«La passeggiata dello schizofrenico: un modello migliore di quella del nevrotico sul divano. Un po' d'aria aperta, una relazione con l'esterno»
Così scrivevano Deleuze e Guattari nell'Anti-Edipo; questa citazione esprime non solo un'ironica, quanto spiazzante denuncia delle normatività e delle costrizioni dell'analisi freudiana ma anche una valida alternativa alla filosofia da scrittoio.
Da questo spunto nasce la volontà di scrivere una rubrica di Passeggiate urbane che si ricollega a un'eredità antica quanto la filosofia, se con questa intendiamo la tradizione socratica e cinica. Anche se da essa, per questioni probabilmente dettate dal passaggio alla modernità, se ne distacca in quanto alla conversazione preferisce la narrazione e l'indagine emotiva.
Per chi pensa che l'idea di indagare la realtà, di esercitare lo sguardo filosofico attraverso un mezzo primitivo come il passeggio sia un'idea quantomeno leggera, scarna di requisiti metodologici, occorre ricordare ciò che Kierkegaard ha avuto modo di affermare tempo fa: «i pensieri migliori li ho avuti mentre camminavo e non conosco pensiero così gravoso da non poter essere lasciato alle spalle con una camminata». Se qualcosa di “leggero” e di ironico si può rintracciare in quest'affermazione è il fatto che per Kierkegaard essa è risultata paradossalmente vera, essendo egli stato colto da un colpo apoplettico in strada che gli risultò, dopo un breve periodo di ricovero, fatale. Egli passeggiando si è lasciato, quindi, il pensiero più gravoso alle spalle; quello che perlomeno lo tormentava dalla sua conversione religiosa in poi: il problema dell'esistenza. Tuttavia, pur non potendo sapere cosa abbia pensato durante i suoi ultimi passi, è molto probabile che quel “fuori di noi” che ci scava e ci corrode - come direbbe Foucault - non sia stato indifferente neppure al filosofo danese. Passeggiare infatti non si esaurisce nel mero monologo interiore o di analisi esistenziale (per quanto estrema possa essere). In quanto movimento è svolgimento di un dialogo tra un individuo e il suo posizionamento spaziale e temporale.
Ecco allora che lo sguardo filosofico non è mai qualcosa di puro, ma è il frutto dell'esercizio e della relazione tra le soggettività e il fuori, di cui le “passeggiate” rappresentano una pratica.
Il mondo non è da questa prospettiva solo un qualcosa in cui si è gettati ma un continuo botta e risposta tra il proprio piede e l'asfalto su cui si posa, tra la posizione individuale e la geometria delle configurazioni spaziali, con la sua incessante produzione e riproduzione a partire da determinate relazioni sociali.
Quello che qui si sta immaginando allude evidentemente a una sorta di psicogeografia o di pratica del flâneur di benjaminiana memoria ma da questa si distacca perché non crede che nella deriva si possa esperire nessun tipo di liberazione; in essa, piuttosto, va cercata una modalità di conoscenza rispetto alle strategie di potere in atto, sia a livello fisico che simbolico, che sia in grado giustappunto di rappresentare come le relazioni sociali si esprimano in categorie spaziali.
Si dice infatti per ragioni non meramente percettive ma anche esistenziali, che è diversa l'esperienza del generale, che dal colle osserva il campo di battaglia, da quella del soldato perso nella mischia. Lo spazio di cui andiamo trattando è la forma di relazione tra queste diverse posizioni benché la mappa della città risulti, rispetto all'immagine della battaglia o del naufragio, più refrattaria alla comprensione proprio per l'incalcolabile numero di sguardi e prospettive. Tenendo ben a mente questa difficoltà “passeggiare” potrebbe essere (anche) rimanere immobili nella mischia, nel viale più trafficato, nelle stazioni ad alta velocità oppure muoversi, transitare e curiosare sopra i colli, attraversare i nuovi centri direzionali e le nuove opere faraoniche della città; senza contemplarle, senza farsi ammaliare dai fantasmagorici effetti architettonici post-moderni, dal neo-barocchismo dell'arredo urbano.
«E sebbene io sia banale, lo spettacolo della città è interessante da osservare. No, nessun elemento ha vita autonoma, sempre legato a ciò che lo circonda. Forse è perché l'osservatore di questo spettacolo sono io. Ogni abitante ha un rapporto con una parte specifica della città». Deux ou trois choses que je sais d'elle
Ciò significa interrogare lo spazio non alla ricerca di nuovi lidi esotici, né di mete lontane, ma osservare piuttosto il punto di partenza, il luogo di produzione di questo desiderio di altro: l'insoddisfazione e il senso di costrizione degli spazi urbani attuali.
di Maria Francesca Casu e Luigi Giroldo