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Com’è noto, il volume XI della Husserliana 1 (1966) raccoglie i manoscritti che Husserl dedica al problema delle sintesi passive tra il 1918 e il 1926. In realtà, la più recente pubblicazione dei Bernauer Manuskripte nel volume XXXIII (2001), a cui Husserl lavorò con Edith Stein nelle estati 1917 e ’18, mostra come la tematica della passività fosse latentemente presente già da molto tempo, in quanto strettamente connessa con il problema – «il più complesso di tutti i problemi fenomenologici» (Husserl 1966a, 276) – della coscienza interna del tempo. E se si considera che quest’ultimo tema occupa Husserl almeno fin dai corsi sulla percezione del 1905-’08 (raccolti in Hua X e XVI), è lecito almeno supporre che la fenomenologia genetica “covasse” nel laboratorio fenomenologico husserliano molto prima degli anni Venti.
Anno più anno meno, un secolo fa. Un secolo in cui si è tentato dapprima di archiviare la fenomenologia husserliana, per fare spazio alle grandi ondate culturali esistenzialiste, strutturaliste e post-strutturaliste, per poi ridarle nuova linfa innestandola su tradizioni di pensiero anche molto lontane dalle sue origini. La storia della fenomenologia nell’ultimo secolo è dunque caratterizzata dalla sua continua ibridazione con altri modelli filosofici – iniziata ben prima della morte di Husserl: si pensi al § 7 di Sein und Zeit, dove troviamo in nuce il concetto di “fenomenologia dell’inapparente” (Heidegger 1976, 59) – e, soprattutto, con intenti teorici molto frequentemente in aperto contrasto con lo spirito fenomenologico che ha da sempre animato le ricerche husserliane.
A cura di Claudio Tarditi e Alberto Giustiniano
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DOI: https://doi.org/10.13135/2385-1945/12.2020
Pubblicato: marzo 2020
Indice
EDITORIALE
Claudio Tarditi - Le sintesi passive, un secolo dopo [PDF It]
Filippo Nobili - Oltre la stratificazione costitutiva:
per una lettura dialettico-ricorsiva del rapporto tra passività e attività in Husserl [PDF It]Eugenio Buriano - L’arca dell’origine. Follia tolemaica e deponenza del trascendentale nell’ultimo Husserl [PDF It]
Alessandra Campo - Presenza impossibile, assenza necessaria: aporia, diaporia ed euporia delle analisi husserliane sulla passività [PDF It]
Steven DeLay - Being Oneself Self-Consciousness in Husserl and Henry [PDF En]
Giovanni Jan Giubilato - A First Glimpse into the Ultimate Absolute. The Emergence of Genetic Analyses in Husserl’s Beranuer Manuscripts on Time-Consciousness and the Exploration of the Realm of Passivity [PDF En]
Stefano Gonnella - La sintesi passiva e le radici iletiche della sensibilità [PDF It]
Lavinia Martelli - Genesi passiva e hyle: la fondazione della coscienza trascendentale [PDF It]
OFF TOPIC
Raimondo Cubeddu - L'epicureismo nell'opera di Leo Strauss [PDF It]
Sergio Benvenuto - Freud oggi: che cosa mi pare essenziale conservarne [PDF It]
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Nel 2008 Paul Humphreys e Mark Bedau curano un’originale antologia dal titolo Emergence: Contemporary Readings in Philosophy and Science. Nell’introduzione al volume, che riunisce contributi sul tema da parte di filosofi e scienziati, vengono forniti alcuni esempi di fenomeni (apparentemente) emergenti che spaziano dalle proprietà di certi sistemi fisici ai passaggi di fase, dal fenomeno della vita a quello della mente e della coscienza, fino ai comportamenti dei gruppi sociali (Bedau & Humphreys 2008, 1-2). Come evidenziato da Humphreys e Bedau, la nozione di emergenza sembra comparire in diverse discipline filosofiche e scientifiche e questa pervasività ne rende difficile la definizione. Poco più di vent’anni più tardi, lo scenario non sembra troppo diverso, se non per l’ulteriore diffusione del termine e del concetto di emergenza:
Since the nineteenth century, the notion of emergence has been widely applied in philosophy, particularly in contemporary philosophy of mind, philosophy of science and metaphysics. It has more recently become central to scientists’ understanding of phenomena across physics, chemistry, complexity and systems theory, biology and the social sciences.
Questa è l’affermazione che introduce, dalla quarta di copertina, il Routledge Handbook of Emergence, pubblicato nel 2019 a cura di Sophie Gibb, Robin F. Hendry e Tom Lancaster, rispettivamente professori di metafisica, filosofia della scienza e fisica della materia condensata presso l’Università di Durham. Il termine e il concetto di emergenza sono oggi più che mai al centro del dibattito filosofico e scientifico e non a caso, negli ultimi anni, le pubblicazioni dedicate a essi si sono moltiplicate esponenzialmente. In questa introduzione vorrei fornire una breve contestualizzazione del dibattito sull’emergenza poiché, storicamente, è possibile riconoscere due diverse ondate di interesse che sono radicate, tuttavia, in circostanze storiche e motivazioni teoriche differenti. La prima ondata vede protagonisti quei pensatori che Brian McLaughlin ha definito Emergentisti Britannici:
This tradition began in the middle of the nineteenth century and flourished in the first quarter of this century. It began with John Stuart Mill’s System of Logic (1843), and traced through Alexander Bain’s Logic (1870), George Henry Lewes’s Problems of Life and Mind (1875), Samuel Alexander’s Space, Time, and Deity (1920), Lloyd Morgan’s Emergent Evolution (1923), and C. D. Broad’s The Mind and Its Place in Nature (1925) (1992, 49).
Nonostante sia per molti versi appropriato riunire questi pensatori sotto un’unica etichetta, l’uso che essi fanno del concetto di emergenza è molteplice: come attestato dall’articolo di Joel Walmsley, mentre Mill e Lewes sviluppano una nozione di emergenza che può essere definita epistemica perché legata a un’insufficienza della nostra conoscenza del mondo naturale, Morgan e Alexander propongono una visione propriamente ontologica dell’emergenza, enfatizzando la capacità dei fenomeni emergenti di esercitare poteri causali nuovi e autentici. Il lavoro di Broad, infine, può essere considerato una via media fra queste due concezioni, che verranno ampiamente analizzate e discusse nei contributi qui proposti. Ciò che accomuna gli Emergentisti Britannici, d’altro canto, è un monismo metafisico di sostanza per il quale il mondo non sarebbe composto da materia fisica da un lato e materia non fisica (entelechie, spiriti o altre entità metafisicamente contestabili) dall’altro, ma sarebbe invece totalmente costituito di materia. Ciononostante, questa materia presenterebbe, per gli Emergentisti, caratteristiche speciali a seconda della complessità della sua organizzazione e della sua struttura, e tali caratteristiche non sarebbero esplicabili tramite le leggi e le spiegazioni causali che governano e spiegano livelli più semplici di organizzazione.
La diffusione delle teorie emergentiste a cavallo fra Ottocento e Novecento coincide significativamente con un periodo storico in cui fisica, chimica e biologia vivono esistenze parzialmente autonome e la loro unificazione – per quanto auspicata – non sembra profilarsi all’orizzonte. È esattamente la possibilità di questa unificazione, che diviene concreta negli anni Venti del Novecento, a rappresentare la causa principale della caduta dell’Emergentismo Britannico: secondo McLaughlin, lo sviluppo della meccanica quantistica, la spiegazione delle proprietà chimiche tramite l’elettromagnetismo e la scoperta della struttura molecolare del DNA aprirono la via alla tesi generale per cui per ogni fenomeno naturale più o meno complesso, sarebbe disponibile una “microspiegazione”, dove con questo termine si intende «the explanation of the behavior of macro-systems in terms of the behaviour of their micro-constituents» (Hüttemann 2004, 24). La presunta disponibilità di spiegazioni micro-fisicaliste per ogni macro-fenomeno coincise, dunque, con l’abbandono dell’ipotesi emergentista. Il dibattito che vedeva protagonisti gli emergentisti britannici si giocava quindi su un terreno prettamente empirico: dati alcuni fenomeni naturali non spiegabili dalla fisica, sembrava ragionevole ipotizzare l’esistenza e l’efficacia causale di nuove forze naturali fondamentali ed emergenti. Tuttavia, come abbiamo visto, le scoperte scientifiche dei primi decenni del Novecento fornirono buone ragioni per supporre che le cause di questi fenomeni potessero essere ricondotte a quelle più classicamente fisiche, infliggendo un duro colpo ai presupposti teorici dell’emergentismo. È significativo, a questo riguardo, che l’ultimo lavoro chiaramente riconducibile al movimento emergentista, The Mind and Its Place in Nature di Broad, risalga al 1923, mentre già a partire dal 1922 Niels Bohr proponeva alla comunità scientifica un nuovo ed efficace modello atomico e suggeriva come esso potesse rivelarsi in grado di spiegare le proprietà chimiche degli elementi della tavola periodica.
Se nell’Ottocento e agli inizi del Novecento il progredire della scienza aveva dunque sottratto forza ai filosofi emergentisti, fu proprio la scienza a favorire un ritorno e un irrobustirsi della nozione di emergenza a partire dagli anni Settanta del Novecento. Come testimoniato da numerosi dibattiti scientifici, di cui questo volume presenta una selezione, la nozione di emergenza si sta dimostrando utile per descrivere e comprendere una serie di disparati fenomeni naturali e la troviamo infatti impiegata per concettualizzare l’origine dello spazio-tempo, la correlazione quantistica, i comportamenti macroscopici delle molecole e degli insiemi chimici, così come le caratteristiche dei sistemi biologici. Accanto a questi fenomeni naturali, inoltre, l’accento sull’emergenza viene posto anche nel campo della psicologia, delle scienze cognitive e dell’arte.
Nonostante l’uso estensivo del concetto di emergenza in tutti questi campi, tuttavia, non esiste una sola definizione che si adatti a tutti i contesti. Come testimoniato da Gibb, Hendry, e Lancaster, sembra quindi che i filosofi e gli scienziati stiano utilizzando lo stesso termine per riferirsi a cose diverse (2019, 2). Quel che è certo, insomma, è che di emergenza si può parlare in vari modi e che una definizione semplice e univoca non sembra in grado di catturarne la complessità.
Il presente volume di Philosophy Kitchen è la prima pubblicazione in Italia che si ponga come obiettivo quello di offrire una visione d’insieme del dibattito emergentista contemporaneo. Il volume si apre con l’articolo di Joel Walmsley, che offre una ricostruzione teorica dell’Emergentismo Britannico, e con quello di Erica Onnis, che propone un’analisi dei criteri e delle tassonomie elaborate nel dibattito filosofico contemporaneo. Quindi, viene presentato un modello non standard di emergenza, il modello diacronico “piatto” di Olivier Sartenaer, ripreso successivamente da Karen Crowther che sfrutta la nozione di emergenza per affrontare il tema dell’origine dello spaziotempo nella fisica quantistica. Il contributo successivo, quello di Marina Paola Banchetti-Robino, suggerisce che la nozione di emergenza si contrappone alla mereologia classica husserliana che si rivela inadeguata a descrivere i sistemi chimici. Le implicazioni della nozione di emergenza per la biologia sono invece esaminate da Luciano Boi e Isaac Hernandez: il primo analizza le caratteristiche dei sistemi complessi biologici, mentre il secondo si concentra sull’emergenza dell’individualità biologica. Segue l’articolo di Alfredo Paternoster, che indaga la possibilità che nelle scienze cognitive l’Embodied Cognition implichi qualche forma di emergenza e quello di Micheal W. Stadler, che analizza il problema della intuizione immediata (insight) in psicologia chiedendosi se l’emergenza sia un buon modello per concettualizzare questo processo. Segue l’articolo di Alessandro Bertinetto, che applica il concetto di emergenza alla filosofia dell’arte e al problema dell’interpretazione delle opere d’arte. L’articolo di Maurizio Ferraris, infine, riassume la sua visione metafisica dell’emergenza, basata sulle teorie della traccia e della registrazione da lui formulate, mentre Maria Mancilla Garcia e Tilma Hertz propongono una nuova visione dell’emergenza contestualizzata nel quadro concettuale della filosofia del processo, in riferimento a James, Deleuze e Whitehead.
A cura di Erica Onnis
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DOI: https://doi.org/10.13135/2385-1945/11.2019
Pubblicato: settembre 2019
Indice
E. Onnis - Introduzione [PDF It]
J. Walmsley - Verso una riconsiderazione dell'Emergentismo Britannico [PDF It]
E. Onnis - Definire l'emergenza [PDF It]
O. Sartenaer - Emergenza piatta [PDF It]
K. Crowther - L'emergenza dello spazio-tempo nella gravità quantistica e nella cosmologia quantistica [PDF It]
M. P. Banchetti-Robino - Sull'inadeguatezza della mereologia formale husserliana per l'ontologia regionale degli interi chimici [PDF It]
L. Boi - On Emergence and Causality in the Living World [En]
I. Hernandez - Comment penser l'émergence d'un individu biologique à partir d'une collectivité d'individus biologiques? [PDF Fr]
A. Paternoster - The Emergence of Emergentism in Cognitive Science [PDF En]
M. W. Stadler - The Emergence of Insight in Problem Solving [PDF En]
A. Bertinetto - L'emergentismo nell'arte [PDF It]
M. Ferraris - Che cosa può la registrazione? [PDF It]
T. Hertz, M. Mancilla Garcia - The Event: a Process Ontological Concept to Understand Emergent Phenomena [PDF En]
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Se volessimo individuare le idee che si collocano alla base della nascita della filosofia in India dovremmo articolare un discorso attraverso tre passaggi tra loro collegati. Innanzitutto dovremmo dire che i testi radicali della riflessione filosofica indiana, le Upaniṣad, sono interamente pervasi dalla ricerca della corrispondenza tra macro e micro cosmo. Questa istanza di unità diventò però immediatamente l’occasione per riflettere su due problemi interconnessi. Il primo problema è quello che in occidente definiremmo del “trascendentale”, intendendo con ciò un’anticipazione della visione kantiana secondo cui la realtà empirica è soltanto la forma in cui la realtà essenziale si presenta alla coscienza, ma tale realtà empirica non sussiste indipendentemente da una coscienza. In tempi antichissimi, intorno al secondo millennio avanti Cristo, tale visione della correlazione tra coscienza e mondo e insieme della necessità di un suo superamento verso una dimensione unitaria dell’esperienza divenne manifesta ai veggenti vedici assisi in meditazione nelle foreste indiane. Le Upaniṣad dettero il nome di ātman (letteralmente: “sé”) alla scoperta di questo principio trascendentale. Da un punto di vista metafisico l’ātman è un principio reggitore e ordinatore dell’universo e, quando viene considerato come Sé universale, possiede anche un aspetto psichico che lo rende auto-cosciente del tutto. Il punto centrale di questo primo aspetto della riflessione indiana delle origini è quindi l’identificazione del cosmico con lo psichico, nel senso che l’ātman si configura come un assoluto che possiede insieme i caratteri dell’essere e del pensiero. La coscienza-ātman non ha quindi niente fuori di sé, e tutti gli oggetti e le relazioni dell’universo esistono solo in quanto oggetti-di-conoscenza. Questo quadro concettuale, che possiede una innegabile connotazione trascendentalista, compare per la prima volta nella Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad (tra il IX e l'VIII secolo a.C), attraverso il punto di vista del maestro Yājñavalkya [1] e sarà una delle direttrici principali della riflessione filosofica indiana matura. Durante il periodo classico della filosofia indiana (V-VIII secolo d. C.) – in cui troviamo dei sistemi filosofici distinti che però condividono alcune idee di base che provengono dalla fase upaniṣadica – portato fondamentale di tale concezione trascendentale sarà il concetto di māyā, ovvero 1) il fatto che il mondo empirico sia “apparenza”, dal momento che non è possibile conoscere la reale essenza delle cose, e 2) che la pluralità non sia reale in senso proprio, dal momento che solo l’unità è reale, e questa unità è l’unità della coscienza, cioè dell’ātman. [2]
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Maurizio Ferraris – Emergenza
Recensioni / Maggio 2017Sul problema del realismo in filosofia tanto si è detto negli ultimi anni da renderlo un tema inflazionato. Non di meno, è innegabile che la svolta realista sia uno degli eventi più importanti per la filosofia contemporanea dell’ultimo decennio, ed è quindi doveroso porre attenzione a quelle pubblicazioni che affrontano il tema del realismo in modo serio e ponderato. Emergenza di Maurizio Ferraris (Einaudi 2016) appartiene certamente a tale categoria. Il concetto di emergenza è per Ferraris l’asse portante di tutto il lavoro ed egli lo racconta a partire da una premessa ontologica: la realtà che emerge è qualcosa che prima non c’era, mentre la verità è la scoperta di qualcosa che già esisteva. Ciò per Ferraris equivale a dire che l’essere viene prima del conoscere. Tale premessa è necessaria in qualsiasi realismo che voglia davvero definirsi tale. Una volta messa in chiaro questa premessa l’Autore fa un altro passo nell’approfondimento del proprio realismo, definendolo attraverso due aspetti tra loro strettamente connessi. Si tratta innanzitutto di un realismo “negativo”, nel senso che la realtà “resiste” al pensiero, ci colpisce con una forza che a volte non è controllabile, che si impone in modo talvolta anche violento. La realtà possiede, insomma, una inemendabilità difficile da smentire, a cui dobbiamo sottometterci. Ma questa inemendabilità costituisce anche il primo “invito” del reale, la sua disponibilità per noi, lo stimolo a conoscerlo e a trasformarlo. Oltre a queste due accezioni del realismo – negativa la prima, positiva la seconda – ve ne è poi una terza, di carattere trascendentale. Resistenza e invito costituiscono infatti un movimento circolare che nel suo ripetersi, nel suo “iterarsi” direbbe Ferraris, produce accumulo, “registrazione”, e quindi, disponendo di abbastanza informazioni e di abbastanza tempo, produce “senso”. La documentalità è quindi secondo l’Autore il vero trascendentale, intendendo con questo termine una sorta di memoria sempre presente e operante – come aveva sostenuto già Bergson – nella materia ogni qualvolta un nuovo senso emerge da quello precedente. Essendo la memoria la materia stessa. Questo vale sia per le dinamiche che regolano l’evoluzione del vivente che per quelle sociali, non essendoci tra le due soluzione di continuità, ma anzi volendo questa prospettiva superare nettamente il dualismo tra biologico e culturale, tra materia e spirito, tra naturale e artificiale, in favore di una visione documentale, appunto, del regno naturale. In una simile prospettiva, dunque, abbiamo un solo tipo di significato, quello che l’Autore definisce “emergenziale”, il quale nasce dall’iterazione e dall’iscrizione, dall’accumulo di “tracce” prima e di “segni” poi. Questi ultimi sono allora la fonte del significato emergenziale, che di spirituale ha solo l’aspetto ma non la sostanza. Prima viene la documentalità, la traccia “cieca”, i rituali delle api e la costruzione dei formicai, l’accumulo di tecniche, di pratiche, ma anche il casuale sedimentarsi di riti e modi di affrontare problemi pratici, e poi viene il senso, la riflessione e la coscienza di cosa si è sedimentato. L’epistemologia perfetta è quindi la storia in quanto accumulo, registrazione e iscrizione da parte dei singoli. Ecco allora esplicato il senso della premessa ontologica di cui dicevamo: l’essere/accumulo/documentalità viene prima del conoscere/traccia/senso. Una radicale pre-esistenza dell’essere al pensiero che però sancisce anche una radicale ri-unificazione tra essere e pensiero nella categoria portante di “mobilitazione”. Cos’è la natura in questo sistema se non una sorta di infinito dispositivo tecnologico che produce emergenza attraverso la dinamica che abbiamo brevemente illustrato? E la mobilitazione è la nozione che Ferraris utilizza per provare a illustrare questa dinamica che percorre l’inerte e il vivente conferendogli una innata competenza tecnica che è sempre avanti rispetto alla sua comprensione (una sorta di neo-finalismo sul modello di quello proposto da Raymond Ruyer all’inizio degli anni 50 del secolo scorso).
Il libro di Ferraris ha il grande merito di presentare in modo chiaro e conciso la posizione critica comune a gran parte dei realismi contemporanei, ovvero l’attacco frontale e senza compromessi all’idealismo trascendentale e ai suoi molti eredi. Tale critica si può riassumere nel modo seguente: l’intenzionalità non è il cominciamento dell’essere. La correlazione coscienza-mondo non è la condizione di esistenza del reale. C’è qualcosa che viene prima e fonda la correlazione, qualcosa esisteva prima della correlazione e continuerà ad esistere dopo. L’idealismo trascendentale sbagliava quindi nel sostenere che la radice dell’esperienza si situasse nell’Io penso. Ed è così che persino in pensatori “emancipati” da una fenomenologia troppo kantiana, come Sartre ad esempio, l’esternalità rivendicata per la coscienza irriflessa, il suo essere “là fuori” insieme agli oggetti del mondo, non è altro che un’esternalità claustrale, claustrofobica, che rimanda immediatamente ad un dentro camuffato da esterno. Lo stesso dicasi per Heidegger e la sua angoscia, per Levinas e i suoi Altri. Tutti tentativi di demandare il problema del fondamento della correlazione ad un irrelato che però assume subito un carattere paradossale e ambiguo. Una sorta di circolo vizioso tra pre-riflessività e auto-riflessività che, come si diceva poc’anzi, non sfonda realmente verso nessun Grande Fuori. Tutti tentativi questi, come nota giustamente Ferraris, figli della rivoluzione kantiana prima e dell’idealismo trascendentale poi. Non sfuggono alla critica del realista nemmeno le versioni postmoderne del correlazionismo, come ad esempio la filosofia analitica e il costruttivismo. Anch’esse mosse dall’intenzione di individuare nel linguaggio o nel concetto un a-priori al quale ancorare l’esistenza del reale che conosciamo.
Detto questo, bisogna anche dire però che le argomentazioni di Ferraris corrono su di una linea sottile e sono sempre minacciate dal pericolo di finire nel baratro dell’eccessiva semplificazione. Semplificazione che spalanca poi le porte a facili fraintendimenti. Infatti, una cosa è dire che da Kant in avanti la filosofia dell’esperienza ha messo eccessiva enfasi sul soggetto, rischiando di diventare sempre di più una sorta di antropologia; cosa ben diversa è invece sostenere senza mezzi termini che per l’idealismo trascendentale «il mondo è il frutto della costruzione di un Io penso onnipresente e, almeno sulla carta, onnipotente» (p. 76). E quindi sostenere che per gli idealisti trascendentali il pensiero crea la realtà e dunque nulla esiste all’infuori di quello che penso, assimilando il trascendentalismo al solispsismo. Kant e i suoi successori avrebbero quindi sposato una posizione ontologicamente molto forte secondo la quale la materia non sarebbe pre-esistita allo spirito, identificando completamente ontologia ed epistemologia. Esempio sommo di questo slittamento verso il regno del puro pensiero sarebbe l’attualismo di Gentile. La stessa operazione Ferraris la compie nei confronti del postmodernismo, arrivando quindi a concludere: «l’idea è sempre che ci sia una qualche dipendenza della ontologia dalla epistemologia, ossia, in altre parole, che il Big Bang non abbia potuto aver luogo realmente perché noi non c’eravamo, o che il Big Bang abbia avuto luogo solo perchè noi sappiamo che ha avuto luogo» (pp. 83-84).
Attraverso una simile interpretazione dell’idealismo trascendentale si perde però l’aspetto utile della critica. Qual è infatti il senso di tale critica? Chi scrive ritiene che il senso sia quello di mostrare come da Kant in avanti la filosofia abbia progressivamente rinunciato alla sua vocazione originaria a occuparsi del Tutto. Quel Tutto che, per forza di cose, comprende il soggetto come un suo momento, ma non certo come suo fondamento. Un altro aspetto di questa faccenda che la critica mette in evidenza è il paradosso generato da una soggettività così scettica da mettere in discussione persino la propria stessa capacità di far filosofia, ripiegandosi su se stessa e accettando solo se stessa come metro di tutte le cose. Scetticismo che poi, inevitabilmente, ricade su tutto ciò che non è soggetto, compreso il tanto problematico “mondo esterno”. Ma il problema è così serio proprio perché in questione è il diritto della filosofia a spingersi tanto avanti nel dubbio sul mondo, non perché tale dubbio abbia realmente una valenza ontologica. Che poi la vulgata abbia interpretato la domanda come una domanda ontologica vera e propria fa parte della dispersione intrinseca ad ogni teoria che non possiede una vera e propria pars construens, ma questo Ferraris lo sa certamente molto meglio di chi scrive...
Giacomo Foglietta