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«Che cos’è il digitale e come può essere definito? Cos’ha da dire la tradizione fenomenologica, sviluppatosi più di un secolo fa, su tale questione? Come percepiamo e come entriamo in relazione con oggetti, eventi e ambienti nell’era digitale? Come viviamo il nostro corpo e come questo si modifica in ambienti diversi da quello analogico, per esempio nella realtà virtuale o nella realtà aumentata?» (p. 11). Sono queste le domande alla base del testo "Fenomenologia del digitale. Corpi e dimensioni al tempo dell’intelligenza artificiale" (Mimesis, 2024) scritto da Floriana Ferro. L’autrice studia da anni la tradizione fenomenologica e, nell’opera, utilizza questo approccio per indagare il rapporto tra l’umano e le nuove tecnologie digitali, fino a giungere a una proposta originale su come dovremmo vivere tale rapporto.

L’autore che guida la trattazione di Ferro è Maurice Merleau-Ponty. Nel libro si fa costante riferimento al concetto di “carne”, che il filosofo francese elabora nella tarda fase del suo pensiero. Tale concetto nasce dall’esigenza di superare il dualismo ancora presente nella Fenomenologia della percezione (1945) in favore di un monismo che annulli la distinzione tra Leib e Körper. Ne Il visibile e l’invisibile (1964) Merleau-Ponty scrive:

Ciò che chiamiamo carne, questa massa interiormente travagliata, non ha nome in nessuna filosofia. Medium formatore dell’oggetto e del soggetto, essa non è l’atomo d’essere, l’in sé duro che risiede in un luogo e in un momento unici […]. Si deve pensare la carne non già a partire dalle sostanze, […] ma, dicevamo, come elemento, emblema concreto di un modo d’essere generale (Merleau-Ponty, 2003, p. 163).

Il concetto di “carne” mostra, dunque, una realtà viva e dinamica, in cui i vari elementi interagiscono tra loro grazie a un comune modo d’essere. La figura che rappresenta al meglio questa situazione è quella del chiasma, caratterizzata «da un intreccio dinamico tra polarità divergenti. Nella x e nella χ vengono raffigurate due linee che partono da due punti diversi, si incontrano in un punto e poi seguono direzioni opposte» (p. 36). In questo movimento dialettico – da intendere in senso schellinghiano e non hegeliano – si considera la realtà nella sua pluralità di rapporti, tutti essenziali per comprendere la complessità e la ricchezza del mondo in cui viviamo.

Partendo dalla prospettiva merleau-pontiana, Ferro esamina la relazione che si instaura tra noi e gli ambienti digitali. La realtà virtuale e la realtà aumentata, infatti, sono presenze sempre più familiari e la loro natura e funzione chiamano in causa anche la riflessione filosofica. Una delle tesi presenti nel libro è che gli ambienti analogici e digitali non siano in un rapporto antitetico, bensì esista un continuum tra loro. Per sostenere tale posizione, l’autrice fa riferimento all’idea di Umwelt, esposta da filosofi come Edmund Husserl e lo stesso Merleau-Ponty, ma anche da scienziati come Jakob von Uexküll. L’interconnessione tra il soggetto e l’ambiente circostante applicata alle nuove tecnologie digitali e lo sviluppo dialettico della realtà legato alla “carne”, consentono a Ferro di proporre una nuova versione della realtà, che si differenzia sia da quella di Milgram, Kishino e altri del 1994, sia da quella più recente di Skarbez e altri, elaborata nel 2021. Se le prime due versioni individuano nel reale e nel virtuale i due poli della realtà, Ferro – richiamando le polarità ontologiche “possibile-reale” e “virtuale-attuale” formulate da Pierre Lévy nella sua rilettura della filosofia di Gilles Deleuze – esprime una convinzione diversa:

[…] il virtuale non è da considerarsi in contrapposizione al reale, ma come una caratteristica del suo movimento dialettico. I due elementi che costituiscono il reale sono, invece, l’analogico e il digitale, che consistono in due diversi poli della carne, l’elemento comune della realtà. Questi due poli si relazionano dinamicamente in maniera chiasmatica, incontrandosi senza mai sovrapporsi o rischiare di annichilire l’altro polo (p. 77).

Cosa rende possibile l’esperienza del continuum analogico-digitale? Per rispondere a questo quesito, Ferro usa il concetto di “analogia”, declinandolo in chiave fenomenologica. L’esperienza in ambienti diversi presenta comunque dei punti di continuità, poiché tutti partecipano a questo modo di essere che caratterizza la “carne”, consentendo di parlare di analogia transdimensionale. «[…] le relazioni percettive [s]i possono quindi considerare come soggette ad analogie applicabili a dimensioni differenti. L’oggetto è quindi ”analogo”: ciò significa che non rimane del tutto uguale, né cambia totalmente al mutare della dimensione» (p. 126).

Meritevole di particolare attenzione è il quarto capitolo, in cui si analizza il complesso rapporto tra i corpi umani e quelli artificiali. In questo contesto, Ferro dimostra le connessioni che sussistono tra la filosofia e l’ingegneria robotica: l’interazione tra gli umani e i robot è un campo di studio in grande crescita, guidato soprattutto dagli sviluppi dell’IA. La Human Robot Interaction (HRI) porta all’attenzione la questione dell’empatia, ampiamente discussa dalla filosofia e, in particolar modo, dalla fenomenologia. Per comprendere empaticamente l’altro dobbiamo porre uguale attenzione sui due termini dell’espressione alter ego: in primo luogo, devo riconoscerlo come ego in grado di esercitare un comportamento analogo al mio (come avviene nell’associazione appaiante di Husserl); in secondo luogo, devo anche essere consapevole delle differenze tra il mio vissuto e il suo (elemento base dell’empatia descritta da Edith Stein). Numerosi esperimenti dimostrano come gli umani, pur interagendo con degli umanoidiartificiali, esperiscano il doppio movimento appena delineato, riuscendo a provare empatia verso i robot. Secondo Ferro questo è possibile grazie a una comune esperienza del corpo e della “carne” che, come fatto in precedenza, permette di parlare di un’analogia transcorporea.

L’analogia transdimensionale e l’analogia transcorporea conducono alla proposta di un’ontologia piatta (flat ontology). Come sottolinea l’autrice, il termine “piatto” non deve essere interpretato come mancanza di stratificazione della realtà; infatti, «Il concetto di ontologia piatta, inteso in senso fenomenologico, non implica una realtà priva di profondità, bensì la mancanza di una struttura gerarchica degli enti» (p. 169). Quest’ottica, tipica del postumano, viene qui usata per reinterpretare il tardo pensiero merleau-pontiano, evidenziando le infinite interconnessioni tra entità umane e non umane, accumunate da un’unica modalità di esistenza che, però, non annulla mai le loro peculiarità. A conclusione del capitolo, Ferro amplia la prospettiva, includendo nella sua analisi tre esempi di ontologia piatta tratti da autori contemporanei: la Acror Network Theory (ANT) di Bruno Latour, la Object-Oriented Ontology (OOO) di Graham Harman e l’onticologia di Levi Bryant. Queste proposte – pur nelle loro differenze, messe ben in luce dall’autrice – hanno il pregio di guardare la realtà in modo non antropocentrico, valorizzando lo statuto ontologico degli enti che spesso vengono esclusi dalla riflessione filosofica e scientifica.

Nella sua critica alla metafisica classica di stampo aristotelico-tomista, Deleuze si ispira all’ontologia dell’univocità promossa da Duns Scoto, secondo cui gli enti non differiscono in virtù di un maggior o minor grado di partecipazione all’essere; «Le differenze ci sono, ma l’essere si distribuisce in maniera equa: si predica allo stesso modo per tutte le modalità individuanti, malgrado queste siano diverse l’una rispetto all’altra» (p. 185). In Differenza e ripetizione (1968), il filosofo francese oppone all’immagine di un nómos sedentario, che non coglie la dinamicità del reale, quella di un nómos nomade, capace di comprendere la natura della differenza. La proposta di Ferro segue quest’ultimo (valorizzando, però, anche la verticalità dell’essere), offrendo un’ottima introduzione alla fenomenologia del digitale, ricca di riferimenti bibliografici e feconda di spunti da poter sviluppare: nel libro, infatti, si trovano rimandi (per citarne alcuni) anche alla postfenomenologia, alla teoria ecologica e alla Gestaltpsychologie.

Discutere il nostro rapporto con il digitale è un problema sempre più impellente, nonché un dovere per noi esseri umani: come affermava già Martin Heidegger nella conferenza La questione della tecnica (1953), l’umano è homo technicus, ovvero capace di disvelare l’essere tramite la sua attività produttiva; ma, contemporaneamente, egli è anche homo technologicus, in grado, cioè, di pensare e discutere il suo essere tecnico. Fenomenologia del digitale. Corpi e dimensioni al tempo dell’Intelligenza artificiale è un prezioso strumento per iniziare questa discussione.

Efrem Trevisan

Bibliografia

Deleuze, G. (1997). Differenza e ripetizione, Raffaello Cortina, Milano.

Heidegger, M. (1991). La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano.

Merleau-Ponty, M. (2003). Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano.

Merleau-Ponty, M. (2003). Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano.

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