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La solidarietà in tempi difficili
Longform / Giugno 2022Che cos’è la solidarietà? Nel concetto si incontrano, come sappiamo, almeno due tradizioni distinte, quella rivoluzionaria della “fraternità” e quella cattolica della “carità”. L’una e l’altra alludono a un legame tra gli individui di tipo extracontrattuale, capace di fare in modo che l’attenzione disinteressata per il prossimo non risulti sacrificata a vantaggio della logica dello scambio. Appellarsi alla solidarietà significa ricordare che non è solo da considerazioni razionali rispetto allo scopo che è possibile dedurre le norme e le istituzioni in grado di offrire alle persone l’opportunità di condurre vite soddisfacenti e dignitose e di garantire al sistema democratico la possibilità di mantenere nel tempo condizioni accettabili di stabilità. Eppure, la solidarietà è divenuta una risorsa scarsa, che non si lascia rigenerare o ingrandire a piacimento. L’indebolimento progressivo delle pratiche simboliche che assicurano la solidarietà sociale, come i riti, il culto religioso, le cerimonie nazionali per un verso, e la tendenza crescente all’esercizio meramente legale e strategico dei diritti soggettivi per un altro, hanno contribuito a rendere questa risorsa, che indica la soglia minima della spontaneità sociale, un bene sempre più bisognoso di rigenerazione. In generale, si può in ogni caso affermare che tutte le concettualizzazioni della solidarietà hanno in comune qualcosa che ha a che fare con la volontà di promuovere e praticare a livello di socializzazione forme di relazione di tipo cooperativo, così da incentivare la coesione solidale dei cittadini al di là delle rispettive funzioni professionali o degli stereotipi di ruolo interiorizzati.
Per provare a chiarire meglio il concetto può essere utile distinguere tre aspetti principali. In primo luogo, la solidarietà si richiama alla necessità di fornire sostegno o assistenza alle persone in difficoltà con le quali vi è un rapporto di prossimità, di tipo solitamente affettivo o emotivo. In secondo luogo, chi avverte questa esigenza percepisce di avere qualcosa in comune con chi ne è beneficiario: valori, norme e costumi tacitamente condivisi, oppure il senso di essere parte di una comunità solidale nella quale ciascuno si fa carico dell’altro per affrontare assieme le sfide esistenziali di una vita sottoposta a una minaccia incombente. Infine, la solidarietà non è una forma di interazione da praticare occasionalmente ma è, piuttosto, un ingrediente costitutivo del tessuto sociale o politico, una componente intrinseca del vivere sociale. Per questo richiede un certo livello di reciprocità, per quanto indiretta: non a caso, il sentimento di solidarietà è più accentuato quando le persone che contribuiscono agli assetti solidaristici possono contare sul fatto che a tempo debito i loro sforzi verranno debitamente ricompensati. L’idea di Habermas, della solidarietà come terza fonte dell’integrazione della società accanto al denaro e al potere amministrativo, cerca di cogliere con uno sguardo d’insieme questa triplice articolazione del concetto, che dalle strutture di mutuo riconoscimento spontanee e concrete si trasferisce in forma astratta, ma vincolante, agli ambiti d’azione complessi e progressivamente anonimi delle società funzionalmente differenziate.
In prima battuta, tuttavia, è opportuno restare ancorati al piano della fattualità spontanea di forme di vita unite da vincoli di prossimità e cooperazione abituale, dove risulta possibile definire la solidarietà come una pratica spontanea e non-regolamentata che esprime la volontà di assistere o sostenere coloro con i quali vi è – o si ritiene che vi sia – una sorta di familiarità per un qualche aspetto ritenuto rilevante. L’aspetto che gioca il ruolo più significativo è costituito dai contesti all’interno dei quali risulta possibile praticare forme di solidarietà “in solido”, per così dire. Poniamo che un individuo venga a sapere che in un certo luogo di lavoro i dipendenti subiscono esperienze di discriminazione, degradazione ed esclusione. È probabile che la molla della solidarietà scatti in lui se gli è a sua volta toccato in sorte di subire esperienze simili. O immaginiamo che un altro doni un organo del proprio corpo a che ne ha bisogno per sopravvivere. Anche in questo caso è verosimile che un gesto di solidarietà così impegnativo venga attuato se in famiglia o nella cerchia di amici o conoscenti una circostanza del genere abbia già avuto modo di verificarsi. Il riconoscimento della somiglianza sotto un qualche aspetto rilevante è perciò un processo attivo, che permette di vedere negli altri ciò che si sa o che si prova riguardo a se stessi. Non si tratta del mero riconoscimento di caratteristiche astratte e generiche: tocca invece situazioni in cui i tratti comuni che le persone hanno imparato a riconoscere possono diventare effettivamente obbliganti per l’agire del singolo solo se si incarnano nell’esigenza di qualche essere umano realmente esistente.
È verosimile che se un individuo avesse l’abitudine di vedere negli altri ciò che hanno di diverso da lui – per esempio attraverso il filtro delle appartenenze culturali, religiose o politiche – piuttosto che gli aspetti condivisi, incontrerebbe non poche difficoltà a ritrovare quella disponibilità a porre l’altro entro se stesso e a permanere presso di sé nell’essere altro di cui parlava Hegel – disponibilità che è alla base di ogni impegno solidaristico. Insomma, la solidarietà sembra prevedere un rapporto di simmetria tra i soggetti, per lo meno nel momento in cui qualcuno presta sostegno a qualcun altro. Questa simmetria non è una sorta di affermazione ontologica relativa alla configurazione delle nostre società, nel senso che non si tratta affatto di lasciare in ombra le differenze e le disuguaglianze strutturali che le attraversano. Si tratta piuttosto di prendere atto che, in alcune circostanze, le somiglianze contano ben più delle differenze.
Questa definizione permette di distinguere la solidarietà da altre forme di sostegno o di pratica pro-sociale, come l’empatia, la carità o l’amore. La solidarietà è diversa dall’empatia perché non basta limitarsi a ricondurre a sé le emozioni altrui: la preoccupazione per le sorti di chi è minacciato o si trova in difficoltà deve essere unita alla motivazione altruistica di porre rimedio alla situazione mediante una qualche forma di intervento concreto. È diversa dalla carità perché richiede una preliminare condivisione, anche solo immaginativa, di alcuni tratti comuni impliciti nelle forme di vita, per esempio, il fatto che ci si trovi nella stessa situazione di vulnerabilità rispetto al contagio, alla malattia o alla morte. Mentre cioè la carità potrebbe nascere da un dovere morale o religioso che sollecita i ricchi a elargire denaro ai poveri in ragione delle macroscopiche differenze tra gli uni e gli altri, un impegno di tipo solidaristico tende a considerare queste differenze come marginali e dedica invece la massima attenzione ai fattori di condivisione. La solidarietà, infine, è diversa dal sostegno che amanti, amici o familiari possono prestare gli uni agli altri, perché ciò che in questi casi lega gli uni agli altri ha un peso e un valore emotivo che manca nel caso di legami che si basano soltanto su una somiglianza, reale o percepita. La solidarietà può allora subentrare come fattore compensativo proprio là dove legami thick di questo genere risultano assenti.
La solidarietà può così manifestarsi a livelli diversi: a livello interpersonale, a livello di gruppo e a livello di istituzioni e di norme formali. Quando la solidarietà si attua a livello individuale, da persona a persona, si può parlare di solidarietà di primo livello. Quando le azioni di mutuo sostegno diventano così comuni da trasformarsi in un comportamento quasi di routine per determinati gruppi o associazioni, si può parlare di solidarietà di secondo livello. Quando la solidarietà si esprime in norme giuridiche, amministrative e burocratiche, regolamenti e progetti, si entra nel campo della solidarietà di terzo livello. Questa forma di solidarietà prende generalmente corpo quando le pratiche individuali e di gruppo si sono solidificate in forme strutturali e istituzionali, come quelle conservate nelle strutture giuridiche delle società funzionalmente differenziate di cui parla Habermas. Ora, se la pandemia ha insegnato qualcosa, è che, per quanto le strutture di mutuo riconoscimento caratteristiche delle interazioni semplici e dei rapporti spontanei di solidarietà possano essere importanti, a fare la differenza, per così dire, è la solidarietà istituzionale incorporata nel diritto. Più la crisi incrementa il fabbisogno di solidarietà, più aumenta il peso della solidarietà civica giuridicamente mediata.
Il rapporto tra solidarietà e pandemie è infatti più complicato di quanto si sarebbe portati a pensare, nel senso che una crisi sanitaria, anche se ciò può sembrare controintuitivo, non fa necessariamente scattare in automatico meccanismi spontanei di solidarietà. Di primo acchito si sarebbe infatti portati a pensare che una crisi, come per esempio quella dovuta alla pandemia, spinga le persone a stringere vincoli di solidarietà capaci di rendere irrilevanti differenze che, in altri contesti e in altre situazioni, sarebbero invece sufficienti a giustificare scelte de-solidaristiche. La crisi pandemica sembra invece rendere le cose un po’ più complicate perché non a tutti riesce sempre facile trovare punti in comune con tutti gli altri. Una prima ragione è data dall’intervallo di tempo da prendere in considerazione che, anche nel caso di una pandemia prolungata, non copre certo l’intero arco di vita delle persone, e questo non le aiuta a dare per scontato che in futuro riceveranno le stesse prestazioni solidaristiche che stanno, al momento, assicurando agli altri. Inoltre, se la pandemia fosse destinata a finire in breve tempo, le persone a rischio immediato di ammalarsi sarebbero portate a vivere questa eventualità come una minaccia molto più grave e incombente rispetto ai rischi per la salute legati alla inevitabile vulnerabilità umana – rischi che possono diventare reali anche a decenni di distanza. In altre parole, è molto più difficile riconoscere le somiglianze con gli altri, e adottarle quale presupposto delle nostre azioni, nell’arco di tempo relativamente breve di una pandemia rispetto a quanto avviene nell’arco di una intera vita.
Quali insegnamenti si possono ricavare da queste riflessioni? Il primo è che, dal momento che i costi di contenimento delle pandemie non sono sostenuti da un qualche sottogruppo, ma dall’intera popolazione, e poiché le pandemie si verificano in un periodo di tempo relativamente breve, durante il quale le persone corrono rischi e hanno interessi molto diversi, le possibilità di mobilitare forme spontanee di solidarietà a sostegno della salute pubblica sono molto limitate. Il secondo è che, di conseguenza, spetta alla solidarietà civica incorporata nel diritto e nelle istituzioni democratiche, e cioè alla solidarietà di “terzo livello”, creare quelle “reti di sicurezza” che coadiuvano le prestazioni sociointegrative dei rimanenti ordinamenti istituzionali. Il terzo, che questa forma di solidarietà civica ha un nome: Stato-di-welfare, ovvero l’istituzione politica che ha creato la democrazia della solidarietà.
di Edoardo Greblo
Bibliografia
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Habermas, J. (2022). Proteggere la vita. Bologna: il Mulino.
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May, L. (1996). The Socially Responsive Self: Social Theory and Professional Ethics. Chicago: Chicago University Press.
Rodotà, S. (2014). Solidarietà. Un'utopia necessaria. Roma-Bari: Laterza.
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PK#9 \ Soggettivazioni. Segni, scarti, sintomi
Rivista / Settembre 2018L’intento di questa raccolta, che prende il titolo di “Soggettivazioni”, è stato quello di aprire una riflessione attorno alla teoria della soggettivazione lacaniana, così per come ce l’ha lasciata in eredità Lacan, a singhiozzi, nei testi stabiliti a partire dai suoi trent’anni di insegnamento orale. Cosa può dirci una psicoanalisi asistematica, distante dalle istituzioni universitarie rispetto a problemi di una concretezza innervata di realtà? Chi frequenta i dipartimenti di Psicologia e assieme l’insegnamento lacaniano sa che è incommensurabile la distanza che intercorre tra la specificità e la settorializzazione degli strumenti istituzionali a confronto con l’universalità dei concetti larghi e volontariamente mai definiti dello psicoanalista parigino. Tra l’estremamente particolare (l’ad hoc della psicologia contemporanea) e l’estremamente universale (il concetto, unità sintetica della filosofia) si rischia di incorrere in un deragliamento del punto focale, causato da uno scontro di metodi epistemologici che si sono stabilizzati ai bordi opposti l’uno rispetto all’altro. Nella scelta di prendere in considerazione un tema vasto e generale come la teoria della soggettivazione c’era l’interesse, da parte nostra, di porlo in dialogo con il campo altrettanto vasto e generale del presente. Speriamo che questa prima ricerca possa costituirsi come un’indagine (sebbene parziale) sullo statuto del soggetto in quanto campo epistemologico aperto: attingendo dalla teoria psicoanalitica e dal dibattito che ne è scaturito, il presente volume segue molteplici sentieri analitici e sottolinea di contributo in contributo la difficoltà di giungere a un’idea organica di soggetto, per la varietà di ipotesi spesso contrastanti in merito alla sua rappresentazione, formalizzazione e interpretazione. In questa raccolta crediamo che i punti maggiormente messi in rilievo da chi ha collaborato riguardino il problema della genesi, lo statuto della trasformazione, e infine un’attenzione specifica è stata rivolta al registro del Reale e ai suoi effetti.
A cura di Lorenzo Curti e Irene Ferialdi
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DOI: https://doi.org/10.13135/2385-1945/9.2018
Pubblicato: settembre 2018
Indice
Editoriale
L. Curti, I. Ferialdi, Soggettivazioni: tra vuoti e contiguità [PDF It]
I. Genesi
P. G. Curti, Estrarre il soggetto [PDF It]
C. Mola, Intrecci concettuali. Il soggetto tra Hegel, Kojève e Lacan [PDF It]
A. Lattuada, L’atto reale e la genesi del soggetto nella psicoanalisi di Jacques Lacan [PDF It]
D. Tolfo, Per un'analisi non significante della soggettività: la funzione del punto-segno ne l'Anti-Edipo [PDF It]
II. Trasformazioni
L. Melandri, La parola contaminata dei movimenti non autoritari degli anni Settanta [PDF It]
R. Chiafari, Drammaturgia e metamorfosi del genio maligno: soggetti e spettri tra follie e ragione [PDF It]
M. Di Bartolo, La psicoanalisi come estetica dell'esistenza [PDF It]
A. Soares De Moura Costa Matos, Streaming Subjectivation: Two Questions and One Thesis about Netflix [PDF En]
III. Reale
F. Cimatti, La lingua c'è. Saussure, Chomsky e Lacan [PDF It]
A. Pagliardini, Verso il reale: schizofrenia/psicoanalisi [PDF It]
F. Vergine, Le origini trascendentali del mondo. Per un'ontologia topologica del reale [PDF It]
Traduzioni
A. Zupančič, Differenza sessuale e ontologia [PDF It]
F. Rambeau, La fosforescenza delle cose [PDF It]
Interviste e recensioni
Intervista a Franco Lolli [PDF It]
F. Zambonini, Una quasi-recensione a "Lacan, oggi. Sette conversazioni per capire Lacan" di Sergio Benvenuto e Antonio Lucci. Considerazioni marginali sul rapporto filosofia-psicanalisi [PDF It]
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Nel 1996 Lev Manovich, in polemica con le derive commerciali della computer art, pubblica un articolo su Rhizome in cui contrappone la terra di Duchamp e la terra di Turing: se per il teorico dei nuovi media l’arte dopo Duchamp è sostanzialmente autoreferenziale, autoironica, complicata e orientata al contenuto, quella che utilizza le nuove tecnologie dell’informazione è invece semplice, incentrata sulla forma e rispettosa del proprio medium (qui inteso come dispositivo). Questa divaricazione fra le due terre, però, che in Duchamp Meets Turing Gabriela Galati si pone l’obbiettivo di ricongiungere, si basa su un presupposto dualismo fra contenuto e forma che, opponendo realtà e rappresentazione, rimane incapace di cogliere le modalità performative dell’arte inaugurate da Duchamp ma proprie anche degli ambienti mediali digitali, e considerare così la linea di confine fra le due “terre” come un medium connettivo (e anzi generativo) invece che come un taglio insanabile.
Facendo implodere la costellazione di dicotomie che ha sostanziato la nozione di rappresentazione tradizionale, fondativa del canone moderno e solo apparentemente superata in quello postmoderno, diventa invece possibile cogliere la dimensione incarnata dell’informazione e, per converso, quella informata della materia, ovvero i feedback loop che modulano i collegamenti fra attori umani e non umani in ambienti immersivi e dinamici insieme fisici e virtuali, dove corporeità e cognizione si performano continuamente in relazioni mediate e processi contingenti e distribuiti (pp. 15-16), come ben esemplifica uno dei casi di studio più interessanti scelti da Galati, la performance Excellences and Perfections realizzata su Instagram da Amalia Ulman fra l’Aprile e il Settembre del 2014 (pp. 72-77).Sospesi nella cesura tra originale e copia, segno e cosa, mente e corpo, il Soggetto (un soggetto che sappiamo adesso riconoscere come marcato e posizionato, appartenente alla tradizione umanista e liberale dell’Occidente) l’oggetto e il medium sono rimasti, invece, sostanzialmente divisi. In Duchamp Meets Turing, Galati propone una radicale revisione di una serie di nozioni chiave (ripetizione, simulacro, archivio, incoporazione e medium) che hanno contribuito a produrre questa interminabile catena di duplicazioni adoperate per giustificare “rappresentazionalmente” la rappresentazione – e confluite nella divaricazione fra analogico e digitale, servendosi di alcuni fondamentali antidoti teorici quali la ripetizione o la piega di Deleuze, la différance di Derrida, il postumano di Hayles, o il modello semiotico triadico di Pierce. L’obiettivo dell’autrice non è tanto quello di rintracciare una continuità delle espressioni artistiche negli ambienti digitali, né quello di garantire nuova legittimità al discorso estetico sul digitale, quanto piuttosto quello di scovare il “punto cieco” (p. 18) a partire dal quale l’umano e il macchinico avrebbero potuto ritrovarsi nel mezzo, e invece si sono ritrovati uno di fronte all’altro, pur se – ma solo in apparenza – sembrerebbe sia stato il contrario. Ma immaginare l’umano come una macchina, controllando il passaggio delle informazioni nel corpo per la gestione del suo equilibrio e del suo potenziamento (si veda la prima formulazione della teoria del cyborg di Clynes e Kline (1960), oppure la macchina come un umano, testando fino a che punto può spingersi l’intelligenza di un computer, secondo le interpretazioni prevalenti del test di Turing (la cui iniziale componente performativa e di genere è stata quasi subito assorbita in quella cognitivista-rappresentazionale), sono operazioni che presuppongono entrambe una scissione sostanziale fra l’umano e la macchina, e che possono soltanto contemplare una loro analogia o una loro reciproca sostituzione (con tutte le derive tecnoutopistiche o tecnodistopiche che ciò ha comportato), ma mai la loro coimplicazione (vedi p. 86).
Per Galati, questo punto cieco – che è anche il paradossale punto di vista di nessun soggetto in particolare, ma a partire dal quale ogni soggettività può essere costituita – è proprio il ready-made di Duchamp, che riprendendo la nozione di Lévi-Strauss, l’autrice definisce “significante fluttuante dei media” (p. 148), ovvero un medium vuoto potenzialmente riempibile in modi sempre diversi, piuttosto che qualcosa di fatto e finito stando a una traduzione letterale del termine. Un medium che si presta a spiegare il funzionamento anche dei processi digitali partendo dall’idea di un soggetto e un oggetto emergenti nel mezzo, relazionali e assemblati come quelli che popolano le riflessioni sul postumano e sul cyborg di autori come Haraway, Hayles o Caronia. Nel ready-made, l’opera d’arte si libera finalmente dalla tirannia del referente esterno di cui sarebbe segno e copia, e acquisisice una medialità immanente e radicale, senza punti di partenza né approdi (si veda la recente riflessione di Grusin in proposito).
L’intera operazione duchampiana, che ha nel ready-made il suo fulcro, è una rivolta contro lo statuto retinico dell’arte, che travolge a un tempo l’idea di estetica come contemplazione, di pittura come produzione di oggetti (unici) per un mercato e di spettatore come soggetto esclusivamente guardante, nonché il privilegio della visione (disincarnata) sugli altri sensi. Con Duchamp, l’opera cessa di essere rappresentazione e diventa medium perché il medium scavalca il privilegio del significante e anche del significato come dati nel testo e, passando al contesto, “esplode” (Krauss cit. in Galati, p. 188) facendosi processo – in quanto evento, e non stato, sempre diversamente ripetibile (pp. 62-66). Nell’“indifferenza visiva” del ready-made come opera che non viene fatta il medium non coincide con gli strumenti tecnici della pittura (supporto e pigmenti), come al contrario ribadirà Greenberg sostenendo il primato del significante nell’“esperienza puramente ottica” della pittura, né d’altra parte il ready-made come opera senza autore può essere il contenitore di un messaggio. In tal senso, la difesa duchampiana dell’arte concettuale contro l’arte “animale” come arte che piace più facilmente non va letta come un suo rifiuto della materialità, ma pittosto della piena comunicabilità dei valori che l’arte sarebbe in grado di veicolare una volta per tutte, e del gusto che questi fonderebbero a partire dalla “callistica” dominante.
Duchamp, anzi, definisce coefficiente d’arte il rinvio, lo scarto tra ciò che nell’arte si progetta e ciò che accade, tra intenzione e risultato, ovvero tra controllo e casualità, una nozione che ben si presta a essere letta all’interno di un approccio performativo come quello proposto da Galati, in cui ogni opera è attualizzazione sempre diversa di un “nodo di tendenze” (Lévy cit. in Galati, p. 120) che ne costituisce la virtualità senza fondo. Potremmo dire, allora, che il ready-made esplora il medium come interfaccia, incontro, appuntamento casuale, resi possibili da una trasparenza che, come quella de Le Grand Verre (La Mariée mise à nu par ses célibataires, même, 1915-1923) – tecnicamente non un ready-made ma operante secondo la medesima logica –, non allude a una leggibilità, quanto piuttosto alla necessità dell’attraversamento e del rimando, una trasparenza che partendo dal contesto e attraversando il testo riporta ancora, ma sempre diversamente, al contesto. Trasparenza impura, soggetta al caso che può incrinarla, come effettivamente accadde a Le Grand Verre – opera aperta per eccellenza, mai più riparata né finita – durante un trasporto, o persino opacizzarla, come testimonia Elévage de Poussière di Man Ray, fotografia del 1920 (a sua volta ready-made elevato a potenza) che ci mostra un Vetro appena riconoscibile, in posizione orizzontale e ricoperto da uno spesso strato di polvere. Qui, come anche in un’altra opera “indicale” duchampiana, Tu m’ (1918), la trasparenza si trasforma addirittura in traccia, differimento della presenza, impossibilità dell’origine, direbbe Derrida.
“L’arte è una condizione, una condizione eraclitea di continuo mutamento, no?”, dice Duchamp a Dore Ashton in un’intervista del 1966. Una condizione ready-made, dunque, fluttuante e in divenire, che istituisce lo sguardo (e il suo soggetto) altrove ogni volta, perché sempre già in ritardo o ancora in anticipo rispetto a ciò che è.
di Federica Timeto
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La constatazione della pervasività degli automatismi che intessono la nostra esistenza individuale e collettiva porta Pelgreffi a sviluppare un’interrogazione radicale intorno all’essenza di tale fenomeno. L’automatismo viene considerato a partire dall’ampiezza del suo senso, che trova applicazione in ambiti apparentemente eterogenei, come il biologico e il sociale, rivelando, fin dall’inizio, la sua costitutiva ambiguità, che porta, tra l’altro, a un’essenziale riconfigurazione della tradizionale opposizione tra naturale e culturale. Il comportamento automatico si rivela essere, da una parte, il modo di manifestarsi di ciò che è spontaneo, non programmato, emergente. In quest’ottica, afferisce all’ambito del biologico, delle procedure innate radicate nel profondo del bios, dell’inconscio corporeo e psichico. Dall’altra, richiama ciò che è stato appreso ed è diventato abitudine, nel senso di ciò che si impone come prassi automatica a seguito di ripetizioni esercitanti. Si tratta, in questo caso, dello spettro di significati che rimandano al contesto della “seconda natura”, ossia delle abitudini acquisite nel corso della vita, le quali si installano sugli automatismi innati, rimpiazzandoli e riconfigurandoli.
L’intento di Pelgreffi è rendere tale ambiguità, consustanziale al concetto di automatismo, non già paradosso paralizzante, ma apertura di senso produttiva e meritevole di essere indagata nella sua doppiezza. Tale approccio permette di chiamare in causa un’altra ambiguità del concetto di automatismo, che concerne il suo riferirsi, al tempo stesso, alla vita individuale e collettiva. Gli automatismi sviluppati dai singoli individui si riflettono e dialogano costantemente con le dinamiche che regolano la convivenza, culturalmente codificata, all’interno di un collettivo. Tale prisma semantico viene messo in luce tramite un’attenta e avveduta rassegna delle teorie di coloro che si sono occupati, ciascuno a modo proprio ma anche in dialogo reciproco, del concetto di automatismo. Dalle analisi classiche intorno al concetto aristotelico di hexis si giunge alla filosofia francese novecentesca, passando per Hume, Nietzsche e Butler. Non viene tralasciato il dialogo, da una parte, con le scienze psicologiche (in particolare Pavlov e Janet) e, dall’altra, con la pratica artistica dell’attore, compresa attraverso le riflessioni di Diderot e di Stanislavskij. Tali incursioni ermeneutiche permettono a Pelgreffi di approdare a un dialogo serrato con i risultati teorici ottenuti da Merleau-Ponty, in particolare nella sua Fenomenologia della percezione, e mettere in evidenza il ruolo cruciale che la corporeità svolge all’interno di una teoria generale degli automatismi.
Il corpo, compreso come limite e soglia, si configura come il punto fondamentale di incrocio e trasformazione tra le diverse forme di automatismo evidenziate in precedenza. Tale approccio permette di delineare la funzione formante degli automatismi, ossia la circostanza, secondo la quale l’acquisizione di abitudini ripetute ha valore soggettivante, nella misura in cui plasma la modalità di esistenza di chi incarna tali abitudini. È una simile prospettiva che permette a Pelgreffi di introdurre la dinamica eminentemente etica aperta da una filosofia dell’automatismo, nella misura in cui la funzione formante di quest’ultimo rivela, come suo doppio costitutivo, la presenza di una resistenza basale, della possibilità di uno stacco produttore di divergenza, nel processo di acquisizione degli automatismi e nella loro riconfigurazione. In tale potenzialità trasformante si cela la possibilità etica e il focus gnoseologico che permettono di comprendere come si possa produrre differenza attraverso la ripetizione, ossia come sia possibile la de-automatizzazione dei propri automatismi, pur dimorando all’interno dell’orizzonte ampiamente automatizzato in cui la vita si esplica in quanto tale.
La peculiarità dell’approccio adottato da Pelgreffi consiste nel situare nel corpo e, pertanto, nell’insieme di pratiche che possono proporsi di istituire i criteri di un’etica della corporeità, la soglia di tale possibilità di de-automatizzazione, ossia di riconfigurazione critica dei propri automatismi attraverso gli automatismi stessi: «la corporeità è la zona intermediale in cui l’automatismo come senza precedenti e l’automatismo come risultato della ripetizione trovano una sintesi non neutralizzante, aperta anche alla diversione dalla forma sintetica operante» (p. 88). Una tale prospettiva viene conquistata considerando gli automatismi nella loro dimensione genetica e processuale, al fine di comprendere l’acquisizione di un’abitudine nel suo svolgersi e affermarsi e metterne in luce la struttura composta da esercizi ripetuti con effetti di ritorno plastici e in continuo dialogo con una resistenza produttiva installata nella corporeità. Particolare rilievo assume, in una tale ottica, l’attenzione al processo di apprendimento delle abitudini, nel quale si celano le codificazioni sociali (Bourdieu) e i presupposti manuali della tecnica (Sennett). L’intento è quello di ricondurre criticamente il potere della ripetizione automatizzantesi contro la ripetizione stessa, in quanto «all’interno dell’automatismo, esistono contro-movimenti di de-automatizzazione che si tratta di veicolare, di guidare e gestire dall’interno» (p. 220). A partire da questa prospettiva, è importante rilevare come un tale approccio permetta di aprire la strada a una radicale riconfigurazione del ruolo della soggettività, la quale non viene abbandonata, ma ridimensionata e ricondotta alle pratiche di vita, innervate nella corporeità e nel suo fondo inconscio, solo a partire dalle quali la figura del soggetto si può manifestare, dato che «non c’è soggetto senza automatismo, senza estroflessione originaria al dispositivo» (p. 179). È al livello di tali pratiche, delle quali il soggetto rappresenta il risultato epifenomenico parziale e posteriore, che un’etica della resistenza produttiva e della ripetizione differenziante può essere codificata.
di Marco Pavanini
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Con Differenze italiane. Politica e filosofia: mappe e sconfinamenti si fa un salto nell’ossimoro. Il volume, curato da Dario Gentili ed Elettra Stimilli per DeriveApprodi (Roma 2015), è composto per buona parte dagli interventi del convegno internazionale Italian Theory existe-t-elle? tenutosi a Parigi nel gennaio 2014. Esiste una “teoria italiana”, una specificità del pensiero filosofico-politico italiano contemporaneo rispetto ad altre tradizioni e scuole di pensiero? L’Italian Theory può essere considerata una scuola o una tradizione di pensiero? “Italian Theory” e “differenze italiane”: due espressioni che sono anche i titoli degli ultimi due lavori di Gentili. Se il sottotitolo del primo, Dall’operaismo alla biopolitica, rivela il tentativo di tracciare una linea, un continuum, capace di rendere conto di una traiettoria che fa leva sulla peculiarità di una presunta Italian Theory, quello di Differenze italiane rimanda alla dispersione, al tentativo di cartografare un territorio che tende a sfuggire, difficilmente confinabile, capace di inseguire linee di ricerca inedite. Siamo nell’ossimoro appunto: confermato dal fatto che, nel volume, la locuzione “Italian Theory” è chiamata in causa per definire la specificità di un pensiero aspecifico, l’unità presunta di una fucina d’idee che è piuttosto disseminata, disomogenea e disorganica. In altre parole l’espressione “Italian Theory” cerca di definire e contenere un’attività teorica che corrode l’unità dall’interno.
Il volume si divide in tre parti – la prima delle quali racchiude i saggi che cercano di definire la peculiarità dell’Italian Theory, la seconda è dedicata alle categorie preminenti nel dibattito filosofico-politico italiano contemporaneo (immanenza, dispositivo, crisi, improprietà, ecc.) e la terza esplora possibili usi di queste categorie in differenti ambiti (dalla letteratura all’architettura) – e si apre con il saggio di Roberto Esposito, un saggio programmatico che cerca di focalizzare sia la specificità del pensiero italiano rispetto ad altre tradizioni di pensiero, sia le possibili aperture. L’Italian Thought (tale espressione produce già uno scarto significativo rispetto a “Italian Theory”, ponendo l’accento sul farsi del pensiero, sulla sua attività, piuttosto che sulle griglie e gli schemi di una teoria) si costituisce non a partire da una dislocazione geografica, come è stato per la German Philosophy e per la French Theory – sorte, l’una successivamente all’emigrazione verso l’America di molti intellettuali tedeschi ebrei in fuga dalle persecuzioni razziali, l’altra dopo che alcuni filosofi francesi, già celebri in patria, furono invitati negli Stati Uniti dalle università americane – ma dalla specificità del suo fuori: la dimensione del politico. Inoltre il pensiero italiano contemporaneo «non si genera, come per la scuola di Francoforte, dal programma di un Istituto e neanche dalle teorie complesse che, a ridosso della stagione strutturalista, hanno caratterizzato i primi testi degli autori francesi» (p. 12). Il fuori che mobilita il pensiero italiano è piuttosto lo spazio conflittuale della prassi politica. Questa, però, è per Esposito una caratteristica di lunga durata (a differenze di quanto ritiene Gentili, che la fa risalire alla stagione operaista), presente nel pensiero italiano dagli albori del mondo moderno, così come è di lunga durata la centralità di un’altra categoria, che costituisce «l’orizzonte semantico del pensiero italiano» (p. 13): la categoria di vita – la quale è costantemente messa in tensione con quelle di politica e di storia. Ci sembra allora opportuno approfondire Differenze Italiane seguendo tre vettori: il fuori, la vita, il conflitto; tre categorie che troviamo intrecciate, sovrapposte, miscelate e declinate in maniera diversa negli interventi che compongono il volume.
Per Esposito, dunque, la cifra autentica del pensiero italiano sarebbe, da una parte, una forma di estroflessione intesa come tensione fattuale, evenemenziale, uno sporgersi sull’esterno storico-sociale e, dall’altra parte, una relazione più o meno conflittuale tra norme e forme di vita, tra bios e potere. Il fuori del pensiero, in questo senso, è una dimensione conflittuale, dove si trovano in tensione politica e vita. Ma è anche possibile interrogarsi sul fuori del pensiero italiano mostrando, in maniera genealogica, da quale milieu culturale provengano le categorie maggiormente in uso tra i sostenitori dell’Italian Theory. È ciò che fa Sandro Chignola prendendo in esame il decentramento attraverso il quale l’operaismo italiano ha assorbito il patrimonio teorico e concettuale della filosofia francese del dopoguerra e analizzando in che modo questo abbia permesso di «rimettere in movimento un’analisi, a un tempo stesso teorica e politica, discussa e recepita sul piano globale perché programmaticamente situata nel piano di immanenza del farsi-mondo del capitale» (p. 32). Come sottolinea Riccardo Baldissone, più che di innesto, occorrerebbe parlare di chiasmo: «il divenire francese dell’Italian Theory si incrocia, per cosi dire, col divenire italiano della French Theory» (p. 108); emergerebbe, allora, la tendenza alla contaminazione e all’ibridazione con altri paradigmi che per Esposito caratterizza il pensiero italiano fin dal Rinascimento. Questa tendenza è stata ripresa anche dal saggio di Sandro Mezzadra e discussa su un piano geopolitico. Per Mezzadra il pensiero del fuori è la forzatura delle categorie utilizzate attraverso la messa in tensione di queste con esperienze capaci di porle in discussione, magari contestandone lo statuto universale e svelandone la particolarità storica e geografica al fine di reinventarle. La tensione che così si crea è quella tra l’universalismo, che Mezzadra considera imprescindibile per creare piattaforme di comunicazione e contro-saperi, con situazioni particolari e singolari che destabilizzano questa pretesa, costringendo le categorie a ridefinirsi e articolarsi diversamente. Il pensiero italiano deve allora misurarsi con un sistema capitalistico che ha perso il suo centro occidentale cercando di ridefinire una geopolitica della conoscenza in grado di provincializzare l’Europa (p. 60). Si tratterebbe, dunque, di mettere in tensione le categorie italiane calandole in contesti distanti, per valutarne la plasticità e la capacità germinativa, aprendole all’improprio, sottoponendole a una continua contaminazione ed esponendole a una costante alterazione.
L’alterazione è chiamata in causa anche nella costruzione di un’ontologia del vivente che voglia scongiurare il pericolo di reificare, positivizzare e idealizzare la vita: è ciò che, secondo Vittoria Borsò, ha tentato di fare Esposito nella sua trilogia (composta da Communitas, Immunitas e Bios). Borsò mette in luce che per Esposito «la norma degli organismi viventi è la tendenza continua a una decostruzione del proprio» (p. 124). A differenza del diritto politico, infatti, la norma biologica non produce prescrizioni (qui Georges Canguilhem è il riferimento principale): «la sua dinamica è la plasticità del sistema, ossia la capacità di alterarsi per drift, per deviazione» (ibidem). La norma è sempre immanente alla vita ed è a partire da questa immanenza che può essere pensata una politica della vita contrapposta a una politica sulla vita. Borsò sottolinea la ricaduta che questo discorso ha sul piano antropologico: l’uomo può venire pensato a partire dal vettore deterritorializzante dell’animalizzazione, intesa anch’essa come alterazione dell’essere umano, capace di ridefinire la specie in termini non più umanistici, o antropologici, ma antropotecnici e biotecnologici. In questo senso la riflessione sulla vita s’intreccia con quella sulla tecnica.
Tale intreccio è preso in esame da Marco Assennato da una prospettiva affatto particolare, attraverso cioè la questione sulla tecnica che vede coinvolti Raniero Panzieri e Massimo Cacciari. Per Assennato il rapporto tra bios e potere, tra norme e forme di vita, è sempre tecnologicamente mediato. Se in Sull’uso capitalistico delle macchine e Plusvalore e pianificazione Panzieri invita a pensare la tecnica a partire da una critica della dialettica che mira a contestare le letture metafisico-idealistiche che fanno dell’Aufhebung l’orizzonte trascendentale di ogni determinazione reale, Cacciari, con la sua filosofia della krisis, reintroduce una lettura destinale della stessa, nella quale nessun intervento soggettivo sarebbe capace di rompere il dominio tecnologico e dove il capitale, inteso come successione di crisi, sussumerebbe qualsiasi tentativo di rottura, riconducendo al suo linguaggio ogni antagonismo. Ciò non lascia altra soluzione se non quella di propugnare l’autonomia del politico come luogo capace di contenere e pilotare il processo dall’alto. Secondo Panzieri, per il quale la scienza e la tecnica sono il luogo di una contesa di potere nel sapere, non si tratta di rivelare l’occulta razionalità insita nel moderno processo produttivo, quanto di costruire una razionalità radicalmente nuova e contrapposta a quella prodotta nel capitalismo. La tecnologia è allora un campo di tensione, il luogo di una contesa e non un destino tragico, ineluttabile e implicito nelle premesse del processo. La posta in gioco ruota intorno a un rapporto diverso tra uomo e macchina, che rimanda a un’etica emergente e a composizioni inedite.
Per Panzieri, dunque, la tecnologia, che nel biopotere contemporaneo funziona da collante tra la vita e il potere, è il luogo di un conflitto. È su quest’ultima categoria che fanno leva gli interventi di Antonio Negri e di Judith Revel. Per Negri la novità della pratica e del pensiero che si affaccia in Italia negli anni ’60 si dispone proprio all’interno di un conflitto politico: l’operaismo nasce dalla preminenza della pratica sulla teoria, dove la cassetta degli attrezzi precede tutto il resto. Si trattava, per l’operaismo, di criticare la visione storicista di stampo gramsciano-togliattiana e l’ortodossia del PCI, nelle quali si confondevano continuità dello stato e innovazione socialista. L’operaismo, invece, come afferma Revel, pone l’accento sulla storicizzazione dell’analisi e sulla soggettivazione (p. 51): non esistono soggetti politici, ma processi di soggettivazione legati al conflitto. La classe non è un’entità, non è un soggetto, ma è il prodotto della lotta, è composta dal conflitto stesso. Sia per Negri sia per Revel l’Italian Theory – e qui gli obiettivi polemici sono principalmente Giorgio Agamben ed Esposito – occulta questa dimensione del conflitto pur riconoscendola: se per Negri l’Italian Theory è «l’ennesimo schema storiografico debole che conduce a pacificazione le determinazioni temporali e locali del processo storico» (p. 27) distogliendo l'attenzione dalla fenomenologia contradditoria del biopotere, eliminando ogni punto di vista storicamente determinato, eticamente situato e politicamente orientato e portando a una pacificazione che esclude ogni emergenza autonoma di nuove potenze che conducono a rottura; per Revel la categoria di vita nasconderebbe un «doppio vuoto» (p. 54) nella riflessione politico-filosofica italiana contemporanea, quello della storicizzazione e della soggettivazione, che non sono solo i capisaldi dell’operaismo ma anche del pensiero di Michel Foucault, per il quale la vita è un indicatore epistemologico, sempre posto in essere da un sapere-potere, dunque inquadrabile in termini biopolitici attraverso un preciso riferimento storico, quello che vede l’emergere dei dispositivi securitari e di precise strategie di governo.
Abbiamo così un quadro che ci permette di cogliere un minimo comun denominatore tra le differenze italiane: come sostiene Baldissone, il tratto condiviso risiederebbe nell’operazione, ereditata dal pensiero francese del dopoguerra, di pensare in termini di processi e non di entità, di produzione e non di rappresentazione (p. 107). Questa operazione, però, si esprimerebbe in due modi diversi nel pensiero politico-filosofico italiano contemporaneo: da una parte il tentativo di costruire un’ontologia del vivente capace di dinamizzare la categoria di vita dall’interno con il fine di aprire alla possibilità di una politica della vita contrapposta a una politica sulla vita (mutazione, contaminazione, ibridazione ne sarebbero i vettori principali); dall’altra pensare il processo in termini storici, facendo leva sulla concretezza del lavoro vivo, della potenza costituente, del capitale variabile, della cooperazione produttiva contro la cattura del biopotere. Due modi di intendere la biopolitica che convergono nella critica della teologia politica, sia nella versione katechonica dell’autonomia del politico di Mario Tronti e del pensiero della krisis di Cacciari, sia in quella mistica ed escatologica di Agamben.
Per dirla con Federico Luisetti, da una parte troviamo un pensiero selvaggio che ha “somiglianze di famiglia” con i lavori di Gilles Deleuze e Félix Guattari, di Claude Lévi-Strauss e di Pierre Clastres e che si prepone la «ridefinizione dello stato di natura occidentale e del quarto nomos della terra» (p. 79); dall’altra un pensiero barbarico, che fa capo al testo di Foucault Bisogna difendere la società, «in grado di assorbire il naturalismo nella storia e nella critica» e che mira a una «barbarie storica costituente» (p. 73).
Le differenze italiane, allora, possono essere considerate come il prodotto di un’oscillazione tra queste due polarità, disparate ma accumunabili per analogia, che si sovrappongono senza identificarsi nella critica delle categorie politiche della modernità, della sovranità statale, e della governamentalità economicista. Non si tratta di due traiettorie inconciliabili, tant’è vero che convergono verso lo stesso oggetto critico; ci sono, piuttosto, delle ragioni strategiche per mantenerle in tensione, rintracciabili nell’esigenza di non racchiudere questa fucina di proposte nei confini di una teoria, ma facendole giocare tra di loro. Far giocare le differenze italiane contro l’Italian Theory, la quale rischia, se non lo è già, di trasformarsi in un semplice marchio, in un logo che immobilizza un pensiero vivente.
di Luca Fabbris
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CRUDELTÀ, SOVRANITÀ, RESISTENZA NELLA PSICANALISI
Longform / Luglio 2015[…] gli Stati generali sono sempre convocati nei momenti critici, quando una crisi politica richiede una scelta, e prima una liberazione della parola in vista di una decisione d’eccezione che dovrà impegnare l’avvenire (Derrida, 2013, p. 56)
Stati d’animo della psicanalisi è il titolo della conferenza tenuta alla Sorbona da Jacques Derrida nel luglio 2000, in apertura degli Stati generali della psicoanalisi, occasione straordinaria di confronto tra psicoanalisti di tutto il mondo appartenenti alle diverse correnti del movimento psicoanalitico. La conferenza, uscita in Francia nel 2000 (Derrida 2000), è stata pubblicata in Italia alla fine del 2013 dalla casa editrice ETS, nella pregevole traduzione di Claudia Furlanetto, che ha curato il volume arricchendolo con un’agile e chiara introduzione e con un’ampia intervista a René Major, filosofo molto vicino alla psicanalisi di orientamento lacaniano e amico personale di Derrida. È proprio Major a ricostruire la lunga gestazione degli Stati generali, da lui stesso promossi e organizzati con tre anni di lavoro preparatorio, ma concepiti sin dalla fine degli anni Settanta, ai tempi delle dittature in Brasile e in Argentina. L’esigenza più urgente di Major era stata allora quella di denunciare le opacità dei rapporti tra la psicoanalisi e il potere, che andavano dalla complicità vera e propria di alcuni analisti nei crimini commessi dagli apparati di stato, alle azioni dissuasive messe in atto da una parte delle istituzioni psicanalitiche per insabbiare lo scandalo. In seguito lo spazio del confronto si sarebbe ampliato, fino a portare in primo piano la questione del senso politico della psicoanalisi. Alla caduta dei regimi sudamericani non fece infatti seguito un’epoca di pace e rispetto dei diritti umani nel mondo; d’altra parte i primi a violarli erano e restavano in molti casi i cosiddetti baluardi della democrazia, data la presenza della pena di morte in diversi stati americani. Anche in questo caso, le dichiarazioni di denuncia da parte delle istituzioni psicanalitiche rimanevano vaghe, come se, al di là dell’opportunismo, si volesse evitare di assumere una precisa posizione di condanna. Come se la psicanalisi, rispetto al potere – in particolare al potere di far soffrire – dovesse mantenersi a distanza.
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La macchina ineludibile
Longform / Aprile 2015In un testo apparso nel 1992 in un volume collettivo, «Nous autres Grecs», Jacques Derrida, riferendosi all’intero gruppo dei filosofi oggi noti come post-strutturalisti, osserva che essi si raccolgono «sotto il segno della differenza, e di una differenza, così come di un simulacro, non dialettizzabile». Dopo aver sottolineato quella che definisce «tale resistenza, io direi quasi tale allergia, ma non opposizione, tale risposta testarda (differenziale, non dialettica) alla dialettica», conclude:
Questa resistenza è in comune non soltanto a Deleuze e a me […], ma anche a Foucault, Lyotard e altri ancora. È stata conquistata, si potrebbe dire strappata, sempre senza fine, a un dialetticismo ereditato. Ciò che essa ha – piuttosto che rovesciato – spostato, deformato, non è stata soltanto la dialettica hegeliana, neo-hegeliana o marxista, è stata in primo luogo la dialetticità di provenienza platonica. (Derrida, 1992a, p. 257-258).[1]
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Femminile in un uomo
Lacaniana, Serial / Aprile 2015«Che ne è del femminile nell'analisi di un uomo?» Domanda tutt’altro che semplice e ingenua quella postami da una collega psicoanalista e che dava il là a queste note. Tale domanda infatti presuppone non solo che il femminile riguardi un uomo, non meno di una donna, ma anche che l'esperienza analitica possa incidere sul modo in cui un uomo può fare posto e trattare il femminile che lo abita piuttosto che espellerlo sulla via di quelle che, con Freud, possiamo chiamare le “insegne falliche”. Lungi dall'essere riducibile all'organo sessuale maschile, il fallo è piuttosto quel simbolo che, nel linguaggio, viene a rappresentare ciò che l'essere parlante incontra come mancanza fondamentale che specifica del suo essere al mondo. In un certo senso la scoperta freudiana dell'inconscio va di pari passo alla constatazione che, a livello dell'inconscio, esiste una certa “democrazia” tra i sessi per ciò che concerne il fallo. Proprio in quanto il fallo non coincide con l'organo, il pene, esso riguarda entrambe i sessi, pertanto, almeno per il discorso analitico, non è su questo piano che si può operare la differenziazione sessuale tra maschile e femminile. Il fallo è una risposta in termini di avere/non avere a una questione che concerne l'essere nel suo rapporto con il reale del sesso e, al contempo, con il linguaggio in cui esso viene al mondo. Il fallo, dunque, apre e struttura il campo della significazione dell'esperienza umana, introducendo il soggetto a una dialettica fondata sul dono, dialettica che, per quanto illusoria, renderebbe possibile lo scambio tra l'uno e l'altro.
Concepire la differenza tra maschile e femminile a partire dalla logica fallica, logica binaria, fondata sull'opposizione di un più a un meno, lascia aperta l'idea o quanto meno l'illusione che tale differenza sia “eliminabile” in base a un principio di parità tra i sessi del tipo: “Ciò che non ho oggi potrò averlo un domani o, al rovescio, ciò che ho posso prodigarmi a donarlo all'altro, riconosciuto come sprovvisto di tale bene”. Si tratta della dialettica dello scambio che, lungi dall'essere istintivamente predeterminata o “naturale”, tenta di organizzare il rapporto tra gli umani delimitandone il campo della più parte delle manifestazioni cosiddette affettive che presiedono alle condotte dell'individuo nel rapporto coi suoi simili: gelosia, invidia, aggressività, oblatività, amore narcisistico... In questo senso la logica fallica tenderebbe a situare la differenza sessuale lungo una scala graduata che va dal più al meno, in una sorta di gerarchia che determina anche tutte le sfumature immaginarie del potere. Come detto poco fa non è tuttavia su questo piano che, già a detta di Freud, si iscrive la differenza tra maschile e femminile, non meno che sul piano dei caratteri primari che ci si ritrova tra le gambe o, ancora, a partire della prevalenza di una lettera X o Y scritta geneticamente su un'elica alla quale oggi l'essere parlante cerca sempre più di ancorare il suo destino.
Lacan, riprendendo la lettera freudiana, esplora inizialmente la differenza tra i sessi passando anch'egli attraverso la dialettica del fallo, ma operando al contempo uno spostamento e una nuova condensazione rispetto al Freud che troviamo nel testo La significazione del fallo. In relazione al fallo l'uomo si situerebbe dal lato dell'averlo, a differenza della donna che viceversa tenderebbe a collocarsi dal lato dell'esserlo. Queste due differenti posizioni in relazione al fallo specificherebbero la commedia dei sessi e tutta la parata amorosa, soprattutto per ciò che concerne la dimensione del desiderio che interviene tra il maschile e il femminile, qui presi come posizioni sessuate al di là del sesso “biologico”. Biologico è qui tra virgolette in quanto, per ciò che concerne l'essere parlante, il ritrovarsi dal lato uomo o donna non può prescindere dal linguaggio, dalla dimensione simbolica e da come ciascuno, letteralmente, la incarna. Per tale ragione, almeno per il discorso analitico, è improprio parlare di identità sessuale, per il semplice fatto che rispetto all'assunzione del sesso entra in gioco un impossibile, l'impossibile di fare Uno. Il sesso non solo non fa identità ma, al rovescio, è proprio ciò su cui ciascun soggetto incontra la sua disparità assoluta, l'alterità sia nel rapporto con l'altro da sé che in se stesso.
Ebbene, sia in Freud che in Lacan, il femminile, proprio perché non prendibile nella logica regolata dal fallo, a cui può essere invece ricondotto il maschile, si presenta come l'alterità per eccellenza, come quel “continente nero” che sfugge alla presa da parte del simbolico, del linguaggio e che piuttosto rinvia al reale del corpo godente. Lacan non indietreggerà di fronte a questo “continente nero” e negli ultimi anni del suo insegnamento riprenderà la questione del femminile proprio a partire dall'elaborazione di un godimento Altro non regolato e sottomesso alla logica fallica, godimento caratterizzato da una certa infinitezza a cui una donna, non meno di un uomo, può accedere senza tuttavia poterne dire niente poiché strutturalmente imprendibile dal linguaggio. Lacan esplorerà il godimento propriamente femminile non solo a partire dall'elaborazione dell'esperienza analitica, ma anche attraverso lo studio delle testimonianze di alcuni mistici, quali San Giovanni della Croce e Santa Teresa D'Avila.
Torno ora alla domanda di partenza postami dalla collega: «Che ne è del femminile nell'analisi di un uomo?». Non saprei! Ciò che tuttavia da questo non sapere posso dire è che l'analisi si è per me caratterizzata come una sorta di percorso a ostacoli, dove ogni ostacolo rappresentava l'identificazione inconscia prelevata nel campo dell'Altro a cui il mio essere si era come abbarbicato nell'impossibile tentativo di darsi un'identità, un Io con cui rispondere alla meno peggio al proprio essere nel mondo. Ebbene l'analisi, con mia grande sorpresa e non senza orrore, conduceva alla caduta di queste identificazioni che, in ultimo, scoprivo ruotare attorno a un unico perno, a un'identificazione primaria agita rispetto al padre, inteso qui come funzione più ancora che come individuo. La caduta di queste identificazioni “falliche”, su cui tanto il sintomo quanto l'Io si sostenevano, lasciava ora il posto al confronto con un altro “substrato identificatorio” che, con Freud, potremmo chiamare identificazioni per “appoggio” o anaclitiche, radicate in misura maggiore al legame col materno, legame tanto oscuro quanto difficile da sbrogliare, per il carattere tenace di un attaccamento ancorato più alla parzialità di alcuni oggetti afferenti al corpo (bocca, ano, sguardo, voce) che al linguaggio, ovvero all'Altro simbolico. Allora se qualcosa del femminile ha potuto trovare posto nella mia analisi è stato non solo nell'andare appunto al di là delle identificazioni falliche inconsce su cui l'Io si sosteneva, ma anche operando il distacco da quegli oggetti parziali su cui il soggetto basava la sua singolare e ripetitiva modalità di godimento. In questo litorale ritagliato tra il linguaggio ridotto alla sua dimensione di catena significante insensata e il corpo preso non tanto nella sua forma o immagine quanto nella sua esperienza pulsionale, il femminile poteva tratteggiarsi quale effetto “leggero” di un atto che apriva al nuovo, all'impensato, all'inedito, all'intima alterità.
Il fatto che il femminile non si possa dire non toglie tuttavia che, a posteriori, ogni soggetto, uno per uno, non possa rintracciare le contingenze in cui tale incontro avrà potuto effettuarsi. Almeno questo è quanto Freud, prima, e Lacan, dopo, invitano gli analisti a fare. Forse le colleghe analiste potranno, ancora una volta e un domani, tornare a dirne ulteriormente qualcosa e a interrogare i colleghi analisti proprio su questo enigma.
di Sergio Caretto
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Corpo e linguaggio
Lacaniana, Serial / Gennaio 2015Jacques-Alain Miller (2006a), nel commento al Seminario XXIII – Il sinthomo di Lacan (2006a), sottolinea che, da un punto di vista psicoanalitico, «il corpo è paragonabile a un ammasso di pezzi staccati. Non ce ne rendiamo conto tanto che restiamo catturati dalla sua forma, tanto che la pregnanza della sua forma impone l’ideale della sua unità» (p. 13). Lo statuto primitivo del corpo, contrariamente all’evidenza del visibile, è infatti di essere in pezzi staccati e, affinché il bambino possa percepire il proprio corpo come una unità, occorre che sia passato attraverso quello che Lacan (2002a) considera un vero e proprio «crocevia strutturale» (p. 107) nello sviluppo. Nel 1936, riprendendo le ricerche sperimentali sulla percezione compiute da Henri Wallon, Lacan indica con il nome di stadio dello specchio quella fase in cui il lattante, tra i sei e i diciotto mesi, ancora immerso in uno stato di frammentazione, impotenza e di prematurazione fisiologica, risponde in modo giubilatorio alla vista della propria immagine riflessa nello specchio. L’immagine speculare permette al bambino un primo riconoscimento, una prima identificazione e, contemporaneamente, segna uno iato incolmabile poiché egli non potrà mai ricongiungersi all’immagine che lo specchio gli rimanda. Scrive Lacan (2002b): «questa Gestalt […] simbolizza la permanenza mentale dell’io e al tempo stesso ne prefigura la destinazione alienante» (p. 89). In questo passo, possiamo già trovare l’idea del soggetto lacaniano come strutturalmente diviso ed è per questa via che Lacan (2002a) sottolinea la dimensione tragica dello stadio dello specchio, la cui essenza è quella di essere una «lacerazione originale» (p. 110) in cui l’essere del soggetto è per sempre separato dalla sua proiezione ideale.
Da una parte, dunque, lo stadio dello specchio permette quell’operazione simbolica che offre al soggetto la possibilità di individuarsi come un “io” mentre, dall’altra, è ciò che lo divide irrimediabilmente dalla sua immagine. È a questo livello che si pone la «Spaltung tra il moi che viene a costituirsi e il soggetto dell’inconscio je, che non si lascia reperire nell’immagine speculare, e che troverà modo di presentarsi nei punti di vacillamento dell’io» (Cosenza, 2003, p. 23-24). Nell’analisi di questo momento così importante nella costituzione dell’immagine del corpo Lacan evidenzia il ruolo fondamentale e preliminare svolto dalla madre: ella è colei che tenendo in braccio l’infans gli indica che l’immagine che lo specchio rimanda è la sua. È quindi attraverso l’azione operata da un elemento terzo – in questo caso la madre – eterogeneo alla dimensione della similarità, che «il soggetto si pone come operante, come umano, come io (je), a partire dal momento in cui appare il sistema del simbolico» (Lacan, 2006b, p. 66).
Quanto detto mette in rilievo come il corpo si strutturi a partire dall’apporto dell’immagine e l’esperienza del corpo in frammenti, di cui testimoniano i soggetti schizofrenici, si pone come caso paradigmatico degli effetti provocati dal non accesso alla funzione unificante dell’immagine speculare. Per Eva, una ragazza schizofrenica, per esempio il corpo è piuttosto il luogo di un ritorno nel reale della libido: Eva in certi momenti di vacillazione deve cingere la testa con una fascia perché possa avere la tranquillità «che tutto ciò che è all’interno della testa resti dentro». Quando il bambino viene al mondo, viene già al mondo nel campo dell’Altro simbolico ed è il simbolico che per Lacan costituisce uno dei tre registri, oltre all’immaginario e al reale, che presiede alla nascita e alla formazione del soggetto. Il simbolico, in particolare, è ciò che umanizza il soggetto sottraendolo alla condizione di puro vivente per immetterlo nel legame sociale.
Nelle Due note sul bambino, Lacan (1987) ci dice che il bambino diventa soggetto solo tramite il desiderio dell’Altro, cioè a partire dal modo in cui la madre, il suo Altro primordiale, ne ha fatto causa del proprio desiderio. Da ciò si coglie che il corpo per l’essere parlante non è più solo un organismo, prodotto di puri bisogni biologici, ma è la risultante della relazione che intercorre tra l’organismo di un vivente e l’Altro del linguaggio. È quindi il simbolico a trasformare l’organismo in corpo e il parlare di corpo implica una trilogia che comporta, oltre al corpo, la parola e l’essere. Per un verso, l’entrata nel campo del linguaggio fa pertanto perdere all’umano lo statuto di essere naturale ma, contemporaneamente, fa guadagnare al corpo uno statuto inedito perché diviene tempio della pulsione: «Come tempio della pulsione il corpo è libidicamente erotizzato, sublimato, sessualmente portatore di una differenza che fa problema, sede di un desiderio che ha fonte in quella perdita di godimento che è correlativa alla iscrizione stessa del simbolico. Ma il corpo è anche ciò che patisce di “quello che non va” e che Lacan chiama “il reale”. È questo reale che si manifesta nel sintomo e che insiste rendendo sofferente il corpo come un impossibile da sopportare ma di cui però non si riesce a fare a meno: “godimento”, lo chiama Lacan» (Miller, 2006b, p. 8).
Bibliografia:
Cosenza, D. (2003). Jacques Lacan e il problema della tecnica. Roma: Astrolabio.
Lacan, J. (1987). Due note sul bambino. La Psicoanalisi, 1, 22-23.
Id. (2006a). Il seminario. Libro XXIII. Il sinthomo (1975-1976). Roma: Astrolabio.
Id. (2006b). Il seminario. Libro II. L’io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi (1954-1955). Torino: Einaudi.
Id. (2002a). Aggressività in psicoanalisi (1948). In Id., Scritti. Vol. 1. Torino: Einaudi.
Id. (2002a). Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io In Id., Scritti. Vol. 1. Torino: Einaudi.
Miller, J.-A (2006a). Pezzi staccati. Introduzione al seminario XXIII “Il sintomo”. Roma: Astrolabio.
Id. (Ed.) (2006b). Gli imbrogli del corpo. Roma: Borla.
di Monica Buemi
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La casa editrice Mimesis propone – con prefazione di Roberto Masiero e attenta postfazione di Marcello Ghilardi – il testo della lezione inaugurale del filosofo e sinologo François Jullien per la Chaire sur l’altérité presso la Fondation Maison des sciences de l’homme di Parigi. Il testo, intitolato Contro la comparazione. Lo “scarto” e il “tra”. Un altro accesso all’alterità, rappresenta un prezioso contributo per la comprensione del cantiere aperto da Jullien tra gli universi culturali europei e cinesi.
Si deve riconoscere a questo fortunato pensatore francese un notevole virtuosismo concettuale e una vitalità dell’intelligenza degna del Maître à penser. Da qualche tempo nel suo cantiere si assiste a costruzioni articolate, geometrie variabili, strutture pensili in grado di proiettare il pensiero in dimensioni altre. Convinto da tempo che la Cina rappresenti un’alterità radicale al pensiero europeo – sia greco sia ebraico – con il suo lavoro cerca di superare «l’indifferenza che essi intrattengono tradizionalmente l’uno rispetto all’altro» (p. 32) per potersi finalmente chiedere «che cosa accade al pensiero se, uscendo dalla grande famiglia indo-europea, s’interrompe tutt’a un tratto la parentela linguistica, se non ci si può più appoggiare a prossimità semantiche o risalire all’etimologia, se si rompe la continuità degli effetti sintattici nei quali il nostro pensiero si è forgiato e sviluppato?» (pp. 32-3).
La risposta a questa domanda è multipla e in continuo movimento ma si basa sulla constatazione di fatto che è necessario eliminare ogni pregiudizio perché «non c’è nessuna cultura primaria, a monte, nessuna cultura declinata al singolare che possa fungere come base identitaria comune, di cui le diverse culture che si incontrano nel mondo, al plurale, non sarebbero che variazioni» (p. 38). La cultura è fluida, in continuo mutamento, in perenne trasformazione e questo costituisce il suo specifico (p. 39).
Per mantenere viva l’analisi culturale è dunque necessario per Jullien abbandonare il concetto di differenza, che ha in concreto dominato tutto il pensiero filosofico occidentale, perché «parlare della diversità delle culture nei termini di differenza disinnesca in anticipo ciò che l’altro dell’altra cultura può apportare di esterno e di inatteso, al tempo stesso sorprendente e sconcertante, disorientante e incongruo. Il concetto di differenza ci colloca fin dall’inizio in una logica di integrazione – di classificazione e di specificazione – e non di scoperta. La scoperta non è un metodo avventuroso» (p. 41).
Alla pratica pigra del pensare per differenze Jullien propone di affiancare – e anche di sostituire – quella dello scarto (écart). Di cosa si tratta? Jullien ne parla come di un movimento continuo e sinuoso che invece di contrapporre le differenze in maniera statica le integra in dinamiche di attrazione che maturano attraverso il disturbo (dérangement) e l’esplorazione (p. 43). Una messa in tensione che genera fecondità e alimenta la curiosità: «fare uno scarto significa uscire dalla norma, procedere in modo inconsueto, operare uno spostamento rispetto a ciò che ci si aspetta e a ciò che è convenzionale. In breve vuol dire rompere il quadro di riferimento e arrischiarsi altrove, temendo altrimenti di arenarsi» (pp. 45-6).
Jullien pare intenzionato ad aprire una porta per il pensiero asfissiato nella camera chiusa e sovrappopolata della filosofia della discriminazione a ogni costo. Quella filosofia che da Platone ai giorni nostri non fa che pensare a categorie di determinazione e modellizzazione (pp. 48-9). Per Jullien infatti la «grandezza di una filosofia si misura sulla base dello scarto che riesce a produrre per aprire e riconfigurare il campo del pensabile; ovvero per dispiegare, smarcandosi [en s’ècartant] dal pensiero istituito, altre risorse che non sono state esplorate o coltivate in quello stesso pensiero» (p. 49).
La filosofia sviluppata in Grecia, per Jullien, è una piega del pensiero sviluppatasi imponendo certe coerenze (p. 51) e questo significa che può essere rinnovata e fecondata da altre coerenze che provengono da un’alterità che può fornirle lo spazio per accedere al proprio impensato. Per Jullien: «i Greci sono stati travolti e affascinati dalle Estremità che si distaccano l’una dall’altra, con caratteristiche che si possono distinguere e di cui s’individuano le differenze, che si costituiscono come essenze e permettono la definizione; hanno dovuto tralasciare la via di mezzo tra il flusso e l’indistinto della transizione che sfugge alle assegnazioni fisse» (pp. 59-60).
Se i Greci sono stati maestri indiscussi nel pensare le differenze, nell’individuare gli estremi, non sono stati capaci per Jullien di cogliere la pienezza del tra, la forza delle trasformazioni silenziose, il potere del non agire. La forza del tra consiste nel suo non essere determinato, diastematico, aperto, apre la tensione tra due elementi e li mette in tensione dinamica: «allude a una disposizione dell’ethos, a ciò che ne costituisce la vitalità. Esso significa che ci si “evolve” a proprio agio, lasciando operare del tra, in noi e tra noi, restando disponibili e in grado di respirare» (p. 67).
Jullien preferisce la distanza e lo spaesamento, e contro la retorica della prossimità a tutti i costi – esasperata dal mito della connettività sociale assoluta e dalla logica della trasparenza – vuole lavorare su ciò che rende il simile diverso. Ciò che è comune per Jullien si attiva solo attraverso gli scarti perché «lo specifico del culturale è il fatto che, mentre tende a omogeneizzarsi, non smette mai di eterogeneizzarsi; mentre tende all’unificazione, non smette di pluralizzarsi; mentre tende a confondersi e a conformarsi, non smette di smarcarsi, di dis-identificarsi; mentre tende ergersi come cultura dominante, non smette di essere travagliato dalla dissidenza» (p. 75).
Ha ragione Marcello Ghilardi a rilevare come lo sforzo di Jullien possa servire a «riconfigurare le questioni, ri-attualizzare le domande e costruire nuovi concetti per nominare i soggetti sociali» (p. 93). Le trasformazioni planetarie sono così enormi e profonde che ci costringono tutti a un lavoro di fecondazione di nuove categorie, al ripensamento radicale dei nostri punti di vista consolidati e ritenuti, per così dire, universalmente validi. Jullien è forse uno dei pensatori più adatti per leggere la mutazione in atto e lo studio dei suoi testi è sempre utile per irrorare il pensiero di linfa vitale. Un pensiero che sempre più necessita di superare l’indifferenza verso l’altro, per comprenderne le ragioni profonde e per costruire un avvenire più dignitoso per tutti.
di Pietro Piro