...Da loro impara il saggio Allora lo zoppo salterà come un cervo
che deve a questo mondo aver paura (Isaia, 35:6)
del tumulto e del moto;
d'un ombra che passa ebbro, poi per sempre
sconta l'uomo il castigo
d'aver voluto muoversi
(Charles Baudelaire, I Gufi)
Dovevano disporre di una tavolozza di colori, di gesti e di emozioni ancora in costruzione, i primi membri della comunità che corsero a imprimere la sensazione di un salto. E poi, era stata una prima volta o già la ripetizione di una ripetizione di quel gesto che li portò a trascriverlo sulla parete? Forse il bisogno (psico) fisico di addomesticarlo guardandolo in faccia, di rilasciare quell'energia furente che dava l'uscita per la caccia? Il tentativo di fermare quel momento, l'attimo in cui la corsa diventava uno slancio, una sospensione, un salto, e trasferirlo poi da un corpo a una superficie. Ma che sensazione provarono in quel momento? Il cuore doveva battere all'impazzata, il respiro pulsante, i muscoli eccitati nell'atto di sentire il proprio corpo che “imparava” le distanze infilandosi tra altri corpi animali, lungo corridoi di tronchi d'albero, gettandolo poi in una rincorsa dentro spazi aperti. Forse era a quel punto che arrivava il salto. Un momento privilegiato di sospensione, che staccava per un attimo i piedi da terra. Ci sono voluti millenni e vari cambi di tecnologie, fino alla poetica cronofotografia di Étienne-Jules Marey (non a caso fisiologo e cardiologo, prima di tutto), e Eadweard Muybridge, per raccontare fino in fondo quale meravigliosa complessità esista dentro quel movimento. Ma ciò che mi interessa di più è immaginare cosa provarono in quel momento quei primi saltatori/cacciatori: era già un esercizio estetico? Un intermezzo tra un passo e l'altro, in cui la testa percepì l'ebbrezza di sentirsi ancora più in alto, le gambe il desiderio di distendersi ancor di più per raggiungere un punto lontano, mentre il soggetto stesso si osservava agendo?
La danza classica riuscirà a tradurre quel momento, millenni dopo, in uno dei suoi passi più sublimi, il grand jeté. Puro slancio nello spazio, privo ormai di ogni azione di caccia se non il mantenere la forza e la grazia del corpo del danzatore/danzatrice in aria per attraversarlo.
C'è un momento magico dentro ogni salto che facciamo. I bambini lo sanno bene, così come i danzatori, gli atleti, le persone felici. Ognuno prepara quel momento a modo suo. Perché quando siamo felici viene quasi spontaneo saltellare, lanciare il proprio corpo in aria, godersi quel momento di sospensione che assomiglia alla traccia che rilascia una stella cometa. Coda di cometa, così la chiamava Husserl: continuo presente che si porta dietro una coda di cometa di ritenzioni che gli aderiscono strettamente. Come un vestito.
Quando siamo rimasti chiusi nelle nostre case durante i mesi più complessi del Covid, nel 2020, è avvenuto qualcosa di inaspettato. Danzatori, performer, filosofi si sono collegati on line per condividere le proprie pratiche. Si trattava di allenare una resistenza. Di re-imparare a vivere il nostro quotidiano all'interno di quelle che erano le nostre abitudini più prossime, ovvero le mura di casa nostra. Per alcuni, erano mura quasi sconosciute, per altri mura soffocanti. E così ci siamo collegati, in tanti, tra luoghi e mondi vicini e lontani.
Durante una pratica online di Dance Well, progetto di danza che coinvolge anche persone con il Parkinson, ho chiesto a tutti i partecipanti di saltare. Di fare o immaginare un salto. Quasi tutti ci trovavamo davanti a una finestra. O davanti a un muro. Attorniati da una piantina. Era una richiesta che avevamo fatto insieme a Gaia Giovine, un'ape operaia della filosofia, come ama definirsi, Elena Cavallo e Lucia Guarino, danzatrici.
Ha preso così forma questa restituzione, letta dalla voce di Stefania Ressico.
Per raccontare quali siano i tratti del pittore della vita contemporanea, Charles Baudelaire evoca una figura singolare, che si firma solo con le iniziali, C.G. Ciò che interessa al signor G, è la pura osservazione di quel che gli accade intorno. Il modo di muoversi delle persone, i loro tratti, abitudini, quei piccoli cambiamenti che intercorrono tra uno spazio e l'altro, tra un luogo e l'altro. (Nel linguaggio della danza è ciò che ha a che fare con la coreografia: ovvero, un certo modo di muoversi nello spazio e nel tempo).
Per questo, per definirlo, Baudelaire usa la parola cosmopolita, uomo di mondo, anziché artista. Perché tutto il mondo gli appartiene, lo incuriosisce. Ma ha bisogno di un'altra immagine ancora, e questa gli viene dal celebre racconto di E. A. Poe, L'uomo della folla.
E' la storia di una convalescenza. Dietro il vetro di un caffè, troviamo un convalescente che, riprendendo le proprie energie, osserva curioso e avido di vita il muoversi della folla. Tutto attira la sua attenzione, ed è come se si accorgesse per la prima volta di ogni dettaglio. A tal punto che, a un certo punto, si getta fuori dal caffè per inseguire uno sconosciuto. All'interno di questo profilo che Baudelaire va disegnando compaiono parole prettamente fisiologiche e poetiche: la convalescenza è come un ritorno all'infanzia. Il convalescente possiede in sommo grado, come il bambino, la facoltà di interessarsi alle cose. Vede tutto in forma di novità. Di più. Ciò che lo rende così contemporaneo è quella scossa nervosa, più o meno intensa, che si ripercuote sin nel cervelletto. Possiede una sorta di infanzia ritrovata per un atto di volontà. Con quell'occhio fisso e animalmente estatico dei bambini di fronte al nuovo.
Per definirlo ancor di più Baudelaire azzarda altre due parole. E' dunque un dandy? Non proprio. Un filosofo? Forse, se riesce a fare i conti con l'istinto metafisico della categoria. E' certamente un flâneur, ma non lo dice. Quasi due secoli dopo, potremmo aggiungere anche un'altra possibilità. E' forse un danzatore? Un performer? Un coreografo?
Così come potremmo aggiungere altre parole e sensazioni, “digerite” dai Situazionisti dal 1957: psicogeografia, spirito di scoperta, disorientamento dei riflessi abituali. Cartografia rinnovata. Détournement. Deriva.
Quando il sociologo Chombart d Lauwe nel suo studio su: Paris et l'agglomération parisienne, metteva in luce la quasi immutabilità del percorso quotidiano di un cittadino medio, a cominciare dalla vita di uno studente, il cui percorso si riduceva a un triangolo di dimensioni ridotte, senza fughe, i cui tre vertici erano: l'Ecole des Sciences Politiques, il domicilio della ragazza e quello del suo professore di pianoforte, non dava drammaticamente ragione a Baudelaire, ai Situazionisti, circa il bisogno di rinnovare i sensi? Di re-interrogarli dentro le loro abitudini quotidiane?
Forse non tutti sanno che è proprio quello che da decenni la danza e la performance stanno provando a fare.
Immaginate di prendere 8 danzatori, diceva il grande coreografo Merce Cunningham, per spiegare che cosa era la complessità che la danza moderna stava portando dentro il Novecento. Dunque, prendete 8 danzatori e incominciate a creare una situazione in cui ciascuno si comporta come un solista. Immediatamente, rispetto al tradizionale corpo di ballo che si muove insieme, vi accorgerete che state già creando un tipo diverso di complessità. Ora, ritornate per un attimo al tradizionale corpo di ballo con 16 danzatori che si muovono insieme e simmetricamente a destra e a sinistra della scena. E vi accorgerete con che facilità e letizia il vostro sguardo li seguirà da un lato all'altro. Ora, provate a introdurre una piccola modifica: una serie di 8 danzatori andrà a destra e un'altra serie di 8 a sinistra; ciascuno dei due gruppi inizierà poi a eseguire dei movimenti diversi dall'altro gruppo. Vedete che la situazione incomincia a farsi più imprevedibile. Aggiungiamo un'ulteriore complessità. Degli 8 danzatori a destra, 4 inizieranno a fare certi movimenti, e i rimanenti 4 altri. E così di seguito anche sul lato destro. Potete intuire fin dove ci si può spingere: ognuno dei 16 danzatori inizia a sviluppare una propria serie di movimenti. State entrando in un grado di complessità differente. Ma, sopratutto, sottolinea, state aprendo il campo a una gamma di possibilità tutte da esplorare. Non finisce qui, insiste Cunningham. Perché il meraviglioso balletto classico ragiona in termini di prospettiva di scena, orientata frontalmente davanti allo spettatore. Cosa succede, invece, domanda Cunningham, se ogni punto dello spazio diventa egualmente interessante? Che si rompe quel codice secondo cui il centro, la piazza potremmo dire in termini architettonici, ma anche politici e sociali, è il punto più importante. Pensiamoci bene, a che cosa tutto ciò comporta: ancora adesso, dopo un'elezione politica, all'interno dello sviluppo economico di una città, osserviamo il centro e la periferia. Ma cosa succede se tutti i punti, se tutte le parti diventano egualmente importanti da esplorare? Benvenuti dentro la grande complessità con cui si interfaccia la danza contemporanea.
Guardavamo fuori dalla finestra per cercare continuamente idee. Osservavamo le persone muoversi, camminare. Chi sono questi flâneurs, che parlano ancora così nel 1960? Un gruppo di coreografi, artisti visuali, danzatori, compositori, filmakers, riunitisi negli spazi della Judson Memorial Church, una congregazione Protestante presente a New York nel Greenwich Village, per una serie di workshops in cui indagano cosa sia la danza. E lo fanno a partire dai movimenti della vita di tutti i giorni: camminare, cadere, correre, alzarsi, rotolare, saltare. Eseguire delle piccole sequenze. Giocare. Sembrano i requisiti immaginati da Baudelaire per il pittore della vita contemporanea. Molti dei loro nomi costituiscono la storia della danza fino ai giorni nostri: Trisha Brown, John Cage, Lucinda Childs (leone d'oro a Venezia nel 2017), Merce Cunningham, Simone Forti, Steve Paxton (leone d'oro alla carriera a Venezia nel 2014), Yvonne Rainer, Robert Rauschenberg.
Passando davanti a una scuola elementare, per esempio la Tommaseo di piazza Cavour a Torino, può capitare di imbattersi in un pavimento disegnato dagli stessi bambini, in cui compare una sorta di scacchiera composta da palline allineate dello stesso colore disposte su 4 file: ogni fila ha un colore, giallo, verde, rosso, blu. Ogni fila è composta di 6 palline allineate dello stesso colore. Si tratta di un gioco in cui le regole sono dettate da una voce che “comanda” degli atteggiamenti: appoggia la mano destra su tale pallina, quella sinistra su un'altra, il piede destro su quella di quel colore. E così via. Dentro la scacchiera ci stanno almeno due persone che eseguono i comandi. Gradualmente i loro corpi si trovano a esplorare le posizioni più contorte e impossibili. E, allo stesso tempo, a trovarsi attorcigliati, intrecciati tra di loro.
Il gioco si chiama Twister ed è stato inventato e brevettato nel 1966 negli Stati Uniti, all'interno di uno di quei tanti cosiddetti brainstorming aziendali che da una cosa ne generano un'altra. Reyn Guyer, stava infatti cercando un'idea per promuovere una scatola di lucido da scarpe quando ebbe un'altra idea: un nuovo gioco di gruppo, da giocarsi non sul tavolo ma direttamente sul pavimento. Una sorta di scacchiera in cui le pedine sono i corpi stessi delle persone. Da quel che ne sapeva, non esisteva alcun gioco brevettato in cui i corpi delle persone agissero direttamente da pedine.
Ne fece dunque il prototipo e lo sperimentò con i suoi collaboratori. Ma, mancando di esperienza in quel settore, fece chiamare due esperti del settore: Charles Foley e l'artista Neil Rabens. Rabens propose di aggiungere nelle regole del gioco il fatto di appoggiare anche le mani, e non solo i piedi; mentre Foley propose di inserire 6 cerchi dello stesso colore per ogni fila distribuite su 4 file, in modo che gradualmente i giocatori finissero intrecciati tra loro per muoversi. Il gioco all'inizio prese il nome di Pretzel. Alcuni membri dello staff avevano però dei dubbi: il gioco, su degli adulti, poteva risultare un po' troppo compromettente, specialmente se a giocare erano un uomo e una donna, che si sarebbero trovati attorcigliati tra di loro. E, nel caso la donna avesse una gonna, addirittura con l'uomo che rischiava di finire sotto la sua gonna! Ma vinse la fiducia nell'idea e fu messa in produzione. Ma con un altro nome, Twister. E una frase che lo promuoveva: The Game That Ties You Up in Knots. Il gioco che ti intreccia in nodi.
I timori espressi da alcuni sembrarono all'inizio dargli ragione. I rivenditori, infatti, mostravano un certo imbarazzo nel promuovere, sopratutto sotto le Festività, un gioco che creava una forte promiscuità tra i corpi. E così si valutò l'ipotesi di toglierlo dal mercato.
Ma, prima di farlo, tentarono l'ultima chance. La possibilità di presentare il gioco all'interno della celebre trasmissione americana della NBC's“Tonight Show. La puntata andò in onda il 3 maggio del 1966 e il conduttore Johhny Carson si trovò a giocare a Twister con l'attrice Eva Gabor, famosissima all'epoca.
Il risultato fu un'esplosione di gioia e sensualità, i loro corpi si trovarono intrecciati e in posizioni atipiche esattamente come prevedevano le “regole” del gioco. Che, in realtà, non facevano altro che stimolare delle posizioni e posture diverse dall'ordinario. Facile prevedere il seguito. Da quel giorno la richiesta di Twister invase tutti i negozi.
Se osserviamo il tutto con decenni di distanza, ci accorgiamo subito di un fatto. Che ancora una volta hanno vinto i bambini. Il gioco è presente, per loro, davanti alle scuole, negli spazi adepti al gioco dei parchi. Talvolta è addirittura improvvisato. Come un piccolo détournement. Ma mai, vediamo un adulto giocarvi. Troppo scomode e diverse dall'abituale sono le posizioni da esplorare. Quel finire sotto, strisciare, aggrapparsi, provare ad articolare le gambe e le braccia su 4 direzioni diverse, come farebbero certi personaggi di Beckett, è troppo insensato, troppo buffo.
Nei parchi, negli spazi aperti, che sono il grande teatro della vita contemporanea, gli adulti sono quasi sempre seri e misurano tutto: la corsa, i passi percorsi, saltano solo per allenare i muscoli delle loro gambe, salgono e scendono da una panchina ripetendo il copione di un esercizio da fare. La coda della cometa è scomparsa. Ha vinto il ticchettio impeccabile della lancetta dell'orologio. La misurazione. Non esiste gioco, esplorazione, camminate inusuali, cadute, girare su se stessi. E se gli si dicesse che anche questi sono gli ingredienti di una pratica di danza con cui si costruisce una ricerca, una coreografia, forse sarebbe l'unico momento in cui li vedremmo sorridere.
Traducendo il De Rerum Natura di Lucrezio, il poeta Milo De Angelis osservava come uno scrittore, e un poeta in particolare, non scrive ciò che sa, ma comincia a saperlo scrivendo. E lo stesso avviene con una traduzione. Non traduciamo ciò che sappiamo, ma cominciamo a saperlo traducendo.
Quale è la legge “segreta” che sta dietro le nostre abitudini, comportamenti, azioni? E' all'interno di questi spazi, di queste griglie “invisibili” che si sono rifatte le pratiche di danza spuntate in mille modi dal nostro presente per interrogare quel che il corpo fa ogni giorno: ovvero, mettersi in movimento, anche quando sta fermo, come milioni di persone fanno quotidianamente nelle ore lavorative. Che coreografia sta abitando il nostro presente? Ce lo chiedeva già la grande Trisha Brown decenni fa. Ecco il tipo di domanda che proveremo continuamente a porci. Lanciando quasi una sfida e uno stimolo. Un'ulteriore domanda, in realtà. E se dentro quell'albero di genealogie così necessarie per interrogare il nostro presente che filosofi come Giovanni Leghissa ci propongono, fosse necessario provare a rispondere ogni volta attraverso una pratica? Attraverso l'esplorazione di una coreografia, che altro non è se non il rapporto che avviene tra i corpi all'interno dello spazio e del tempo che abitano?
I piedi, i nostri piedi, tornano così a cercare. Prima erano punte, sublime spazio metafisico di distanza tra cielo e terra. Finché, riaffondando dentro il selciato, hanno accettato anche il dialogo con l'orizzontalità, con le cadute, i rotolamenti. Da li, stanno re-imparando a saltare. Al danzatore, al flaneur, al filosofo, al poeta, ai botanici, agli scienziati, agli agricoltori è richiesto questo aspetto mutante di peso, di pressione, di tocco. Questo esercizio di spazio che, tra le persone, prende la forma di una comunità. Tra alberi e piante, e noi, la forma di un nuovo tempo, nuovo perché così antico, un tempo vegetale.
In questo la danza, il movimento tornano ad essere un esercizio filosofico che parte da dove tutto era cominciato: da una domanda.
Ed è quello che proverò a fare, insieme a Gaia Giovine, nelle prossime puntate.
Psychoanalyse als Anthropotechnik, psicoanalisi come antropotecnica, potrebbe benissimo essere – perché no? – il titolo di un immaginario saggio disperso nel mare della vasta produzione del filosofo tedesco, tuttora vivente, Peter Sloterdijk. Se non fosse per la sua nota tendenza a irridere la concettualità psicoanalitica, con quell’ironia di chi non è in fondo così distante da ciò che intende allontanare, potremmo quasi immaginarcene un abbozzo in attesa di pubblicazione tra le sue carte. Dunque, perché no? Porsi la domanda “è la psicoanalisi un’antropotecnica?” potrebbe non essere un passatempo del tutto ozioso. Stando alla definizione più recente che il filosofo di Karlsruhe ha offerto del concetto, vale a dire quella contenuta nel magnum opus del 2009 Devi cambiare la tua vita, si definiscono antropotecniche tutte le condotte mentali e fisiche basate sull’esercizio, con le quali gli esseri umani delle culture più svariate hanno tentato di ottimizzare il loro status immunitario sia cosmico sia sociale, dinnanzi ai vaghi rischi per la propria vita e alla certezza di morire (Sloterdijk 2010, 14).
Laddove con “esercizio” si intende ogni sorta di routine abituale e operazione ripetuta tramite la quale «la qualificazione di chi agisce viene mantenuta o migliorata in vista della successiva esecuzione della medesima operazione, anche qualora essa non venga dichiarata esercizio» (Sloterdijk 2010, 7) e con “immunità” un’immunità culturale, risultante di «pratiche simboliche ovvero psicoimmunologiche […] di prevenzione immaginaria ed equipaggiamento mentale» (Sloterdijk 2010, 13). Esercizio e immunità, dunque, come i due cardini della definizione del concetto, sotto il quale ricade uno spettro di fenomeni amplissimo. Dai monaci del deserto ai filosofi greci, dagli asceti indiani ai moderni scienziati, dai biocosmisti russi agli atleti olimpionici, dai funamboli ai fenomenologi. Quanto alla psicoanalisi, si tratta di verificare se, nella sua dimensione pratica come in quella teorica, sia in grado di superare il duplice requisito antropotecnico.
Partendo dal primo punto, l’esercizio e la dimensione abitudinaria che esso comporta, nulla sembrerebbe più estraneo alla scena dell’esperienza analitica. È quanto suggerisce Lacan nel suo Seminario dedicato all’etica della psicoanalisi quando afferma, allo scopo di mostrare lo scarto che separa la dimensione etica inaugurata dalla psicoanalisi dall’etica nel suo sviluppo storico e dall’etica aristotelica in particolare – scarto che permette di misurare tutta l’originalità dell’invenzione freudiana – che l’etica dell’analisi comporta «la cancellazione, la messa in ombra, persino l’assenza di una dimensione di cui basta il temine per cogliere ciò che ci separa da tutta l’elaborazione etica prima di noi – è l’abitudine, la buona o cattiva abitudine» (2008, 14). Se di ripetizione si parla, in analisi, è sempre dal lato del sintomo, della coazione a ripetere un’esperienza traumatica che comporta una certa sofferenza per il soggetto, nulla a che vedere insomma con quel continuo gioco di rimandi tra ἔθος ed ἠθος, di azione buona come frutto di un addestramento alla buona scelta, che è il fulcro dell’etica aristotelica. La psicoanalisi è tutt’altra cosa, perché «l’essenza stessa dell’inconscio si inscrive in un registro diverso» (Lacan 2008, 14) – quello del desiderio e della sua interpretazione. E il desiderio, come ben si sa, non si sceglie.
In analisi infatti si tratta di venire a capo di una domanda, di quella domanda di felicità che l’analizzante pone all’analista, una felicità tuttavia peculiare, né comoda né accomodante, che potrebbe certo non coincidere con le immediate aspettative del soggetto. «La questione etica» dice infatti Lacan «nella misura in cui la posizione di Freud ci fa compiere un progresso, va articolata a partire da un orientamento dell’individuazione dell’uomo in rapporto al reale» (2008, 15), vale a dire in rapporto a quel Reale che nella formulazione lacaniana non coincide con la realtà, ma con ciò che nella realtà costituisce un’impasse, una contraddizione, un inciampo, ciò che, in altre parole, il soggetto non riesce a soggettivare, ciò che rimuove come altro da sé e che ritorna a reclamare i suoi diritti ma anche ciò che il soggetto non simbolizza (Benvenuto & Lucci 2014) e che «non può inscriversi che per un’impasse della formalizzazione» (Lacan 2011, 87).
La posta in gioco dell’analisi è, detto altrimenti, porre in contatto il soggetto con il Reale, con ciò che in esso fa problema, con quell’estimità che lo caratterizza. Proprio perciò Lacan (2008, 11 sgg.), nelle volute che caratterizzano il Seminario VII, procede a distinguere con una certa nettezza l’etica che si esprime nella pratica analitica, nello spazio che separa analizzante e analizzato, dalla triplice serie di ideali analitici i quali, dice Lacan, emergono in abbondanza laddove si intende la pratica analitica come un servizio di asilo e conforto per supplici e sofferenti di vario genere. Vale la pena richiamarli brevemente alla memoria. L’ideale dell’amore umano, l’ideale dell’autenticità, l’ideale della non-dipendenza – mancano tutti il punto circa i fini dell’analisi, o perché si basano su un supposto primato della pulsione genitale, cui dovrebbe essere ricondotta la brulicante pluralità delle pulsioni parziali, o perché introducono una tacita dimensione normativa che sfocia in una concezione dell’analisi come armonizzazione psichica, o perché, infine, ricadono in una dimensione banalmente ortopedica (Lacan 2008).
Di contro a tutto questo si tratta invece di prendere le mosse da ciò che qui Lacan (2008) chiama curiosamente l’ascesi freudiana – sorta di lapsus che conferma il ritorno di quel rimosso che è l’esercizio – condensata nella massima Wo Es war, soll Ich werden. Essa viene interpretata da Lacan attraverso un rovesciamento di prospettiva che ne fa non un’impresa di colonizzazione dell’inconscio da parte della coscienza, un rafforzamento dell’Io alle spese dell’estraneità che lo abita, «un’opera di civiltà, come ad esempio il prosciugamento dello Zuriderzee» (Freud 2012, 489), bensì, nella misura in cui l’analisi comporta una certa tecnica di smascheramento che tiene infaticabilmente dietro agli alibi del soggetto, una ricerca di quella «verità liberatrice» che «non è quella di una legge superiore» ma «una verità particolare» la quale «si presenta per ciascuno nella sua intima specificità con un carattere di Wunsch imperioso» (Lacan 2008, 28-29). Il vero desiderio, insomma dell’analizzante. Perciò Lacan afferma
Questo Ich, infatti, che deve avvenire là dove Es era, e che l’analisi ci insegna a misurare, non è altro che quello di cui abbiamo già la radice nell’io (je) che si interroga su ciò che vuole. Esso non è solo interrogato, ma mentre avanza nella sua esperienza, si pone tale interrogativo, e se lo pone proprio rispetto a degli imperativi spesso estranei, paradossali, crudeli propostigli dalla sua esperienza morbosa (2008, 10).
Così, con l’andamento circolare che caratterizza il Seminario VII, dopo quell’immenso détour che passa per l’interpretazione dell’Entwurf del 1895, la dialettica tra principio di piacere-principio di realtà-pulsione di morte, lo strutturarsi del campo di das Ding, la Cosa nel suo rapporto con la sublimazione e con l’oggetto, l’amor cortese come anamorfosi, il sadismo di Kant e il kantismo di Sade quale cifra della paradossalità del godimento, il tragico fulgore di Antigone, quell’apparente digressione, dunque, che assume la forma di un lungo periplo attorno al vuoto centrale di das Ding, tutta la questione dell’etica della psicoanalisi si riduce – ed è forse poco? – alla domanda «avete agito conformemente al desiderio che vi abita?» (Lacan 2008, 364).
Una domanda, questa, che esprime tutto lo iato che sussiste tra la prospettiva della psicoanalisi e quella funzione che Lacan chiama il «servizio dei beni» – tema privilegiato della riflessone sull’etica da Aristotele a Bentham – perché nell’analisi non ne va né di una coincidenza tra il bene e il piacere, negata dalla condizione di quell’$ che è il soggetto dell’inconscio, né di una rettifica del rapporto tra il desiderio e la dimensione sociale dei beni, «beni privati, beni di famiglia, beni della casa, e altri beni ancora che ci sollecitano, beni del mestiere, della professione della città» (Lacan 2008, 351). Pensare che un’analisi di successo si riduca al raggiungimento di «una posizione di agio individuale», il «farsi garante» da parte dell’analista «che il soggetto possa in qualche modo trovare il suo bene anche nell’analisi è una sorta di truffa» (Lacan 2008, 351).
L’analisi, in quanto fondata sull’ipotesi freudiana dell’inconscio, la quale presuppone che tanto il sintomo quanto l’agire per così dire normale dell’uomo abbiano un senso nascosto che il lavoro analitico può scoprire, configurandosi come un «ritorno al senso dell’azione» contiene in sé «la forma embrionale di un antichissimo γνῶθι σεαυτόν» che tuttavia, a differenza di tante sue forme antiche e moderne, dà adito a un’«esperienza tragica della vita» (Lacan 2008, 362 -363). Laddove tragico assume il senso di irrisolto e indecidibile.
Lo si può apprezzare meglio guardando a quel motore della seduta analitica che è il sintomo. Esso coincide sempre con una soluzione di compromesso ad un conflitto pulsionale, con una soluzione quantomai soggettiva e particolare ad una contraddizione, pur sempre risolta nonostante la sofferenza che tale “soluzione” comporta: di fronte a ciò il lavoro analitico interviene non tanto per appianare la contraddizione, ma per portarla alla luce, per consentire al soggetto di riconoscerla come propria e prendere attivamente posto in essa (Zupančič 2018, cfr. 102 sgg.).
È precisamente in questo punto che si percepisce lo scarto tra la prospettiva analitica condensata nel ritorno a Freud di Lacan e tutte le altre prassi psicoanalitiche post-freudiane e, ancor di più, ogni altra forma di psicoterapia cognitivo-comportamentale, uno scarto che deriva da orientamenti etici di fondo tra loro inconciliabili. Se queste ultime si propongono di consolidare le labili forze dell’Io, di portare il soggetto a gestire e amministrare i propri sintomi – si pongono, in breve, dal lato della padronanza – l’analisi di orientamento lacaniano – fondata fin dalle origini sull’approfondimento dell’intuizione freudiana della vasta estensione del soggetto dell’inconscio (je), nella quale l’Io (moi) non è che una tra le varie istanze in gioco, peraltro risultato di una configurazione immaginaria, dunque aggregato di successive identificazioni (Recalcati 2012, 1-10) – passa, come implicito nelle formulazioni precedentemente citate, per una presa di posizione rispetto alla totalità, molteplice, conflittuale, e sempre irrisolta di se stessi.
Quanto acquisito finora è espresso, quale attento testimone, dalla formalizzazione del discorso analitico.
In esso troviamo l’oggetto a ad occupare la posizione dell’agente, sostenuto dal significante del sapere che si situa, sotto la sbarra della rimozione, nel posto della verità. Da qui, dalla posizione dell’agente, interpella il suo altro, vale a dire il soggetto barrato, il soggetto dell’inconscio e il tutto sfocia nella produzione di S₁, quel significante, dice Lacan (2011, 86), per cui si possa risolvere il rapporto del soggetto con la verità. Con la verità, è ormai chiaro, discordante, eccedente, talvolta persino inaccettabile del proprio desiderio.
A questo punto parrebbe legittimo chiedersi, che resta qui di antropotecnico? Il quadro finora delineato sembra infatti avvalorare l’idea che la psicoanalisi operi in un territorio, la vasta geografia dell’inconscio, in cui viene negato ogni potere all’influenza dell’abitudine. Il che non deve certo sorprendere. Tuttavia non bisogna dimenticare né la grande elasticità intrinseca al concetto sloterdijkiano di antropotecnica, che permette di sussumere sotto di esso i fenomeni apparentemente più disparati, anche ciò che in prima battuta pare l’opposto di un esercizio, né il fatto, invero piuttosto banale, che la dimensione stessa del setting analitico, il susseguirsi delle sedute, l’instaurarsi del transfert, presuppongono tacitamente l’inscriversi di routines e abitudinarietà, una tacita ripetizione di esercizi da entrambe le parti.
È qualcosa che emerge nella domanda freudiana sulla terminabilità dell’analisi, perché nonostante Freud (1977) ritenga la questione della fine di un’analisi un affare prettamente pratico – legato al raggiungimento di obiettivi minimi quali l’imbrigliamento egosintonico delle pulsioni e il loro farsi permeabili agli influssi che promanano le altre tendenze del soggetto – l’intero testo di Analisi terminabile e interminabile, con la sua insistenza sui problemi e gli ostacoli che si frappongono al termine della terapia, sta lì a dichiarare l’implicita adesione all’idea dell’analisi quale percorso interminabile, interminabile esercizio, incessante prodursi di Costruzioni nell’analisi – come recita il titolo del breve articolo coevo – le quali peraltro, nella loro provvisoria precarietà, esprimono tutta la refrattarietà della teoria come della pratica analitiche a una chiusura definitiva. A quella chimera, dunque, che è la «liquidazione permanente di una richiesta pulsionale» (Freud 1977, 31).
Certo, tornando all’etica della psicoanalisi proposta da Lacan, è innegabile la presenza in essa di una certa disposizione dionisiaca, come di un certo determinismo rispetto alla presa del significante su di noi (Benvenuto & Lucci 2014) ma è altrettanto innegabile – e qui si trova uno spiraglio di libertà – che «possiamo cambiare la nostra posizione soggettiva rispetto a quel che siamo» (Benvenuto & Lucci 2014, 105).
Si diceva che quell’Io che noi siamo, o meglio, quell’Io che è parte di noi e con cui noi tendiamo esclusivamente ad identificarci, altro non è che un aggregato di identificazioni, legato al registro dell’immaginario e alle dinamiche di alienazione narcisistica che pertengono, inevitabili, all’esperienza di ciascuno. Ed è proprio a questo livello che si manifesta un’altra possibile accezione della psicoanalisi intesa antropotecnicamente, cioè il suo configurarsi come pratica di critica gestione delle nostre identificazioni. In questo campo infatti – campo in realtà più esteso delle sole dinamiche identificatorie, perché bisogna sempre ricordare come il campo della libido dell’Io, delle identificazioni e dei rapporti tra Ideal-Ich e Ich-Ideal, sia in realtà un continuum del quale i fenomeni dell’innamoramento, degli investimenti d’oggetto e della libido oggettuale, sono l’esatto rovescio speculare – si può rintracciare il secondo lato della definizione sloterdijkiana di antropotecnica, l’incremento dell’immunità del soggetto.
Ma da che cosa è utile che il soggetto diventi immune? Dalle proprie identificazioni o, il che è lo stesso, dall’illusione della propria consistenza, della propria monolitica unità, che il lavoro analitico spazza via mostrando al soggetto il suo essere attraversato dal discorso e dal desiderio dell’Altro, da un’eccentricità che deborda il suo semplice identificarsi con un significante – «penso dove non sono, dunque sono dove non penso» (Lacan 2002, 512). Ma anche dalla dimensione fantasmatica, anch’essa in fondo ineliminabile, dell’esperienza amorosa, rispetto alla quale Lacan, con il consueto stile gnomico non privo di ironia, sembra dire l’ultima parola sentenziando – non c’è rapporto sessuale. Non si può porre il rapporto sessuale perché è impossibile, in breve, che due facciano Uno. Si tratta di mettere in discussione, innanzitutto, l’idea che il godimento sessuale – espressione tautologica – si identifichi con l’amore. «Il godimento dell’Altro» afferma Lacan «[…] del corpo dell’Altro che lo simbolizza, non è segno dell’amore» (Lacan 2011, 5). Ma, sotto la lente d’ingrandimento della psicoanalisi, anche il godimento del corpo si sfalda e si pluralizza, sfociando in una miriade di rivoli:
come sottolinea mirabilmente quella specie di kantiano che era Sade, si può godere soltanto di una parte del corpo dell’Altro, per il semplice motivo che non si è mai visto un corpo avvolgersi completamente, fino a includerlo e fagocitarlo attorno al corpo dell’Altro. […] Il godere ha questa proprietà fondamentale, che insomma è il corpo dell’uno a godere di una parte del corpo dell’Altro (Lacan 2011, 23).
Di qui il doppio genitivo implicito nell’espressione godere del corpo in cui si gioca, nel Seminario XX, la distinzione tra il godimento fallico e il suo al di là, la nota estatica del godimento femminile. Si tratta, infine, di mettere tra parentesi quell’idea, cruciale nella tradizione occidentale, per cui amare sarebbe fondersi in un’unità indistinta.
Siamo una cosa sola. Tutti sanno, naturalmente, che non è mai capitato che due facessero uno, ma insomma, siamo una cosa sola. È da qui che parte l’idea dell’amore. È veramente il modo più rozzo di dare al rapporto sessuale, a questo termine che evidentemente sfugge, il suo significato. L’inizio della saggezza dovrebbe consistere nell’iniziare a rendersi conto […] che l’amore, se è vero che ha rapporto con l’Uno, non fa mai uscire nessuno da se stesso (Lacan 2011, 45).
Dopo questa traversata, inevitabilmente parziale, è bene ancorarsi a qualche punto fermo, ben sapendo che ogni approdo non è che un provvisorio punto di partenza. Che cos’è, dunque, la psicoanalisi? La psicoanalisi è quella strana antropotecnica, che ci immunizza – di un’immunità che è essa stessa immune dal sogno illusorio di un’immunità totale e definitiva – dal credere che l’amore e il godimento siano la stessa cosa, che desiderio e godimento coincidano sempre giungendo a soluzione, che l’amore sia fondersi in un’unità inscindibile e cannibalesca, che l’in-dividuo sia realmente tale…immunizzarsi, in fondo, dal fantasma dell’Uno in ogni sua forma, dalla credenza che la sintesi del molteplice nell’unità sia chiusa una volta per tutte.
È quindi assodata l’appartenenza della psicoanalisi al campo dell’etica, nel quale apporta una prospettiva originale, che è in fondo, come notava un osservatore ad essa estraneo quale Foucault (2011, cfr. 26-27), una riemersione di una forma di cura di sé e direzione spirituale interamente focalizzata sui rapporti tra soggetto e verità, sul prezzo che il soggetto paga per dire il vero su se stesso e sull’effetto che ciò comporta. Ed è altrettanto assodato che il tutto si traduca in un saperci fare con le proprie identificazioni. Può tutto questo avere a che fare con una dimensione latamente politica? Occorre rammentare la centralità che Freud attribuisce, in Psicologia delle masse e analisi dell’Io, saggio cruciale perché contiene il nucleo della «dottrina socio-politica della psicoanalisi» (Benvenuto 2021, 10), ai meccanismi identificatori come base della formazione dei collettivi.
Tale grafico è il risultato dell’enunciazione della «formula della costituzione libidica di una massa», la quale prende corpo quando «un certo numero di individui» è giunto a porre «un unico e medesimo oggetto al posto del loro ideale dell’Io» identificandosi in tal modo «gli uni con gli altri nel loro Io» (Freud 2011, 234-235). I membri di un collettivo, dunque, dal partito fascista allo stesso movimento psicoanalitico, si riconoscono e si amano l’un l’altro in quanto tutti fanno riferimento a quello stesso oggetto esterno, opportunamente idealizzato, che è il capo.
Per Freud infatti non c’è Masse senza capo, perché ogni formazione collettiva rappresenta una regressione, seppur parziale, a quello stadio arcaico di soggezione che Freud indica con il mito dell’Urhorde e dell’uccisione del padre primordiale e che testimonia della «funzione costitutiva del politico rispetto al sociale» (Benvenuto 2021, 55). Ciò equivale a riconoscere, anche pensando agli aggregati umani dichiaratamente più aperti e tolleranti, che «per Freud ogni collettivo è nel fondo fascista» (Benvenuto 2021, 37). E ciò accade anche, come sottolinea Benvenuto (2021) operando una rilettura in chiave lacaniana della Massenpsychologie, quando a unire il gruppo non è tanto un individuo fisico ma un’idea-guida: basta infatti guardare alla formula del discorso del maître per notare come ogni capo individuale sia tale in quanto occupa il luogo del capo, identificandosi con quell’S₁, significante-padrone, identificandosi e facendosi identificare con una visione statuaria di sé che rimuove il suo essere dotato d’inconscio, attraverso un’operazione che ricorda la kantiana sussunzione del molteplice della sensibilità sotto la categoria che, a priori, chiede riempimento.
Che dire, dunque? Se è implicita nella psicoanalisi la possibilità di una prassi di disinnesco, attraverso esercizi reiterati di affinamento dello sguardo critico, delle proprie identificazioni – di cui le identificazioni politiche sono una parte preponderante – è allora giustificato un uso mediatamente politico della stessa. Mediatamente perché la psicoanalisi, figlia dell’età delle democrazie liberali, è quel legame sociale sciolto da ogni altro legame sociale, nella dimensione a tu per tu tra analizzante e analista, che consente di rimettere in scena sempre di nuovo il dramma originario del parricidio, dell’emersione della psicologia individuale dal magma della psicologia collettiva, emancipando così il soggetto dai rapporti densi e immediati della Gemeinschaft e introducendolo in quell’ambito, forse un po’più freddo e dominato dalla mediazione tra istanze contrapposte che è la Gesellschaft (Benvenuto 2021). Si può così insegnare al soggetto a stare in guardia – a immunizzarsi, sempre nel senso di un’immunità mai garantita fino in fondo e perciò bisognosa di un esercizio interminabile, dall’essenza fascista di ogni collettivo. E a immunizzarsi, ancora, da tutta una serie di dinamiche, quantomai attuali, spiegabili attraverso quell’integrazione alla Massenpsychologie freudiana che è il diagramma del circolo dell’alienazione politica proposto da Benvenuto (2021).
Se l’immagine ideale del capo-S₁, nel corso del processo di idealizzazione, tende sempre a scindersi espellendo da sé il suo contrario, l’anti-ideale come oggetto-scarto su cui si riversa l’odio e l’aggressività che contribuisce a tenere unito il collettivo, coalizzato contro ogni possibile nemico esterno o interno, ecco che si presenta la possibilità, per tramite della psicoanalisi, di una profilassi da ogni inevitabile dinamica settaria, da ogni nazionalismo, sovranismo e populismo…da tutti quegli -ismi che, nel dibattito pubblico come in quello accademico, contribuiscono a irrigidire e polarizzare la discussione sfociando in una triste «miseria identitaria» (Benvenuto 2021, 121). Una contrapposizione, insomma, tra posizioni identitarie dimentiche della loro labile natura immaginaria e del loro essere, come tutti, soggetti dell’inconscio – dimenticanza, questa, che quella strana antropotecnica che è la psicoanalisi, in quanto ci insegna qualcosa sul politico, può contribuire a colmare.
di Luca Valsecchi
Bibliografia
Benvenuto, S. (2021). Soggetto e masse. La psicologia delle folle di Freud. Roma: Castelvecchi.
Benvenuto, S. & Lucci, A (2014). Lacan oggi. Sette conversazioni per capire Lacan. Milano-Udine: Mimesis.
Foucault, M. (2011). L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège deFrance(1981-1982). Trad. it. di M. Bertani. Milano: Feltrinelli.
Freud, S. (1977). Analisi terminabile e interminabile. Costruzioni nell’analisi. Trad. it. di R. Colorni. Torino: Bollati-Boringhieri.
Id. (2011). Psicologia delle masse e analisi dell’Io. Trad. it. di E. Panaitescu. Torino: Bollati-Boringhieri.
Id. (2012). Introduzione alla psicoanalisi. Trad. it. di M. Tonin Dogana & E. Sagittario. Torino: Bollati Boringhieri.
Lacan, J. (2002). L’istanza della lettera dell’inconscio o la ragione dopo Freud. In Scritti (I). A cura di G. Contri. Torino: Einaudi.
Id. (2008), Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi (1959-1960). A cura di A. Di Ciaccia. Torino: Einaudi.
Id. (2011). Il seminario. Libro XX. Ancora (1972-1973). A cura di A. Di Ciaccia. Torino: Einaudi.
Recalcati, M. (2012). Jacques Lacan. Desiderio, godimento, e soggettivazione. Milano: Raffaello Cortina.
Sloterdijk, P. (2010). Devi cambiare la tua vita. A cura di P. Perticari. Milano: Raffaello Cortina.
Zupančič, A. (2018), Che cos’è il sesso? Trad. it. di P. Bianchi. Milano: Ponte alle Grazie.
Sembra che la psicoanalisi non sappia molto della soddisfazione della pulsione, e che anzi si limiti a fare qualcosa con la sua insoddisfazione strutturale. Cosa ne fa? Un percorso di cura, attraverso costruzioni più o meno artificiose di godimenti sostitutivi, spostamenti del godimento dal suo luogo mancato alla stanza del terapeuta. Quel che in Vivere la pulsione. Saggio sulla soddisfazione in psicoanalisi (Orthotes, Napoli-Salerno 2022) lo psicoanalista lacaniano Franco Lolli intende disarticolare è proprio l’ovvietà del ragionamento che ho appena esposto, col quale attestiamo, implicitamente, cosa sia godimento, cosa sia pulsione e cosa voglia dire essere soddisfatti o insoddisfatti.
Per scrivere cosa ne sappia la psicoanalisi della pulsione, dovremmo prima sapere cos’è la pulsione, il che, metodologicamente, è inarrivabile: la psicoanalisi non cerca il ti estì ed è avversa tanto a una risposta che vada nella direzione dell’appiattimento ontologico di siffatta domanda quanto a una ricerca di cause che si presenti come ultima e fondante la disciplina. Pertanto, la prima domanda che dobbiamo lasciar cadere, nel leggere il saggio di Lolli, è proprio “cos’è la pulsione?”.
Se volessimo azzardare una risposta, diremmo “un indefinibile, un indecidibile”, annullando così retroattivamente la domanda. L’indefinibilità della pulsione non è un escamotage teoretico per sottrarsi a un’indagine scientifica degli eventi e della loro etiologia, ma anzi il preciso esito di tale indagine. Esito che attesta un Reale restìo da secoli a una generalizzazione definitoria possibile. Si tratta di un Reale filogenetico, trans-storico, che affonda nelle strutture comuni del sentire e al contempo le travalica e le precede, provocando atteggiamenti pulsionali non sussumibili e di cui il soggetto non sa niente, può solo limitarsi a constatarne la ripetizione e l’assurdità: una convinta femminista gode solo immaginando di essere stuprata da una camionata di nazisti, una donna colta è incredula perché attratta solo da uomini rozzi e grossolani, un’altra ha atteggiamenti di maternage e dolcezza nei rapporti, mentre per venire deve immaginare di possedere una donna «come farebbe un uomo» e sbatterla contro il muro (cfr. pp. 19-20).
In un’affascinante ricognizione di frammenti clinici, Lolli mostra come la pulsione faccia il paio con nient’altro che la singolarità, da cui «l’impossibilità di pensare […] la sua precisione» (cfr. p. 59). È possibile un’ontologia che renda conto dell’evento singolare della clinica? E ancora, possiamo permetterci di ontologizzare uno dei quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (inconscio, ripetizione, transfert, pulsione) senza conseguenze? Col dire che la pulsione è un concetto che resiste all’appiattimento o riduzione ontologica, non intendiamo, ovviamente, che essa eluda il corpo o che in qualche modo non parta da esso: è ricorsivo e presente carsicamente come sfondo, nella produzione di Lolli, l’interesse per il corpo come “inizio” – dalla prima esperienza come psicoterapeuta in un istituto di riabilitazione per soggetti con disabilità motorie e psichiche a opere quali Prima di essere io e L' ingorgo del corpo – inizio che è al contempo uno slittamento: dal fisiologico al pulsionale, da cui si traccia la loro co-implicazione.
Nel lambire, con difficoltà e incertezza, qualcosa di simile a un significato di pulsione, consci del punto di impossibilità che essa rappresenta in virtù delle ragioni esposte, potremmo accostarla a un concetto di natura trascendentale che si dispiega al crinale tra il somatico e lo psichico, permettendo un richiamo incessante dell’uno nell’altro. Ben diversamente da un “debordare”, la pulsione è garante di una forma di omeostasi e equilibrio, un punto tanto impreciso quanto necessario che non sacrifica alcuna polarità, e che anzi le ricomprende in un’economia soggettiva più ampia. Soddisfare il corpo, sembra dirci Lolli, implica anche una certa postura epistemologica e simbolica dello stesso; in tal senso l’oggetto non è mai senza concetto – e senza fantasma – e viceversa il concetto si modula su un corpo pulsionale che è dotato del suo realistico correlato oggettivo e neurofisiologico.
Pertanto, il saggio di Lolli ha il pregio di una radicale lucidità, con implicazioni dirette su un neo-lacanismo che, in sede sia teoretica che clinica, alle volte, sacrifica un registro per preferirne un altro, o si appiattisce su una polarità rinunciando all’altra: la pulsione così come letta da Lolli è tratto dirimente per ripensare tout court il rapporto tra Reale e Simbolico. Lasciare indietro il coté simbolico e epistemologico del sintomo può avere effetti nella direzione della cura dei sintomi contemporanei e, più decisamente, nell’intendere il desiderio, tema cruciale in psicoanalisi lacaniana: il movimento che il saggio sembra compiere consiste in un emergere progressivo del desiderio, in un delinearsi della pulsione anche come desiderio, dunque come struttura di domanda simbolica, lettura affatto scontata qualora la pulsione sia “incollata” al godimento reale.
Articolando le parentele della pulsione con l’oggetto a – che non è mai oggetto ontologicamente inteso, ma investito e impregnato dalla fenomenologia del fantasma –, poi con il desiderio e con il fantasma, Lolli può instaurare un movimento che vada dalla pulsione al desiderio, e ritorno: ritorno alla pulsione non prima di esser passati dal Simbolico. Se, su un versante, il nucleo di originaria e perduta indistinguibilità di desiderio e godimento si riverbera in un desiderio che mantiene del godimento il carattere antidialettico di bisogno, refrattario all’alterità dialogante e domandante, insomma una «condizione assoluta» (p. 159), per un altro verso, nonostante il proprio voler fare a meno dell’altro, se ne implora il diventarne oggetto, si supplica un riconoscimento della propria domanda muta. Piuttosto che allarmarsi per contraddizioni insolute, che sono all’ordine del giorno in psicoanalisi, conviene dunque compiere un movimento, che è la cifra stilistica e teoretica del saggio: un’“oscillazione” che ha la stessa preziosa scansione dell’andirivieni nevrotico, un percorso ondulatorio di indifferenza e dipendenza con cui ci si difende e si tenta di maneggiare «l’enigma del desiderio dell’altro» (p. 159).
Lolli rivitalizza la pulsione con una mancanza, la reinserisce nel circuito del desiderio, e in esso la incornicia: quest’operazione permette di aprire spiragli decisivi di soggettivazione in seno alla prigionia dell’immanenza piatta e stagnante del solo godimento. In un saggio della sua Metapsicologia del 1915, Pulsioni e i loro destini, Freud suggerisce una destinalità quasi senza scampo sancita dalla pulsione che ci agisce. Questo tratto ritorna nei casi clinici di Lolli i quali, più che ripetere, sono ripetuti da una passività che li esercita: Mario è schiacciato dal peso di un «vizio inconfessabile», si autoattribuisce una perversione, consistente proprio nel piacere di farsi schiacciare, come una farfalla sotto stivali di gomma (cfr. pp. 182-184). Se Mario non lo vuole e lo rigetta, cosa ha tracciato per lui il destino di doversi eccitare così e non altrimenti? Ripenso all’avvertenza editoriale dell’edizione italiana del sovracitato saggio freudiano, dove la traduzione interpretativa di Schicksale con destini, piuttosto che con vicissitudini, è giustificata dal fatto che le traversie della pulsione sono per lo più «soluzioni specifiche a cui le pulsioni sono necessariamente costrette» (S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi e altri scritti 1915-1917, p. 6).
Tuttavia nell’evoluzione della spinta pulsionale, che è costitutivamente non lineare, bisogna tener conto di un embricarsi reciproco di forme attivo-passive che aprono uno spazio di smarcamento dalla necessità destinale: la complessità della pulsione è dovuta alla plasticità libidica, in quanto sovrapposizione e coesistenza di forme attive e passive, fasi che «si comportano le une rispetto alle altre all’incirca come successive eruzioni di lava» (p. 26). Sembrava dirci Freud che c’è un’imponderabile attività nella passività: trasponendolo in Lolli, serve forse percorrere quel che di desiderio vi è nella pulsione. Lo psicoanalista riprende questo luogo di respiro della pulsione, innestandovi il «bemolle della perdita […] che si sovrascrive al diesis del recupero di godimento» (p. 69). Molto si gioca in questo spazio: la variazione, il guadagno soggettivo, gli atti di scrittura di una memoria inconscia.
Lolli si è cimentato in un progetto audace e a tutti gli effetti riuscito: ri-problematizzare pressoché tutti i concetti chiave della psicoanalisi, senza cadere in ortodossie di Scuola, allontanandosi dalla ripetizione pedissequa dell’idioletto lacaniano, per aderire a una direzione teorica che è il riflesso della clinica. Nell’uscita dal piuttosto abusato binarismo desiderio/godimento, un pensiero della pulsione si configura come atto di shifting tra i due suddetti, fino al punto da non riconoscere cosa, di desiderio, vi sia nella pulsione, e cosa invece di godimento. Ammetto che alla vista del titolo ho temuto che Vivere la pulsione. Saggio sulla soddisfazione in psicoanalisi fosse l’ennesimo saggio di psicoanalisi su una possibilità più o meno raggiungibile di accedere al godimento: che l’insistenza sul “vivere” e sulla “soddisfazione” richiamassero una nota dimensione acefala di pulsione che, appunto, non si pensa ma si vive. Vivere, soddisfarsi, godere sono significanti collocabili in un’area semantica che taglia la mancanza del manque-à-être inteso come prototipo del soggetto lacaniano. Ho temuto dunque un invito a far coincidere, come in certo senso parte della lezione lacaniana vorrebbe, il fantasma (di fine analisi) con la pulsione, e dunque una progressiva sparizione dei tratti del desiderio, del simbolico, della mancanza, e del fantasma – quest’ultimo nel suo ruolo di velo e di struttura narrativa piuttosto che di affaccio dirompente sul Reale – fino al delinearsi di un Reale fuori-legge, talmente fuori che persino il soggetto ne è escluso, un impersonale di nessuno, che in certo neo-lacanismo teoretico la fa da padrone. Il movimento presunto che si assocerebbe a pulsione e soddisfazione non è invece inscrivibile in una teleologia naturale “verso il Reale” bensì è avvolto e complicato in se stesso: il “verso” la pulsione è già ritorto sul desiderio, e la mancanza desiderante in quanto inerente a un corpo che gode è già più di quanto manchi. La pulsione è quasi raffigurabile come un Giano bifronte che guarda indietro-avanti al desiderio-godimento, e ne media la conversione reciproca e l’inestricabilità.
Rispetto al movimento da me immaginato, a giudicare da certo stato dell’arte del neo-lacanismo, movimento che si sarebbe servito della pulsione come operatore di de-soggettivazione progressiva, ritrovo invece un ritmo scandito da complicazioni teoretiche che conducono direttamente alla messa a tema del soggetto in psicoanalisi: gli oggetti a – oggetti fantasmatici che fungono da resto e obliterazione di un godimento originario istituitosi già come perduto – sono molti per ciascun soggetto, dunque deve esservi soggetto a percepire molteplicità e differenza fra gli oggetti; la pulsione, in quanto, «tesoro dei significanti» sorprendentemente circola nel simbolico più di quanto saremmo portati a credere, sganciandosi così da un certo vitalismo biologicistico (cfr. p. 113) e da un riduzionismo di scariche meccaniche e spurganti, facendosi veicolo di un’elaborazione rappresentativa che si correla al fantasma e non prescinde dalla sua cornice, ricomprendendo così il sessuale come anche, necessariamente, immaginario e simbolico.
Se il saggio di Lolli dovesse essere rappresentato graficamente, sarebbe un nodo borromeo a quattro, in cui i tre registri lacaniani – Reale, Simbolico e Immaginario – procedono contestualmente e si istituiscono, di volta in volta, in maniera relazionale, di modo che alcun registro sia fagocitato (sorte che è spettata al Simbolico nel cosiddetto ultimo Lacan) o lasciato indietro: la pulsione è vettore di circolazione significante nel Reale, funzione operativo-trascendentale istitutrice di nessi tra la materialità dell’antefatto libidico e la complessità sintattica della traccia mnestica. Un paradosso dagli effetti di equilibrio sistemico: la pulsione si significantizza nella formulazione della domanda, ammettendo qualcosa del Reale alla trasmissione, eppure ha una natura di “bisogno” che in modo lavico smobilita dal basso il significante, e lo fa eruttare frammentandolo con un più-di irricomprensibile nella struttura. Mediante la precisa illustrazione teorica e clinica di tale meccanismo, a sua volta garante di una struttura, Lolli mostra la via emancipatoria di una ripetizione biologica che solo in virtù della sua natura trascendentale ci salva dalla fissazione d’oggetto. La pulsione, in quanto predelineata secondo una strutturalità intima dotata di leggi proprie, traina una liberazione: che la domanda possa procedere senza oggetto. Ciò in cui Lolli si allontana con decisione da una “psicoanalisi dell’impersonale” è precisamente la dimostrazione di questo meccanismo. Solo passando dal desiderio si rilancia la posta in gioco della soggettività, e la pulsione, ritornando alla propria natura di domanda simbolica, produce un effetto-soggetto.
Non è certo facile restituire la complessità e la densità del volume di Maurice Merleau-Ponty, Il mondo sensibile e il mondo dell’espressione(Mimesis 2021), recentemente tradotto e curato per il pubblico italiano da Anna Caterina Dalmasso, senza dubbio una delle studiose più autorevoli del pensiero del filosofo francese (suo l’importante saggio di Introduzione, pp. 17-52). Non è facile innanzitutto per la stessa natura di questo (non) libro, che raccoglie il materiale del filosofo prodotto in vista del suo primo corso al Collège de France dell’a.a. 1952-53. Il volume contiene tanto l’effettivo materiale utilizzato dal filosofo nelle sue esposizioni orali, quanto appunti che ne ampliano e approfondiscono l’orizzonte teoretico.
L’opportunità per il pubblico italiano di studiare e apprezzare il pensiero di Merleau-Ponty svolto al Collège si amplia così, dopo la traduzione di altri corsi avvenuta a cavallo tra la fine del secolo scorso e l’inizio del millennio: La nature (Seuil, 1995, tr. it. Cortina, 1996) e Notes de Cours 1959-1961 (Gallimard, 1996; tr. it. Cortina, 2003). Quello che qui discuteremo è stato pubblicato nel 2011 dall’editore svizzero MētisPresses[1] sotto la direzione scientifica di E. de Saint Aubert e di S. Kristensen e la traduzione italiana permette di accedere a un materiale teorico molto fecondo, sia per chi si occupa direttamente di Merleau-Ponty sia per chi sia interessato al pensiero francese del Novecento. In queste quattordici lezioni, infatti, si anticipano o si sviluppano in modi originali piste che attraversano, carsicamente a volte, altre in superficie, una tradizione di pensiero gravida ancora oggi di ampi sviluppi teorici.Lungi dall’essere una pubblicazione per soli addetti ai lavori, questo volume può essere di grande aiuto a chi volesse comprendere meglio alcuni intrecci - sia detto solo a titolo di esempio non esaustivo — tra Gestaltpsychologie e filosofia dell’esistenza, tra bergsonismo e fenomenologia, nonché — come segnala la Prefazione di Mauro Carbone (pp. 9-16) foriera di stimolanti riflessioni sull’arte e l’estetica. Insomma, pur non essendo di facile accesso — e tuttavia l’ottimo lavoro di Dalmasso aiuta chi non fosse specialista — il volume non potrà che trovare interesse in molti ambiti degli studi filosofici contemporanei.
Qui ci proponiamo di tracciare una possibile via d’accesso in questo universo filosofico ancora da esplorare anche da parte di chi, da molti anni, vi si dedica con studio attento. Come ogni pista d’accesso, non ne impedisce di altre e non può essere pienamente esaustiva della ricchezza contenuta nelle quasi trecento pagine del volume. Tuttavia, può essere utile a meglio orientarvisi. Come segnala la curatrice, il volume ha il merito di offrire «un punto di vista privilegiato» (p. 17) sul back-office della produzione di Merleau-Ponty, un vero e proprio laboratorio artigianale di concetti situato al fondo del lavoro pubblicato in vita dall’autore.
A differenza degli altri corsi già tradotti per il lettore italiano, la peculiarità de Il mondo sensibile e il mondo dell’espressione consiste nel fatto che esso ci mostra un Merleau-Ponty sul punto di farsi, che non è più quello della Fenomenologia della percezione e non è ancora quello de Le avventure della dialettica, un Merleau-Ponty per così dire “intermedio”, in divenire (Lanfredini 2011): «Le note del corso del ’53 — continua Dalmasso — offrono un insieme di argomentazioni e di fonti in grado di gettare luce su alcuni punti più oscuri o anelli mancanti della riflessione merleau-pontiana successiva» (p. 18). Insomma, il corpus magmatico di questo volume permette, a chi voglia avventurarvisi, di «cogliere “un filosofo al lavoro” e di “accompagnare Merleau-Ponty” nel farsi del suo lavoro» (p. 20). Una vera e propria avventura filosofica che permette al lettore di oggi di risemantizzare molte antinomie che nel nostro presente appaiono ovvi se non addirittura vetusti. Del resto, non siamo noi oggi figli di quella temperie culturale che genericamente potremmo definire post-moderna e che ha fatto della lotta al manicheismo dualistico la sua pars destruens ? È un pensiero non dualistico, senza per questo, vedremo, rinunciare alla duplicità, quello che l’autore — che ovviamente di post-moderno non sapeva nulla — prova a mettere in forma, e che noi abbiamo occasione di studiare proprio nell’atto del suo generarsi.
Mondo sensibile e mondo dell’espressione definiscono un’antinomia che trova le proprie radici, a voler estremizzare, quanto meno nella distinzione platonica tra mondo ideale e mondo sensibile. Se si volessero fissare delle tappe a noi più vicine — come sempre troppo semplicistiche, ma utili a orientarsi — sensibile ed espressione rimandando alle distinzioni moderne di Descartes (quella tra materiaestesa e pensiero inesteso) e di Kant (mondo sensibile della natura e mondo intelligibile dei valori) generalizzabile nella distinzione del pensiero antropologico tra natura e cultura (Lévi-Strauss 1969 pp. 39-52; Descola 2005). Già dunque nel tema stesso delle lezioni contenute in questo volume si comprende lo sforzo teorico che le sottende, un lavoro filosofico e fenomenologico che chiama in causa le principali architravi del nostro sensus communis moderno.
Potrebbe essere utile contestualizzare brevemente queste note di corso (si rimanda all’introduzionedella curatrice per i dettagli). L’anno accademico, come detto, è il 1952-53 ed è l’esordio di Merleau-Ponty al Collège de France, dopo che ha già tenuto il suo Elogio della filosofia nella lezione inaugurale (Merleau-Ponty, 2008) e mentre sta aprendo il cammino che lo consacra ai livelli più alti della cultura e della filosofia francese e forse mondiale. Non sono anni facili, gli anni Cinquanta, sia a livello storico (sono gli anni della guerra fredda, delle prime notizie in occidente del regime staliniano, della guerra di Corea, ecc.) sia a livello personale (Merleau-Ponty ha in cantiere La prosa del mondo che resterà incompiuto, sta rivedendo le sue posizioni rispetto all’URSS espresse in Umanismo e terrore del 1948, ma, soprattutto, sta per rompere il grande sodalizio filosofico e affettivo con J.-P. Sartre). Sul piano scientifico ha qualche sassolino nelle scarpe dopo la conferenza del 1946 presso la Société de philosophie dal titolo Il primato della percezione e le sue conseguenze filosofiche (Merleau-Ponty2004) nella quale presentava davanti a un pubblico composto dalle migliori menti filosofiche del tempo i risultati conseguiti con Fenomenologia della percezione. Amici e colleghi (Hyppolite, Bréhier, Lachièze-Rey per citarne alcuni) accolgono in maniera polemica e critica la tesi di fondo di quel libro accusandolo in alcuni casi di sensismo e positivismo. La sensazione di non essere stato compreso si radica nel filosofo e sette anni dopo è proprio da quella discussione che, con certosina attenzione, riparte (p. 61). Il primato della percezione diventa un punto di partenza ottimale per penetrare nel fitto bosco del sensibile e dell’espressione.
Sin dalla prima lezione, quasi un brevissimo compendio di Fenomenologia della percezione, emerge il tema cruciale con un gusto programmatico. Si tratta, cioè, di pensare l’unità del mondo percepito tale che questa unione non sia la “sintesi determinante”, la sintesi intellettuale, cioè, di una molteplicità sensoriale di stimoli empirici. L’unità cercata nella sua opera principale (ma anche in La struttura del comportamento del 1942) non era una sintesi del giudizio, ma di ordine “percettivo”. Si può dunque capire come qui emergano molte ambiguità che il filosofo dovrà in qualche modo dipanare.
Primato della percezione non significa postulare l’esistenza delle cose fuori di me o la corrispondenza oggettiva di mondo e conoscenza né di opporre a una filosofia intellettualista un empirismo sensista à la Hume, bensì di «fare una teoria concreta dello spirito» (p. 59). Il primato della percezione non postula «un primato del sensoriale, del dato naturale» (p. 60), ma è ricerca di un piano originario che non sia né empirico né trascendentale in cui il sensibile e l’espressione possano divenire indiscernibili: è lo statuto stesso della fenomenologia a modificarsi con questo primato. Fenomenologia della percezione non sta ad indicare solo che è possibile trattare la percezione come “noema”, ma che nel farlo si segue il divenire della percezione nel suo stesso attuarsi, ossia che la percezione indica un piano ontologico intermedio tra l’essere oggettivo e l’essere soggettivo. Si può trattare fenomenologicamente la percezione solo se essa non è né l’oggetto di un sapere né il soggetto della sensazione. È questo né né a non essere stato compreso alla Société nel ’46 (pp. 61-62). Il punto è che la percezione non rimanda solo al mondo del sensibile, ma implica anche un carattere espressivo: «Intenderemo qui per espressione o espressività la proprietà che ha un fenomeno, per la sua organizzazione interna, di farne conoscere un altro che non è dato o che non è mai stato dato. […] È in questo […] senso che la percezione è espressione, espressione del mondo» (pp. 62-63).
Fare una fenomenologia della percezione è studiare il farsi del mondo, una fenomenologia che acquista sempre più caratteristiche “hegeliane” (Vuillerod, 2018) risemantizzando il concetto di coscienza. Se c’è percezione, infatti, non è detto che vi sia necessariamente soggetto (nel senso del Cogito trascendentale che accompagna ogni io empirico), ma vi è senz’altro coscienza, che non è il pieno possesso di sé che la tradizione cartesiana e kantiana ci ha consegnato. La coscienza percettiva non è esterna alle cose, si situa tra di esse, ma non è cosa estesa tra cose estese: essa si fa negli scarti, nelle differenze (cromatiche, uditive, sensibili…) tra le cose, è trans-individuale (Ruyer 2018; Simondon 2011), passività creativa (Ménasé 2003). A differenza di quella trascendentale, essa «non ha a che fare con valori […], ma con esseri esistenti» (p. 64). Potremmo dire, cioè, che attraverso il primato della percezione Merleau-Ponty intraveda la possibilità di emancipare la coscienza percettiva dalla sovranità dell’intelletto dell’estetica trascendentale e di riscoprire nella materialità il suo proprio valore/valere.
L’espressività della percezione — il suo “primato” — è dunque ontogenetico, essa non è la facoltà inferiore della coscienza — come all’origine dell’estetica riteneva, ad esempio, A.G. Baumgarten (1993: 41) — ma la sua espressione “sensibile”, è «configurazione, struttura» (p. 65). Ecco un secondo termine fondamentale nel lessico merleau-pontiano che richiama il suo primo grande libro, La struttura del comportamento. Il primato della percezione implica una materialità della coscienza percettiva da intendersi come processo di strutturazione. Se la percezione non è (solo) la passività di un soggetto empirico, ma l’attività — quantunque “passiva” — di una coscienza “materiale”, allora essa è a tutti gli effetti concepibile nei termini di un comportamento (nel senso, ad esempio, in cui quantisticamente una particella ha un comportamento), un’attività vincolata ad un mondo-ambiente. L’espressione percettiva non è un atto puro, ma una prassi “situata” in uno “sfondo” di passività. Il richiamo è qui alla Gestaltpsychologie, che Merleau-Ponty aveva studiato attentamente nel libro del 1942 (e che nel corso affronta tra la settima e la nona lezione). Ogni coscienza percettiva è una figura (Gestalt) che emerge da uno sfondo e «vi è sempre qualcosa di inarticolato e di sottinteso in ciò di cui vi è coscienza» (p. 67). Lungi dall’essere un’astratta sensazione senza soggetto, l’espressione sensibile è un processo di figurazione (Gestaltung) e la coscienza percettiva è una figura o forma materiale. La coscienza percettiva non è un cogito ma un corpo, non un’anima che emerge e s’innalza dalla materia, ma l’individuazione, l’attività immanente, la configurazione sensibile e materiale di un corpo. Il primato della percezione è il primato del corpo sull’anima, non nel senso “empiristico-naturalistico” di un primato dell’esteso sull’inesteso, ma di una indiscernibilità tra il mondo sensibile della corporeità e la sua espressione animale.
Allora fenomenologia diviene sinonimo di strutturazione ontologica — «non vi è differenza tra ontologia e fenomenologia» (p. 61) — e il primato della percezione conduce a una ontologia dinamica e processuale (Vanzago, 2001). Il mondo dell’espressione non è riducibile a un mondo formale, ha una sua materialità; il sensibile non è inerte o passivo. C’è espressività sensibile tanto quanto vi è sensibilità “spirituale”. Né inerte né formale: l’espressività del sensibile è movimento e la fenomenologia della percezione è manifestazione non richiudibile negli steccati formali dell’estetica trascendentale, poiché non vi è più un primato del formale estetico (dello spazio e del tempo formali). Si avvia qui quello che con Husserl (1991) potremmo chiamare rovesciamento della rivoluzione copernicana: è il movimento a determinare le forme del tempo e dello spazio, non il contrario. Anzi: spazio e tempo non sono più forme, ma figure (Gestalten). Il movimento (si veda in particolare la sesta lezione) è il fenomeno espressivo per eccellenza, tutt’altro dunque che l’esito di una rappresentazione soggettiva. Come la percezione, esso non è l’oggetto di un sapere né l’attributo di un cogito (p. 99), ma è qualcosa che può essere solo sentito, in cui si manifesta il movente. Non è neppure un mero accidente che capita a un oggetto empirico, non è, cioè, la variazione di luogo nel tempo di una “cosa” (Sache), ma il fenomeno per il quale “qualcosa” (Ding) si esprime, emerge spazialmente e temporalmente (geograficamente e storicamente) in quanto figura su sfondo.
Il movimento espressivo è l’installazione sensibile di una coscienza percettiva nel cuore dello spazio e del tempo, il suo modo di abitare lo spazio e il tempo (p. 103), i quali non sono relazioni formali né empiriche, bensì modali. C’è movimento, ovvero qualche cosa appare, c’è della percezione, c’è del comportamento, c’è della coscienza, c’è figurazione: espressione di un’immagine materiale. Il movimento espressivo (siamo alla quarta lezione del corso) è «spirito che si fa corpo e corpo che si fa spirito […] una logica del funzionamento percettivo» (p. 105). Rovesciamento della fenomenologia hegeliana: fenomenologia e logica della percezione; il corpo è lo spirito, il mondo sensibile esprime il mondo spirituale; l’unione non è sintesi assoluta, ma l’affinità trascendentale (p. 107) dello spirito col sensibile in sopravanzamento (overlapping) l’uno sull’altro, «sintesi di enjambement» (p. 109).
Il movimento espressivo è la sintesi senza concetto di spazio e tempo. La mente va a Bergson che più di chiunque altro nel Novecento si è sforzato di pensare il soggetto implicato nel movimento (pp. 119-125). Dopo aver esposto, all’inizio della sesta lezione, gli «argomenti di Zenone» (p. 118) sull’impossibilità ontologica del movimento, Merleau-Ponty vi si richiama: «Per lui quello che rende impossibile il movimento nel pensiero di Zenone è la divisione infinita e attuale del tempo e dello spazio, […] per rendere possibile il movimento occorre che il tempo e lo spazio siano divisibili, ma non divisi, che, posti a partire dal tutto, ammettano uno spazio “tra” le posizioni e gli istanti, cosa che non è possibile nell’in sé. È quindi necessario che il movimento , che è fatto del mondo, sconfini su di me come durata, sia anche fatto di coscienza» (p. 119). Tuttavia, Bergson nel cercare un tout indivisé del movimento è ancora troppo intellettualista, «resta coscienziale» (p. 121). Occorre essere, si legge tra le righe delle note di lavoro, più bergsoniani di Bergson, il quale «trionfa su Zenone mostrando che il tempo non è fatto di istanti né lo spazio di limiti di spazio, ed è vero. Ma resta da esplicitare la conseguenza […] crede che il problema sia concluso» (p. 239). Diventa necessaria «una teoria del corpo percipiente» (p. 240), un paradigma del corpo (Iofrida 2019) che troviamo tra l’undicesima e la tredicesima lezione (nel cuore, dunque, del corso): il movimento è sì un dato immediato della coscienza, ma di una coscienza percettiva, una coscienza-immagine che sia la sintesi esistenziale (materiale) della durata, la quale viene così reinterpretata come espressione sensibile, immagine-spaziotempo, figurazione espressiva.
La durata bergsoniana è “astratta” e manca, agli occhi di Merleau-Ponty, la “e”tra sensibilità ed espressività, una unità (dodicesima lezione) non teoretica, ma pratica, «unità dello schema corporeo […] unità di un’azione sul mondo, di una prassi» (p. 187), non nel senso di un pragmatismo utilitaristico (che per Merleau-Ponty manterrebbe la sussunzione dell’azione sensibile a uno scopo sovrasensibile), ma come attività passiva di creazione di immagini, una prassi che «comporta una teoria [Theoria] o gnosis che ne è lo sfondo, che essa modifica e che a sua volta la modifica» (ibidem). La durataespressiva è unità di teoria e di prassi, una praktognosia che non è un pragmatismo — esiste una materialità dei valori — né un empirismo — c’è, come rileva Dalmasso, una intenzionalità del sensibile (pp. 46-52). La durata come congiunzione del mondo sensibile e del mondo dell’espressione, una unità che si può a buon diritto definire estetica (se con Kant intendiamo “estetica” l’unità senza concetto, pre-logica).
Non è un caso che i corsi del ’53 si chiudano (quattordicesima lezione) con delle considerazioni sull’Arte in generale, e sul cinema in particolare. Le considerazioni estetiche di Merleau-Ponty sul cinema meriterebbero ben altre analisi (si rimanda ai lavori di Carbone e di Dalmasso), qui ci limitiamo solo a trarre una brevissima conclusione. Il cinema è la “prova ontologica” del primato della percezione e del movimento espressivo. Esso è una ritmologia della durata dell’immagine, un contrappunto di punti di vista, di immagini che sopravanzano l’una sull’altra. Nell’arte cinematografica si realizza l’unità di sensibile ed espressione, il vinculum substantiale di una molteplicità di immagini sensibili senza sussunzione entro i decreti formali dell’intelletto trascendentale. Nel movimento cinematografico appare una vera e propria monadologia sensibile (p. 64) che si insinua nel mezzo dei due mondi, che sono “separabili” ma non separati e nelle cui pieghe emergono molteplici mondi intermedi. Come scrive Carbone, nel cinema «si celebra il venire ad espressione […] del mondo sensibile» (p. 16).
Questi mondi intermedi sono il legame tra mondo sensibile e mondo dell’espressione e costituiscono l’ambiente originario nel quale la nostra capacità creativa di corpi animali o anime materiali riesce a trovare spazio per esprimersi e manifestarsi attraverso un’inaspettata fenomenologia dello spirito-carne che solo un primato della percezione può rendere visibile. Già solo questa breve conclusione a cui perviene Merleau-Ponty nei corsi dedicati alla duplicità sensibile/espressione, forse, vale da sola lo studio attento di questo volume.
di Gianluca De Fazio
[1] L’editore continua ancora oggi il suo lavoro di pubblicazione dei corsi al Collège de France di Merleau-Ponty. Si segnala il numero monografico dedicato al Mondo sensibile e mondo dell’espressione della rivista Chiasmi International (n. s. 12-2010).
Bibliografia
Baumgartem, A.G. (1993), Progetto dell’estetica, in A.G. Baumgarten, I. Kant, Il battesimo dell’estetica, a cura di L. Amoroso, ETS, Pisa.
Descola, P. (2005), Par-delà nature et culture, Gallimard, Paris.
Husserl, E. (1991), Rovesciamento della dottrina copernicana della corrente visione del mondo, «Aut-Aut», 245, pp. 3-18.
Iofrida, M. (2019), Per un paradigma del corpo: una rifondazione filosofica dell’ecologia, Quodlibet, Macerata.
Lanfredini, R. (2011, a cura di), Divenire di Merleau-Ponty. Filosofia di un soggetto incarnato, Guerini, Milano.
Lévi-Strauss, C. (1969), La struttura elementare della parentela, a cura di A.M. Cirese, Feltrinelli, Milano.
Ménasé, S. (2003), Passivité et création. Merleau-Ponty et l’art moderne, PUF, Paris.
Merleau-Ponty, M. (2004), Il primato della percezione e le sue conseguenze filosofiche, a cura di R. Prezzo, F. Negri Medusa, Milano.
Merleau-Ponty, M. (2008), Elogio della filosofia, a cura di C. Sini, SE, Milano.
Ruyer, R. (2018), Neofinalismo, a cura di U. Ugazio, V. Cavedagna, G. Vissio, Mimesis, Milano-Udine.
Simondon, G. (2011), L’individuazione alla luce delle nozioni di forma e d’informazione, a cura di G. Carrozzini, Mimesis, Milano-Udine.
Vanzago, L. (2001), Modi del tempo: simultaneità, processualità e relazionalità tra Whitehead e Merleau-Ponty, Mimesis, Milano-Udine.
Come l’essere, anche l’amore si dice in molti modi. Diverse sono le grammatiche dell’amore, e diverse sono le fenomenologie dell’esperienza amorosa. Complicati sono pure i fili che annodano le grammatiche dell’amore, che permettono cioè di raccontare le storie d’amore, con le esperienze amorose, le quali, anche quando si dicono nella parola non pronunciata dell’estasi erotica o nel silenzio che accompagna il lutto dovuto alla perdita dell’oggetto amato, sono sempre tese verso il loro dirsi, verso una narrazione possibile. Purificare, o emendare, tali grammatiche non è impresa facile, ma, riconoscendo che in molte di esse si cela la presenza – a volte nemmeno tanto nascosta – del dominio maschile o patriarcale, è per lo meno auspicabile fornirne una decostruzione.
Like being, love is said in many ways. There are different grammars of love, and different phenomenologies of love experience. The threads that bind the grammars of love are also complex, and even when they are said in the unspoken words of erotic ecstasy or in the silence that accompanies the mourning due to the loss of the beloved object, they are always stretched towards their own saying, towards a possible narration. Purifying or amending these grammars is not an easy task, but recognising that many of them conceal the presence - sometimes not even so hidden - of male or patriarchal domination, it is at least desirable to provide a deconstruction.
«Usare un quintale di tritolo per far saltare un portaombrelli»
Quando si soffre, è difficile non lamentarsi. Di fronte al tribunale della ragione, quando finisce un amore, è arduo non compilare una confessione, facendo del proprio dolore la testimonianza del torto subito dall’altro. Ma nel fare di sé stessi un personaggio tragico, non si può sfuggire più alla propria narrazione, poiché prima di confessare, si giura sempre di dire tutta la verità. Questo libro non è una confessione e in esso non opera sotterraneamente alcuna teodicea.
A sentire Stefano Bonaga, l’amore è una virtù della forza (Sulla disperazione d’amore, Aliberti compagnia editoriale 2019, n. 28; d’ora in poi, tra parentesi, sarà indicato solo il numero dell’aforisma). Ed è proprio la forza che al disperato d’amore manca: quel che gli tocca, che è anche tutto quel che può fare, è cercare di dormire e così di dimenticare. Se la cura non funziona, almeno si otterrà una «amorevole perdita del sé» (84). Restituire la complessa sintomatologia che cataloga l’autore non pertiene a questa sede, anche perché si tratterebbe di spiegare ciò che nel testo viene raccontato, mancando a quel tono che, come si dirà più tardi, è fondamentale all’effetto del testo stesso. Per ora basterà considerare che, a parere di chi scrive, il trattato prende una posizione chiara sulla determinazione del desiderio del disperato: se è la forza che gli manca, è perché la sua disperazione è, spinozianamente, legata alla sua impotenza. La tragedia del disperato d’amore sta tutta in questo annichilimento, che è un assoggettamento dell’oggetto, ma anche e soprattutto del soggetto, in una fossa che rasenta il «nulla della potenza» (83). A esser onesti, però, il disperato può ancora agire, ma solo in maniera coatta (118), e questo fa di lui una macchina che scava nella carne, che produce concatenamenti e che funziona a un regime metaforico (21). A monte, l’autore parte da una considerazione produttiva del desiderio, piuttosto che costruire il suo ragionamento su un desiderio-assenza. La definizione della disperazione risente, di rimando, della stessa matrice filosofica, anche se, nella disperazione, l’unica concatenazione che rimane possibile è quella che opera attraverso una progressiva sottrazione del sé a sé stessi, che ha come scopo quello di lasciare indietro solo la carne, a torturarsi (14). Necessariamente, allora, la ragione si rivela più come un accidente che come una facoltà, la cui potenza è determinata dal caso (71).
La disperazione d’amore, inoltre, come omogeneo effetto di questo posizionamento, guadagna in crudeltà, poiché non si tratterà più di una sofferenza psicologizzata: l’unico suffisso di “psico-” che interessa al disperato è “-pompo” (77). Piuttosto si patisce un dolore del corpo, che impedisce qualsiasi azione, poiché a essere inibita è la potenza. Di più, la doppia articolazione che lega il disperato a chi ama, sta tutta nella costatazione che, sebbene il legame con l’amato sia reciso, non è finito l’effetto fantasmatico della sua presenza. È una legge di proporzionalità inversa quella che lega la forza dell’amato a quella del disperato (38) e più l’altro sembra felice, più il disperato perde la capacità di farci qualcosa.
Sì, però prima o poi la disperazione d’amore finisce, ed è ragionevole immaginare che così accada. Che sia la ragione a legittimare l’immaginario (35) non diminuisce però la sofferenza, poiché l’attesa è vissuta come stagnazione, nell’ordine temporale dell’aion, dell’astrazione cui non si dà rimedio se non eventuale. Di più, anche le parole del suo vocabolario stanno nello stesso tempo astratto, “nulla, essere, sempre, mai” (23). Chiaramente esse soffocano solo chi le pronuncia. Come effetto, inoltre, dell’impotenza di agire ora, il disperato si strugge nel suo desiderio declinato al «congiuntivo passato» (81). E se il tempo del disperato d’amore è astratto, il suo spazio gli è indifferente: risponde così con euforia o depressione motoria, ma in entrambi i casi la «pace logistica» (36) è negata, poiché il disperato è, in fin dei conti, «homeless» (56).
Se però è vero che si può scrivere solo di ciò che non si vuole più nel cuore (18), la scrittura è amica del disperato d’amore. Ed è lo stile particolare che utilizza l’autore che ci piacerebbe qui tematizzare, dato che è proprio questo che permette un certo effetto terapeutico sul lettore. Sebbene infatti l’autore consigli ai disperati di stare alla larga dai poeti, e anzi ci indichi di frequentare le farmacie piuttosto che le biblioteche (73), questo è un libro per i disperati d’amore, scritto da un disperato d’amore. E come si diceva, è facile scadere nel tragico. Ma il tono che regge il trattatello è piuttosto tragicomico, a ben rappresentare la situazione del disperato: paradossale figura per cui è comico considerare la sua una tragedia, rispetto a quella del mondo, ma tragico pensarla comica rispetto al suo sentire (13). La forma del trattato, poi, mimica lo stile di una scienza esatta, di una accumulazione fenomenologica dei sintomi del malato. E, avendo la presunzione di credere che l’autore abbia patito di prima mano di quel che scrive, forse proprio per quell’Alba Parietti con cui si ricorda sempre la relazione, il tono che tende all’oggettivazione prende un gusto differente. Il testo sarà così anche un po’ autoironico, e l’autore addirittura si muove per questo una accusa di mediocrità (102). Al contrario, però, il trattatello suona piuttosto come una esternalizzazione, procedimento deleuzo-guattariano che strappa i sentimenti dalle profonde interiora di un “soggetto”, proiettandoli in un campo di pura esteriorità, facendone così degli affetti(Gilles Deleuze, Félix Guattari, Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, Cooper&Castelvecchi, 2003, p. 500).
A ciò sembra seguire un’altra operazione essenziale perché emerga questo stile così crudelmente divertente, ovvero una oggettivazione dell’esperienza secondo una logica tutta distorta dalla materia che organizza. Come ci ricorda Enzo Melandri, ogni oggettivazione presuppone una irrazionalizzazione uguale e però contraria, cioè di segno opposto: una soggettivazione (La linea e il circolo, Il Mulino, 1968, p. 772). Si capisce perché il disperato abbia bisogno di questo procedimento per espiare il proprio dolore, cioè la propria affezione triste, che lo lascia privo di forza, ha bisogno di oggettivare la propria impossibilità di agire, in modo da permettersi una azione. Che poi le parole di un disperato vengano pubblicate sarà anche osceno, ma sta nell’ordine delle cose umane (19).
Sia chiaro, d’altro canto, che non si trova nel testo di Bonaga alcuna epistemologia “masochista”, se per quest’ultima intendiamo l’attribuzione alla disperazione di un ruolo conoscitivo o di testimonianza, in breve, di un significato. Il dolore non serve, qui come in Pavese, a niente (Il mestiere di vivere, Einaudi, 1973, p. 59). Chi non ci crede, «si merita un boia e un piccolo patibolo, senza tanto clamore, in una esecuzione minore, modesta e sottotono» (50). Nemmeno il “giusto” fa parte di questo «vocabolario della sofferenza» (27), nessuna teodicea, come si diceva, serpeggia tra le parole a far la morale al disperato. Non solo il lettore, così, non si troverà davanti ad un giudice del proprio dolore dal quale difendersi, ma si vedrà piuttosto in uno specchio distorto nel quale non può riconoscersi, seppure vi distingua le proprie forme. Si sopravvive allora, come disperati, un po’ storditi a questa lettura, poiché ridendo di sé stessi, abituati ad essere divisi da sé, ci si trova a ridere della propria disgrazia, invece che continuare a disperarsi. Spaesati dall’immagine che questo specchio ci rimanda indietro, qualcosa accade. Proprio allora si capisce perché «una risata comica seppellirà i disperati d’amore» (94).
Era sera ed ero in coda da qualche parte. Poi, a un tratto, ho letto:
È il 15 dicembre 2022, ed è morta bell hooks.
Non immaginavo che la scomparsa di un’autrice, incontrata soltanto un anno prima, potesse lasciarmi addosso una sensazione analoga a quella che avevo già provato nel perdere dei punti di riferimento.
Mi sono allora chiesta perché e in che modo, senza accorgermene, avesse assunto un simile ruolo; per cui ho deciso di provare in parte a mettere nero su bianco ciò che bell hooks mi ha trasmesso.
Il femminismo è per tutti – scriveva nel 2015 all’interno dell’omonimo libretto che ho scelto di attraversare, tradotto in italiano da Maria Nadotti e pubblicato da Tamu Edizioni nel 2021 – evitando di nascondere il proprio io dietro a terze persone tanto impersonali quanto inesistenti, dietro a giri di parole tanto impeccabili quanto incomprensibili. Non è infatti – il femminismo – un mero stile di vita: non è possibile approcciarsi ad esso senza esporsi personalmente, dal momento che riguarda innanzitutto la capacità di fare i conti con il sessismo che ognuno trascina dentro di sé.
Del resto, «per capire il femminismo è necessario capire il sessismo» (p. 31), nelle cui insidie cadono tanto gli uomini quanto le donne: questo è il presupposto da cui parte bell hooks nel dire che, appunto, il femminismo dev’essere per tutti: deve assumersi la missione di includere. Il sessismo diventa allora l’elemento che le consente – nel primo capitolo – di stendere innanzitutto un itinerario degli sviluppi storici del movimento femminista e, poi, di distinguere tra femminismo riformista e rivoluzionario. Il primo (quello con maggiore risonanza mediatica), ponendosi come obiettivo principale il raggiungimento della parità di genere e della mobilità sociale, considera l’impegno verso la lotta al sessismo un elemento quasi accessorio; mentre il secondo, ponendosi come scopo la trasformazione radicale del sistema patriarcale (e quindi non la sua semplice modifica), vede nella lotta al sessismo una delle sue principali missioni.
Mettere fine all’oppressione sessista è infatti ciò a cui ci richiama con ostinazione la rivoluzionaria bell hooks. È possibile indirizzarsi verso questa meta attraverso numerose vie e quella teorica è sicuramente un buon punto di partenza. Del resto, come bell hooks, in tanti siamo approdati alla lotta femminista all’università, entrando in contatto soprattutto con la teoria femminista più che con la sua pratica; tuttavia, a differenza sua, molti di noi si sono fermati e continuano a fermarsi semplicemente alla teoria. Purtroppo, però, solo con questa non si può riuscire nell’impresa di mettere fine all’oppressione sessista: a un certo punto, occorre chiudersi alle spalle la porta del proprio studiolo comodo e confortante per calarsi nel mondo – correndo il rischio di sporcarsi –, incontrando la voce, i gesti, la carne e gli abissi degli altri.
A questo proposto, nelle sue opere, la femminista afroamericana evoca spesso la potenza liberatoria che hanno avuto, durante il secolo scorso, i gruppi di autocoscienza. Ce li descrive come veri e propri siti di conversione, in cui donne tra loro molto diverse per età ed estrazione sociale riuscivano a trovare a turno una “camera tutta per sé”, in cui rivelare e mostrare «apertamente la profondità delle loro ferite intime» (p. 41). In quelle camere, nessuna aveva più diritto delle altre di essere ascoltata, nessuna aveva il dovere di rimanere in silenzio, bensì tutte condividevano la possibilità di dire ciò che pensavano realmente, di discutere e far valere le proprie ragioni: in quelle camere, nessuna voce era strozzata, perché ognuna veniva così preparata a «sfidare le forze patriarcali sul posto di lavoro e in casa» (ibidem).
Con il tempo, purtroppo o per fortuna, le cose sono cambiate: i Women’s Studies hanno cominciato a configurarsi come una disciplina accademica riconosciuta e l’aula universitaria – che «era e rimane un luogo di privilegio di classe» (p. 44) – ha progressivamente spazzato via quelle camere, che invece consentivano una trasmissione ampia e orizzontale del pensiero femminista e delle strategie rivolte al cambiamento sociale, prescindendo da distinzioni di classa e di razza. Tale cambiamento oltre a depoliticizzare il movimento femminista e a renderlo, per certi versi, più elitario, ha soprattutto contribuito al graduale allentamento della solidarietà politica tra le donne – forza che precedentemente aveva saputo mettere in atto un cambiamento positivo. Tutto ciò ha prodotto delle stratificazioni all’interno del movimento femminista, che, talvolta, ha finito per perdere di vista il fatto che «finché le donne usano il loro potere di classe o di razza per dominare altre donne, la sorellanza femminista non può realizzarsi appieno» (p. 53).
A partire da tali rilievi, Il femminismo è per tutti. Una politica appassionata si fa promotore della necessità di ripercorre la storia del movimento femminista, di esplorarne criticamente tanto i punti deboli, quanto quelli forti. Attraverso uno stile schietto, semplice, asciutto, bell hooks reclama la creazione di «un movimento di massa che offra un’educazione femminista a tutti» (p. 65), in grado di spiegare, in forme iper-accessibili, alle donne e agli uomini come opera il pensiero sessista, in che modo è possibile metterlo in discussione e cambiarlo e come, nel corso del tempo, il femminismo abbia inciso sulle vite di tutti noi. Si tratta di una sorta di testamento intellettuale, in cui vengono affrontati acutamente, seppur in poche pagine, tanti temi essenziali. Uno di questi – quello su cui mi capita di arrovellarmi più spesso – è il corpo: perno introno al quale ruotano, in particolare, il quinto capitolo, il sesto e l’undicesimo.
Essere il proprio corpo per una donna è un gesto rivoluzionario, che comincia con la scoperta della propria sessualità, con la ricerca del proprio piacere (e in questo tutti gli strumenti di controllo delle nascite hanno aiutato un bel po’), che passa attraverso la possibilità di rimanere incinta. Misurarsi con tale eventualità ha prodotto innumerevoli discorsi nel corso del tempo, alcuni dei quali elogiano la maternità, restituendola come un ineluttabile destino; altri sottolineano invece come quest’esperienza possa finire per costituire un intralcio alla realizzazione personale di una donna. L’intrecciarsi e lo scontrarsi di questi innumerevoli discorsi hanno contribuito a generare quel rumore che da anni avvolge il dibattito intorno all’aborto.
La posizione di bell hooks al riguardo – che mi sento di sottoscrivere in pieno – è molto semplice e parte dal presupposto che «se noi donne non abbiamo il diritto di decidere che cosa succede al nostro corpo, rischiamo di rinunciare ai nostri diritti in ogni altra sfera della nostra vita» (p. 72): essere pro aborto significa essere pro scelta, cioè sostenere «il diritto delle donne che hanno bisogno di abortire, di scegliere se farlo o no» (p. 73); ecco perché occorre lottare affinché non si torni «a un mondo in cui gli aborti sono accessibili solo alle donne che hanno un sacco di soldi» (p. 70), essendo questo un primo passo verso il ritorno a una politica che mira a rendere illegale l’aborto. Essere pro scelta, dunque, vuol dire battersi tanto affinché donne sole e senza mezzi possano permettersi di scegliere di essere madri, tanto affinché donne che vogliano abortire possano farlo in sicurezza.
Il femminismo ha il merito di aver contribuito a puntare i riflettori sull’incapacità di molte donne di scoprire «che la nostra carne è degna d’amore e di adorazione al naturale» (p. 75), dal momento che «tutte le donne, indipendentemente dalla loro età, vengono consciamente o inconsciamente educate a essere assillate dal pensiero del proprio corpo, a considerare problematica la carne» (pp. 80-81). Tale assillo si fa sempre più incombente durante la pubertà, quando una giovane donna percepisce più che mai il suo corpo come sfuggente, arrivando talvolta a sentirlo a lei estraneo. Allo stesso tempo, gli occhi maschili, che seguono sempre più frequentemente il ritmo dei suoi fianchi per strada, comunicano giudizi sulla sua anatomia, inducendola a viversi come un oggetto per gli altri.
A tutto questo si può reagire in vari modi: mettendo più o meno radicalmente in mostra la propria carne, traendo piacere dal forte desiderio che suscita negli altri; oppure – provando per essa paura o disgusto – ricercando l’invisibilità. Oggi, in un numero sempre crescente di giovani, il disgusto per la propria carne degenera in maniera patologica. Disturbi del comportamento alimentare come l’anoressia nervosa sono infatti una vera e propria piaga per il mondo occidentalizzato: si tratta di una patologia estremamente fatale, che, nello specifico, colpisce prevalentemente le giovani donne e che ogni anno miete un numero sempre maggiore di morti. Uno dei tanti aspetti che la caratterizzano è dato dal fatto che – come ben nota bell hooks – «non c’è monito, per quanto terribile, che riesca a dissuadere le donne convinte che il loro valore, la loro bellezza, il loro merito intrinseco sono determinati dal fatto di essere magre o no» (p. 79). Un disturbo come l’anoressia nervosa porrebbe allora il mondo femminista di fronte a un’urgenza: «anche se oggi le donne sono più coscienti delle insidie e dei pericoli insiti nell’accettazione di una visione sessista della bellezza femminile, non stiamo facendo abbastanza per eliminare, per creare un’alternativa […]. Finché le femministe non torneranno a misurarsi con l’industria della bellezza e con la moda, provocando una rivoluzione costante e di lunga durata, non saremo libere. Non sapremo come fare ad amare il nostro corpo e noi stesse» (pp. 81-82).
Il corpo di una donna è sempre attraversato dalla possibilità di esser ferito, cioè di subire in esso la volontà di un altro; tuttavia, questo non deve trarci in inganno su quella che dovrebbe essere una delle missioni principali del femminismo. Secondo bell hooks, quest’ultimo deve puntare, non tanto a contrastare esclusivamente la violenza degli uomini verso le donne, bensì a far cessare ogni forma di violenza. Alla base di ogni forma di violenza, compresa quella patriarcale, c’è sempre l’idea secondo cui è accettabile che un individuo dotato di maggiore potere controlli gli altri tramite varie forme di forza coercitiva. Ecco perché, mirando in fondo a minare la libertà che ciascuno ha di disporre del proprio corpo, la violenza patriarcale, oltre a poter essere perpetuata tanto dagli uomini quanto dalle donne, si rivela come un fatto che riguarda l’umanità intera.
Per quanto breve, il libro di bell hooks è talmente pieno di spunti che sarebbe davvero difficile diffondersi qui su ognuno di essi. Ho scelto di ricordarla parlando proprio di questo volume, non solo perché, di recente, è comparsa la sua traduzione italiana, ma anche perché trovo che esso racchiuda perfettamente alcuni dei punti essenziali del pensiero che bell hooks ha sviluppato per una vita intera: nel leggere, mi è piaciuto pensare di star conservando il suo testamento tra le mani…
Per chi conosce Nietzsche il titolo del libro di Antonio Lucci, La stella ascetica.Soggettivazione e ascesi in Friedrich Nietzsche (Inschibboleth 2020), potrebbe risultare di primo acchito impressionante. Si tratta di uno studio sull’ascesi, ma, prima ancora di questa parola, compare in effigie il termine “soggettivazione”. Non è forse Nietzsche il promotore di un pensiero distruttivo del soggetto? A che scopo dunque trattare della soggettivazione laddove ogni baluardo soggettivo, ogni hypokeimenon, garanzia epistemologica o sostanza che sia, viene disciolto in una nuance, in una costellazione fumosa di impulsi e necessità? Del resto, lo stesso concetto di volontà di potenza mette fuori gioco una certa fiducia nell’arbitrario, e ciò rende complesso anche il tema di una possibilità volontaria lato sensu dell’ascesi, soprattutto quando questa è espressione di una dinamica soggettuale. Per rischiarare al meglio i dubbi qui sollevati, bisogna innanzitutto comprendere che il focus della ricerca presentata da Lucci è non un soggetto, individuale e universale, bensì la soggettivazione, come processo del farsi di un soggetto. Si tratta, in fondo, di un approccio che non si discosta per niente da quanto lo stesso Nietzsche applica mediante la sua genealogia: la conoscenza di un’idea non si cristallizza in un punto finale, da assumere come assodato, ma nel percorso e nel divenire della stessa, con i retroscena e gli usi pratici che entro sé cela. Allora diventa maggiormente interessante la proposta di uno studio sul soggetto soggettivato, poiché questo, lungi dall’essere riassemblato dopo la già avvenuta distruzione nietzscheana, viene piuttosto ulteriormente frantumato, così da poterne intravedere una delle anime, svelata, in queste pagine, come ascesi.
A conferma di quanto è stato ad ora spiegato occorrono le parole di Lucci: «ciò che la filosofia ha chiamato “soggetto” non è altro che il risultato di una serie di pratiche, di atti, di esercizi di soggettivazione di carattere fìsio-psichico – in una parola di un’askesis – e non un punto di partenza, un fondamento inconcusso» (p. 14). Pertanto, “soggetto” non significa né stadio definitivo né iniziale, non è un sostrato immutabile, non è assolutezza. Non è neanche mera apertura all’alterità, perché ciò che soggettivizza non può essere designato alla stregua di una passiva ricezione di input endogeni provenienti da condizioni esterne. C’è un’interiorità che muove dal (non)soggetto stesso, e che tenta di metterlo a fuoco, di plasmarlo secondo un’immagine precostituita, che tende a incrinarsi per raggiungere un risultato. In quest’ottica l’ascesi è fondamentale chiave di lettura non solo di pensatori quali Foucault, Hadot, Schopenhauer, Sloterdijk, Gehlen, Weber; il pensiero nietzscheano merita parimenti un posto in una possibile “storia dell’ascesi”, in particolare per la policromia con cui esso tinge questo concetto, la quale a sua volta proviene da influssi e contesti culturali differenti, primo tra tutti quello della Grecia antica.
Su questo primo aspetto, è mirabile la capacità di Lucci di andare a fondo del problema, con un’apertura filologica sia nei confronti del termine askeo a partire dagli utilizzi omerici e poi greci in generale, sia dell’uso che ne fa Nietzsche nei primi scritti di ascendenza greca, fino a giungere all’ascetica soluzione di una tragedia come «rimedio anti-ascetico della grecità» (p. 19). Con la ripresa dell’asse Orfeo-Pitagora, inoltre, l’ascesi, in quanto fenomeno storico-religioso, si configura anche come scelta politica, opposizione alle pratiche comuni della polis rivolte a divinità olimpiche, adottante un altro tipo di bios, un regime alimentare e un tenore di vita ben differenti. L’ascesi avrebbe dunque in Grecia un significato profondamente sociale, che implica una ribellione a un ordine preconfigurato. Nietzsche assorbe certo il significato “contrastivo” dell’ascesi, soprattutto allorquando questo è complice della rivalsa di divinità notturne su una certa serenità della tarda grecità. In La visione dionisiaca del mondo confluiscono questo, come altri motivi: l’ascesi come volontà o disposizione d’animo (Stimmung) è, ulteriormente, di chiara influenza schopenhaueriana.
Diventa perciò ancora più evidente perché dovrebbe essere utile ai fini dello studio di Nietzsche comprendere il suo rapporto con tale fenomeno: in esso è tratteggiata la nota connessione con Schopenhauer e la relativa rottura, se si pensa al significato filorientale che quest’ultimo vi attribuisce; ancor prima vi è il nesso con la grecità e il concepimento di un “rimedio” greco, come ascesi vitalistica, contrario alla pratica ascetica cristiana, indebolimento della volontà, che sarà oggetto degli scritti maturi. Certo, non bisogna escludere in principio il rapporto ascesi-santità, soprattutto laddove la prima designa «un campo semantico comune, che troverebbe poi una sintesi, come sua espressione compiuta, nell’idea tarda di ascesi come “esercizio”», ovvero una tensione plasmatrice e trasformativa verso un miglioramento, «un lavoro mirato al perfezionamento, che si applichi al dato naturale costituito dal corpo, per renderlo inattaccabile, non-rovinato, […] perfetto, privo di difetti» (p. 31). Come potrebbe questa definizione distanziarsi del tutto da quel medesimo lavoro che invece viene preteso per lo spirito? Non deve stupire se verrà attribuito un significato non del tutto corporale all’ascesi nietzscheana, la quale «ha innanzitutto un valore psico-energetico» (p. 59), vale come “incanalamento” di impulsi, direzionamento di una volontà superindividuale e non soggettiva, per quanto soggettivante. Ecco che «a loro volta questi stessi soggetti non sono che espressione di convoluti storici sovraindividuali anch’essi portatori di quanta psico-energetici: le culture […], atte a potenziare, incanalare o disinnescare i propri flussi energetici» (p. 64). È chiaro, pertanto, che non è l’aspetto psichico a distrarre da quello corporeo, elementi che per Nietzsche convivrebbero in armonia, quanto piuttosto quello culturale, che denota talvolta una passiva accettazione di carismi morali. In questo senso, dunque, anche l’ascesi come santità si propone a seguito di una degenerazione della civilizzazione attuata per mezzo del cristianesimo, è il pharmakon dolceamaro delle Stimmungen o energie psichiche cristiane.
L’ascesi è dunque strumento utile o dannoso per Nietzsche? Se stimata «in quanto modalità di gestione della propria potenza» essa sembra avere un ruolo positivo nella comprensione di una sofferenza che insegna, è benefica; in tal caso essa è fenomeno atemporale, cioè estrapolato dalle dinamiche storiche di civilizzazione che sottendono culture e religioni diverse. Nei frammenti postumi si legge di un’ascesi come preservazione dalla barbarie della civiltà: qui si fa pratica oppositiva, di segno greco, contro un regime infiacchito e manipolatorio. «Preparazione ascetica» diventa lo stigma di un’autoconservazione rude, ma quanto mai raffinata in una cura di sé rivolta a esasperare il tono arrendevole delle ascesi religiose, che segnano non altro che il travasamento dell’individuo in un’assuefazione a un possibile dettame oltremondano. Il cristianesimo si presenta, infatti, a sua volta, come una forma di preservazione, un’immunizzazione dalle passioni che fa dell’esercizio e dell’autocontrollo una tattica di depotenziamento. La definizione di ascesi in Nietzsche sembra quindi palesarsi come una corda tesa tra due pilastri, tra il l’infrollimento e il depauperamento delle energie di tipo religioso e l’auto-affermazione di una volontà di potenza estrorsa, esuberante, che tenta il raffinamento della propria energia in tracimazione. Si tratta in fondo di un fenomeno unitario, ma stirato tra due poli, i quali, agli antipodi, non possono che decifrare questa medesimezza in modo diverso, generando dunque, nello stesso Nietzsche, l’esplosione della miriade di significati che di volta in volta la pratica ascetica assume. Entrambi i versanti approcciano verso una esternalizzazione dell’individualità, ovvero verso la perdita dei tratti sintomatici della parzialità delle visioni singolari, riversate piuttosto in un’aspettativa “alle spalle” del mondo e della vita, nei casi di una certa ascesi religiosa, e “al di là” di principi morali e dettami metafisici, al di qua del corpo e della volontà, in Nietzsche. Per quest’ultimo, essa vale come l’applicazione di una forma di soggettivazione de-soggettivante, in cui non un io singolo e individuale è sostrato, ma un cosmo di relazioni e rimandi, di ritorni e re-individualizzazioni. Anche la solitudine, ulteriore tematica ascetica, si rispecchia in questo parametro: essa non rappresenta una chiusura idiotistica, ma la comprensione di un senso comune che non è né sociale né religioso, ma che, intersoggettivamente e de-soggettivamente, è cristallizzazione della volontà.
La questione del soggetto, con cui si era aperta questa disamina, sembra dunque ripresentarsi in chiusura, con quanto ne spiega le implicazioni e le genealogie che lo precedono: «per Nietzsche sono gli istinti a essere i soggetti e non quello che noi riteniamo essere normalmente “il” soggetto, vale a dire il nostro Io razionale» (p. 70). Il soggetto della potenza, nel senso bidirezionale del genitivo, è il frutto del gioco di maschere tra ascesi, istinti e soggetto: questa una delle più pregnanti cognizioni di un esercizio ludico e mai definitivo in Nietzsche, che Lucci offre tra molte intuizioni acute di questo libro, le quali meritano un’attenzione sia per l’originale – e complicata – espressione del tema a partire da questo autore, sia per un’analisi che scandagli in sé il già plurivoco fenomeno ascetico.
Quando il piede rilascia sul pavimento, tutto sopra muta.
“Il sole ha la larghezza di un piede umano” (Eraclito)
Lo sbadiglio è uno degli atti più sani e socialmente inaccettabili concessi all’essere umano dalla natura. Generalmente agisce una prima volta al mattino, durante il risveglio, segnale naturale di quell’orologio cosmico inscritto, sottomesso, direbbe Epitteto (Diattribe IV, 100-106), al periodo cosmico del nostro quotidiano vivere.
Ha un suo punto di partenza: quando l’osso mascellare, o la mandibola, o entrambe, muovendosi sollecita(no) la linea delle labbra, misteriosa demarcazione di un sopra e un sotto, ad aprirsi. Può succedere di più nella parte centrale e, allora, le labbra s’incurvano, quasi a contenere una minuscola, rotonda vocale al loro interno. Oppure può avvenire di più sui lati: in questo caso, la fessura delle labbra si allunga in una striatura che ricorda certe fotografie di Luigi Ghirri che ritrae la linea dell’orizzonte. È il preludio, se va in questa direzione, di una delle nostre espressioni più belle: sorridere.
Ma non accade. Lo sbadiglio è più arcaico e primordiale. Atto respiratorio abnorme, lo definisce il dizionario, spesso incoercibile, caratterizzato dall’apertura forzata della bocca accompagnata spesso dalla costrizione delle palpebre.
Sa anche essere pigro. In quel caso, la bocca si divarica più lentamente, diventando il segno da sempre più temuto dagli insegnanti e da chiunque stia tenendo un discorso o si stia esibendo in scena: la noia. Questione di tempo, immagine, intenzione e sensazioni che ci portiamo addosso.
Può, lo sbadiglio, essere elemento costitutivo di una pratica (o esercizio?). Ma certamente! È uno degli atti di apertura più straordinariamente sani concessi a chiunque lavori attraverso il corpo e la voce. Come essere nell’acqua: la pelle si distende, si allunga, si spalma, la colonna incomincia ad allungarsi, le braccia si arricciano e poi si aprono a stella, e così via fino a giù. Fin dentro i piedi. Quando subiamo uno sbadiglio e quando siamo noi ad agirlo? Dove ci porta? Con quali sensazioni? In quali parti del corpo ne percepiamo il riverbero? C’è un momento, lo stavo descrivendo all’inizio, in cui la bocca, nel momento stesso di aprirsi, contiene ancora infinite possibilità: può spalancarsi di stupore, dilatarsi dentro un grido, modificarsi in una smorfia di dolore, squarciarsi in una gran risata.
Eccoci già dunque entrati dentro un tema molto affascinante, per chi si interroga sull’origine delle pratiche: il punto di soglia. Quello spazio dentro cui l’intenzione esita, gioca con sé stessa osservandosi. Un tempo sospeso, funambolico, lo definirei.
Proprio questa domanda, che richiede innanzitutto un ascolto del proprio agire, si presta a dialogare con la stimolante opera di Armando Canzonieri, L’atleta indisciplinato. Fortuna ed Esercizio, pubblicata da Orthotes Editrice nel 2020.
Canzonieri fa qualcosa di molto prezioso: indaga all’interno dello stoicismo che cosa sia una pratica e, per fare questo, fa i conti con gli esercizi necessari per attuarla. Con una parola: askesis. Qui ci viene in aiuto anche Michel Foucault: «Nella tradizione filosofica dominata dallo stoicismo, askesis significa non già rinuncia, ma progressiva attenzione a sé, e padronanza su se stessi”. Ed il fatto che l’askesis preveda degli esercizi, i cui due poli opposti costitutivi venivano designati come melete e ghymnasia. Si rimane letteralmente estasiati dal grado di consapevolezza con cui venivano utilizzati questi due termini. «Melete significa, stando alla traduzione latina, meditato, meditazione […] si trattava di anticipare la situazione reale immaginando un dialogo fittizio […] immaginare l’articolazione degli eventi possibili per saggiare come si reagirebbe: questa è la meditazione». Al polo opposto c’è la ghymnasia, l’allenamento. «Mentre la meditato è un’esperienza immaginaria che ha lo scopo di esercitare il pensiero, i ghymnasia consistono in un allenamento in una situazione reale, anche se prodotta artificialmente». Per esempio: «Ogni mattina si fa una passeggiata e si verificano le proprie reazioni» (M. Foucault, Tecnologie del sé. Un seminario con Michel Foucault, Bollati Boringhieri, Torino, 1992, pp. 32-35, citato nel libro di Canzonieri).
Ora, per tornare al punto di soglia, nulla, meglio dell’atto del camminare, lo rappresenta. Perché, quando camminiamo, noi stiamo continuamente cadendo. Questa tragicità in atto, di cui sono immagine simbolo le sculture di Alberto Giacometti, si salva dentro un tempo sospeso che ci trasforma magicamente in funamboli. O in fanciulli. È dentro questo spazio minuscolo e dilatato che risiede l’essenza della pratica.
Le mie pratiche, quest’anno, hanno preso un nome: pratiche di accordatura. Sarà forse facile riconoscervi inguaribili tracce di platonismo pitagorico, un richiamo verso le origini della filosofia stessa, prima che il suono, la parola e il gesto si addormentassero nella concettualizzazione del logos. Insieme alla consapevolezza che vi sia all’interno delle pratiche qualcosa di profondamente artigianale, come l’accordatura di uno strumento.
C’è bisogno di una trasmissione. Di un ascolto. Di una condivisione. Lasciate alla pelle il tempo per comprendere, raccomanda Philippe Petit nel suo Trattato del Funambolo, a chi impara a camminare sul filo a piedi nudi. Non sembra forse di sentire parlare un calzolaio?
Nessuno meglio di Walter Benjamin ha lasciato una traccia per noi, contemporanei smarriti, orfani di stelle che ancora orientavano nello spazio i nostri antenati senza alcun bisogno di avere il navigatore. La troviamo nella figura del narratore. È in questa intuizione folgorante che viene messo a fuoco il rischio di una perdita irrimediabile dell’esperienza. In fondo, ci dice, i primi narratori ricevevano il racconto di esperienze che passavano di bocca in bocca: contadini e marinai furono i primi maestri del racconto e la sua scuola superiore è stata l’artigianato. Perché la vera narrazione implicava una sorta di utilità pratica e di vita, per imparare da altri storie di viaggi, i fini dettagli di una professione, proverbi e norme di vita. Inteso in questa maniera, il narratore diventava persona di consiglio per chi lo ascoltava. Da quando incominciano a scomparire le figure degli artigiani, a quel punto anche la narrazione si modifica (le subentrerà il romanzo). Diminuisce la comunicabilità dell’esperienza cucita nella stoffa della vita vissuta che diviene saggezza, come la chiama Benjamin.
Arrivati a questo punto, dovrò arrischiare l’aggiunta di una terza polarità, tra il melete e la ghymnasia, che è parte altrettanto fondamentale delle pratiche.
Il ruolo che giocano le modalità di apprendimento del bambino nei suoi primi anni di età. Quell’esperire il mondo in maniera tattile-cinestetica e uditiva che proprio il Novecento traduce a suo modo nell’immagine del funambolo. Portare quell’esperire dentro il corpo adulto è, forse, la chiave di accesso alle pratiche.
Appena nasciamo, è la bocca, ancora lei, a sperimentare il mondo: succhiando, per nutrirsi, articolandosi in primi balbettii, sonorità, lallazioni, che sono pure pratiche di scoperta. Condizione meravigliosa che ogni atleta indisciplinato vorrebbe continuamente cercare. Praticare la pratica nella sua più pura ed esperienziale essenza.
Esistono un’infinità di pratiche (o esercizi) per le labbra, la lingua, la bocca.
Nessuno meglio di Moshe Feldenkrais, il maestro che non ho avuto l’onore di conoscere di persona, ma di cui ho avuto il privilegio di riceverne l’insegnamento attraverso la trasmissione del suo lavoro.
Ai tempi del liceo, ero affascinato, tramite i racconti di mia nonna che lo incontrava ogni tanto dalle parti di Porta Palazzo, dalla figura del “filosofo ignoto”. Così si firmava infatti sul giornale La Stampa, Guido Ceronetti. Furono le sue traduzioni, trovate in casa, di alcuni testi dell’Antico Testamento: Giobbe, i Salmi, a folgorarmi. Vi compariva una sorta di scavo ritmico, articolare, osseo del palato, delle labbra, del respiro dentro le consonanti dell’alfabeto ebraico. Era quasi una questione di gravità di corpi, d’immaginazione necessaria per fare scattare foneticamente le vocali nascoste. Tutto ciò, lamentava Ceronetti, si perde nella traduzione, come se quella parte di corpo e di bocca chiamate in causa perdessero la loro piega buia e, con questa, perdessero il loro duende.
Mi sembrava un gioco. Una continua preparazione della bocca a quella sorta di misteriosi gargarismi che potevano avvenire al suo interno, fin giù nel petto, fin dentro le dita dei piedi, per arrivare a cogliere il suono di una parola. Paradossalmente, quella fu la mia prima forma di danza. Quella era già danza. Movimento.
È arrivato il momento di presentare il personaggio mancante, fino a ora solo accennato, Feldenkrais, in questa storia che parte dalle Diatribe di Epitteto. Siamo negli anni Settanta e una donna svizzera di nome Nora, di oltre sessant’anni, una mattina si sveglia sentendosi un po’ strana. Fatica ad alzarsi dal letto e si accorge che fatica a parlare. Così come a leggere e scrivere. Il medico che la visita le diagnostica una trombosi o emorragia con relativo danno all’emisfero cerebrale sinistro. Iniziano anni difficili in cui non compare nessun miglioramento. A quel punto i famigliari della donna decidono di tentare affidandosi a una figura di cui in tanti parlano. Si chiama Moshe Feldenkrais. Ha così inizio quello che diventerà poi un libro, Il caso di Nora, che è il racconto dell’incontro e della guarigione di Nora, lavorando con Feldenkrais. Si tratta di un viaggio a ritroso, commovente e straordinario, fino alle origini di come ognuno di noi, nei suoi primi mesi e anni d’infanzia ha imparato a muoversi e a parlare. Soltanto ripartendo da lì, anche un cervello danneggiato come quello di Nora, potrà riacquistare le proprie funzioni. Questa storia di Nora è arrivata molto spesso dove poteva arrivare più facilmente, ovvero tra “tecnici” del corpo e rappresentanti di un certo modo di intendere la ghymnasia, ma non dove doveva anche arrivare: tra le mani di filosofi, antropologi, poeti, fino a mettersi in dialogo con il grande atlante warburghiano di Mnemosyne. Il perché e il per come non sia ancora successo è una domanda profondamente filosofica.
Il 13 ottobre 1910, Franz Kafka e Max Brod visitarono insieme il Museo Carnavalet di Parigi. Kafka rimase affascinato da un quadro di Jean Hubert: Le lever de Voltaire. Vi si vede Voltaire in un atteggiamento alquanto buffo: appena sveglio, in piedi in bilico su una sola gamba mentre cerca di infilarsi i pantaloni sotto la camicia da notte; il berretto da notte ancora in testa, un naso corvino che spunta e già sta dettando qualcosa al suo servitore. Che funambolica efficienza! Come poteva non esserne affascinato Kafka, lui che per tutta la vita coltivò un esercizio di efficienza cui era costretto: il lavoro di ufficio durante il giorno, e la scrittura, sua vera vocazione, tra le ore discontinue della notte? Sappiamo quanto abbia cercato per l’intera vita una ghymnasia che lo facesse sentire forte, sano, energico. La trovò, forse, negli esercizi di ginnastica e respirazione secondo il metodo di Jørgen Peter Müller. Un biondone danese che si faceva chiamare Apoxyòmenos. Le fotografie in cui si faceva ritrarre ne esaltavano una bellezza da dio greco immortalata in costume da bagno nelle posizioni dei suoi esercizi. C’è qualcosa di così comico e toccante nell’immaginare Kafka eseguire quegli esercizi verso sera, forse prima di iniziare una pagina della Colonia penale, del Digiunatore o di Giuseppina la Cantante. Oppure tra una pagina interrotta del Castello e l’Avvoltoio. E se tutti i suoi racconti, in fondo, non fossero che la metafora di una pratica, una pratica così lunga, ininterrotta, sfinente, che è la vita?
Quando osserviamo il quadro di Jean Hubert, Le lever de Voltaire, sale una divertita, sana allegria. Come se anche lavarsi i denti, mettersi i calzini, invece che un’abitudine, potessero diventare una pratica. Dove comincia, dunque, una pratica? E il momento prima che cominci che cos’è, allora? Una preparazione alla pratica? O è già parte della pratica?
Feldenkrais diceva che non si può insegnare nulla, se non creare le condizioni per imparare. Ecco, credo che la pratica richieda una sorta di fiducia verso qualcosa di sconosciuto. Qualcosa che potremmo chiamare “fiducia organica”. Da esploratori in avanscoperta, direbbe Epitteto.
.
.
Pratica del 12 aprile 2020
Quando una parte del corpo non si conosce, le altre parti devono compensare; o devono coordinarsi diversamente. Dallo schermo zoom una ragazza polacca ci riflette e dice: è proprio vero. Ora che ci penso, anche nella mia storia famigliare accade così.
di Emanuele Enria
.
.
Bibliografia
Armando Canzonieri, L’atleta indisciplinato. Fortuna ed esercizio, Orthotes Editrice, 2020.
Moshe Feldenkrais, Il Caso di Nora, Casa Editrice Astrolabio, 1996.
Il libro di Manlio Iofrida, Per un paradigma del corpo: una rifondazione filosofica dell’ecologia, uscito per Quodlibet alla fine del 2019, si presenta come uno snodo ricco e importante per un approccio teoretico, etico e critico all’attuale questione ecologica. In questo senso, il libro s’inserisce nel cuore stesso del dibattito – non solo italiano – incrociando tematiche come il corpo, il concetto di Natura, lo statuto filosofico del vivente e della sua relazione con la tecnica (a questi temi si aggiungano la critica della cultura, la storia dell’arte, il dialogo tra filosofia e altri campi del sapere, i rapporti tra la cultura Europea e i suoi grandi altri ecc.).
Il libro assume quella che potremmo definire un’ottica cosmopolitica e si presenta come il crocevia d’intuizioni, idee e riflessioni che animano il gruppo di ricerca Officine Filosofiche(il gruppo gestisce anche un’omonima collana editoriale), fondato e diretto dallo stesso Iofrida assieme a Ubaldo Fadini. Molti argomenti sviluppati nel libro intrecciano le principali linee di lavoro del gruppo, contribuendo così a fare dell’ecologia filosofica uno dei campi di ricerca più innovativi e stimolanti dell’attuale panorama filosofico italiano.
Si può dunque comprendere, sin da queste prime considerazioni, che riportare in maniera analitica o anche solo accidentale tutti gli impliciti teorici – nonché la profonda erudizione dell’autore che conferisce all’ecologia un ampio spessore culturale – è compito improbo per una recensione e, probabilmente, anche inutile. Quel che ci proponiamo di fare in questa sede è di attraversare il testo in maniera “libera” tentando di esplicitare alcuni aspetti che sembrano restituire, nella parzialità della nostra lettura, alcune delle intenzioni di base dell’autore.
Non si può non partire dalla centralità teorica del tema del corpo che, non nuova nel lavoro di Iofrida, si richiama esplicitamente all’opera complessiva di Merleau-Ponty e all’attualità del suo concetto di Natura (pp. 19-31) «come limite che la cultura non può sorpassare» (p. 30). Sotto tale aspetto, questo studio si riallaccia (pp. 9-16), pur con oltre dieci anni di distanza, al precedente lavoro dell’autore Per una storia della filosofia francese contemporanea: da Jacques Derrida a Maurice Merleau-Ponty. Dire che questo sia un libro “merleau-pontyano” è senza dubbio corretto e tuttavia rischierebbe di schiacciarne la profondità su un “arroccamento” teorico, una semplice riproposizione ermeneutica. Devono essere menzionati, infatti, almeno altri due autori classici presenti come linee di basso nell’architettura del testo: Schelling ritorna diffusamente nel testo, utilizzato in chiave anti fichtiana-attualista (pp. 38, 141) o hegeliano-sintetico (anche se Hegel resta comunque un autore importante nell’impostazione ecologica iofridiana, pp. 138-140); ma è soprattutto il Kant della Critica della facoltà di giudizio a fornire un’impalcatura teorica di primo piano (vanno, poi, almeno ricordati i nomi di Goethe, Schiller e Adorno, per completare la batteria tedesca di riferimento, cfr. pp. 47-52). Ci sia concesso dunque di entrare nel vivo del libro approcciandolo alla lontana, così da poter restituire, se non altro, il profumo della complessa architettonica di Iofrida.
In siffatta architettonica, l’ecologia non si presenta tanto, né solo, come una disciplina scientifica (pp. 45-47) ma, potremmo dire, si tratta di una questione di gusto, di istituire un paradigma del gustoecologico. Come si può intuire, molto lessico di Iofrida è intriso di una semantica post-kantiana. Il gusto, permettendoci l’ardire di parafrasare Kant, è quella strana facoltà di giudicare secondo sentimento (leggendo in questa chiave il giudizio riflettente).
Sappiamo anche che il sentimento è un vero e proprio mondo intermedio che si situa tra la facoltà di conoscere e quella di desiderare, ossia tra l’intelletto e la ragione, tra la “necessità naturale” e la “libertà umana” (che Iofrida definisce prometeica, cfr. pp. 59-61). Dire, dunque, che l’ecologia è questione di gusto significa affermare che essa si situa nel mezzo di un’ardita relazione tra la Natura e la Cultura – dualismo principale di molte riflessioni ecologiche. Ma, altresì, ci dà delle informazioni sugli aspetti “filosofici” dell’ecologia: il gusto, sappiamo dal §40 sul senso comune della Terza Critica, va educato. L’ecologia, secondo Iofrida, non consiste né nella descrizione di uno stato di cose oggettive (ci sia concessa la banalizzazione: filosoficamente, l’ecologia non può essere ridotta a una disciplina naturalistica) né, occorre fare attenzione, nella prescrizione di massime della ragione (che si limiterebbe a un greenwashing della Ragion Pura Pratica): l’ecologia è filosoficamente fondata nella misura in cui è capace di una vera e propria educazione sentimentale. Così, l’ecologia filosofica non è né scientifica (occorre «declinare l’ecologia come critica anti-intellettualista», p. 54) né morale («non si pone come sussunzione dominante», p. 119), ma è intimamente etica (l’ecologia, ci ricorda l’autore, è un pensiero della finitezza, pp. 52-56). È a partire da una esigenza etica (e, con Merleau-Ponty, connesso a un certo spinozismo schellinghiano, da un’esigenza anche ontologica) che va letta la proposta di un paradigma del corpo. Non si tratta, così, di fondare un principio di rappresentazione, o massime pratiche, ma di sviluppare delle ipotesi etiche, per dir così, da un punto di vista pragmatico.
Fatta questa premessa, possiamo addentrarci in alcuni aspetti concettuali. Uno dei concetti chiave per leggere la proposta iofridiana è quello di inerenza (pp. 29-31). Di matrice fenomenologica, l’inerenza è un fenomeno corporeo e rimanda a una «ontologia relazionale» (p. 41) che si pone in antitesi tanto con le ontologie costruttiviste del pensiero debole (p. 43) quanto con le ontologie realiste di certi modi di intendere il materialismo (pp. 60-61). L’inerenza è il concetto cardine di un’ecologia che si propone di lavorare in chiave ontologica sulla «nostra relazione coi milieux» (p. 41) – i riferimenti sono alla «geografia […] fenomenologica» (p. 39) di A. Berque: la relazione degli “individui” con gli ambienti (o paesaggi) «non è quella della sostanza pensante con la sostanza estesa; […] piuttosto c’è uno sconfinamento, un’interpenetrazione» (p. 41). L’inerenza ci offre una cifra filosofica importante: essa è la relazione chiasmatica – è evidente nel lessico iofridiano l’influenza di Merleau-Ponty – del vivente con i suoi dintorni, le sue Umwelten, il co-appartenersi di individuo e ambiente. Intreccio, potremmo dire, della parte con il tutto.
In quanto etica ontologicamente orientata, l’ecologia si interessa non alle partizioni sostanziali – che comportano, sul piano etico, la costruzione di un’impalcatura morale – bensì agli assunti relazionali (ci sia concessa un’assonanza col lavoro di Giuseppe Semerari 2009) che solo centrando l’analisi filosofica sulle potenze corporee possono essere messi in risalto. Questa inerenza, che è una mediazione senza soggetto – e che anzi produce soggettività – non è pensabile come Aufhebung, bensì come un’unità senza concetto (p. 115) attuata per il tramite del corpo «e la sua apprensione orizzontale del mondo» (p. 25). L’esigenza di un paradigma del corpo è dunque insito nella tematica stessa della relazione ecologica, così che, per Iofrida, ogni ecologia, sul piano etico, non può non passare – anche implicitamente, come traspare mediante la critica alla smaterializzazione postmoderna (pp. 67-68) – per il tramite di un paradigma del corpo.
Il problema del corpo è però l’altra faccia di un ulteriore assunto di Iofrida, ovvero l’idea complementare che la Natura non sia un oggetto (p. 45) e che il vivente non sia meccanizzabile (p. 30). Il rischio di interpretare in chiave puramente valoriale, facendo di tali assunti delle massime della Ragione, è grosso. Occorre dunque tentare di essere chiari, ancora una volta, sul lessico dell’autore. Siamo pur sempre, lo si è detto, sul piano del giudizio riflettente. I riferimenti sono ancora all’opera di Merleau-Ponty e, tramite lui, Schelling e Kant. In ultima istanza, l’orizzonte concettuale ci appare ancora di matrice kantiana. L’idea che il vivente non sia meccanizzabile vuol dire che lo specifico fenomeno di inerenza dell’umano agli altri viventi (che compongono i suoi dintorni) non è un rapporto conoscitivo, o intellettuale, né tuttavia un rapporto pratico. Non è conoscitivo perché, in quanto soggetti empirici, non tutti gli umani sono “scienziati”, e questo non pone particolari problemi. Ma non è neppure un rapporto pratico, perché non è possibile estrapolare una massima categorica da questa idea: non tutti i viventi possono agire conformemente a scopi (tralasciamo i motivi di tale impossibilità). L’idea che il vivente non sia meccanizzabile non è un enunciato che riguardi il regno della libertà. Concessa la formula, quella tra viventi non è una relazione tra esseri (radicalmente) liberi, situandosi, invece, nel regno intermedio tra la necessità dell’oggetto naturale e la libertà radicale del soggetto trascendentale (Merleau-Ponty 1996, 312-313).
Il problema del vivente – che possiamo anche chiamare, se ci è concesso, il problema della finalità senza scopo – è un problema sentimentale e affettivo. È ancora un paradigma del corpo che permette di comprenderlo: un corpo è il medium non solo, e non tanto, della natura e della libertà, bensì della inerenza al mondo e agli altri viventi. È mediante il corpo – un’utilità non strumentale – che si è costitutivamente aperti ad altre modalità dell’esistere e del vivere. Una mediazione senza soggetto che si fa nel mezzo delle relazioni inter-individuali: l’inerenza come vero e proprio fenomeno trans-individuale, contatti molteplici e variegati tra corporeità (cfr. Merleau-Ponty 1996, 254-261). Appare, in queste considerazioni, un altro dei concetti cardine della proposta di Iofrida, concetto che crea un ponte col suo lavoro precedente: si tratta della nozione di libertà strutturale. Una concezione strutturale – o ecologica – della libertà comporta che essa non sia la radicale assenza di limiti, bensì che trovi la propria potenza esistenziale ed espressiva nella composizione delle relazioni, nella ricchezza e varietà degli affetti e degli incontri corporei.
È una libertà che non è competenza di una filosofia della prassi, ma di un’etica, come accennato, dal punto di vista pragmatico. Un’ecologia della libertà richiede pratica e attenzione [Aufmerksamkeit] (p. 146), un’educazione sentimentale finalizzata a un uso ragionevole degli affetti. Insomma, la libertà, in una prospettiva ecologicamente orientata, presuppone una capacità tecnica. È in quest’ottica che leggiamo, infatti, la proposta di Iofrida di una tecnica ecologica (pp. 84-90). Si tratta di una formula ambigua, ma le ambiguità spariscono se non usciamo dalla semantica nella quale ci stiamo muovendo. Un tale epiteto, infatti, è lontano da un greenwashing delle attuali configurazioni tecnico-tecnologiche del tardo capitalismo: insomma, non si prospetta la necessità di una Green Economy. Si tratta, invece, di una concezione ecologica della tecnica che tenga conto del portato affettivo – cioè esistenziale e vitale – della tecnica.
In questo senso, una tecnica ecologica è di segno contrario rispetto alle attuali configurazioni produttive (si tratta di uscire dal dualismo manicheo «produzione o libertà», p. 60; andare al di là dell’alleanza demoniaca di capitalismo e schizofrenia, cfr. Pignarre & Stengers 2016) configurandosi invece come rivolta alla convivialità – tra umani e tra umani e non umani – incastonata nella complessità variegata degli ambienti di vita (fondamentale in quest’ottica il capitolo dedicato alla teoria dei sistemi, pp. 121-140). È ancora una semantica del giudizio: la tecnica rimanda all’arte, cioè una tecnica ecologica diventa una vera e propria arte dello stare in vita da parte dei viventi – ecologicamente, vi è tecnica ovunque vi sia fragilità e ostinazione della vita: occorre «concepire l’arte come un nuovo modo di rapportarsi al mondo […] poiché, già in se stessa, tale prassi priva di finalità è un’altra e superiore modalità di azione del nostro corpo vivente rispetto a quella meramente utilitaria, essa può essere punto di partenza di una prassi concreta […] e punto di arrivo di una costruzione dal basso, partecipata, intersoggettiva» (p. 152).
Senza dubbio si tratta di una concezione ottimistica della tecnica: nessuna caduta da un eden ormai perduto, né solo nichilistica distruzione della vita da accettare passivamente come un destino. Si tratta, invece, di un’arte pericolosa, quella dello stare in vita, proprio perché la vita – un vivente – è insieme ostinazione e fragilità: l’educazione sentimentale serve a saper «reggere delle crisi, saper gestire il rischio […], anche se rischio significa appunto che la crisi non è mai del tutto esclusa e che il disordine può avere sempre il sopravvento» (p. 123). È una concezione ecologica e ottimistica della tecnica, sì, ma non è il frutto di una anima bella (ecco comparire una certa ispirazione hegeliana). Rifacendosi al lavoro di Kurt Goldstein (2016), neurologo tedesco del secolo scorso, tra le fonti di Merleau-Ponty, Iofrida ci ricorda che «un organismo vivente, e l’uomo in particolare, è teso ad accrescere continuamente la propria complessità […]; esso cerca dunque la relazione e anche il conflitto, in un mondo in cui l’ordine è sempre un momento precario all’interno di una lotta di forze eterogenee che genera un perenne dinamismo» (p. 127).
Educazione sentimentale, teoria degli affetti e concezione tecnica del vivente: i tre capisaldi che istituiscono la fondazione filosofica dell’ecologia proposta attraverso un paradigma del corpo. Tale paradigma fa sì che un’ecologia filosofica si trovi a proprio agio non nel contemplare un’astratta e fondativa Natura Naturante, un’origine ormai perduta o distrutta dalla cattiveria dell’Uomo, bensì nel concepire modi possibili del vivere in comune, forme collettive di esistenza con i più ampi margini di gioco transindividuali, vincoli che non obbligano capaci di aumentare le potenze esistenziali e le capacità creative dei viventi umani e non (è questo il principale rimando al concetto di natura di Merleau-Ponty). Si tratta di una concezione minoritaria della storia, del divenire minoritario dell’umano, dei suoi affetti, delle sue ibridazioni, delle sue contaminazioni (cfr. Deleuze & Guattari 2015, 349-357). Una storia minore che non ha la Natura come Grande Altro, bensì che è caratterizzata dalla sua inerenza all’elemento naturale, alla sua imprevedibilità, alle sue complessità ontologiche (ma anche epistemologiche, dato che, ecologicamente, l’ontologia è inscindibile da un’epistemologia): si tratta di una storia universale della contingenza (Deleuze & Guattari 2002, 86).
L’ecologia filosofica proposta da un paradigma del corpo è così una filosofia artistica, un’arte, pericolosa e sublime a un tempo, del vivere insieme, del condividere la Terra con altri viventi (l’Autore parla di «un materialismo della Terra», p. 44). Un’arte, per chiudere restituendo il ruolo di Michel Foucault nel nuovo paradigma ecologico (pp. 205-211), che sia una «estetizzazione della vita come progetto condiviso di una comunità di eguali che dialogano e, esercitando la socievolezza, istituiscono con il mondo e gli altri una relazione che non è quella della ragione strumentale, brutalmente utilitaria, ma che può a tutti gli effetti definirsi ecologica: non è il bello quella dimensione sempre mobile di limite in cui ci apriamo al mondo e agli altri non in funzione di un dominio, ma per essere passivi quanto attivi, copresenti in una relazione con l’alterità che può definirsi col termine, anch’esso fenomenologico, di attenzione?» (p. 211).
Bibliografia minima
Deleuze, G. & Guattari, F. (2002; ed or. 1991). Che cos’è la filosofia?. Torino: Einaudi.
Deleuze, G. & Guattari, F. (2015; ed. or. 1980). Mille piani. Capitalismo e schizofrenia 2. Tr. it. G. Passerone. Roma: Castelvecchi.
Goldstein, K. (2016; ed. or. 1934). L’organismo. Un approccio olistico alla biologia derivato dai dati patologici nell’uomo. Tr. it. L. Corsi. Roma: Fioriti.
Merleau-Ponty, M. (1996; ed. or. 1995). La natura. A cura di M. Carbone. Milano: Cortina.
Pignarre, P. & Stengers, I. (2016; ed. or. 2005). Stregoneria capitalista. Pratiche di uscita dal sortilegio. Tr. it. di S. Consigliere e A. Solerio. Milano: IPOC.
Semerari, G. (2009; ed. or. 1961). La filosofia come relazione. Milano: Guerini.
La nuova edizione di Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo (Feltrinelli, 2018) raccoglie tre saggi di Donna Haraway, teorica femminista e storica della scienza allieva di Georges Canguilhem. I saggi in questione sono stati pubblicati la prima volta nel 1991, in Italia nel 1994, all’interno di una raccolta dal titolo Simians, Cyborgs and Women. The Reinvention of Nature (Routledge). L’importanza della riedizione di un testo considerato ormai un classico può ricercarsi nella necessità di rivalutare la portata teorica e filosofica della riflessione di Haraway, portata che fino ad ora sembra essere stata scarsamente considerata. Ciò che andrebbe messo in discussione è un inquadramento “specialistico” del testo, che lo vorrebbe di interesse unicamente per chi si occupa di “questioni legate al genere” e, ancora più nello specifico, per chi nella cornice degli studi di genere riflette sui problemi della scienza e della tecnologia. Nella rivalutazione delle implicazioni teoretiche di Manifesto Cyborg è in gioco, più in generale, la riconsiderazione dell’importanza filosofica dei cosiddetti studi di genere e postcoloniali, che normalmente trovano legittimazione solo se inseriti nella cornice dei cultural studies. Il testo di Haraway eccede queste cornici disciplinari, e con le sue incursioni “spregiudicate” nel terreno delle scienze biologiche, biomediche e delle teorie dei sistemi, può essere considerato un’argomentazione a favore della contaminazione come importante strumento di produzione e creatività teorica.
Fin dalle prime pagine di Manifesto Cyborg è chiara l’urgenza teorica e politica che muove la riflessione dell’autrice: la necessità per il femminismo socialista e in generale per gli allora nuovi movimenti di sinistra di ripensarsi, alla luce del confronto con le profonde trasformazioni globali che segnavano il contesto dell’elezione di Reagan alla presidenza degli Stati Uniti negli anni ’80. Il cyborg, protagonista dell’opera, rappresentava provocatoriamente quella peculiare “creatura” contraddistinta da un’intrinseca necessità di evadere ogni forma di pensiero dicotomico, ogni forma di razionalità strutturata intorno a stringenti dualismi, in favore di un nuovo punto di vista in grado di rendere conto di una realtà infinitamente complessa ed eccedente che il suo stesso apparire metteva prepotentemente alla ribalta. A quasi trent’anni di distanza, in cui la modalità dominante di gestione della complessità (sociale, psichica, politica, scientifica) sembra ancora rimanere il riduzionismo, in cui lo scenario pare ancora caratterizzato dal riproporsi di un pensiero dicotomico e dall’intensificarsi delle logiche di dominazione patriarcale, razzista e capitalista connaturate a esso, provare a immaginare un modello di razionalità che non evade la complessità ma che se ne fa carico non si rivela meno urgente. La posta in gioco è l’elaborazione di modalità alternative e sfaccettate di gestione della complessità, rifiutando quindi anche quel pensiero che vedrebbe nella postmodernità il terreno in cui si consuma la crisi della razionalità dominante che non lascia spazio a null’altro se non alla contingenza e alla “differenza” irriducibile, intese come negazione dell’elaborazione teorica e della prassi. Manifesto Cyborg riapre invece con forza l’elaborazione teorica, etica e politica, al cuore della postmodernità e lo fa oggi non meno di ieri.
Lo sguardo attraverso cui Haraway analizza le trasformazioni che segnano il suo tempo è quello che deriva dalla sua storia in quanto biologa: in particolare, l’autrice mette in luce la profonda rielaborazione e ripensamento della biologia in relazione all’emergere di nuovi saperi, quali la cibernetica, le teorie dei sistemi, le scienze della comunicazione e dell’informazione. Il ripensamento della biologia in seguito alla contaminazione con nozioni, teorie e concetti provenienti da queste scienze è stato profondo al punto che, secondo Haraway, si può sostenere che l’“organismo” biologico, come oggetto della scienza, abbia cessato di esistere, e sia stato sostituito da sistemi di comunicazione completamente denaturalizzati. Gli organismi sono quindi diventati artefatti, sempre contingenti, le cui modalità di costruzione non sono vincolate da nessun’architettura naturale. Contemporaneamente, le macchine hanno preso vita: se quelle pre-cibernetiche potevano essere ancora distinte dagli organismi in quanto pensate e costruite dall’uomo, le macchine cibernetiche rendono completamente ambigua la distinzione tra autosviluppo e progettazione esterna (p.43).
Le ondate di denaturalizzazione e de-essenzializzazione che secondo N. Katherine Hayles definiscono il postmodernismo hanno quindi investito anche i corpi biologici: se le prime teorizzazioni degli organismi come sistemi cibernetici riposavano ancora su una concezione olistica e mantenevano intorno a questi un certo involucro, le teorie sociobiologiche di uno scienziato dalla sensibilità postmoderna come Richard Dawkins hanno radicalizzato questa tendenza, rompendo definitivamente con i paradigmi olistici e ripensando l’individualità biologica come costrutto contingente ad ogni livello. Come mettono in luce le escursioni di Haraway nel territorio delle moderne biologie della comunicazione, i processi di decostruzione e ricostruzione dei corpi occupano il centro del discorso, non solamente dal punto di vista del critico culturale o dell’archeologo delle scienze umane, ma anche dello scienziato postmoderno: le biologie moderne si occupano di tecnologie d’inscrizione e codici, di processi di disassemblaggio e riassemblaggio, di sistemi di controllo altamente tecnologizzati. La centralità delle tecnologie di scrittura emerge in modo evidente se si considerano i lauti investimenti direzionati a progetti come quello di mappatura e ricostruzione del genoma umano. Questo progetto emblematizza un “umanesimo postmoderno” in cui la ricerca biologica segnata dalla rilevanza sempre maggiore delle tecnologie d’inscrizione è messa al servizio della tradizionale ideologia umanista e del sogno ad essa associato di poter finalmente definire l’umano, di poter finalmente tracciare un confine netto e chiaro, privo di ambiguità e porosità tra il sé e il non-sé.
Il cyborg, segnalando importanti cedimenti di confine come quello tra macchina e organismo e tra umano e animale, si presenta come figurazione non dicotomica della nostra realtà sociale e corporea, che consente quindi di rompere con i dualismi che hanno strutturato la razionalità occidentale: naturale/artificiale, natura/cultura, uomo/donna, mente/corpo, materia/forma, umano/animale, soggetto/oggetto. Come ci ricorda Haraway, queste non sono mai solo opposizioni dicotomiche: attraverso questi dualismi, la razionalità occidentale ha intrecciato il suo destino a pratiche di dominio e di oppressione legate al genere, alla razza e alla specie.
D’altra parte, il cyborg in occidente è anche espressione di una cultura maschilista e guerrafondaia, che concepisce la vulnerabilità che contraddistingue la dimensione corporea come segno di una “mancanza” costitutiva, a cui far fronte attraverso un progressivo miglioramento delle strategie di difesa. Se le individualità cyborg sono per definizione contingenti e instabili, l’immagine della corsa agli armamenti e della guerra perenne lascia trasparire in filigrana il “telos apocalittico” (p. 41) di un sé finalmente libero da ogni forma di dipendenza. La realizzazione di un sé autonomo e integro, che ha “disassemblato” e digerito ogni forma di eterogeneità e alterità si accompagna al dispiegamento di un apparato di controllo diffuso e capillare, che Haraway indica come “informatica del dominio” (p. 55). Con questa figurazione si vogliono mappare i nuovi inquietanti meccanismi di controllo che attraversano il nostro tempo: alle gerarchie che contraddistinguono il “patriarcato capitalista bianco” (p. 57) si sostituisce un sistema polimorfo e reticolare, che agisce attraverso l’allacciamento di connessioni multiple. Ai vecchi sistemi di controllo centralizzato si sostituisce la delocalizzazione, la decentralizzazione, la diffusione e la moltiplicazione dei centri.
Ma il cyborg è anche un costrutto femminista, e in questo senso elicita possibilità oppositive e liberatorie. Cyborg è quel particolare oggetto di conoscenza e pratica femminista, l’esperienza delle donne, che proprio in quanto fatta oggetto di sapere, è ricostruita come aperta, non finita, contestata, vulnerabile, presa in un gioco di perenne decostruzione e riscrittura. Haraway a questo proposito da particolare importanza ai processi di decostruzione e di de-naturalizzazione che hanno interessato il femminismo in seguito al prendere voce di quelle soggettività, come le donne nere, che sfuggono al sistema di categorie attraverso cui i teorici e le teoriche occidentali hanno tentato di rappresentare il mondo degli oppressi. Questi processi hanno consentito al soggetto femminista di riarticolarsi lungo assi inediti, di immaginare e di praticare nuove forme di unità e di identità al di fuori dell’impianto dicotomico e oppositivo che ha strutturato i miti politici occidentali. La critica post-coloniale ha ricostruito le identità femministe come identità sempre parziali, contraddittorie e problematiche, definite dal non poter essere naturalizzate o essenzializzate. Haraway legge in questo senso la Sister outsider della poetessa nera Audre Lorde (p. 74), ovvero come ricostruzione letteraria dell’identità attraverso l’esclusione, la non appartenenza in quanto eccedenza rispetto a categorie prestabilite. Le identità ricostruite nelle pratiche di scrittura delle donne di colore sono identità sempre contraddittorie e frantumate, prive del privilegio dell’identità a sé, prerogativa dei corpi non marcati come quelli maschili e bianchi. Se i processi decostruttivi e de-essenzializzanti impediscono di radicare la politica nelle identità “naturali”, questo non significa che sia stata minata radicalmente la possibilità di legami: la loro ricostruzione implica politiche dell’affinità, che non ripristinano unità naturali, ma non per questo impediscono legami (parziali ma potenti) e comunità per soggetti postmoderni.
Con l’elaborazione della nozione di “saperi situati” Haraway si inserisce in un altro dibattito che attraversa il femminismo: il rapporto con l’epistemologia e la scienza e, strettamente connesso a questo, il dibattito circa lo statuto dell’oggetto di conoscenza. Proponendo “saperi situati” Haraway intende pensare una versione femminista di oggettività scientifica, che consenta di uscire dalla polarizzazione del dibattito attuale, caratterizzato dal contrapporsi di posizioni radicalmente costruzioniste ed empiriste. La rielaborazione della nozione di oggettività che Haraway propone si appoggia a un ripensamento della metafora della visione. Se quest’ultima ha significato, nella storia della razionalità occidentale, la capacità di alcuni corpi (quelli maschili, benestanti e occidentali) di “smaterializzarsi” in uno sguardo venuto dal nulla mentre si inscrivevano i corpi marcati nel mito, con la nozione di saperi situati assume un significato opposto. L’oggettività e la visione non significano più neutralità e distanza, ma corporeità, parzialità, localizzabilità, impegno e coinvolgimento. (p. 115) L’oggettività ha a che fare non con la scoperta distaccata, ma con la strutturazione reciproca e di solito ineguale; solo saperi parziali, vulnerabili e impegnati garantiscono una conoscenza oggettiva, ovvero che non sia un’illusione. Oggettività e visione non segnalano più un “trucco da dio”, che consente di scomparire arrogandosi il potere di rappresentare senza essere rappresentati, ma diventano modi per stare nel corpo, pratiche di assunzione corporea.
In How we became posthuman, Katherine Hayles sostiene che l’affermarsi di quell’entità chiamata informazione si sia accompagnata a processi di “smaterializzazione” dei corpi, di progressivo abbandono e trascendimento dei vincoli della materialità. L’approccio di Haraway ai mondi alto-tecnologici mostra una realtà più complessa: i corpi radicalmente decostruiti e ricostruiti dalle moderne biotecnologie e dalle scienze informatiche non comportano tanto la smaterializzazione di questi in puri flussi informativi, problemi di codifica e di ricerca di un linguaggio comune che permetta la perfetta comunicazione. Anche l’informazione per Haraway ha una specifica dimensione materiale, così come i testi e i codici, che dovrebbero venire ripensati attraverso la nozione di embodiment. Facendo riferimento alla dimensione corporea, Haraway non si riferisce quindi a una dimensione prettamente biologica: le tecnologie di visualizzazione sono ripensate come sistemi di percezione attivi, nelle quali siamo immersi e con le quali siamo inestricabilmente intrecciati nella costruzione di specifiche forme di vita: un aspetto del nostro embodiment.
Il ripensamento della nozione di corporeità consente ad Haraway di riprendere e al tempo stesso di andare oltre l’analisi biopolitica inaugurata da Michael Foucault, ovvero dell’analisi che fa del corpo l’entità bioculturale per eccellenza e che consente di indagare i rapporti di potere che si concentrano direttamente sul soggetto in quanto entità corporea. La decostruzione della corporeità come sistema di comunicazione tecnologico consente di indagare gli effetti del biopotere oltre la sfera organismica: oggetto delle relazioni di potere non è più un corpo organico e organizzato gerarchicamente, ma sistemi cibernetici completamente decostruiti, assemblaggi ricomposti in modo sempre parziale, costrutti contingenti. Le biopolitiche che interessano corpi ricostruiti come sistemi di comunicazione non sono quelle del sesso e della riproduzione, ma dell’immunità, legate ai processi di replicazione di un sé estremamente vulnerabile e contingente (p.159). Quali tipi di sé vengono costruiti dal discorso sul sistema immunitario? L’intento di Haraway è di risignificare il paradigma immunitario: da dispiegamento di una guerra diffusa e capillare, in cui la replicazione del sé è funzione delle sue strategie di difesa e di attacco di fronte a una minaccia costante di “invasione”, a sistema che “apre” il sé e lo mantiene aperto. In quanto dispiegamento di una rete capillare di blackout e crolli delle comunicazioni, di confusione di confini, il sistema immunitario continuamente “disfa” il sé, mantenendolo contraddittorio ed eterogeneo, impedendone la chiusura e l’autonomizzazione. In questa dimensione riposa la “promessa illegittima” (p. 42) del cyborg: la sua natura artefatta, saltando il gradino dell’unità originaria, impedisce la realizzazione del suo telos apocalittico. In quest’ottica, inoltre, la differenza irriducibile con cui obbligano a fare i conti la postmodernità e i processi a essa inestricabilmente connessi, come quelli di decolonizzazione, non segnala tanto la “morte del soggetto”, come vorrebbero alcuni, ma piuttosto ci costringe a ripensare il soggetto come non isomorfico, auto-contraddittorio e multidimensionale.
Tutto inizia con un duplice paradosso. Da una foto scattatagli da Antonio Semeraro nel 1994, il pittore Simon Hantaï ritaglia un particolare (che mostra le ginocchia, sformate e impolverate, dei propri pantaloni) e lo glossa sul retro con la scritta: «Ho passato la vita a quattro zampe. Scultura fatta dal corpo (Duchamp). Autoritratto, dunque». Se già questa, come immagine o sineddoche di sé, appare sorprendente, non lo è meno l’inclusione del particolare fotografico in un libro del filosofo Jean-Luc Nancy dal titolo Le Regard du portrait, accanto ad altre riproduzioni, quasi tutte di ritratti o autoritratti tradizionalmente intesi. Certo, considerando che il pittore ungherese ha dipinto gran parte delle proprie tele non su un cavalletto ma appoggiandole sul pavimento dell’atelier, si capisce in quale senso egli possa vedere nel dettaglio della foto un’immagine eloquente di se stesso. Da parte sua, Nancy prende sul serio tale definizione di ‘autoritratto’ perché si rende conto che, nell’arte contemporanea, la centralità dello sguardo della persona raffigurata si perde spesso a favore di più indirette rappresentazioni del soggetto, o di nuovi e imprevisti trattamenti «del sub e del getto (del supporto e della pittura)». In ogni caso, quando il filosofo si rivolge ad Hantaï per chiedergli l’autorizzazione a inserire nel proprio libro la foto dei pantaloni, probabilmente non immagina che la risposta positiva del pittore sarà all’origine di un carteggio fra loro destinato a durare anni e a essere pubblicato in due distinti volumi. Le lettere presentano un carattere personale e spontaneo ma, nel contempo, offrono utili spunti di riflessione. L’artista, infatti, è anche un lettore di testi filosofici, antichi e recenti, dunque in grado di dialogare senza imbarazzo col suo interlocutore. SCARICA IL PDF
A cura di:
Giuseppe Zuccarino è critico e traduttore. Ha pubblicato vari saggi: La scrittura impossibile, Genova, Graphos, 1995; L’immagine e l’enigma, ivi, 1998; Critica e commento. Benjamin, Foucault, Derrida, ivi, 2000; Percorsi anomali, Udine, Campanotto, 2002; Il desiderio, la follia, la morte, ivi, 2005; Il dialogo e il silenzio, ivi, 2008; Da un’arte all’altra, Novi Ligure, Joker, 2009; Note al palinsesto, ivi, 2012; Il farsi della scrittura, Milano-Udine, Mimesis, 2012. Tra i libri da lui tradotti figurano opere di Mallarmé, Bataille, Klossowski, Blanchot, Caillois e Barthes.
Pietro Verri, all’inizio del suo Discorso sull’indole del piacere e del dolore (1781), descriveva la sensibilità umana come «il grande arcano». L’età moderna è attraversata da una doppia consapevolezza: dell’oscura complessità del sentire e della necessità di imbrigliarlo. Iniziano da qui gli sforzi di subordinare questa potenza centrifuga ad una facoltà ordinatrice, l’intelletto; salvo poi, per rendere ragione del suo aspetto più sacro e inquietante, ricondurla ad una zona delimitata dove quasi tutto è concesso: la sfera dell’arte e i suoi luoghi. L’Estetica nasce divisa tra il dominio dei sensi nell’edificio della conoscenza e il dominio delle arti, soprattutto le arti “belle”, dove la sensibilità è portata al suo grado di perfezione. Un grande equivoco. O un paradigma che non regge più: sia l’arte che la sensibilità sono state liberate, storicamente, nelle loro potenze più inquiete e se si vuole ancora - poiché più che mai si deve - parlare in termini estetici occorrono tutt’altri presupposti. Il libro di Fulvio Carmagnola L’anima e il campo. La produzione del sentire (Mimesis 2016) propone in tal senso i termini di una rifondazione del discorso estetico.
L’intento di Carmagnola è innanzitutto quello di individuare le modalità minime dell’estetico, là dove esso non è stato addomesticato. Le sue prime mosse teoriche si potrebbero riassumere in questa frase: l’estetico è rapporto con un reale. Si tratta della proposizione minima su cui si è giocato il discorso da ben prima della costituzione dell’Estetica moderna: Platone parla del rapporto che va dalla copia o dal simulacro all’idealità reale, Aristotele di quello che lega una facoltà sensitiva al reale fisico. Oggi s’impone la necessità di pensare questo rapporto al di là del legame rappresentativo. Ispirandosi alle analisi del post-strutturalismo francese, Carmagnola cerca nel paradigma realista (nel De Anima di Aristotele prima e nell’Estetica razionale di Ferraris poi) le asperità teoriche che permettono di riformulare l’estetico come l’affezione che un’anima riceva da un fuori. Il reale si configura come un’esteriorità dinamica, opacità non-oggettivabile né riducibile a simbolo, che frantuma il soggetto (una lacaniana extimité) a partire dalle sue stesse facoltà. Ciò che è affetto, l’anima, è invece una tabula dotata non di semplice ricettività, ma di una forma di riflessione produttiva, la cui attività resta precedente alla coscienza.C’è un “fuori” che affetta un’“anima”: ecco l’estetico.
La mossa teorica cruciale sta nel collocare l’anima tra le facoltà e in ognuna di esse: come spiega Carmagnola, citando Deleuze, ogni facoltà ha il suo sentire, la sua zona di virtualità dinamica, la sua passione. La sensibilità, intesa come facoltà dei sensi, confina “in basso” con le potenze del reale; si tratterà di liberarla dal suo ruolo iniziale nell’edificazione del soggetto e dalla sua subordinazione all’intelletto. Il pensiero, a sua volta, confina “in alto” con un impensato, come il nous che Aristotele divide in passivo (materiale) e agente (formale). Il “fuori” è dunque tanto concreto quanto astratto. E si manifesta come presentazione assoluta: l’immagine, nel mostrare le ragioni del proprio apparire, è un nudo imperativo che coglie di sorpresa tanto i sensi quanto il pensiero. Le parti più feconde del saggio sono proprio quelle che si avvicinano all’incontro che avviene nelle opere - da Beckett a Barnett Newman -, all’accadere dell’estetico in virtù di queste due potenze differenti.
L’anima è così una sorta di ricettacolo delle forme che riflette la passione dei sensi e quella del pensiero. Riguarda il senso non elaborato dalla coscienza, e perciò è più corpo che spirito. Soprattutto, è «emergenza di un terreno»: si configura spazialmente, come un campo. Togliendo gli oggetti, spiega Carmagnola, e togliendo le loro coordinate trascendentali, non resta che il campo di produzione, il luogo dell’incontro, il campo del sentire. Questo termine pesante tenuto in gioco, “anima”, appare come un tentativo di sviluppare la nozione deleuziana di superficie. Al limite delle facoltà, secondo il loro eccesso, il sentire ha luogo come emergenza di uno spazio, «impersonale» e «intensivo» (Deleuze), «esteso» - perché non cogitans, come l’inconscio, e in tal senso «tecnico» (Nancy). Non ci addentriamo nelle argomentazioni riportate dall’autore; basti l’esempio di quelle opere (quei frutti della techne), che per semplicità chiamiamo ancora opere d’arte, in cui siamo “invitati ad entrare”, che impongono cioè un ingresso piuttosto che un’osservazione distaccata: non siamo più oggi, di fronte ad un quadro, ma «dentro una macchina». Nel produrre puro sentire, l’arte contemporanea non rappresenta, ma presenta degli spazi.
Anche se un tale mosaico teorico non sembra raggiungere lo stato di una sintesi, l’autore mostra un grande lavoro di raccolta e messa a frutto di materiali disparati, in assoluta consapevolezza delle attuali tendenze filosofiche. L’originalità della proposta si scorge anche nelle sue prime conseguenze: fra tutte, la possibilità - suggerita da Carmagnola nell’ultima parte del saggio - di interpretare il campo estetico come una componente del campo del biopotere. Quello che si dischiude attraverso i vari dispositivi di apertura del campo del sentire (dalle immagini pubblicitarie agli oggetti di consumo) è uno spazio comune di godimento, di empatia nel being entertained,che non si rivolge più a delle soggettività compiute ma, piuttosto, le compie.
Qui l’autore intercetta un passaggio importante e raramente riconosciuto: l’ideale dell’arte come chance di resistenza e liberazione è legato alla supposizione di una sua mistica portata veritativa. È sul terreno vago delle potenzialità politiche che la filosofia dell’arte e la vecchia estetica continuano ad avere un peso. Nella sua analisi, fortemente influenzata dalla psicanalisi lacaniana, Carmagnola sembra però vedere solo un lato della questione. Se è vero che il distoglimento dischiuso dal sentire non ha più alcun valore liberatorio nel caso dell’arte attuale (l“arte contemporanea” e il suo sistema), è vero d’altra parte che, allargando il campo a ciò che arte non è, anche le chances per la prassi si moltiplicano. Come intendere altrimenti il fenomeno (non ancora del tutto superato nell’istituzionalizzazione) della street art? Come includere quelle immagini che, da sole, tengono in piedi una memoria minacciata, come i pochi fotogrammi scattati dentro i campi di sterminio? Il «campo del sentibile» è qualcosa di molto più sfuggente del campo dell’arte, e deve indicare un più ampio paesaggio di pratiche.
Nell’opera complessiva del filosofo italiano Giorgio Agamben emerge con singolare nettezza l’articolato e celeberrimo progetto che va sotto il nome di Homo sacer. È questa un’opera densa e articolata, avviatasi verso la metà degli anni ‘90 con l’omonimo saggio (Homo Sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, 1995) e definitivamente conclusasi di recente con il volume L’uso dei corpi (Neri Pozza, 2014). Eppure, nella mente e nella penna dell’Autore sembra permanere ancora lo spazio per un’ulteriore incursione nel politico – un’incursione, forse, tra le più problematiche e complesse finora affrontate dall’intellettuale italiano. È questo il caso del recentissimo saggio Stasis. La guerra civile come paradigma politico, che raccoglie i contributi di due conferenze tenutesi presso l’Università di Princeton nel 2001; etichettato con la dicitura Homo sacer, II, 2 il testo si frappone tra il precedente Stato di eccezione ed il successivo Il Regno e la Gloria. A un primo sguardo, i temi del nuovo volume appaiono collegati e opposti nel medesimo frangente. Da un lato, si assiste a un breve esame critico della nozione greca di stasis, che sinteticamente va a indicare la guerra civile combattuta all’interno di una stessa comunità politica tra fratelli e concittadini. Dall’altro, trova invece spazio un originale e innovativo studio sull’opera più nota del filosofo inglese Thomas Hobbes (Leviathan or The Matter, Forme and Power of a Common Wealth Ecclesiastical and Civil, 1651), ossia su quella costruzione filosofico-giuridica che ergendosi al di sopra della moltitudine sociale scongiura per l’appunto il rischio del conflitto sociale. Ciò che va fin d’ora notato, tuttavia, è che l’approccio prescelto dall’Autore non è tanto quello di chiosare le note affermazioni che tradizionalmente si ripetono negli studi di settore, né quello di elaborare ex novo una teoria della guerra civile. L’interesse scaturente dalle pagine del breve scritto nasce dal desiderio di tracciare un nuovo filone critico sotteso allo studio della cd. stasiologia, e di sopperire in tal modo alla lacunosità del dibattito filosofico e giuridico attuali.
Secondo Agamben, ciò che manca oggi è propriamente uno studio ragionato e consapevole sul conflitto civile, ossia un tentativo di pensare filosoficamente la crisi e lo scontro. Un tentativo, deve aggiungersi, che ben al contrario si attualizza nel desiderio compulsivo di gestire, risolvere e se possibile anticipare il caso serio, al fine di evitarne ogni possibile problematicità. Proprio alla luce di questa ansia di risoluzione, il dato intellettuale tristemente si smarrisce: a riprova di ciò stanno tanto l’assenza di testi giuridici e politologici di riferimento, quanto la crisi stessa del termine guerra civile, sintagma che nell’ambito internazionale si riduce oramai a fattispecie invocante il mero intervento regolativo degli organismi internazionali. Ecco dunque che di fronte alle civil (o, come sembra ormai consuetudine etichettarle, uncivil) wars non si elabora più una teoria volta alla loro comprensione, bensì si mira a un management delle medesime, ossia a un articolato sistema di iniziative che si esplicita nelle plurime attività «della gestione, della manipolazione e dell’internazionalizzazione dei conflitti interni» (p. 11). Per colmare questa sorprendente mancanza, il breve saggio di Agamben si incarica di mostrare due eclatanti manifestazioni storiche di tale paradigma, ricorrendo alla tradizione politica della Grecia classica e al pensiero filosofico di Thomas Hobbes. La convinzione che muove l’Autore in questo particolare percorso è infatti che entrambi i momenti rappresentino «le due facce di uno stesso paradigma politico, che si manifesta da una parte nell’affermazione della necessità della guerra civile e, dall’altra, nella necessità della sua esclusione» (p. 12). Tale opposizione, in altri termini, è il segno concreto di una loro intima vicinanza, che il consueto stile espositivo agambeniano chiarisce nelle sue plurime implicazioni.
Prima di tutto, il doppio e opposto significato del termine stasis, che va ad indicare tanto il concetto di immobilità, stabilità e mantenimento dello status quo, quanto quello di sedizione, rivolta e infine rivolgimento politico. Nella sua prima accezione, il termine giunge fino ai nostri giorni nelle forme note di stato ed istituzione (entrambi derivando, come lo stesso termine stasis, dal radicale “–sta” del verbo greco hìstemi). Nel suo secondo senso, il lemma sembra invece essersi dissipato, permanendo solo come antica vox media di un paradigma politico più ampio e quasi sotterraneo. Attraverso un’analisi delle sue molteplici ricorrenze sia in Tucidide sia in Platone, Agamben arguisce che in realtà l’emblematica indeterminatezza della voce ricade di fatto in una forma di ambiguità concettuale, in base alla quale la guerra civile esulerebbe tanto dall’oikos (ossia dal focolare domestico), quanto dalla pòlis (ossia dalla collettività urbana). Essa sarebbe quindi la zona di indifferenza tra lo spazio impolitico della famiglia e quello politico della città: «nel sistema della politica greca, la guerra civile funziona come una soglia di politicizzazione o di depoliticizzazione, attraverso la quale la casa si eccede in città, e la città si depoliticizza in famiglia» (p.24). In definitiva, la stasis opera come un reagente che rivela l’elemento politico nel caso estremo, ossia come una soglia di politicizzazione che determina di per sé il carattere politico o impolitico di un certo essere. Ulteriore conseguenza è che questa stessa indeterminatezza concettuale si riverbera nel formante giuridico, così come mostrato dall’istituto penalistico dell’amnistia. Se infatti il prendere parte alla guerra civile era nell’antica Grecia politicamente necessario, a conclusione del conflitto interveniva comunque la pacificazione sociale, che attraverso le forme dell’oblio (amnistia – da amnestèo – indica appunto la dimenticanza) sanava retroattivamente la partecipazione attiva dei suoi componenti. In questo senso, la stasis non è qualcosa che semplicemente deve essere rimosso, ma è «l’indimenticabile che deve restare sempre possibile nella città e che, tuttavia, non deve essere ricordato attraverso processi e risentimenti» (p. 29).
Nella Grecia classica, possiamo allora concluderne, non si dà una sostanza politica omogenea, ma un manifestarsi irregolare e continuo di correnti tensionali e instabili, esprimentesi in ultimo grado nelle forme della politicizzazione e della depoliticizzazione, ossia nella commistione belluina della famiglia e della città.
Ora, è precisamente per sconfiggere questo scenario mortifero e abissale che Hobbes costruirà il suo Leviatano, quell’immenso automa o “Dio mortale” composto da una moltitudine di piccole figure umane tradizionalmente intese come sudditi. Com’è facile scorgere esaminando i due diversi frontespizi dell’opera (l’uno vede rappresentati i sudditi con il viso rivolto verso il lettore; l’altro, coevo al primo, li coglie al contrario di spalle), gli esserini che compongono l’immenso meccanismo artificiale si uniscono saldamente gli uni agli altri. La spiegazione traslata è che ciò avviene per mezzo del loro reciproco accordo, che consente metaforicamente di compattarli dando luogo a quell’ideale corpo politico (body political) così caro al pensatore inglese.
Proprio la nozione di corpo politico, però, si presta alle più dure contestazioni: data la sua sfuggente consistenza, per Hobbes il popolo esiste solo nell’istante in cui si riunisce per nominare un leader o un’assemblea rappresentativa – ma in questo stesso istante svanisce improvvisamente. Il corpo politico, in altri termini, è qualcosa di altro e di impossibile, destinato continuamente a comporsi e subitaneamente a dissolversi nella costituzione del governo effettivo. È in questo preciso passaggio che Agamben ricerca un’affinità con il summenzionato meccanismo di esclusione/inclusione visto a proposito della guerra civile nella Grecia antica: «se il popolo, che è stato costituito da una moltitudine disunita, si dissolve nuovamente in una moltitudine, allora questa non soltanto preesiste al popolo/re, ma, come multitudo dissoluta, continua a esistere dopo di questo […] La moltitudine non ha un significato politico, essa è l’elemento impolitico sulla cui esclusione si fonda la città; e, tuttavia, nella città vi è soltanto la moltitudine, perché il popolo è già sempre svanito nel sovrano» (p. 55). Hobbes, rendendosi conto di tale aporia, oblitera il paradosso della moltitudine/corpo politico risolvendolo, com’è noto, con il ricorso immediato al pactum subiectionis. Ma se ciò ha il pregio di spezzare il circolo che dalla guerra civile conduce alla riconfigurazione della multitudo dissoluta, permane quale operazione problematica e nient’affatto ultimativa – un’operazione che lascia scoperto l’enorme problema di una possibile ripresentazione dello stato di natura e quindi del conflitto generalizzato.
Senza dubbio, è in questi termini che fino a oggi è stato pensato il fine ultimo del Leviatano: la posticipazione indefinita del conflitto civile. Il covenant alla base della sua formazione agirebbe, si sostiene, quale forza frenante rispetto all’avvento della discordia intestina, ossia quale meccanismo giuridico in grado di disinnescare a priori la fine dei tempi rappresentata dal collasso politico. In fondo, si può anche dire, il Leviatano fa paura proprio per questa ragione: se come si è visto la multitudo dissoluta può effettivamente frammentarsi in ogni istante e generare quindi un nuovo conflitto, lo Stato deve continuativamente incutere timore, un timore rivolto all’impedimento immediato di ogni sua concreta demolizione. Con un doppio ribaltamento, Agamben costruisce invece la propria conclusiva argomentazione accentuando la dimensione messianica e decisamente escatologica dell’intero pensiero hobbesiano. In tal senso il filosofo inglese, in accordo con il messaggio evangelico, configurerebbe il Leviathan quale “capo” di un political body, con ciò adoperando la nota immagine paolina che predica Cristo stesso quale “capo” dell’ekklesìa, ossia dell’assemblea dei fedeli. Se Cristo è il capo del corpo dell’assemblea, allora il Leviathan è il capo del corpo politico. Questo rispecchiamento profano del messaggio paolino conduce però a una precisa conseguenza: «nello stato attuale, Cristo è il capo del corpo dell’assemblea, ma, alla fine dei tempi, nel Regno dei cieli, non vi sarà più distinzione fra la testa e il corpo, perché Dio sarà tutto in tutti […] Ciò significa che alla fine dei tempi la finzione cefalica del Leviatano potrebbe essere cancellata e il popolo ritrovare il suo corpo. La cesura che divide il body political – soltanto visibile nella finzione ottica del Leviatano, ma di fatto irreale – e la moltitudine reale, ma politicamente invisibile, sarà alla fine colmata nella Chiesa perfetta» (p. 72). Un nuovo messaggio sembra allora profilarsi quale cifra complessiva di questa antica filosofia: lo Stato (di matrice hobbesiana) non ha affatto la funzione e il ruolo di una forza frenante o catecontica. Esso non vuole in alcun modo posticipare la fine dei tempi, ma al contrario avvicinarla escatologicamente, in modo da rendere reali l’avvento del Regno e la consumazione dei tempi. Buffamente, lo Stato-Leviatano – che nell’immaginario di tutti predicava la garanzia per la pace e la sicurezza dei sudditi – partecipa invece a una visione apocalittica del potere, in cui l’avvento catastrofico del Giorno del Signore è la lettera conclusiva dell’intera esperienza politica occidentale.
Diverse tradizioni sembrano allora confrontarsi nell’immagine storica di questa figura: da un lato quella terrifica di uno Stato assoluto e indomabile, che ingloba senza esitazione le anime di chi tenta di impossessarsene (come sottolinea vividamente Bodin nella sua Daemonomania). Dall’altro, quella cabalistica e messianica che intravede al contrario il grande monstrumscomparire nel festivo banchetto delle sue carni. Ma se la storia del pensiero politico sembra confinare tali interpretazioni all’archeologia del pensiero storico, una terza e parimenti inquietante forma di manifestazione è stata ben presente nella concezione dello Stato moderno. Una concezione che vedeva il Leviatano quale meccanismo artificiale e impersonale, in cui attraverso la generale neutralizzazione del politico si perveniva a una concezione del diritto quale strumento tecnico neutrale. L’annoso conflitto tra legalità e legittimità, che oggi prende le forme degli imperativi tecnici e della logica economica, produce ancora manifestazioni assolutizzanti e dotate di un vero e proprio carattere normativo, quali è facile incontrare nelle forme atipiche della soft law e della governance mondiale. Tali istanze scompaginano le categorie giuridiche fondamentali, costruendo e decostruendo lo stesso simbolo del Leviatano, e agendo come operatori eccezionali in grado di (ri)fondare l’ordine politico mondiale.
È forse attraverso la secolarizzazione di questa remota provenienza che sembra giunta allora l’epoca della stasis globale – un’epoca, suggerisce Agamben, in cui la politica contemporanea ricerca il proprio senso teologico senza riuscire pienamente a coglierlo, perché preda di una dimenticanza remota e inquietante che rimonta alle origine stesse della propria costituzione. Il contributo di Agamben, pur nell’estemporaneità della sua trattazione, è allora un piccolo ma denso tassello di un’opera ancora da scrivere e, forse, ancora da pensare.
La fenomenologia, secondo Lambert Wiesing (Il me della percezione. Un’autopsia, a cura di Tonino Griffero, Christian Marinotti edizioni, 2014), deve diventare – ritornare? - greca, in almeno quattro sensi differenti. Innanzitutto facendo proprio un adagio scettico: la natura delle cose è inesplicabile. Più che lanciarsi in ipotesi metafisiche – poco importa di quale natura – bisogna ritornare, con Husserl, a un più modesto ma efficace approccio descrittivo: “quale sia stata la sua genesi, è una cosa che non ci riguarda”. In secondo luogo, liberandosi da utopie di stampo scientista, la fenomenologia dovrebbe porsi alla stregua di un testo protrettico (p. 78). Descrivere fenomenologicamente una percezione non significa trasporre una serie di proposizioni analitiche dal carattere strettamente logico-scientifico, ma invitare e convincere il lettore a praticare quelle stesse esperienze trascritte dal fenomenologo. La fenomenologia si nutre - come già notava in senso critico Derrida - di un’intuizione, una presenza originaria, impossibile da comunicare per iscritto, ma, nonostante ciò, compiutamente universale in quanto esperibile. In terzo luogo il pensiero fenomenologico dovrebbe dirigersi senza indugi verso la percezione, evento umano primario e inestirpabile. Come già sosteneva Epicuro – e prima di lui i sofisti - le percezioni sono sempre vere. E questo – aggiunge Wiesing – perché non possono mai essere concepite in altro modo, non essendo passibili di alcuna falsificazione
Infine – e questo ci introduce al nodo centrale del libro - una sana fenomenologia deve seguire l’Aristotele della Politica: “il tutto viene prima delle parti”. Nel caso della percezione, a cui Wiesing dedica l’intero libro, si tratta allora di superare la parti – percipiente e percepito – per indirizzarsi primariamente al Tutto – la percezione, intesa come situazione che tiene assieme i due poli del soggetto e dell’oggetto.
E’ questo il nerbo centrale della prospettiva avanzata da Wiesing, che intende capovolgere così il criticismo kantiano: invece di individuare nel soggetto, come nell’Estetica trascendentale della Critica della ragion pura, le condizioni di possibilità della percezione, bisognerebbe piuttosto analizzarne le conseguenze della realtà. Se la situazione percettiva sembra una realtà a tutti gli effetti inemendabile e fenomenologicamente irriducibile, la domanda da porre deve allora essere la seguente: cosa mi accade nel momento in cui vengo a trovarmi in una situazione percettiva? Schivando così sia l’oggettivismo empiristico proprio degli approcci analitici sia il soggettivismo interpretante delle filosofie ermeneutiche, Wiesing riporta al centro un discorso squisitamente fenomenologico, volto a indagare la relazione intenzionale che inequivocabilmente la percezione pone in essere. Il soggetto, da costitutore del reale o specchio di un mondo di oggetti, diventa così a tutti gli effetti il prodotto di una situazione percettiva che gli si impone. Wiesing ripete più volte quanto la percezione sia in definitiva un’imposizione – anche tragica- per il percipiente, che non può fare a meno di prendere parte alla relazione percettiva. La percezione non produce comodi naufragi con spettatore, per dirla alla Blumenberg, quanto un’inevitabile partecipazione al mondo, nell’unica forma – intenzionale - in cui questo può darsi al soggetto.
Nella costellazione ridisegnata da Wiesing, il trittico soggetto/oggetto/percezione si riconfigura, portando in primo piano la percezione come suo centro propulsore, in maniera non dissimile da quanto portato avanti, in un altro contesto, da Gilbert Simondon prima e da Bernard Stiegler oggi: nel passaggio all’individuazione non bisogna concentrarsi né sull’origine né sul termine, ma sul processo trasduttivo e relazionale in grado di articolare i due momenti. Al di qua della sclerotizzazione tra un soggettivismo autoreferenziale e un oggettivismo semplicistico, Simondon, Stiegler e Wiesing, in modi ovviamente differenti, propongono uno sguardo “terzo”, bergsonianamente orientato sui movimenti che riconfigurano le essenze statiche in poli di un processo.
A partire dalla questione percettiva, così reinterpretata, Wiesing deduce, in maniera cartesiana, tutte le possibili conseguenze: il soggetto diventa, come si è detto, un partecipante attivo del mondo, dotato di un corpo-proprio (Leib) a cui la percezione si impone come una causa (pp. 136-140) capace di gettarlo in una dimensione sia pubblica – da qui la possibilità dell’intersoggettività (pp. 140-144) - sia continua – da qui la conferma dell’identità personale (pp.144-150).
Non siamo però sempre e soltanto condannati a percepire: secondo Wiesing lo schema dell’imposizione lascia spazio ad alcune particolari pause dalla partecipazione al mondo. Si tratta della percezione iconica, quando ci si trova di fronte a un’immagine che, presenza “diminuita”, possiede soltanto la caratteristica della visibilità. In questo caso, sebbene si possa provare empatia nei confronti, per esempio, di un film, il percipiente non si sente tuttavia “in gioco”, preso irrevocabilmente in una situazione percettiva. Il naufragio con spettatore, metafora di un a-storico mondo premoderno “a distanza di sicurezza”, ritrova allora per Wiesing pieno senso nell’esperienza compiutamente estetica, che non si impone più al percipiente. Difficile non vedere qui, come bene mostra Tonino Griffero nell’introduzione, una critica ai più entusiastici rappresentanti del cosiddetto visual o pictorial turn, convinti del potere fin troppo immersivo delle immagini estetiche.
A incorniciare la prospettiva di Wiesing corre per tutto il libro una sorta di pars destruens nei confronti delle molte e differenti prospettive filosofiche che hanno affrontato il problema della percezione. Al di là dell’ovvio tributo pagato a Descartes, Husserl e Merleau-Ponty, Wiesing si impegna a decostruire due grandi rami della ricerca filosofica sull’aisthesis: da un parte i sostenitori del “mito del dato”, dall’empirismo secentesco sino alle sue più attuali recrudescenze neuro-analitiche e dall’altra i sostenitori del “mito del mediato”, da Thomas Reid a Gadamer, passando per Nietzsche e Kant. Sia che si pensi alla datità di un oggetto accessibile immediatamente da parte di un soggetto recettivo, sia che si veda nell’attività interpretante del soggetto l’unico possibile aggancio alla percezione, si ha a che fare, per Wiesing solo e soltanto con ipostasi metafisiche, racconti mitici più o meno riusciti e più o meno efficaci, ma pur sempre costruiti sulla base di modelli ipotetici. Se la scienza non può che procedere per modelli o paradigmi, la filosofia non può che farne un uso soltanto funzionale o euristico; un modello non è altro che un metodo e non può mai, per uno sguardo filosofico serio, assumere un valore di verità. Dalla confusione di verità e metodo nascono allora due prospettive che, pur combattendosi alacremente, affondano in un pregiudizio comune.
Ecco allora che Wiesing ripropone una prospettiva strettamente fenomenologica, senza modelli, capace di ritornare a una descrizione genuina della realtà. Arrivati a questo punto non si può fare a meno di chiedersi se la costellazione percettiva configurata da Wiesing – situazione percettiva antecedente a percipiente e percepito – non finisca tuttavia per essere anch’essa un modello, soprattutto quando fa derivare dalla situazione percettiva una serie di deduzioni che potremmo definire contro-trascendentali. Probabilmente è impossibile praticare un pensiero filosofico senza modelli: ciò che si può tentare di fare è allora verificare ogni volta che il modello non si sganci dal reale, ingenerando una mitologia pericolosa soprattutto in quanto inconsapevole. Quando il modello fenomenologico è ampiamento dissezionato nei suoi fondamenti, come fa Wiesing, si schivano le possibilità di una ricaduta nel mito (pseudo)filosofico. E’ questo, in particolare, il caso dell’intenzionalità, che l’autore trasla su un piano unicamente percettivo e ridefinisce nella sua consistenza relazionale. Forse la stessa fenomenologia, come sta accadendo sempre più spesso, per riproporsi oggi efficacemente, ha bisogno di ridiscutere continuamente i propri presupposti.
***
Come le recenti dichiarazioni del neuroscienziato Giacomo Rizzolatti sulla precisione del pensiero filosofico in ambito scientifico sembrano confermare, l’attenzione della scienza nei confronti della filosofia, e in particolare della fenomenologia, sembra oggi più vivo che mai. In questo contesto, la prospettiva promossa da Wiesing, umile nel richiamo alla protrettica e insieme ambiziosa nel suo universalismo fenomenologico, può allora, riportando intelligentemente al centro della riflessione filosofica l’auto-evidenza della percezione, aprire qualche nuova strada di indagine sull’uomo, vero e proprio animale percettivo.
Nel primo periodo del suo insegnamento Lacan mette l’accento sulla funzione simbolica del linguaggio e della parola. Parte dalla constatazione che la psicoanalisi post freudiana del suo tempo aveva in realtà deviato dal sentiero tracciato da Freud: quelli che Freud aveva individuato come concetti fondati su una logica rigorosa erano invece stati presi in modo immaginario, burocratico, cosa che li aveva resi vuoti, banali, privi di logica. In questo primo periodo Lacan svalorizza gli aspetti immaginari per risituare l’esperienza dell’analisi sul suo asse simbolico. Vale a dire che al centro dell’analisi non c’è il significato, il senso. Il senso nascosto dei sintomi di cui parla Freud non è un significato predeterminato, in cui “x vuol dire y” e y sarebbe qualcosa di “rimosso”, nel senso di nascosto in un baule che dovrebbe essere tirato fuori. Non si tratta di questo, questi sono aspetti immaginari che non permettono che si produca dell’inconscio (che è propriamente la finalità di un’analisi). Il simbolico ha invece a che fare con la parola nella sua dimensione significante – termine che Lacan usa mutuandolo dalla linguistica di De Saussure –, cioè slegata dal significato.
Freud lo dice bene affermando per esempio che il sogno funziona come un rebus. A caratterizzare il rebus è il fatto che le parole valgono non per il loro significato, ma per il loro suono, per le lettere che le compongono. Ebbene, l’inconscio funziona proprio così. D’altra parte la regola fondamentale dell’analisi, l’associazione libera – l’invito a dire qualunque cosa venga in mente senza censure –, si fonda proprio su meccanismi significanti. L’interpretazione in analisi non è allora un’interpretazione di senso ma sul piano significante, e l’analisi permetterebbe – secondo l’elaborazione del primo insegnamento di Lacan – la simbolizzazione anche degli aspetti che non sono di per sé di stoffa significante, cioè di parola, come gli aspetti libidici e pulsionali, che toccano da vicino il corpo. In questa logica, la famosa frase di Lacan non esiste rapporto sessuale – che naturalmente non vuol dire che non si compiano atti sessuali – significa allora che non c’è la possibilità che il rapporto tra i sessi sia simbolizzato, che non esiste parola che lo dica appieno, che tra uomo e donna rimane sempre “qualcosa che non va”, uno iato. Si può anche dire che il rapporto tra i sessi non può essere ridotto a formula, a pura logica. Man mano che Lacan procede nel suo insegnamento, prende però sempre più valore un altro aspetto, relativo al godimento. È la parte della sua elaborazione in cui, pur prendendo le mosse dall’opera di Freud, Lacan è sicuramente andato al di là.
Che cos’è il godimento?
Prima di tutto non va confuso con il piacere. Possiamo parlarne come di un’esperienza di soddisfacimento che riguarda ciascun essere umano. Su questo punto, Lacan riprende da Freud diversi elementi. Innanzitutto, il piccolo essere umano, quando viene al mondo, si trova in uno stato di indigenza e sconforto, cui corrisponde una prima esperienza di soddisfacimento, tramite l’intervento di una persona esterna, grazie a un oggetto (per esempio il seno materno). Lacan dice in più occasioni che se osserviamo un neonato dopo la poppata potremo vedere un’espressione di pienezza e soddisfazione assoluta, di godimento appunto.
Ci sono però altri aspetti in gioco: per esempio, già Freud aveva notato che anche un sintomo che fa soffrire può produrre nel soggetto del soddisfacimento. Ne aveva parlato per esempio nel caso dell’Uomo dei topi, in cui notava sul volto del paziente, che riportava il racconto che aveva udito di una tortura praticata in Oriente, racconto che suscitava in lui il più vivo orrore ogni volta che gli veniva in mente, un’espressione di “orrore di un proprio piacere a lui stesso ignoto”. Cogliamo qui che il concetto di godimento ci proietta decisamente al di là di una logica del bisogno: il neonato che aveva fame e si è saziato, con la sua espressione beata, ci dice che si è prodotto, rispetto al semplice soddisfacimento del bisogno, un di più, ed è alla ripetizione di questo “di più” che da quel momento il soggetto tende; non si tratterà più solo di placare la fame. Il godimento quindi tocca in primis il corpo, e alla fine degli anni ’60 Lacan dice che «un corpo è fatto per godere, godere di se stesso». Se inizialmente aveva ipotizzato che la dimensione corporea del godimento potesse essere del tutto riassorbita dal simbolico, in seguito coglie che ciò non è possibile: anche al termine di un’analisi questa dimensione permane, per quanto non immutata. Infine – ce lo insegna per esempio l’espressione che Freud individua sul volto dell’Uomo dei topi – il godimento può coesistere con l’orrore, ma anche con il dolore. La persona soffre, ma al tempo stesso è invasa da un godimento che neanche riconosce come tale; è l’analisi che può permetterle di riconoscerlo, e di separarsene almeno un po’. Il godimento però, nell’esperienza umana, non è mai completo e durevole. Per l’essere umano esso è perduto da sempre, interdetto; quello che ne possiamo esperire nella nostra vita sono briciole, frammenti, attimi, e questo spinge ogni volta di nuovo alla ricerca di soddisfacimento, tramite la parola o gli oggetti. Sì, perché la parola non è fuori da questo gioco. La parola stessa produce un godimento.
L'elaborazione di Lacan è molto importante perché offre degli strumenti per comprendere i fenomeni clinici (con “clinici” possiamo intendere tutto ciò che, della vita quotidiana, viene portato in analisi) del nostro tempo, che sono in parte diversi da quelli di cui ha parlato Freud, perché diverso è il discorso dell’epoca. Nei primi del ‘900 così come oggi sono in gioco, per gli esseri umani, sia l’interdizione (castrazione) sia il godimento, ma mentre all’epoca di Freud era la dimensione dell’interdizione, della regola, della rinuncia, e quindi del desiderio, a ordinare la vita soggettiva, familiare e sociale, oggi godi! è l’imperativo cui tutti siamo sottoposti senza sosta. Viviamo nel mondo degli oggetti che possono soddisfarci e renderci tutti belli, giovani, sani, performanti; ciò ha assunto la valenza di un obbligo: puoi godere, quindi devi godere! Il sesso non sfugge a questa logica.
Ma allora, che ne è oggi del rapporto sessuale?
Anche sul piano del godimento, possiamo affermare che non c’è rapporto sessuale. C’è differenza tra il versante maschile e il versante femminile, ma per nessuno dei due il godimento “fa rapporto”, produce condivisione. Il godimento, anche quello dell’atto sessuale, resta non condivisibile. Ciascuno gode sempre dalla sua parte. Il godimento non produce rapporto sessuale perché il corpo “si gode”. Per questo Lacan può dire che «due corpi non possono fare uno». Solo nell’illusione dell’amore si può fare uno con l’altro ma, come ciascuno sa, è un’illusione di breve durata. L’amore è un velo sull’inesistenza del rapporto sessuale, e come ogni velo ricopre ma al tempo stesso lascia intravedere quel che c’è sotto.
«Che ne è del femminile nell'analisi di un uomo?» Domanda tutt’altro che semplice e ingenua quella postami da una collega psicoanalista e che dava il là a queste note. Tale domanda infatti presuppone non solo che il femminile riguardi un uomo, non meno di una donna, ma anche che l'esperienza analitica possa incidere sul modo in cui un uomo può fare posto e trattare il femminile che lo abita piuttosto che espellerlo sulla via di quelle che, con Freud, possiamo chiamare le “insegne falliche”. Lungi dall'essere riducibile all'organo sessuale maschile, il fallo è piuttosto quel simbolo che, nel linguaggio, viene a rappresentare ciò che l'essere parlante incontra come mancanza fondamentale che specifica del suo essere al mondo. In un certo senso la scoperta freudiana dell'inconscio va di pari passo alla constatazione che, a livello dell'inconscio, esiste una certa “democrazia” tra i sessi per ciò che concerne il fallo. Proprio in quanto il fallo non coincide con l'organo, il pene, esso riguarda entrambe i sessi, pertanto, almeno per il discorso analitico, non è su questo piano che si può operare la differenziazione sessuale tra maschile e femminile. Il fallo è una risposta in termini di avere/non avere a una questione che concerne l'essere nel suo rapporto con il reale del sesso e, al contempo, con il linguaggio in cui esso viene al mondo. Il fallo, dunque, apre e struttura il campo della significazione dell'esperienza umana, introducendo il soggetto a una dialettica fondata sul dono, dialettica che, per quanto illusoria, renderebbe possibile lo scambio tra l'uno e l'altro.
Concepire la differenza tra maschile e femminile a partire dalla logica fallica, logica binaria, fondata sull'opposizione di un più a un meno, lascia aperta l'idea o quanto meno l'illusione che tale differenza sia “eliminabile” in base a un principio di parità tra i sessi del tipo: “Ciò che non ho oggi potrò averlo un domani o, al rovescio, ciò che ho posso prodigarmi a donarlo all'altro, riconosciuto come sprovvisto di tale bene”. Si tratta della dialettica dello scambio che, lungi dall'essere istintivamente predeterminata o “naturale”, tenta di organizzare il rapporto tra gli umani delimitandone il campo della più parte delle manifestazioni cosiddette affettive che presiedono alle condotte dell'individuo nel rapporto coi suoi simili: gelosia, invidia, aggressività, oblatività, amore narcisistico... In questo senso la logica fallica tenderebbe a situare la differenza sessuale lungo una scala graduata che va dal più al meno, in una sorta di gerarchia che determina anche tutte le sfumature immaginarie del potere. Come detto poco fa non è tuttavia su questo piano che, già a detta di Freud, si iscrive la differenza tra maschile e femminile, non meno che sul piano dei caratteri primari che ci si ritrova tra le gambe o, ancora, a partire della prevalenza di una lettera X o Y scritta geneticamente su un'elica alla quale oggi l'essere parlante cerca sempre più di ancorare il suo destino.
Lacan, riprendendo la lettera freudiana, esplora inizialmente la differenza tra i sessi passando anch'egli attraverso la dialettica del fallo, ma operando al contempo uno spostamento e una nuova condensazione rispetto al Freud che troviamo nel testo La significazione del fallo. In relazione al fallo l'uomo si situerebbe dal lato dell'averlo, a differenza della donna che viceversa tenderebbe a collocarsi dal lato dell'esserlo. Queste due differenti posizioni in relazione al fallo specificherebbero la commedia dei sessi e tutta la parata amorosa, soprattutto per ciò che concerne la dimensione del desiderio che interviene tra il maschile e il femminile, qui presi come posizioni sessuate al di là del sesso “biologico”. Biologico è qui tra virgolette in quanto, per ciò che concerne l'essere parlante, il ritrovarsi dal lato uomo o donna non può prescindere dal linguaggio, dalla dimensione simbolica e da come ciascuno, letteralmente, la incarna. Per tale ragione, almeno per il discorso analitico, è improprio parlare di identità sessuale, per il semplice fatto che rispetto all'assunzione del sesso entra in gioco un impossibile, l'impossibile di fare Uno. Il sesso non solo non fa identità ma, al rovescio, è proprio ciò su cui ciascun soggetto incontra la sua disparità assoluta, l'alterità sia nel rapporto con l'altro da sé che in se stesso.
Ebbene, sia in Freud che in Lacan, il femminile, proprio perché non prendibile nella logica regolata dal fallo, a cui può essere invece ricondotto il maschile, si presenta come l'alterità per eccellenza, come quel “continente nero” che sfugge alla presa da parte del simbolico, del linguaggio e che piuttosto rinvia al reale del corpo godente. Lacan non indietreggerà di fronte a questo “continente nero” e negli ultimi anni del suo insegnamento riprenderà la questione del femminile proprio a partire dall'elaborazione di un godimento Altro non regolato e sottomesso alla logica fallica, godimento caratterizzato da una certainfinitezza a cui una donna, non meno di un uomo, può accedere senza tuttavia poterne dire niente poiché strutturalmente imprendibile dal linguaggio. Lacan esplorerà il godimento propriamente femminile non solo a partire dall'elaborazione dell'esperienza analitica, ma anche attraverso lo studio delle testimonianze di alcuni mistici, quali San Giovanni della Croce e Santa Teresa D'Avila.
Torno ora alla domanda di partenza postami dalla collega: «Che ne è del femminile nell'analisi di un uomo?». Non saprei! Ciò che tuttavia da questo non sapere posso dire è che l'analisi si è per me caratterizzata come una sorta di percorso a ostacoli, dove ogni ostacolo rappresentava l'identificazione inconscia prelevata nel campo dell'Altro a cui il mio essere si era come abbarbicato nell'impossibile tentativo di darsi un'identità, un Io con cui rispondere alla meno peggio al proprio essere nel mondo. Ebbene l'analisi, con mia grande sorpresa e non senza orrore, conduceva alla caduta di queste identificazioni che, in ultimo, scoprivo ruotare attorno a un unico perno, a un'identificazione primaria agita rispetto al padre, inteso qui come funzione più ancora che come individuo. La caduta di queste identificazioni “falliche”, su cui tanto il sintomo quanto l'Io si sostenevano, lasciava ora il posto al confronto con un altro “substrato identificatorio” che, con Freud, potremmo chiamare identificazioni per “appoggio” o anaclitiche, radicate in misura maggiore al legame col materno, legame tanto oscuro quanto difficile da sbrogliare, per il carattere tenace di un attaccamento ancorato più alla parzialità di alcuni oggetti afferenti al corpo (bocca, ano, sguardo, voce) che al linguaggio, ovvero all'Altro simbolico. Allora se qualcosa del femminile ha potuto trovare posto nella mia analisi è stato non solo nell'andare appunto al di là delle identificazioni falliche inconsce su cui l'Io si sosteneva, ma anche operando il distacco da quegli oggetti parziali su cui il soggetto basava la sua singolare e ripetitiva modalità di godimento. In questo litorale ritagliato tra il linguaggio ridotto alla sua dimensione di catena significante insensata e il corpo preso non tanto nella sua forma o immagine quanto nella sua esperienza pulsionale, il femminile poteva tratteggiarsi quale effetto “leggero” di un atto che apriva al nuovo, all'impensato, all'inedito, all'intima alterità.
Il fatto che il femminile non si possa dire non toglie tuttavia che, a posteriori, ogni soggetto, uno per uno, non possa rintracciare le contingenze in cui tale incontro avrà potuto effettuarsi. Almeno questo è quanto Freud, prima, e Lacan, dopo, invitano gli analisti a fare. Forse le colleghe analiste potranno, ancora una volta e un domani, tornare a dirne ulteriormente qualcosa e a interrogare i colleghi analisti proprio su questo enigma.
Lo statuto del corpo in psicoanalisi assume un valore diverso dall’organismo vivente nella sua funzionalità biologica. Freud sin dall’inizio si è preoccupato di sottolineare come l’inconscio abbia effetti sul corpo, e con l’isteria, attraverso l’osservazione dei sintomi presentati nel corpo, giunse alla costruzione della teoria delle pulsioni per spiegare l’eccesso di eccitazione nel corpo e la ricerca di una soddisfazione che si ottiene al di là del soddisfacimento di un bisogno.
Nel testo Introduzione alla Psicoanalisi (1989) Freud scrive: «Una pulsione si differenzia da uno stimolo per il fatto che trae origini da fonti di stimolazione interne al corpo, agisce come una forza costante e la persona non le si può sottrarre con la fuga, come può fare di fronte allo stimolo esterno. Nella pulsione si possono distinguere: fonte, oggetto e meta. La fonte è uno stato di eccitamento nel corpo, la meta l’eliminazione di tale eccitamento; lungo il percorso dalla fonte alla meta la pulsione diviene psichicamente attiva» (p. 205). Già in Pulsioni e loro destini (1976) affermava che «la pulsione ci appare come un concetto limite tra lo psichico e il somatico, come il rappresentante psichico degli stimoli che traggono origine dall’interno del corpo e pervengono alla psiche, come una misura delle operazioni che vengono richieste alla sfera psichica in forza della sua connessione con quella corporea» (p. 17). Lacan riprenderà la teoria delle pulsioni di Freud articolandola, però, al linguaggio; infatti egli sottolineò come il significante entri nel corpo rendendolo corpo vivente, che diventa quindi sostanza godente. Pertanto, avviene un effetto di scrittura che il significante esercita sulla superficie corporea, e il significante stesso può farsi veicolo di godimento introducendo del godimento supplementare nel corpo vivente. Dunque, quando parliamo di corpo non ci riferiamo all’organismo, a quello che ci viene dato; inoltre è necessario distinguere il corpo dall’organismo biologico e dal soggetto. Uno degli effetti del linguaggio è di separare il corpo dal soggetto; questo effetto di divisione, di separazione tra il soggetto e il corpo è possibile solo attraverso l’intervento del linguaggio: il corpo deve costituirsi, non si nasce con un corpo. Vale a dire che il corpo si costruisce secondariamente, essendo effetto della parola.
Le prime teorie di Lacan sul corpo risalgono al 1949, alla teoria dello stadio dello specchio, in cui egli sostiene che il corpo è determinato dalla sua immagine. Nello stadio dello specchio, Lacan ci mostra che, affinché si riconosca come un corpo intero e unificato, al soggetto è necessario un altro, dunque è solo per identificazione con l’immagine dell’altro che il bimbo acquisisce l’immagine del proprio corpo. Ciò nonostante la condizione per l’identificazione immaginaria è il suo accesso alla struttura del linguaggio, ossia al registro simbolico. Perciò la costituzione dell’immagine corporea è un effetto che viene dal simbolico. L’immagine del corpo è ciò che dà consistenza all’Io che quindi si costituisce per il tramite dell’immagine del corpo. Già Freud nel testo L’Io e l’Es (1977) aveva messo in connessione l’Io con il corpo affermando che l’Io è un’entità corporea ed è il luogo su cui si proiettano le sensazioni provenienti dalla superficie del corpo (cfr. p. 488). L’Io è un Io-corpo dice Freud (ivi, p. 490). Il corpo immaginario è una forma completa, senza fratture, e ciò avviene per mezzo della rappresentazione di sé che il bambino intercetta nello specchio.
Nel 1972-73, nel Seminario XX Ancora (2011), Lacan torna alla questione del corpo intrecciandola con il godimento; infatti introduce il concetto di corpo come sostanza che gode: «[…] non sappiamo che cos’è un essere vivente, sappiamo soltanto che un corpo è qualcosa che si gode», introduce cioè il corpo nella sua dimensione più pulsionale. Il soggetto dell’inconscio, costituito dal significante, lascia il posto al parlessere ovvero a un essere attraversato dal linguaggio e toccato dal godimento del corpo. Il corpo parlante ha due godimenti, il godimento della parola e il godimento del corpo. Nel parlessere, c'è contemporaneamente godimento del corpo e godimento che si relega fuori corpo, godimento della parola.
Nel 1975 Lacan affronta di nuovo il concetto di corpo nel Seminario XXIII, Il Sinthomo(2006) definendo il corpo come supporto dell’immaginario, rimarcandone però la sua posizione nello spazio e quindi la sua consistenza. Lacan utilizza il termine di pelle per indicare che ciò di cui si tratta è una superficie, ma nel senso di sacco, pelle come sacco che avviluppa, che contiene al suo interno gli organi corporei uniti (cfr. p. 61). Il corpo non è soltanto l’immagine, al punto che l’immaginario implica il godimento, il reale. Il reale, il godimento, che è al di fuori del senso, ma non al di fuori del corpo, è la consistenza del parlessere. Il corpo come sostanza godente, luogo del godimento e per godere, è il supporto del parlessere. Il corpo, dunque, come tempio del godimento, e perché sia tempio del godimento, e non tempio del puro significante, il corpo deve essere vivente. Ma che cosa vuol dire corpo vivente? è la domanda di Jacques-Alain Miller nel suo testo Biologia lacaniana. Egli dice che non si tratta unicamente del corpo immaginario (non si tratta cioè del corpo che è operativo nello stadio dello specchio), ma non si tratta neppure del corpo simbolico. In questo contesto, parti del corpo umano possono essere elevate alla dignità di significanti. Come il fallo per Freud e il seno per Melanie Klein. Non si tratta dunque né di un corpo immagine, né di un corpo simbolizzato. Per Miller (2000), si tratta invece di un corpo vivente, e «[…] il godimento stesso è impensabile senza il corpo vivente: il corpo vivente è la condizione del godimento» (p. 20).
Bibliografia:
S. Freud (1989). Introduzione alla psicoanalisi. In Id., Opere, vol. 11: Torino: Bollati Boringhieri
Id. (1976). Pulsioni e loro destini. In Id., Opere, vol. 8. Torino: Bollati Boringhieri
Id. (1977). L’Io e l’Es. In Id., Opere, vol. 9. Torino: Bollati Boringhieri
J. Lacan (2011), Il seminario, Libro X, Ancora (1972-73). Torino: Einaudi
Id. (2006). Il seminario, Libro XXIII, Il Sinthomo (1975-76). Roma: Astrolabio
J.-A. Miller (2000). Biologia Lacaniana ed eventi di corpo, “La Psicoanalisi” (28)
Grazie all'analisi foucaultiana sul biopotere e sul soggetto, al focus posto da Butler sul gender e all'ampia proliferazione di analisi che ne sono seguite, la capacità performativa dei discorsi di potere e di sapere dominanti in una data epoca sulla materialità umana è stata ampiamente esplorata. Il testo di Alessandro Baccarin, Il sottile discrimine. I corpi tra dominio e tecnica del sé, si inserisce in questo panorama in maniera intelligente e feconda, analizzando attentamente soggetti e corpi tipici della contemporaneità attraverso una genealogia rapida ma puntuale, capace di cogliere le svolte storiche salienti dal loro emergere, e invitando a riflettere più ponderatamente tanto sulle nuove modalità assunte dalle pratiche di dominio del biopotere sul corpo quanto sulle forme di resistenza possibile. Ciò che vi è di veramente interessante nel testo è la lente di ingrandimento che l'autore pone sul cardine su cui si articola l'assoggettamento – termine di origine foucaultiana, e approfondito da Butler per mezzo della psicoanalisi, che designa contemporaneamente sia la subordinazione sia la soggettivazione psichica e sociale di cui è capace un potere intenso, diffuso, relazionale, produttivo, totalizzante e individualizzante. Ebbene, Baccarin interroga proprio quel “sottile discrimine” caratteristico della dinamica dell'assoggettamento. Se il soggetto occidentale moderno è un effetto di dinamiche di potere, a sua volta dotato di potere proprio perché emerso dall'interazione produttiva e continua tra tecniche di dominio e tecniche del sé, bisogna allora porre al centro dell'analisi e delle controcondotte il corpo e le pratiche che su e attraverso questo vengono agite. In altre parole, è importante far emergere gli attuali processi di normalizzazione nonché le tecniche del sé corporee che costituiscono oggi l'a priori in base al quale i soggetti operano all'interno di nuove relazioni di potere, e rispetto alle quali, spesso troppo ottimisticamente o semplicisticamente, si proclamano, o vengono proclamati, autonomi. Con il suo testo Baccarin dunque chiarisce sia sotto quali vesti si presenti attualmente il biopotere neoliberale nella nostra società, sia quanto quelle pratiche, quei corpi, quei soggetti comunemente oggi assunti come esemplari delle possibilità di resistenza intrinseche ai soggetti e ai rapporti di potere che li hanno prodotti – tra i quali l'autore sceglie di occuparsi di omosessuali, transessuali, tatuati e pornostar – siano solo parzialmente tali, rilanciando la necessità di elaborare, in linea con il messaggio foucaultiano, nuove linee di fuga.
Capita spesso, infatti, di veder assumere, nei dibattiti su questi temi, come soggetti liberi, autodeterminati, resistenti, coloro che sono prevalentemente stigmatizzati e discriminati nella nostra società, i cosiddetti “trasgressori” odierni, in quanto smarcati dalle norme imperanti nella contemporaneità: dell'eterosessualità obbligatoria; del corpo privo di segni – se non quelli dell'abiezione – tipico della tradizione occidentale; di una sessualità familiare, procreativa, privata, stabile. Ora, dalla lettura del testo tale elezione appare semplicistica sia perché, secondo la lezione foucaultiana e butleriana, non esiste un luogo del grande rifiuto al di là della realtà in cui noi tutti viviamo: non possiamo vivere senza un riconoscimento sociale che renda la vita del singolo, intrinsecamente precaria, una vita possibile e vivibile, sia perché il biopotere è in grado di riposizionarsi continuamente. Infatti, sebbene l'azione del potere non sia mai deterministica perché non esiste un potere assoluto e fondante, bensì si danno solo relazioni di potere tra soggetti liberi dotati di agency, e malgrado il fatto che l'assoggettamento richieda sempre una reiterazione della legge, che così per un verso si naturalizza, mentre per l'altro diviene suscettibile di alterazione, ciononostante è incessante il pericolo di una nuova e ulteriore normalizzazione delle prassi trasgressive.
È davvero difficile individuare e percorrere una volta per tutte le strade che conducono verso un nuovo uso dei piaceri e per una denormalizzazione del corpo e del desiderio, denuncia Baccarin citando il caso del BDSM (si tratta di una pratica sessuale nata nei circoli omosessuali californiani come pratica eversiva e oggi divenuta importante genere del mercato del porno mainstream ). Ogni normalizzazione porta con sé sempre delle increspature importanti ed eversive da approfondire e perseguire, ma allo stesso tempo non bisogna mai dimenticare che il potere, proprio in virtù di tale scarto, è sempre capace di riposizionarsi a un nuovo livello. Si pensi, scrive l'autore, ai meccanismi della moda o della pubblicità, capaci di trasformare l'individuo scandaloso – per esempio i primi tatuati – in soggetto desiderante, parte del vasto catalogo di identità offerte dal sistema consumistico odierno, facendo diventare normali i corpi tatuati sui giornali di moda o negli spogliatoi calcistici. Così facendo, il corpo tatuato diviene un corpo intercettato dal biopotere, un corpo che desidera docilmente leggere su di sé la propria identità. I corpi-limite, mette in guardia Baccarin, saranno anche corpi che si mettono di traverso rispetto a una governamentalità che investe l'organicità stessa dei soggetti, ma spesso non disinnescano il meccanismo di potere che criticano, rimanendo in una posizione liminare tra norma e libertà, tra governo delle condotte ed esperienze metamorfiche autonome e resistenziali di uso dei corpi e del piacere. Questi corpi sono realmente punti di resistenza al potere, ma spesso non hanno il coraggio o la lungimiranza per esserlo davvero, riducendosi a essere punti di appoggio per una nuova azione del biopotere stesso.
Entrando più nello specifico, Baccarin mostra come la posta in gioco delle pratiche di libertà attuali stia nello scardinamento dei processi di veridizione (altra espressione tratta dal lessico foucaultiano) imposti dall'ermeneutica del sé propria del biopotere neoliberale, che induce i soggetti a diventare imprenditori di se stessi, creando così l'illusione dell'autodeterminazione. Egli pone prima di tutto nero su bianco quella che è la verità dei soggetti limite da lui scelti, mettendola poi sul banco degli imputati. Per esempio, la verità trans oggi vigente viene riassunta nella frase “la libertà di essere o non essere o di come essere donna/uomo”. Questa, si noti, non è la verità di un singolo particolare trans, ma la verità trans tout court, ovvero di una categoria di soggetti, di una specifica identità sociale che, per quanto considerata scandalosa, malata, trasgressiva, viene così ordinata e posizionata all'interno dell'ordine sociale vigente. Lungi dall'essere questa una pura rivendicazione dell'autonomia transessuale – come vorrebbero spesso tanto i trans quanto i teorici gender – anch'essa è da intendersi come il risultato di quell'ermeneutica del sé propria delle dinamiche del biopotere contemporaneo.
Dunque, rileva Baccarin, l'identità trans, nonché la rivendicazione della propria verità da parte dei transessuali, prodotti di una tecnica del sé congiuntamente a una tecnica del corpo che problematizza e plasma il corpo trans nel contesto di una nuova disponibilità anche plastica del corpo, è il risultato dell'ermeneutica del sé che sta all'origine del soggetto moderno. Infatti il biopotere è una razionalità di governo sorta a partire dal XVII secolo e fondata sul criterio centrifugo del laisser faire, che presuppone la libertà dei processi e dei soggetti che osserva e gestisce. Inoltre, tale governamentalità istituisce un'inedita sintesi fra potere e verità, e tra questi e i temi quali la vita, il corpo, l'individuo, il corpo sociale, che richiede a ognuno di trovare la verità del proprio desiderio: in questo caso la propria identità di genere. Di fatto, attraverso l'interazione tra tecniche di dominio e tecniche del sé, e per mezzo di vari dispositivi quali il sapere medico, psichiatrico, disciplinare, tali identità vengono più che scoperte, prodotte. Allo stesso modo funziona anche la pornografia, la quale è un caso esemplare di tale sollecitazione, estrapolazione, soggettivazione, incorporazione del desiderio sessuale. Essa è indifferente al piacere eventualmente sollecitato allo spettatore o provato dal performer – sempre e comunque solo genitale – e all'atto – meramente strumentale alla produzione di desiderio – mentre è centrale l'enorme proliferazione dei generi pornografici. Il consumo di porno suscita un desiderio che induce all'ulteriore consumo di immagini implicando, al tempo stesso, il soggetto in un processo di veridizione della propria identità sessuale, illudendo il singolo della libertà del proprio desiderio per mezzo dell'ampia scelta di generi che ha a disposizione. Nella pornografia, quindi, si congiungono a un nuovo livello processi di normalizzazione e tecniche corporee del sé secondo i binari del totalitarismo dell'esplicito e della banalizzazione del nudo e della seduzione, analogamente a quanto scriveva Foucault a proposito della moltiplicazione della philia da parte della sessuologia del XIX secolo, che reprime, mentre suscita, la discorsività sul sesso, facendola prolificare e, contemporaneamente, ampliando e specificando in questo modo la presa del potere sulle vite e sui corpi degli individui.
Il meccanismo è sempre lo stesso: si ha l'illusione che parlare di sesso e mostrarlo, ma anche scrivere sui propri corpi, plasmarli e modellarli con diete, attrezzi da ginnastica, chirurgia, sia la via per la liberazione da un potere repressivo e dall'anonimato della società dei consumi, mentre in realtà questi non sono altro che strumenti del biopotere neoliberale, il quale più che reprimere amplia la sua presa su di noi. Il biopotere suscita desideri incorporati in soggetti desideranti sotto forma di condotte che diventano oggi anche autopoiesi corporea. I tatuaggi, il piercing, le scarificazioni, la pornografia, la somatopoiesi trans – ma Baccarin aggiunge all'elenco i prodotti contraccettivi, la fecondazione assistita, i centri abbronzanti, la chirurgia estetica, le pubblicità, le diete, il nuovo valore dato alla nudità, il fitness, la moda, i corsi di strip dance – sono tutti esempi del nuovo livello di incorporazione raggiunto oggi della norma. Un'autonormazione che è anche auto poiesi, che investe il corpo a un livello mai raggiunto prima: quello della poiesi organica basato sul dovere di scoprire la propria verità e di affermare la propria unicità attraverso la cura di sé e del proprio corpo.
Quella raggiunta non è altro che una libertà apparente, anche se autenticamente percepita. Si pensi alla donna che, ancora isterica e priva di piacere nel XIX secolo, oggi per un verso rivendica una propria sessualità attiva e autonoma, per l'altro è target per una nuova produzione pornografica al femminile e cliente di interventi estetici standardizzanti in un'autodisciplina corporea basata ancora una volta su di un desiderio suscitato, controllato, serializzato: quello di piacere, di piacersi, di prendersi cura di sé. Tutte queste pratiche si collocano all'interno delle pratiche di dominio sempre più sofisticate e intrusive attuate sul corpo dal biopotere neoliberale contemporaneo, che possono anche costituire effettive pratiche di resistenza del soggetto, ma mai in termini assoluti, e che comunque sino a oggi non hanno davvero messo in discussione la centralità del desiderio e l'ingiunzione all'ermeneutica del sé che sta alla base di tali processi. Dunque è proprio su questo “sottile discrimine” che intercorre tra gli investimenti corporei intesi come forme di controcondotta alle relazioni di potere biopolitico, e quelli che non sono altro che autonormazione, cura di sé normata, incorporata e psichicamente assimilata, che si colloca intelligentemente l'opera di Baccarin, Con le sue ricostruzioni genealogiche delle verità di corpi e di soggetti che vivono in diagonale in questo mondo, mostra come essi rappresentino delle resistenze rispetto alle norme vigenti, ma meno radicalmente di quanto spesso non si pensi. Per superare tale soglia, rilancia l'autore, è basilare superare la necessità tanto di una verità del sé quanto il mito di una libertà originaria ed essenziale da restaurare; superare la centralità accordata al desiderio, e di conseguenza al tema identitario; spostare l'attenzione sull'atto e sul piacere. Non è più tempo di rivendicare la libertà di amare persone dello stesso sesso, come recita la verità gay, bensì è tempo di rivendicare la libertà di amare tout court. Bisogna cioè concentrarsi sullo scovare nuove pratiche di libertà per inaugurare non nuovi mondi, bensì nuovi giochi di libertà in questo mondo.
Il parco e le sue paratie verde mimetico sono oramai alle nostre spalle e cerchiamo di raggiungere Piazza Rebaudengo, proprio dall'altra parte del cantiere. Quando incontriamo Corso Grosseto, nel punto in cui si interseca con la bretella della tangenziale, le automobili sfrecciano veloci. Ecco che subitaneamente cambia la percezione dello spazio; lasciata indietro quell'impressione di immobilità che permeava la zona adiacente, ci troviamo ora nel luogo del puro scorrere dove i viali diventano ampi e impossibili da attraversare a piedi, dove i percorsi pedonali sono interrotti da guardrail da scavalcare.
«La moderna fine del mondo si compirà in questo modo: in occasione dell'ultimo perfezionamento delle macchine si dichiarerà la incapacità a circolare degli uomini» Karl Krauss
Ci si abitua oggi, presto e quasi in maniera indolore, a questa costruzione dell'esperienza basata sullo shock. Spesso, ci diciamo, saremmo curiosi di ritornare all'emozione provata da chi quel giorno vedendo il film dei fratelli Loumière scappò dal primo cinema, da quella sequenza di fotografie del treno che terrorizzò i primi spettatori, per capire quanta educazione dello sguardo si nasconda dietro alla nostra cognizione del movimento.
Ma sono parole brevi e veloci scambiate distrattamente mentre con attenzione e passo svelto attraversiamo lo svincolo e ci ritroviamo a dover passare su un ponte proprio sopra l'autostrada. Ci attardiamo un attimo a contemplare da questo punto di vista privilegiato i nuovi assetti della città mentre alle nostre spalle le macchine sfrecciano veloci, sotto di noi pure. Questa posizione leggermente rialzata e distante dal groviglio urbano, ci sbatte in faccia un' inaspettata cartolina di Torino: la città appare come ritrarsi gradualmente col dilagare del cantiere, il quale sembra non interrompersi ai soli lavori intorno alla stazione ma continuare lungo una corrente che parte dal nuovissimo grattacielo della San Paolo in Corso Inghilterra.
«Bello, quando sul mare si scontrano i venti/E la cupa vastità delle acque si turba,/guardare da terra il naufragio lontano:/non ti rallegra lo spettacolo dell’altrui rovina,/ma la distanza da una simile sorte» Lucrezio
È nuovamente la geografia urbana a sorprenderci con il suo gioco tridimensionale: di sovrapposizioni di scorci, di differenziali di velocità che destabilizzano le coordinate spaziali; è anche a questo shock, che era così efficacemente sublimato dai sipari haussmaniani, che l'occhio contemporaneo deve saper adattarsi.
Ci sbagliavamo poco fa a credere che fosse la stazione l'epicentro di questa marea polverosa, perché è piuttosto l'edificio tributo al capitale cittadino, il grattacielo, a essere l'occhio del ciclone al centro de “la bufera del progresso”. Lontano eppur così borioso anche da qui, dalla periferia da cui, per visuale d'insieme, sembra un monumentale dito medio che si erge monopolizzando l'attenzione visiva, andando a costituire il punto di fuga di questo quadro dell'oggi. A ben guardare, all'orizzonte cresce lesto anche quello della Regione Piemonte, leggermente sulla sinistra rispetto al primo. Da qui non si vede altro: autostrada, cantiere e le vette del dominio. A cosa si riduce la città che è ora sotto il nostro sguardo? È solo una topica estetica o una prospettiva simbolica questa? Impossibile non chiederselo con quell'inquietudine calmierata dello spettatore che guarda il naufragio da un approdo tanto momentaneo quanto fittizio.
«Non c'è nessun oceano, John. Non c'è niente oltre la città. L'unico posto in cui esiste casa è il tuo cervello» Dark City
C'è tuttavia il ronzio dei motori a distrarci continuamente, insistendo nel volerci palesare la superbia del crederci distanti e separati dall'oggetto della nostra osservazione. Ma il corpo urbano non può essere carpito con un singolo sguardo e ancor meno si può ridurre a una sola inquadratura. Esso è ciò in cui siamo immersi, una modalità di vita, l'habitus di cui non si ha più percezione. E seppur è vero che una finzione ipotetica è necessaria per l'avvio di ogni teoria, non è detto che l'unica possibile sia quella dello spettatore. C'è infatti un ritmo provocato dal passaggio degli autoveicoli sui giunti d'espansione del ponte che ci ricorda la nostra immersione completa nei flussi urbani. Ed è proprio la cadenza sonora, la sua frequenza e le sue pause, a suggerirci che l'urbano è soprattutto ingegneria della certezza. Essa segue tempi precisi: in questo caso regolati da semafori, segnaletica e, come substrato, da un florilegio di norme stradali. Quello che a livello percettivo veniva associato al caos, segue in realtà un cronometro preciso. Ora anche la nitidezza prospettica sulla città non sembra più in contrasto con la confusione sonora alle nostre spalle.
«Vauban preconizzerà vivamente questa maniera di evitare la carneficina e di dissolvere il nemico per mezzodella semplice costruzione di un universo topologicamente costituito "di un insieme di meccanismi capaci di ricevere una forma definita di energia- all'occorrenza quella della massa mobile degli assalitori- di trasformarla e di restituirla alla fine sotto una forma più appropriata»
Ebbene, alla fin fine, pare non esserci nessuna topica estetica, tanto meno una prospettiva simbolica. Nella comprensione della città il punto non sta tanto nel descrivere minuziosamente un luogo da una supposta ubicazione d'eccezione, come fosse uno scenario, quanto piuttosto comprenderlo come un rapporto tra la costituzione fisica ela massa mobile che da essa è informata.
La psicoanalisi e le donne hanno sempre camminato insieme sin dalla nascita della prima. Diverse donne, nel tempo inaugurale della psicoanalisi, hanno aperto a Freud la via del transfert e gli hanno mostrato l’essenziale circa il nesso tra i sintomi di origine psichica e la sessualità. Cosa possiamo cogliere circa la specificità del rapporto tra la psicoanalisi e il femminile?
All’origine della psicoanalisi c’è l’incontro tra Freud e alcune isteriche. Isteria e femminile non coincidono in modo totale, ma vi è qualcosa nella logica dell’isteria che consente di connettersi col femminile. Freud constata che, nell’esperienza clinica, certi sintomi resistevano sia a trattamenti che avevano una presa diretta sul corpo (idroterapia, pranoterapia, ecc.), sia al trattamento che avrebbe avuto una presa diretta sullo psichismo: l’ipnosi. Così facendo, egli prende atto e nota del fatto che vi sia una discontinuità, qualcosa che esiste nella sua materialità e che, però, non si lascia trattare allo stesso modo delle altre sostanze materiali con cui la scienza medica è abituata ad aver a che fare. Freud incontra molto presto quel punto limite d’intrattabilità e ciò lo spinge a inventare la psicoanalisi e a proseguire, lungo tutta la vita, nella sua elaborazione, rilanciandola ogni volta che trova che quel punto insiste e chiama a una riformulazione della teoria. Nel testo sull’Interpretazione dei sogni lo chiama “l’ombelico del sogno”, mentre in Analisi terminabile e interminabile, scritto al termine della sua carriera, “la roccia della castrazione”. Per Lacan sarà il reale, l’impossibile.
È a partire da ciò che egli ipotizza l’esistenza dell’inconscio in quanto sessuale; giacché è con l’inconscio e con le sue elucubrazioni di lalingua, che il soggetto cerca di trattare questo impossibile strutturale. La sessualità umana, per la psicoanalisi, è una sessualità che non corrisponde a una sessuologia, poiché essa non è associata a una sorta di “manuale d’uso” che potrebbe spiegare al soggetto come utilizzarla. La sessualità non è nemmeno legata all’istinto. L’istinto e la biologia dettano agli animali quando, come e con quale simile soddisfare l’appetito legato alla necessità della specie di riprodursi. Per l’essere vivente che è preso dal e nel linguaggio, il parlessere, il modo in cui si situerà nella propria sessualità, come uomo o come donna, non è qualcosa di già dato sin dalla nascita. Ciascuno, a partire da certe condizioni– condizioni che non ha scelto, ma con le quali dovrà giocarsi la sua partita –, transitando attraverso un percorso fatto di identificazioni e di godimenti, arriverà a scegliere inconsciamente di posizionarsi dal lato maschile o dal lato femminile, in relazione alla propria sessualità.
Dal lato uomo troviamo una modalità di godimento legata alla logica fallica, logica del tutto, dell’universale. Grazie al significante fallico il soggetto può trovare un orientamento simbolico universalizzante che lo aiuta a raccapezzarsi con quella sessualità che nulla e nessuno gli può spiegare. L’organo sessuale maschile e il tipo di godimento che da esso il soggetto può trarre, rappresenta bene, sul piano del godimento, questa logica universale del tutto. La posizione maschile di godimento è identificata con la parvenza di avere il fallo e questo produce, nel soggetto così situato, una condizione tale per cui il proprio modo di godere è modulato secondo la logica del o tutto o niente,in concordanza con l’alternanza tumescenza-detumescenza propria dell’organo che viene identificato con il fallo (anche se non lo è). Da questo lato, l’immagine anatomica contribuisce a fissare in modo più assoluto il soggetto maschile al godimento fallico. Godimento che, nel Seminario Ancora, Lacan nomina come “godimento dell’idiota”. Dal lato donna, la logica fallica e il godimento che le è proprio è anche presente. In questa logica, il soggetto donna è nella posizione che l’identifica a essere il fallo, per sé e per l’altro. L’anatomia, che le rivela che non ce l’ha, non le impedisce di poter godere anche lei in modo fallico, a livello del corpo ma anche fuori dal corpo. Nulla vieta a una donna, per esempio, di godere del potere – sostituto fallico per eccellenza – allo stesso modo di un suo collega uomo, né di ottenere della soddisfazione sessuale attraverso un godimento fallico. Freud non ha mai smesso di interrogarsi sulla specificità delle donne, arrivando a concludere che la donna fosse caratterizzata dall’assumersi la castrazione, superando l’invidia del pene. Ciò però non basta per spiegare la specificità femminile, poiché l’assunzione della castrazione pertiene anche al mondo maschile, dal momento che il fallo simbolico – che manca all’uno e all’altra – non coincide con l’organo maschile. Jacques Lacan non è indietreggiato rispetto a questo impossibile nel quale l’opera freudiana si era arenata, interrogandosi ed elaborando qualcosa di più incisivo sulla specificità del godimento femminile. È questa specificità che fa dire a Lacan che La donna (come universale) non esiste, dal momento che non esiste Il godimento femminile unico e universale. Ciascuna donna può avere, se vi acconsente, un suo rapporto con un godimento al di là del fallo, al di là della castrazione e dell’Edipo, a condizione però di servirsi anche della logica fallica. Diversamente, si aprirebbe il campo al discorso sulla follia, ma questa è un’altra faccenda. Non si tratta, come possiamo vedere, di far coincidere il femminile con l’isteria. Vi è, però, qualcosa che le raccorda, senza sovrapporsi. A partire dei soggetti isterici, Freud scopre un al di là. L’inconscio, che cela un trauma in relazione alla sessualità, è un al di là. Un al di là degli enunciati, del sintomo, del lamento, i quali rivelano di essere dei messaggi da decifrare, solo a partire dal fatto che ci sia qualcuno che si metta nella posizione di volerlo cogliere e accogliere. L’isteria si difende dal sessuale insito nell’inconscio e perciò produce dei sintomi. L’isterica si difende dal godimento Altro, ma proprio perché si difende può trovarsi nella posizione opportuna per accedervi.
Il soggetto isterico è un soggetto diviso, che testimonia che vi è in lui un qualcosa da svelare, un al di là, appunto, anche quando spesso lui stesso oppone resistenza a questo svelamento. Le donne, a partire da una condizione che le caratterizza e rispetto alla quale sono in un certo modo privilegiate, oltre a essere iscritte nel godimento fallico, possono avere – se lo vogliono – accesso a un godimento Altro. L’inconscio non coincide con questo godimento Altro, il godimento femminile, come lo chiama Lacan; ma un modo per accedervi è quello di passare attraverso l’esperienza dell’inconscio, così come accade durante un’analisi. Quando un soggetto – uomo o donna – entra in analisi, ciò di cui fa esperienza è che i suoi sintomi, i suoi comportamenti, i suoi enunciati rivelano Altro da ciò che credeva; non solo un altro senso, ma addirittura un altro godimento. Cogliere questo, man mano, nell’analisi, conduce il soggetto ad acconsentire e accettare quell’altra logica, innanzitutto rispetto a sé, e di conseguenza anche rispetto agli altri. Accettare che vi sia un Altro godimento, forme di godere altre e diverse da quella sostenuta dall’Io, dal discorso cosiddetto comune, che è quello del padrone.
Passare attraverso l’esperienza di un’analisi e portarla a termine, può essere il modo, per una donna, di accedere al godimento specificamente femminile, il quale non si può afferrare, né dire, né localizzare da nessuna parte, ma, talvolta, lo si può provare.
Jacques-Alain Miller (2006a), nel commento al Seminario XXIII – Il sinthomo di Lacan (2006a), sottolinea che, da un punto di vista psicoanalitico, «il corpo è paragonabile a un ammasso di pezzi staccati. Non ce ne rendiamo conto tanto che restiamo catturati dalla sua forma, tanto che la pregnanza della sua forma impone l’ideale della sua unità» (p. 13). Lo statuto primitivo del corpo, contrariamente all’evidenza del visibile, è infatti di essere in pezzi staccati e, affinché il bambino possa percepire il proprio corpo come una unità, occorre che sia passato attraverso quello che Lacan (2002a) considera un vero e proprio «crocevia strutturale» (p. 107) nello sviluppo. Nel 1936, riprendendo le ricerche sperimentali sulla percezione compiute da Henri Wallon, Lacan indica con il nome di stadio dello specchio quella fase in cui il lattante, tra i sei e i diciotto mesi, ancora immerso in uno stato di frammentazione, impotenza e di prematurazione fisiologica, risponde in modo giubilatorio alla vista della propria immagine riflessa nello specchio. L’immagine speculare permette al bambino un primo riconoscimento, una prima identificazione e, contemporaneamente, segna uno iato incolmabile poiché egli non potrà mai ricongiungersi all’immagine che lo specchio gli rimanda. Scrive Lacan (2002b): «questa Gestalt […] simbolizza la permanenza mentale dell’io e al tempo stesso ne prefigura la destinazione alienante» (p. 89). In questo passo, possiamo già trovare l’idea del soggetto lacaniano come strutturalmente diviso ed è per questa via che Lacan (2002a) sottolinea la dimensione tragica dello stadio dello specchio, la cui essenza è quella di essere una «lacerazione originale» (p. 110) in cui l’essere del soggetto è per sempre separato dalla sua proiezione ideale.
Da una parte, dunque, lo stadio dello specchio permette quell’operazione simbolica che offre al soggetto la possibilità di individuarsi come un “io” mentre, dall’altra, è ciò che lo divide irrimediabilmente dalla sua immagine. È a questo livello che si pone la «Spaltung tra il moi che viene a costituirsi e il soggetto dell’inconscio je, che non si lascia reperire nell’immagine speculare, e che troverà modo di presentarsi nei punti di vacillamento dell’io» (Cosenza, 2003, p. 23-24). Nell’analisi di questo momento così importante nella costituzione dell’immagine del corpo Lacan evidenzia il ruolo fondamentale e preliminare svolto dalla madre: ella è colei che tenendo in braccio l’infans gli indica che l’immagine che lo specchio rimanda è la sua. È quindi attraverso l’azione operata da un elemento terzo – in questo caso la madre – eterogeneo alla dimensione della similarità, che «il soggetto si pone come operante, come umano, come io (je), a partire dal momento in cui appare il sistema del simbolico» (Lacan, 2006b, p. 66).
Quanto detto mette in rilievo come il corpo si strutturi a partire dall’apporto dell’immagine e l’esperienza del corpo in frammenti, di cui testimoniano i soggetti schizofrenici, si pone come caso paradigmatico degli effetti provocati dal non accesso alla funzione unificante dell’immagine speculare. Per Eva, una ragazza schizofrenica, per esempio il corpo è piuttosto il luogo di un ritorno nel reale della libido: Eva in certi momenti di vacillazione deve cingere la testa con una fascia perché possa avere la tranquillità «che tutto ciò che è all’interno della testa resti dentro». Quando il bambino viene al mondo, viene già al mondo nel campo dell’Altro simbolico ed è il simbolico che per Lacan costituisce uno dei tre registri, oltre all’immaginario e al reale, che presiede alla nascita e alla formazione del soggetto. Il simbolico, in particolare, è ciò che umanizza il soggetto sottraendolo alla condizione di puro vivente per immetterlo nel legame sociale.
Nelle Due note sul bambino, Lacan (1987) ci dice che il bambino diventa soggetto solo tramite il desiderio dell’Altro, cioè a partire dal modo in cui la madre, il suo Altro primordiale, ne ha fatto causa del proprio desiderio. Da ciò si coglie che il corpo per l’essere parlante non è più solo un organismo, prodotto di puri bisogni biologici, ma è la risultante della relazione che intercorre tra l’organismo di un vivente e l’Altro del linguaggio. È quindi il simbolico a trasformare l’organismo in corpo e il parlare di corpo implica una trilogia che comporta, oltre al corpo, la parola e l’essere. Per un verso, l’entrata nel campo del linguaggio fa pertanto perdere all’umano lo statuto di essere naturale ma, contemporaneamente, fa guadagnare al corpo uno statuto inedito perché diviene tempio della pulsione: «Come tempio della pulsione il corpo è libidicamente erotizzato, sublimato, sessualmente portatore di una differenza che fa problema, sede di un desiderio che ha fonte in quella perdita di godimento che è correlativa alla iscrizione stessa del simbolico. Ma il corpo è anche ciò che patisce di “quello che non va” e che Lacan chiama “il reale”. È questo reale che si manifesta nel sintomo e che insiste rendendo sofferente il corpo come un impossibile da sopportare ma di cui però non si riesce a fare a meno: “godimento”, lo chiama Lacan» (Miller, 2006b, p. 8).
Bibliografia:
Cosenza, D. (2003). Jacques Lacan e il problema della tecnica. Roma: Astrolabio.
Lacan, J. (1987). Due note sul bambino. La Psicoanalisi, 1, 22-23.
Id. (2006a). Il seminario. Libro XXIII. Il sinthomo (1975-1976). Roma: Astrolabio.
Id. (2006b). Il seminario. Libro II. L’io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi (1954-1955). Torino: Einaudi.
Id. (2002a). Aggressività in psicoanalisi (1948). In Id., Scritti. Vol. 1. Torino: Einaudi.
Id. (2002a). Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io In Id., Scritti. Vol. 1. Torino: Einaudi.