezione e apprezzamento dei paesaggi reali in natura; un fenomeno che l’autore chiama “artialisation”, sottolineando il ruolo cruciale dell’arte nella formazione del nostro modo di osservare e considerare il paesaggio. Sulla stessa linea di pensiero, la teoria di Anne Cauquelin sostiene che il Rinascimento ha visto l’avvento di un nuovo genere pittorico - la pittura di paesaggio - che avrebbe sviluppato il nostro senso e la nostra cultura del paesaggio, determinando così la nostra capacità a percepirli e apprezzarli. Un po’ provocatoriamente, si potrebbe ribattere, con Justine Balibar, che prima della comparsa della pittura di paesaggio, non ci sarebbe stato alcun paesaggio nel mondo reale; detto altrimenti, non saremmo stati in grado di sperimentare i paesaggi nel mondo fisico né tantomeno di apprezzarne la bellezza.
Per discutere e confutare la teoria del primato del paesaggio rappresentato su quello reale, Balibar inizia con il criticare la teoria dell’anteriorità cronologica del paesaggio rappresentato rispetto al paesaggio reale. A difesa della teoria viene spesso avanzata un’argomentazione di natura lessicale, che relaziona l’origine del paesaggio con l’origine della parola “paesaggio”, nata durante il periodo rinascimentale nel gergo pittorico, per designare innanzitutto una rappresentazione del territorio prima del suo aspetto reale. Una prova argomentativa di duplice debolezza : in primo luogo, afferma l’autrice, questa teoria semplifica eccessivamente il complesso sviluppo etimologico della parola “paesaggio” e, in secondo luogo, ne riduce il concetto al suo corrispettivo terminologico.
Per rispondere a questa argomentazione, Justine Balibar si sofferma, per diverse pagine, a seguire la storia etimologica, complessa e intricata, del termine “paesaggio”, comparandolo ai suoi equivalenti europei, occupandosi poi di distinguere il livello lessicale da quello concettuale. Esistono, infatti, altre parole oltre a ‘‘paesaggio’’ che traducono il concetto, sia in francese che in altre lingue europee: l’inglese ‘‘prospect’’, il francese ‘‘contrée’’, l’italiano ‘‘contrada’’, tutti termini che designano inequivocabilmente il territorio così come si dispiega davanti a noi e si offre alla nostra vista. Non c’è bisogno, quindi, della parola ‘‘paesaggio’’ per esprimerne il concetto e neanche di parole o espressioni legate ad un contesto pittorico : né ‘‘prospettiva’’, né ‘‘contrée’’ o ‘‘contrada’’, né ‘‘facies locorum’’ o ‘‘forma regionis’’ provengono originariamente dal registro della rappresentazione pittorica. Inoltre, il ricorso all’argomento lessicale tende a nascondere tutto ciò che è paradossale nell’affermazione di un’anteriorità cronologica del paesaggio rappresentato rispetto a quello reale. Questa affermazione sembra controintuitiva perché contravviene al rapporto che siamo spontaneamente tentati di stabilire tra realtà e rappresentazione, tra modello e copia; non dovremmo essere in grado di percepire e apprezzare i paesaggi nel mondo reale, prima di poterli rappresentare su una tela? Si chiede Balibar. E ancora, un paesaggio non dovrebbe esistere realmente prima di poterlo fotografare?
Riprendendo gli esempi descritti da Philippe Joutard (1986), Balibar ricorda l’abbaglio di Dürer, durante il viaggio a Venezia del 1494, davanti alle forme e ai contrasti delle Alpi, che gli fornirono numerosi soggetti per disegni e dipinti. Allo stesso modo Brueghel, al tempo del suo viaggio in Italia del 1551, si soffermò tra i paesaggi alpini che ispirarono la valle montana ne Cacciatori nella neve. E lo stesso Leonardo da Vinci, con la sua profonda conoscenza del paesaggio dell’Italia settentrionale, dalla campagna agricola della pianura padana alle montagne lombarde, evoca nei suoi scritti le contemplazioni paesaggistiche.
Di fronte a questi esempi, si potrebbe certamente obiettare che se Dürer, Brueghel o Leonardo si dimostrano capaci di vedere e apprezzare paesaggi reali, è proprio perché li vedono con ‘‘l’occhio del pittore’’. Sembrerebbe non esserci una via d’uscita: chiedersi se viene prima il paesaggio reale o il paesaggio rappresentato, è il paradosso dell’uovo e della gallina. Per risolvere la questione, Balibar si discosta da una prospettiva unicamente cronologica e storica, interrogando in modo approfondito la natura del concetto di paesaggio. Porre la questione in termini genealogici, scrive la filosofa, « porta a un vicolo cieco, perché la questione è insolubile a meno che non si difenda una posizione ingenua - i pittori devono aver percepito i paesaggi reali prima di rappresentarli nei loro dipinti - o paradossale - nessun paesaggio reale prima del Rinascimento e dello sviluppo della pittura di paesaggio » (trad., p.23).
La seconda parte del riflessione di Balibar, inizia riproponendo la distinzione con cui esordiva il suo testo: il paesaggio rappresentato è un’immagine, il paesaggio reale è un ambiente fisico. Considerazione che permette di evitare di cadere nell’illusione iconista e confondere il paesaggio reale con le sue rappresentazioni, « la chose avec l’image de la chose » (p.30). A questo proposito, l’estetica ambientale che si è sviluppata nel mondo anglosassone a partire dagli anni Sessanta con autori come Ronald Hepburn (1966), John Baird Callicott (1983; 1994), Allen Carlson (1979; 1981), Emily Brady (1998; 2003), Arnold Berleant (1992) e Noël Carroll (1993), offre preziose risorse teoriche per pensare al paesaggio come ambiente e al tipo di esperienza estetica a cui si presta. Il gesto decisivo dell’estetica ambientale consiste nel difendere una definizione naturalistica dell’ambiente, riconoscendolo come uno spazio fisico polisensoriale e tridimensionale, radicalmente distinto da un’immagine. Tuttavia l’estetica ambientale non è un’estetica del paesaggio: « Per comodità, spiega Balibar, i filosofi dell’estetica ambientale, preferiscono parlare di ‘‘ambiente’’, di ‘‘natura’’ o di ‘‘territorio’’ piuttosto che di ‘‘paesaggio’’, il quale possiede ancora connotazioni artistiche o iconistiche, marcate » (trad., p.35). La nozione di paesaggio reale non si sovrappone a quella di ambiente, ma vi è inclusa. Il paesaggio è infatti un tipo di ambiente con determinate caratteristiche proprie che lo distinguono da altri tipi di ambienti.
Se i teorici dell’estetica ambientale non si sono interessati alla specificità degli ambienti paesaggistici in relazione ad altri tipi di ambienti, altri autori, provenienti da diverse tradizioni teoriche, hanno preso in considerazione questa questione. È il caso del filosofo italiano Rosario Assunto, che definisce i paesaggi reali come ambienti la cui caratteristica principale è l’apertura spaziale : gli ambienti paesaggistici sono ambienti aperti, in contrapposizione ad ambienti chiusi e confinati come un giardino o un sottobosco. Al contempo, l’apertura si oppone all’illimitatezza o a tutto ciò che, per immensità, supera le capacità di sintesi percettiva di un soggetto umano: l’Universo, la Terra, un Paese intero o persino un’immensa regione sono ambienti troppo vasti per essere percepiti nel loro insieme, ossia per poter costituire un paesaggio in sé. L’apertura che caratterizza in modo specifico l’ambiente paesaggistico lo colloca in una posizione intermedia tra gli ambienti chiusi e confinati e gli ambienti sproporzionati o illimitati. Continuando l’analisi di Assunto, possiamo dire che l’apertura non è la semplice dimensione spaziale. Affinché uno spazio sia aperto quest’ultimo deve estendersi tra due punti: tra il vicino e il lontano, tra il punto di vista a cui è ancorato il soggetto che percepisce e il punto di fuga fino al quale la sua percezione può spingersi. Il paesaggio si apre fino al punto in cui lo si può attraversare (visivamente o fisicamente), ma anche dal punto in cui ci si colloca nello spazio e lo si percepisce.
Date queste condizioni, il paesaggio, come ambiente aperto, presuppone un tipo particolare di esperienza, sia dal punto di vista del funzionamento percettivo che dell’articolazione della percezione rispetto al movimento. Il corpo è coinvolto interamente nella misura in cui è in grado di muoversi e percepire il paesaggio attraverso una pluralità di sensazioni, non solo visive, ma anche tattili, cinestesiche, olfattive e uditive, persino gustative. Nel momento in cui il corpo del soggetto che percepisce è in movimento nello spazio che contempla, la visione del paesaggio non è più autonoma: il movimento rende possibile una variazione costante degli angoli di visuale e, di conseguenza, una moltiplicazione indefinita delle vedute del paesaggio. I punti di vista si susseguono fondendosi l’uno nell’altro senza determinazione di un punto di vista privilegiato; il paesaggio reale, basandosi su una percezione in movimento, non è una vista o una serie di viste discontinue come il paesaggio rappresentato, ma è un continuum visivo. Il movimento è quindi una condizione specifica della visibilità del paesaggio reale e della sua leggibilità per lo sguardo del soggetto che percepisce. Per riassumere, citando la filosofa Balibar : « L’esperienza dei paesaggi reali lascia una grande libertà estetica al soggetto, a differenza del paesaggio rappresentato, che impone una cornice e un atteggiamento. Spetta al soggetto comporre la propria esperienza, nella molteplicità delle possibilità che gli vengono offerte. Tuttavia, una maggiore attenzione permette di determinare modalità di movimento e di sperimentazione più appropriate di altre, a seconda della tipologia di paesaggio - camminare o arrampicarsi in alta montagna, utilizzare l’automobile nei grandi spazi delle Badlands americane » (trad., p.57).
Come ogni esperienza, anche quella del paesaggio reale è condizionata da un certo contesto culturale, non esclusivamente di natura artistica. La cultura che guida e modella la nostra comprensione dei paesaggi reali non è fatta solo di immagini di paesaggi, ma comprende anche un’intera gamma di altre pratiche non artistiche e non rappresentative, a partire dalle tecniche e dalle pratiche fisiche che ci permettono di muoverci all’interno dei paesaggi, fino alle conoscenze teoriche che ci permettono di capire e interpretare le percezioni di un paesaggio. Le rappresentazioni del paesaggio sono quindi solo un aspetto di una cultura del paesaggio più ampia ed eterogenea, e sembra difficile in queste circostanze concludere che i paesaggi rappresentati abbiano una precedenza assoluta sui paesaggi reali.
Per concludere la sua riflessione sulle differenti declinazioni del concetto di paesaggio, Justine Balibar si allarga a delle problematiche che trascendono quelle puramente estetiche. A questo proposito intraprende un’analisi del ciclo di affreschi di Ambrogio Lorenzetti Allegoria ed effetti del buono e del cattivo governo (1338) considerato da taluni come il primo paesaggio dell’arte occidentale, esempio della circolazione tra reale e rappresentazione, che caratterizza l’estetica paesaggistica occidentale, e interessante in quanto introduce un’altra dimensione fondamentale e costitutiva del concetto di paesaggio: la sua dimensione socio-politica.
Situato in un luogo pubblico e politico, al Palazzo Pubblico di Siena, seggio del governo della commune, l’affresco è di chiara vocazione politica e non meramente estetica. L’affresco, richiesto a Lorenzetti dalla governo dei Nove in un momento di grande instabilità politica e sociale, rende pubblico e accessibile a tutta la popolazione un messaggio politico complesso sulla questione del bene comune. Con il suo affresco, sottolinea Balibar, Lorenzetti presenta il paesaggio come « l’incarnazione territoriale di una politica, di un governo, di un vivere insieme » (trad., p.67). Il paesaggio diviene cosi non solo uno spazio particolare da percepire, ma soprattutto uno spazio particolare da vivere, abitare e modificare all’interno di una comunità attiva. La cultura del paesaggio è infatti cultura del façonnement (Jackson, 2003; Besse, 2009): il paesaggio si modifica attraverso tutte le attività che costituiscono la nostra cultura e, molto spesso, sono il risultato di scelte politiche. Le trasformazioni del paesaggio dipendono da decisioni politiche di una collettività più o meno grande, tanto sul piano sociale che sul piano economico o ambientale.
Da questo punto di vista allora, specifica Balibar, il paesaggio rappresenta una necessaria articolazione tra la contemplazione estetica e l’interesse pratico. La filosofa conclude la sua riflessione con una citazione di Rosario Assunto : « “il paesaggio è una realtà estetica che contempliamo mentre viviamo in esso”. Perdere questa dimensione d’attività vitale e pratica all’interno del paesaggio, vorrebbe dire prendere il rischio di impoverire considerabilmente l’esperienza estetica del paesaggio » (trad., p.69). Dovremmo forse considerare nelle attuali politiche ambientali e nel nostro modo di concepire il paesaggio, la suggestione del Lorenzetti e del suo “buon governo”.
In appendice, Balibar inserisce e commenta due testi che risultano essenziali per comprendere meglio il significato, per la cultura occidentale, del concetto di paesaggio, e le tensioni tra quello reale e rappresentato, offrendo due modelli esemplificativi presi da due contesti storici molto lontani tra loro. Il primo è “La Promenade Vernet” Ruines et paysages. Salon de 1767 di Diderot, un testo che, per riassumere, lontano dal ridurre il paesaggio all’arte del paesaggio secondo un’ottica “artialisante”, propone un’estetica pittoresca, stabilendo un rapporto di reciprocità tra pittura e realtà, « un passaggio poetico dall’uno all’altro e viceversa, poiché si può passare dal modello pittorico alla visione della realtà e da quest’ultima al disegno» (trad., p.100).
Il secondo testo, invece, è tratto dal primo capitolo del volume di Rosario Assunto, Il paesaggio e l’estetica (2005), in cui il filosofo definisce il concetto di ‘‘metaspazialità paesaggistica’’, riassumibile in tre caratteristiche: da un punto di vista puramente spaziale, il paesaggio è uno spazio contemporaneamente limitato e aperto; questo spazio è iscritto in una temporalità naturale e non storica e la sua percezione estetica coincide con quella ecologica (inteso in senso largo), nella misura in cui il soggetto è tanto attore quanto spettatore del paesaggio in cui vive. L’idea che sviluppa Assunto sotto il termine di metaspazialità è, secondo Balibar “essenziale e inevitabile”, per tutta l’estetica dei paesaggi reali : il paesaggio è un ambiente con qualità estetiche che si rivolgono alla nostra sensibilità, ma è soprattutto realtà nel quale e grazie al quale viviamo. Ed è in questa intersezione che la posizione estetica ed ecologica si raggiungono: « la realtà da contemplare è anche realtà vitale, da preservare » (trad., p.124). In conclusione alla sua riflessione filosofica, Justine Balibar sottolinea quanto la critica del paesaggio contenga le possibilità di sviluppare un’attitudine etica orientata alla salvaguardia dei paesaggi. Fare allora della critica paesaggistica una militanza in favore del paesaggio o, per utilizzare un’espression di Brunon (2002), proporre una «critica in azione» (trad., p.124).
Questo lavoro di Ronchi non può essere ignorato da chi continua o comincia a considerare la filosofia uno sforzo rigoroso e sistematico. Esso, non esito a dire, risponde a una delle domande comunemente dette “da un milione di dollari”: ma la filosofia ci serve oggi? Se sì, in che modo? E risponde non dicendo che è così e perché è così, ma mostrandolo. Apocalissi valoriali, catastrofi culturali, instabilità politiche, identità frantumate, mutamenti sociali, stravolgimenti psicologici, crisi economiche, flussi perpetui, turbolenze costanti, intrecci inestricabili, dinamiche inarrestabili, movimentismi, aperture incessanti, ossessione per la novità, e così via: sembrerebbe questa la cifra della contemporaneità, di un’epoca in cui trasformazioni e processi sembrano moltiplicarsi in modo quasi asfissiante. Vediamo istituzioni nascenti o fatiscenti, crisi economico-sistemiche, esistenze in costante transizione, affermazione del lifelonglearning, moltiplicazione di scoperte scientifiche e di progetti di ricerca in campi nuovi, sommovimenti sociali e politici e chi più ne ha più ne metta. Si tratta di una fase storico-culturale che comincia a essere esplicitamente connotata come «interregno» (C. Bordoni), quasi alla stregua di un limbo perpetuo, di una fase di transizione in atto ma senza un “verso dove”, di un cambiamento in corso ma senza un “verso cosa”, di un post- (modernità, verità, democrazia, guerra, comunità, Stato, …) che rigira su di sé, sospeso tra l’euforia e la fobia per ciò che sarà, come tra il disprezzo e la malinconia per ciò che è stato. Sembrerebbe di vivere in un periodo socio-politico nel quale la depressione si diffonde, intesa come affaticamento esistenziale e proprio in rapporto alla configurazione di un ambiente dove riveste un ruolo centrale la persistenza dello sforzo di configurare il proprio posizionamento, piuttosto che la permanenza di una posizione data (A. Ehrenberg). Simili fenomeni dinamico-relazionali o «d’intorno», per dirla con E. Morin, sembrano aprire almeno tre tipi di interrogativi.
Il tema dell’impersonale costituisce il fulcro di un dibattito odierno forse sfuggente ma variamente presente in assi tematiche e ambiti di ricerca assai differenti. Si tratta, molto in generale, di un tentativo di rimettere in discussione la nozione di soggettività, antropologicamente circoscritta, per giungere a teorizzare una sorta di spazio impersonale, capace di fondare e articolare le linee dell’intero piano della realtà concretamente esperibile. Si potrebbe obiettare che un simile tema mantenga un’impostazione di tipo “metafisico”, intesa in senso negativo, come fautrice di una speculazione antiquata, piattamente astratta e slegata dalla contemporaneità. A questa obiezione, che tende a schivare con forse troppa leggerezza gli ammonimenti heideggeriani e derridiani – è possibile uscire dall’epoca della metafisica? O meglio, è possibile una filosofia che non sia per ciò stesso metafisica? – corrisponde un atteggiamento oggi ben radicato, che tende a svalutare il pensiero “puro”, considerato logoro e inadatto a cogliere le linee in cui si articola il mondo di oggi.
Affrontare l’impersonale altro non significa se non riformulare la questione trascendentale della fondazione, ossia del rapporto e della connessione tra dato empirico e pensiero, concetti e realtà, ontologia e epistemologia, soggetto e oggetto, anima e corpo. Occuparsi dell’impersonale può voler dire porre una questione dal sapore evidentemente genetico, volta a indagare il sorgere stesso del reale; quel momento intensivo che ci fa transitare verso la realtà che esperiamo quotidianamente, dal piano di immanenza deleuziano alla spaziatura derridiana, passando per la questione della sintesi passiva in Husserl – per limitarsi a qualche breve esempio. D’altra parte riflettere sull’impersonale significa praticare un pensiero critico nei confronti di un’istanza, quella del soggetto, che costituisce ancora uno dei poli problematici fondamentali della riflessione filosofica. Dalla critica “biopolitica” dell’interiorità agostiniana e della nozione di “persona” al ripensamento profondo (antropologico, farmacologico, sferologico) della tecnica, passando per l’atmosferologia come decostruzione dell’introiettivismo patico, chi si interroga sull’impersonale ambisce così a demitizzare gran parte del soggettivismo che ha caratterizzato la riflessione filosofica almeno da Descartes in avanti.
Non meno importanti i contributi provenienti dal côté più strettamente biologico e vitalista, che prende le proprie mosse dalla vivace ricezione francese del bergsonismo nel secondo dopoguerra. A orientare questo filone è l’idea di un divenire organico della vita, in opposizione ai vari riduzionismi neopositivistici – fisiologia, psico-fisica, etc. - promotori di una suddivisione del vivente in semplice somma di parti meccaniche, aggregabili e quantitativamente misurabili. Figure come Raymond Ruyer, Georges Canguilhem e Gilbert Simondon, tra le altre, inaugurano così un pensiero fisico-biologico (e filosofico) che pone il proprio accento sul rapporto tra individuo e ambiente, tra virtualità preindividuale e meccanismi di attualizzazione.
La questione dell’impersonale non ha evidentemente limitazioni tematiche né frontiere ben circoscrivibili, ma si distribuisce piuttosto all’interno di una serie di incroci tra punti di vista e contesti cronologico-geografici differenti, che il seguente numero vorrebbe provare a far dialogare.
*Atti del convegno svoltosi a Torino il 28 e 29 aprile 2016, organizzato da Gaetano Chiurazzi, Carlo Molinar Min e Giulio Piatti, con il patrocinio dell’Università degli Studi di Torino e del dipartimento di Filosofia e Scienze dell’educazione, e in collaborazione con Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea.
Si desidera qui ringraziare il professor Roberto Salizzoni per il sostegno e i preziosi suggerimenti nel corso delle fasi di organizzazione del convegno.
Jacques-Alain Miller (2006a), nel commento al Seminario XXIII – Il sinthomo di Lacan (2006a), sottolinea che, da un punto di vista psicoanalitico, «il corpo è paragonabile a un ammasso di pezzi staccati. Non ce ne rendiamo conto tanto che restiamo catturati dalla sua forma, tanto che la pregnanza della sua forma impone l’ideale della sua unità» (p. 13). Lo statuto primitivo del corpo, contrariamente all’evidenza del visibile, è infatti di essere in pezzi staccati e, affinché il bambino possa percepire il proprio corpo come una unità, occorre che sia passato attraverso quello che Lacan (2002a) considera un vero e proprio «crocevia strutturale» (p. 107) nello sviluppo. Nel 1936, riprendendo le ricerche sperimentali sulla percezione compiute da Henri Wallon, Lacan indica con il nome di stadio dello specchio quella fase in cui il lattante, tra i sei e i diciotto mesi, ancora immerso in uno stato di frammentazione, impotenza e di prematurazione fisiologica, risponde in modo giubilatorio alla vista della propria immagine riflessa nello specchio. L’immagine speculare permette al bambino un primo riconoscimento, una prima identificazione e, contemporaneamente, segna uno iato incolmabile poiché egli non potrà mai ricongiungersi all’immagine che lo specchio gli rimanda. Scrive Lacan (2002b): «questa Gestalt […] simbolizza la permanenza mentale dell’io e al tempo stesso ne prefigura la destinazione alienante» (p. 89). In questo passo, possiamo già trovare l’idea del soggetto lacaniano come strutturalmente diviso ed è per questa via che Lacan (2002a) sottolinea la dimensione tragica dello stadio dello specchio, la cui essenza è quella di essere una «lacerazione originale» (p. 110) in cui l’essere del soggetto è per sempre separato dalla sua proiezione ideale.
Da una parte, dunque, lo stadio dello specchio permette quell’operazione simbolica che offre al soggetto la possibilità di individuarsi come un “io” mentre, dall’altra, è ciò che lo divide irrimediabilmente dalla sua immagine. È a questo livello che si pone la «Spaltung tra il moi che viene a costituirsi e il soggetto dell’inconscio je, che non si lascia reperire nell’immagine speculare, e che troverà modo di presentarsi nei punti di vacillamento dell’io» (Cosenza, 2003, p. 23-24). Nell’analisi di questo momento così importante nella costituzione dell’immagine del corpo Lacan evidenzia il ruolo fondamentale e preliminare svolto dalla madre: ella è colei che tenendo in braccio l’infans gli indica che l’immagine che lo specchio rimanda è la sua. È quindi attraverso l’azione operata da un elemento terzo – in questo caso la madre – eterogeneo alla dimensione della similarità, che «il soggetto si pone come operante, come umano, come io (je), a partire dal momento in cui appare il sistema del simbolico» (Lacan, 2006b, p. 66).
Quanto detto mette in rilievo come il corpo si strutturi a partire dall’apporto dell’immagine e l’esperienza del corpo in frammenti, di cui testimoniano i soggetti schizofrenici, si pone come caso paradigmatico degli effetti provocati dal non accesso alla funzione unificante dell’immagine speculare. Per Eva, una ragazza schizofrenica, per esempio il corpo è piuttosto il luogo di un ritorno nel reale della libido: Eva in certi momenti di vacillazione deve cingere la testa con una fascia perché possa avere la tranquillità «che tutto ciò che è all’interno della testa resti dentro». Quando il bambino viene al mondo, viene già al mondo nel campo dell’Altro simbolico ed è il simbolico che per Lacan costituisce uno dei tre registri, oltre all’immaginario e al reale, che presiede alla nascita e alla formazione del soggetto. Il simbolico, in particolare, è ciò che umanizza il soggetto sottraendolo alla condizione di puro vivente per immetterlo nel legame sociale.
Nelle Due note sul bambino, Lacan (1987) ci dice che il bambino diventa soggetto solo tramite il desiderio dell’Altro, cioè a partire dal modo in cui la madre, il suo Altro primordiale, ne ha fatto causa del proprio desiderio. Da ciò si coglie che il corpo per l’essere parlante non è più solo un organismo, prodotto di puri bisogni biologici, ma è la risultante della relazione che intercorre tra l’organismo di un vivente e l’Altro del linguaggio. È quindi il simbolico a trasformare l’organismo in corpo e il parlare di corpo implica una trilogia che comporta, oltre al corpo, la parola e l’essere. Per un verso, l’entrata nel campo del linguaggio fa pertanto perdere all’umano lo statuto di essere naturale ma, contemporaneamente, fa guadagnare al corpo uno statuto inedito perché diviene tempio della pulsione: «Come tempio della pulsione il corpo è libidicamente erotizzato, sublimato, sessualmente portatore di una differenza che fa problema, sede di un desiderio che ha fonte in quella perdita di godimento che è correlativa alla iscrizione stessa del simbolico. Ma il corpo è anche ciò che patisce di “quello che non va” e che Lacan chiama “il reale”. È questo reale che si manifesta nel sintomo e che insiste rendendo sofferente il corpo come un impossibile da sopportare ma di cui però non si riesce a fare a meno: “godimento”, lo chiama Lacan» (Miller, 2006b, p. 8).
Bibliografia:
Cosenza, D. (2003). Jacques Lacan e il problema della tecnica. Roma: Astrolabio.
Lacan, J. (1987). Due note sul bambino. La Psicoanalisi, 1, 22-23.
Id. (2006a). Il seminario. Libro XXIII. Il sinthomo (1975-1976). Roma: Astrolabio.
Id. (2006b). Il seminario. Libro II. L’io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi (1954-1955). Torino: Einaudi.
Id. (2002a). Aggressività in psicoanalisi (1948). In Id., Scritti. Vol. 1. Torino: Einaudi.
Id. (2002a). Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io In Id., Scritti. Vol. 1. Torino: Einaudi.