Nel testo di recente pubblicazione per Quodlibet, Postcritica. Asignificanza, materia e affetti, Mariano Croce si inserisce nel dibattito contemporaneo sul tema della postcritica, ambito trandisciplinare degli studi umanistici, che coinvolge non solo la riflessione filosofica, ma anche l’antropologia, la sociologia, la critica letteraria, la linguistica e i cultural studies. Il termine postcritica fu coniato negli anni Cinquanta da Michael Polanyi, scienziato e filosofo; esso designa una posizione teorica che si propone di andare oltre l’orientamento della filosofia critica, il cui paradigma epistemico coincide con la ricerca di un rapporto obiettivo con la realtà e più nello specifico con la lettura, possibile solo nella misura in cui si utilizzano le lenti del dubbio e dell’epoché, scavando nelle profondità occulte e nascoste del reale e dei testi. La postcritica supera quest’esigenza “paranoide” che culmina nella cosiddetta “ermeneutica del sospetto”, presentandosi piuttosto come un’attitudine di incontro con il mondo e la lettura, che ne metta in luce gli aspetti fenomenologici, estetici ed affettivi. Come nota Eve Kosofsky Sedgwick in Paranoid Reading and Reparative Reading, uno dei testi fondativi della postcritica: «il sospetto guarda solo al generale, ai grandi apparati nascosti e affoga il singolare, le relazioni locali, contingenti in un episteme che ritiene onnicomprensiva» Sedgwick, 2003, pp. 123-151). Allo stesso modo per Rita Felksi, Elizabeth S. Anker, Bruno Latour o Laurent de Sutter, esponenti di spicco del movimento postcritico, gli strumenti critici “hanno esaurito il loro vapore”, secondo un’incisiva espressione di Latour (Latour, 2004, p. 225), lasciando il posto ad una diversa immagine della lettura e della nostra interazione con la realtà. Per gli autori sopracitati in quest’ottica non c’è nulla da indagare oltre e al di sotto degli a/effetti che il mondo e l’esperienza dell’incontro con i testi producono.
ll libro di Croce si presenta come un contributo originale rispetto alla letteratura del campo nella misura in cui offre al lettore tre nuovi strumenti concettuali per fare postcritica. Attraverso le nozioni di asignificanza e materia, nonché tramite una specificazione del concetto di affetto, l’autore segue infatti un percorso logico-argomentativo che porta a definire lo spazio pratico, poietico e vitale della postcritica. Essa si mostra come un esercizio, un movimento o un’attitudine. Scrive Croce: «vorrei poter dare un senso di ciò che la postcritica fa anziché ciò che dice. Il mio dire sarà quindi un mezzo per fare postcritica» (p. 7).
Il primo capitolo del testo si apre tramite una riflessione da parte dell’autore sul concetto di asignificanza, tesa a dimostrare l’importanza di un ripensamento dell’idea di matrice logocentrica in base alla quale la realtà risulta accessibile solo nei suoi effetti epifenomenici linguistici e nelle sue trame segniche. Croce sostituisce a questa visione l’ipotesi di una fuoriuscita dal regime della significazione, per approdare ad «un linguaggio asignificatorio che tracci connessioni e crei legami tra le cose, anziché imporre loro un significato» (p. 20). Per l’autore la fascinazione profondamente antropocentrica per il significante si correla all’esigenza di un apparato critico, dal portato normativo. Criticare, seguendo l’etimo greco di krino, è infatti sempre sinonimo di creare confini rigidi, stabilendo crinali non oltrepassabili e giudizi che sanciscono limiti monolitici. Se tutto è significazione, parola, linguaggio e non si dà nulla oltre un fitto reticolo segnico, resta tuttavia un’esigenza quasi paradossale ed ossessiva (e ad avviso dell’autore nociva), di scavare al di sotto del logos per scorgere «una realtà più profonda, tacita, opaca, sede di meccanismi più pervasivi» (p. 14). Così l’ostinazione per il segno, (che si configura come una necessità imprescindibile di denominare e circoscrivere tramite la parola oggetti, vissuti ecc.), si coniuga ad un’attitudine critica, tesa a decrittare le verità che la significanza di fatto occulta e rende opache. Viene dunque esplorata l’ipotesi di un contatto con gli “effetti di superficie” che l’asignificanza produce, in contrapposizione all’inabissamento nelle profondità che avviene ad opera della critica. Croce, sulla scia di Deleuze, Latour e De Landa, definisce i presupposti teorici di un’“ontologia piatta” e immanente, un piano di consistenza orizzontale dove la vera profondità coincide con la superficie e gli oggetti non sono nient’altro che gli a/effetti che essi producono. Il processo di significazione perde quindi la primazia di unica condizione dell’esperienza, dando spazio alla realtà minuta degli interstizi topografici del non-linguistico. Ad avviso dell’autore tra lingua e topografia intercorre una distanza radicale: fuori dal linguaggio ci sono luoghi, tragitti e relazioni da mappare. La topografia del non-linguistico è letteralmente nella sua radice etimologica (“topos”, luogo e “graphein”, scrivere), una “scrittura di luoghi”, una cartografia delle relazioni e delle connessioni che gli enti intrattengono, al di là dei confini della parola. Da questo punto di vista, se il logos de-limita una zona sostanziale propriamente umana, l’affetto invece, presentandosi come un possesso non eminentemente antropocentrico e personalistico, attraversa gli enti secondo una direttrice transpecifica e transfrontaliera, eccedendoli e precedendoli in un senso non trascendente, ma topologico e trans-individuale. L’affetto intrattiene un rapporto stretto con l’impersonale e l’anonimo, è un tramite, un vettore di scambio che intesse mediazioni connettive e disgiuntive. L’affettività è quindi un costrutto topografico, che elude il perimetro del linguaggio, nella misura in cui veicola relazioni e congiunzioni. Per sfuggire alla trappola del segno occorre in definitiva collocarsi in un regime affettivo ed asignificante, non negando in toto la funzione del linguaggio, ma facendo breccia fra i suoi intervalli, fendendolo, balbettandolo e «piegandolo ad usi non significativi» (p. 21).
Il secondo capitolo del libro è dedicato ad un itinerario attraverso varie figure letterarie che “scrivono il movimento puro” (p.49): dai romanzi di Alain Robbe-Grillet, basati su un passaggio da un uso denotativo del linguaggio al linguaggio delle cose stesse, passando per le significazioni “tentacolari” di Giorgio Manganelli, per arrivare agli esercizi di stile di Raymond Quenau, Croce traccia una cartografia di una letteratura minore, dall’eco deleuziana. Il riferimento più affascinante contenuto nel testo tuttavia è forse quello dei romanzi di Clarice Lispector, che mettono in scena, in alleanza con Spinoza, una vera e propria poetica degli affetti e del movimento. È la stessa scrittura a divenire, a prendere forma in segni che più che di voci hanno i caratteri di gesti e vibrazioni: dire significa tracciare linee, unendo enti, situazioni e cose. Per Lispector usare la parola non comporta nessuna rinuncia alla componente materica del reale nella misura in cui attraverso di essa non si dice ciò che accade, ma si producono eventi. Gli autori citati rappresentano per Croce esempi di scrittura postcritica poiché “dissodano il linguaggio” (p. 38), scoprendo nuove alleanze tra le parole e l’esperienza, dando voce alle cose stesse, nella loro relazionalità. Ciò ad avviso dell’autore è possibile grazie all’utilizzo di procedure poetiche e narrative, quali figure retoriche come omoteleuti, onomatopee, lipogrammi etc. (nella fattispecie in Quenau) che disarticolano il linguaggio, frammentandolo e moltiplicandolo, orientandolo verso l’asignificanza, tramite enunciati che implicano l’evocazione di realtà materiche (aptiche, visive, gustative, nel caso di Lispector) o ancora, ad esempio, attraverso le “inerzie iperdescrittive” (p. 38) di Robbe-Grillet. Lo spazio che l’autore ritaglia alla letteratura è di ausilio nel definire una filosofia composta da relazioni, movimenti e flussi. Come nota Deleuze: «scrivere è una questione di divenire, sempre incompiuto, sempre in fieri» (Deleuze, 1993, p. 13). La letteratura permette inoltre di soffermarsi ulteriormente sul tema dell’asignificanza, sondandone i meccanismi e gli effetti.
Raymond Queneau - photomaton (circa 1929)
Nel terzo capitolo, dedicato alle operazioni della materia, l’autore mette a tema, sulla falsariga di Karen Barad, (una delle più rilevanti teoriche femministe dei “nuovi materialismi”), la nozione di intra-azione e di agentività, ampliando il suo intento di definire nuovi strumenti concettuali per esercitare la postcritica. Per Croce, lettore di Barad, l’intra-azione si presenta come l’assenza di una preesistenza dei termini sulle relazioni. Barad sostituisce al concetto di inter-azione, da intendersi come l’entrare in rapporto di termini (di individuazione, nella fattispecie) già stabiliti, la nozione di intra-azione, che implica il costituirsi dei termini in seno a dei rapporti e non al di fuori di essi. La materia si presenta cioè come uno snodo reticolare, come un dinamismo processuale e genetico; essa ospita relazioni che producono intra-attivamente termini (Barad 2017). Nell’universo della materialità-flusso, simultaneamente psichica e somatica, i termini non vengono prima delle relazioni, ma ne sono gli “effetti di superficie” (p. 9) e le increspature: essi si presentano come delle agglutinazioni sempre revocabili e in divenire. L’individuazione è in questo senso una composizione, una sezione intra-attiva della materia che la delimita in maniera aperta senza mai circoscriverla definitivamente. Per Croce: «l’individuazione prende corpo sul piano o superficie in cui le cose si compongono, scompongono e ricompongono» (p. 66). Il ricco vocabolario di Croce, intessuto di suggestioni icastiche e immagini evocative, ci dice sicuramente qualcosa del tentativo filosofico e argomentativo dell’autore: la parola si piega al non-linguistico, facendosi strada attraverso l’asignificanza, cercando di restituire “blocchi di sensazioni ed affetti”, per usare dei termini deleuziani. Dopo aver definito il concetto di intra-azione, Croce riflette sulla nozione di agentività, offrendo un percorso logico teso a mostrare come le due nozioni contribuiscono a ridefinire lo spazio di un “nuovo materialismo”. L’agentività, in questo senso non va intesa (nel senso classico socio-cognitivo) come la capacità di agire attivamente e trasformativamente di un singolo soggetto né tanto meno come un attributo che si predica di un individuo isolato, quanto piuttosto come l’energia emergente di un campo di forze metastabile e materiale, che esorbita i confini dell’Io. Croce prende a prestito dal pensiero di Gilbert Simondon il concetto di metastabilità. Per sistema metastabile quest’ultimo intende un campo di forze né stabile né instabile, sospeso in uno stato di equilibrio ricco di potenziali, che si conserva fintantoché non viene fornito allo stesso un quantitativo di energia che ne perturbi l’omeostasi. Punto d’arrivo della riflessione di Croce in questo capitolo è l’idea che l’attività agentiva ed intra-attiva della materia si presenti come un dinamismo di forze pre-personale, pre-individuale e metastabile in continua riconfigurazione, trasformativa ed affettiva.
Nell’ultimo capitolo del testo Croce mostra come gli incontri fra gli enti rispondano a dinamiche energetiche di “chemiotassi affettive”. L’autore mutua il concetto di chemiotassi dalla biologia, dove per il termine si intendono i fenomeni con cui organismi multicellulari o unicellulari direzionano i loro movimenti, a seconda della presenza di alcune sostanze chimiche. L’intento di Croce è quello di delineare (seguendo contemporaneamente la riflessione di Spinoza sulle affezioni e gli affetti) una mappatura degli incontri, nocivi o vantaggiosi, che compiamo giornalmente. “Taxis”, dal greco, è disposizione, relazionalità, ma anche allo stesso tempo, schieramento o contrappunto. L’Etica di Spinoza, nella fattispecie nella lettura che ne offre Deleuze, per Mariano Croce, si riferisce in fondo a situazioni minute e circostanziate, a grattacapi, malesseri o incontri favorevoli che accrescono la nostra potenza di agire: «un buon caffè come un amore, determinano un passaggio dello stato di potenza» (p. 79), così come, al contrario, se «ho preso un caffè in un brutto posto con una persona triste» (p. 66) non posso che intristirmi, facendomi attraversare da forze che agiscono a detrimento della mia potenza. Affettare ed essere affetti è dunque una scienza delle composizioni, “un’alchimia” delle connessioni, non antropocentrica, ma orizzontale: «che si tratti di un libro, di una pianta, di un minerale, di un individuo, di un gruppo di individui, di una comunità - si forma un’alchimia affettiva che elimina qualsiasi pretesa di distanza e neutralità» (p. 24). La dimensione affettiva della realtà materica implica dunque un concetto di ontologia che ospiti fra le sue pieghe un nuovo lessico, composto da termini aperti e smarginati, che rispecchino l’operatività energetica e sempre diveniente dell’essere metastabile. Per Croce connettori, reagenti, tensori, torsori, vettori (e,e,e…) abitano il piano di immanenza, popolandolo di molteplicità, intensità e variazioni.
In definitiva l’autore presenta la necessità di risemantizzare i termini tradizionali dell’ermeneutica, ridisegnandone i confini: al segno corrisponde il dominio dell’asignificante, all’atteggiamento interpretativo una collocazione affettiva, mentre la materialità orizzontale sostituisce le profondità di un atteggiamento critico. È in quest’ottica e da questo vertice osservativo che occorre attraversare il testo di Croce, misurandosi con una lettura che sia anch’essa affettiva, seguendo in ciò Deleuze, per il quale è necessario restituire «un’immagine pratico-affettiva della lettura, trasversale e non intellettualistica» (Deleuze e Guattari, 1972, p. 156). L’auspicio è dunque che l’impatto con il testo si configuri esso stesso come un’ermeneutica dell’incontro.
di Silvia Zanelli
Bibliografia
Barad, K. Performatività della natura (2017), ETS,
Pisa
Deleuze, G. & Guattari, F. (1972). L’anti-Edipo. Capitalismo e Scizofrenia. Torino: Einaudi
Deleuze, G. (1993). Critica e clinica. Milano: Raffaello Cortina
Latour, B. (2004). Why Has Critique Run out of Steam? From Matters of Fact to Matters of Concern, Critical Inquiry 30, N.2
Sedgwick, E. (2003). Paranoid Reading and Reparative Reading, or, You’re so Paraoid, You Probably Think This Essay Is About You, Durham: Duke University Press
Nota di lettura di P. Amoroso, Pensiero terrestre e spazio di gioco, Mimesis, 2019.
Il libro di Prisca Amoroso, Pensiero terrestre e spazio di gioco. L’orizzonte ecologico dell’esperienza a partire da Merleau-Ponty, edito per Mimesis, è un testo che si presta ad almeno due piani di lettura possibili. Per un lato, si tratta di una monografia attenta ad alcuni sviluppi del pensiero di M. Merleau-Ponty che, ad oggi, restano per lo più ai margini dalla critica esegetica (sia detto a titolo indicativo: la centralità dei corsi dedicati all’apprendimento nel bambino, gli influssi di alcuni inediti husserliani, i rapporti laterali con la psicoanalisi di Winnicott, etc.). D’altro lato, ci troviamo di fronte al tentativo di dare consistenza ad un percorso di pensiero originale. Si tratta quindi, tanto di un libro su, quanto di un cammino con Merleau-Ponty. Vorremmo partire da questo particolare intreccio di esegesi critica e costruzione concettuale per restituire alcuni aspetti che ci sembrano maggiormente rilevanti nel tentativo di inserire questo lavoro in contatto con alcuni dibattiti attuali, come quelli dell’ecologia filosofica e del problema della vita (Cfr. Iofrida 2012; Barbaras 2008). A tal fine, vorremmo prendere l’avvio dal capitolo intitolato Vincoli e improvvisazione (pp. 131 - 135), che si situa nel cuore dell’argomentazione dell’autrice. Questi concetti ci offrono uno spaccato interessante del lavoro svolto nel libro e restituiscono alcune cifre della posta in gioco del tentativo di Amoroso. Il particolare interesse di questo capitolo è dato da una sorta di case study, se è lecito esprimersi in questi termini, riportato dall’autrice e citato dal Merleau-Ponty (2010: 46) de La struttura del comportamento: si tratta degli studi del neurologo tedesco Kurt Goldstein(2010, 198 - 199) sullo scarabeo stercoraro. L’interesse per questo case study deriva dal fatto che tanto Goldstein, quanto Merleau-Ponty - e, con loro, Amoroso - considerano questo animaletto come un esempio di adattamento che potremmo definire contingente. Andiamo con ordine.
L’obiettivo - del capitolo come delle sue fonti - è quello di criticare le concezioni meccanicistiche del vivente, dell’animale e del corpo. Secondo Amoroso, in linea con lo spirito merleau-pontyano, in tali modi di pensare al vivente «non c’è spazio per l’improvvisazione» (p. 131). A partire da questa constatazione, Amoroso sottolinea che l’animale non è assimilabile ad una macchina meccanica in quanto, a differenza di quest’ultima, «non possiede un dispositivo prestabilito» (p. 131) di gestualità e azioni, cioè di forme a priori di comportamento. L’animale non è un oggetto (ma potremmo dire, altresì, che non è un noema), piuttosto è espressione di una variegata capacità d’azione in riferimento ad una serie di contesti. «In altri termini, la vita è caratterizzata da una certa forma di ambiguità, di apertura di fronte allo stimolo, dunque di capacità di improvvisare di fronte al domandare, continuamente rinnovato, del reale» (p. 131).
Vediamo emergere, in questi passaggi, una relazione ambientale che restituisce, almeno in parte, la cifra ecologica di queste analisi. Ma emerge altresì una presa di posizione specifica in merito alla questione del vivente. La vita, ma come vedremo è più consono dire l’atto del vivere, è qualcosa che si situa nell’intermondo (cfr. Merleau-Ponty 2008, 147-148) tra le istanze problematiche sollevate dall’ambiente e le capacità di risposta del vivente, capacità che sono sempre aperte e allo stesso tempo vincolate da una specifica topologia, ad una situazione. Vivere consiste nell’essere situati in questo spazio di gioco, mondo intermedio (Iacono 2010, 67-87) tra le urgenze dell’ambiente e le capacità (o plasticità) del vivente.
Ora, è in questa doppia cattura, in questo chiasma per riprendere la concettualità di Merleau-Ponty, che si pone la questione della vita, ed è qui che diviene centrale il lavoro di Goldstein. Amoroso mutua dal neurologo tedesco una peculiare nozione di adattamento: «[q]uesta idea è tematizzata da Goldstein come venire a patti (coming to terms) del soggetto con la situazione: l’organismo riorganizza continuamente se stesso e il proprio mondo in funzione delle proprie possibilità e necessità» (p. 133). Questo modo di concepire l’adattamento esprime l’idea che tra l’ambiente (il quale, in riferimento a von Uexküll, viene declinatodall’autrice nei termini di Umwelt) e l’individuo non si diano mai relazioni univoche e che nessuno dei due termini possa avere un privilegio ontologico sull’altro. In quest’ottica, l’idea di adattamento è interpretata in chiave non riduzionistica. Riprendendo alcuni aspetti del pensiero francese novecentesco (ma non solo: molti i richiami nel libro a Huizinga, Winnicott, etc.), Amoroso vuol evidenziare che l’adattamento e il chiasma tra individuo e ambiente mette in risalto che è la relazione ad aver valore d’essere, la quale è irriducibile ad uno solo dei due poli: nessuna priorità ontologica dell’ambiente sull’individuo, né dell’individuo sull’ambiente.
Per un verso, infatti, «l’organismo contrae il mondo per adattarlo alla propria condizione» - nel duplice senso del termine contrarre: ridurlo ai dintorni, ma anche assumerlo come abitudine -, mentre per un altro, «il vivente si adatta esso stesso al proprio ambiente, si riorganizza nel proprio rapporto con esso» (p. 134). Per evidenziare questo chiasma tra attività e passività (dell’organismo come dell’ambiente), Amoroso si richiama allo scarabeo analizzato da Goldstein, il quale «deambula, quando è sano, sempre con un’andatura ambiale, e, nel caso di amputazione di una o più falangi, usa alternativamente l’ambio e il trotto, a seconda dell’ambiente in cui si trova» (p. 135). L’esempio è utilizzato, come detto, anche da Merleau-Ponty (2010, p. 46) il quale sottolinea che tale capacità «non si verifica che sotto la pressione delle condizioni esteriori».
Questo doppio vincolo, questa relazione di continui feedback tra individuo e ambiente, è espressione della capacità dell’organismo «di far valere la propria libertà rispetto ad un limite […]. Rispetto ad un problema cui non era destinato dalla propria natura, l’animale dimostra una capacità quasi inventiva, di riassestarsi. Un vivente così pensato non è macchina almeno quanto esso non si costituisce come libertà assoluta» (p. 135).
Torneremo a breve su quest’ultimo passaggio. Per il momento è opportuno sottolineare che la capacità inventiva del vivente è espressione di un processo di adattamento basato su una negoziazione continua tra il dentro e il fuori, tra l’individuo e l’ambiente. Insomma, in primissima istanza vivere è una relazione che si basa sul venire a patti con l’ambiente, con un continuo risolvere problemi o, per dirla con Merleau-Ponty (2003, 293-318), rispondere alle avversità dell’esistenza.
In un’ottica di tal fatta viene a cadere l’idea di un ambiente come Natura Originaria, ovvero come principio Naturante (si tratta dunque di una posizione ecologica e non naturalistica, in quanto predilige le relazioni alle cose [Sachen]). Ma viene meno anche l’idea di un individuo isolato, dato che esso è sempre determinato dai processi di individuazione. Quella tra individuo e ambiente, così, è una relazione ambigua e avversativa che mette in atto processi di individuazione vivente.
Trattandosi di una posizione non naturalistica, la relazione vitale non è qualcosa di naturale, ma va sempre giocata e istituita: essa non è data ma è sempre da farsi. Vivere si presenta così come una prassi e non come l’oggetto di un sapere particolare o un noema: più che al Bìos, vivere rimanda ad un piano agonale, a qualcosa da fare piuttosto che a una mera cosa [Blosse Sache]. La vita, insomma, va praticata.
Con quest’ultima considerazione ci spostiamo su un altro riferimento centrale del libro di Amoroso: il biologo olandese Frederik J. Buytendijk, anch’egli tra le fonti di Merleau-Ponty. L’autrice mutua dallo scienziato l’espressione scandalo biologico dell’allegrezza, che dà il titolo ad un capitolo di poco successivo al primo commentato (pp. 151 - 155). Questa formula esprime l’idea che se il vivere è una prassi - attiva quanto passiva - e non un dispositivo prestabilito comportamentale, allora l’atto del vivere si presenta come una molteplice e variegata ricchezza di espressioni vitali, spesso anche del tutto inattese (mostruose, fuori natura e finanche pericolose per il vivente stesso). Proprio in questa multiforme varietàinattesa consiste lo scandalo della vita: essa non è riducibile ad un meccanismo, ma, mediante la doppia cattura, non è neppure uno slancio vitale, pura libertà assoluta, come abbiamo avuto modo di accennare.
Nell’ottica di uno slancio vitale, infatti, la vita non avrebbe altro senso se non se stessa, riproponendo nuovamente un dualismo tra qualcosa che ha un fine in sé e qualcosa che ha un fine fuori di sé. Si tratta di una prospettiva nella quale la vita ha un valore in sé, come un nuovo imperativo categorico e non ci sarebbe spazio per i singoli viventi poiché avrebbero il fine fuori di sé e dunque sarebbero solo mezzi attraverso i quali la vita esprimerebbe se stessa.
Lo scandalo del vivere, al contrario, è che vi sia la possibilità, nonostante tutto, di una vita. Lo scandalo consiste nel fatto che vivere non è che un continuo processo di indeterminazione e individuazione e che non ci si possa rapportare a questo vivere se non, per riprendere il lessico di Mille piani di Deleuze e Guattari (2015, 51), nella modalità della sottrazione, dell’ N-1. Ecco lo scandalo del vivere: si deve sempre strappare una vita dalle avversità, dalle contingenze, dalle istanze problematiche, perché vivere non è qualcosa che è esente dal fare dei singoli viventi. Vi sono infinite vite possibili e non una Vita Infinita: molteplici viventi infinitamente variegati, affetti in infiniti modi.
Un vivente, una vita è situata sempre nel mezzo dell’attivo e del passivo, dell’azione e della passione, è sempre aperta ai rischi e a forme di resistenza che ne ostacolano lo sviluppo: una vita, un vivente è sempre un paradosso esistenziale. Contro l’imperativo categorico della Vita Infinita, Amoroso tenta di giocare la carta della finalità senza scopo del vivente (pp. 195 ss), un finalismo che determina la dimensione contingente e paradossale di una vita. Vivere non è mai dunque un sostantivo, ma, di nuovo, un verbo, un agire, una pragmatica. Una vita non è che un continuo venire a patti con ciò che c’è, con e dentro l’esistente: un continuo attuare equilibri metastabili. Vivere, quindi, non è che creare delle resistenze nell’esistente.
Radicalizziamo ancora la tesi: vivere significa costringere l’esistenza a trasformarsi. Ciò fa sì che non si vive mai semplicemente contro la morte, vivere non è questione di mera sopravvivenza. Se vivere è un processo di adattamento continuo, questo adattamento non sarà, quanto meno in prima istanza, una lotta per la sopravvivenza (la quale presuppone, come argutamente sottolinea Amoroso, un ultimatum dell’ambiente all’organismo, p. 153), ma una lotta per trasformare l’esistente. Dal venire a patti allo scandalo dell’allegrezza, quindi: riecheggia, nel libro di Amoroso, l’idea che è solo attraverso l’allegrezza che si può vivere, ovvero trasformare l’esistenza.Sono le spinoziane passioni gioiose che aumentano lo spazio di gioco nelle avversità di una vita. Spinoziane, certamente. Ma anche profondamente merleau-pontyane (cfr. Merleau-Ponty 2008, 148 ss; 2003, 277-293): vivere non è la lotta a morte tra rivali, che condurrebbe ad una concezione competitiva della vita, ma la cooperazione tra viventi per trasformare lo stato di cose.
Ecco quindi tre concetti chiave del lavoro di Amoroso: vita, esistenza e trasformazione. Tutti e tre questi concetti necessitano di uno spazio di gioco (Amoroso mutua il termine husserliano Spielraum, pp.127-130) ove far crescere le relazioni, unico oggetto possibile dell’ontologia (la domanda ontologica, merleau-pontyanamente, non riguarda l’Essere, ma l’atto di creazione delle relazioni). Inevitabile, così, che tali riflessioni approdino al problema della soggettività e, con essa, alla critica di alcuni sviluppi della filosofia cartesiana. Con Merleau-Ponty, Amoroso tenta di delineare un’etica della contingenza (pp. 211 - 215), ovvero concepire la soggettività come potenza d’agire e non come interiorità cosciente e pensante: tentare di sostituire all’Ego Cogito, un Ich Kann, un Io posso. Un soggetto non è altrocosì da una vita che si pratica nei meandri delle avversità dell’esistenza.
Queste ultime considerazioni ci riportano al capitolo del libro di Amoroso dal quale siamo partiti, Vincoli e improvvisazione. Qui l’autrice connette la già commentata idea di Goldstein al lavoro del poeta Paul Valèry. Strana unione tra Scienza e Poesia, tra Ragione e Sentimento che ci limitiamo a segnalare e che nei lettori più avveduti non può che risuonare con il lavoro di Merleau-Ponty. In particolare, però, Amoroso rilancia l’importanza della nozione di Implexe «che esprime [la] fondamentale eventualità della vita» (p. 132). L’Implexe, infatti, è per il poeta francese «ciò per cui io sono eventuale» (p. 133). Amoroso fa giocare questa nozione contro l’idea di soggetto come cosa pensante, o, per essere più precisi, contro una concezione sostanzialistica della soggettività. L’autrice rilancia l’idea che una soggettività, in quanto qualcosa che può, non è identificabile col pensiero - non nei termini del Cogito, quanto meno - ma con l’eventualità.
Essere viventi, essere al mondo, divenire una vita significa essere sempre in relazione con qualcos’altro che c’è già, un qualcosa che ci precede e che ci supera. Essere una vita, inoltre, non è mai una condizione solipsistica: si vive sempre in una molteplicità, mai per sé. Una vita è pur sempre un’esistenza collettiva e intersoggettiva, mai meramente individuale. Ma ciò implica anche che, mentre la soggettività non è un per sé, il qualcosa non è neppure un in sé: non è un quid meramente indeterminato, ma un piano di esistenza avversativo che richiede la nostra vita, la nostra opera, la nostra incompiutezza. Essere viventi significa essere eventuali. Ma quest’ultima determinazione ci dice anche che vivere non è un pratica tra le altre. Vivere è una vera e propria ars inveniendi. In questa prospettiva si apre uno spiraglio, un cammino possibile verso una noologia di ispirazione merleau-pontyana, con cui vogliamo concludere.
Il pensiero (un pensiero terrestre, nietzscheanamente fatto di carne e nervi), svincolato dalla forma soggettiva, diviene una specie di virtù e in quanto tale occorre imparare a praticarla. Pensare, nella prospettiva di Amoroso, vuol dire apprendere e imparare a costruire insieme agli altri (umani e non) degli spazi di gioco nei quali poter sperimentare l’eventualità di una vita. Ma pensare vuol dire altresì costringere l’esistente a venire a patti con quella scandalosa allegrezza di una vita collettiva, l’unica soggettività capace di resistere alle avversità di ciò che c’è.
di Gianluca De Fazio
Bibliografia
Barbaras, R. (2008). Introduction à une phénoménologie de la vie. Paris: Vrin.
Deleuze, G. & Guttari, F. (2015). Mille piani. Roma: Castelvecchi.
Goldstein, K. (2010). L’organismo. Trad. it. Di L. Corsi. Roma: Fioriti.
Iacono, A.M. (2010). L’illusione e il sostituto, Milano: Mondadori.
Iofrida, M. (2012). Vita natura soggetto, in M. Iofrida (a cura di), Crisi. Condizione e progetto. Modena: Mucchi.
Merleau-Ponty, M. (2003). Segni. Trad. it. di G. Alfieri. Milano: Net.
Merleau-Ponty, M. (2008). Le avventure della dialettica. Trad. it. di D. Scarso. Milano-Udine: Mimesis.
Merleau-Ponty, M. (2010). La struttura del comportamento. Trad. it. di M. Ghilardi e L. Taddio. Milano-Udine: Mimesis.
Con Differenze italiane. Politica e filosofia: mappe e sconfinamenti si fa un salto nell’ossimoro. Il volume, curato da Dario Gentili ed Elettra Stimilli per DeriveApprodi (Roma 2015), è composto per buona parte dagli interventi del convegno internazionale Italian Theory existe-t-elle? tenutosi a Parigi nel gennaio 2014. Esiste una “teoria italiana”, una specificità del pensiero filosofico-politico italiano contemporaneo rispetto ad altre tradizioni e scuole di pensiero? L’Italian Theory può essere considerata una scuola o una tradizione di pensiero? “Italian Theory” e “differenze italiane”: due espressioni che sono anche i titoli degli ultimi due lavori di Gentili. Se il sottotitolo del primo, Dall’operaismo alla biopolitica, rivela il tentativo di tracciare una linea, un continuum, capace di rendere conto di una traiettoria che fa leva sulla peculiarità di una presunta Italian Theory, quello di Differenze italiane rimanda alla dispersione, al tentativo di cartografare un territorio che tende a sfuggire, difficilmente confinabile, capace di inseguire linee di ricerca inedite. Siamo nell’ossimoro appunto: confermato dal fatto che, nel volume, la locuzione “ItalianTheory” è chiamata in causa per definire la specificità di un pensiero aspecifico, l’unità presunta di una fucina d’idee che è piuttosto disseminata, disomogenea e disorganica. In altre parole l’espressione “Italian Theory” cerca di definire e contenere un’attività teorica che corrode l’unità dall’interno.
Il volume si divide in tre parti – la prima delle quali racchiude i saggi che cercano di definire la peculiarità dell’Italian Theory, la seconda è dedicata alle categorie preminenti nel dibattito filosofico-politico italiano contemporaneo (immanenza, dispositivo, crisi, improprietà, ecc.) e la terza esplora possibili usi di queste categorie in differenti ambiti (dalla letteratura all’architettura) – e si apre con il saggio di Roberto Esposito, un saggio programmatico che cerca di focalizzare sia la specificità del pensiero italiano rispetto ad altre tradizioni di pensiero, sia le possibili aperture. L’Italian Thought (tale espressione produce già uno scarto significativo rispetto a “Italian Theory”, ponendo l’accento sul farsi del pensiero, sulla sua attività, piuttosto che sulle griglie e gli schemi di una teoria) si costituisce non a partire da una dislocazione geografica, come è stato per la German Philosophy e per la French Theory – sorte, l’una successivamente all’emigrazione verso l’America di molti intellettuali tedeschi ebrei in fuga dalle persecuzioni razziali, l’altra dopo che alcuni filosofi francesi, già celebri in patria, furono invitati negli Stati Uniti dalle università americane – ma dalla specificità del suo fuori: la dimensione del politico. Inoltre il pensiero italiano contemporaneo «non si genera, come per la scuola di Francoforte, dal programma di un Istituto e neanche dalle teorie complesse che, a ridosso della stagione strutturalista, hanno caratterizzato i primi testi degli autori francesi» (p. 12). Il fuori che mobilita il pensiero italiano è piuttosto lo spazio conflittuale della prassi politica. Questa, però, è per Esposito una caratteristica di lunga durata (a differenze di quanto ritiene Gentili, che la fa risalire alla stagione operaista), presente nel pensiero italiano dagli albori del mondo moderno, così come è di lunga durata la centralità di un’altra categoria, che costituisce «l’orizzonte semantico del pensiero italiano» (p. 13): la categoria di vita – la quale è costantemente messa in tensione con quelle di politica e di storia. Ci sembra allora opportuno approfondire Differenze Italiane seguendo tre vettori: il fuori, la vita, il conflitto; tre categorie che troviamo intrecciate, sovrapposte, miscelate e declinate in maniera diversa negli interventi che compongono il volume.
Per Esposito, dunque, la cifra autentica del pensiero italiano sarebbe, da una parte, una forma di estroflessione intesa come tensione fattuale, evenemenziale, uno sporgersi sull’esterno storico-sociale e, dall’altra parte, una relazione più o meno conflittuale tra norme e forme di vita, tra bios e potere. Il fuori del pensiero, in questo senso, è una dimensione conflittuale, dove si trovano in tensione politica e vita. Ma è anche possibile interrogarsi sul fuori del pensiero italiano mostrando, in maniera genealogica, da quale milieu culturale provengano le categorie maggiormente in uso tra i sostenitori dell’Italian Theory. È ciò che fa Sandro Chignola prendendo in esame il decentramento attraverso il quale l’operaismo italiano ha assorbito il patrimonio teorico e concettuale della filosofia francese del dopoguerra e analizzando in che modo questo abbia permesso di «rimettere in movimento un’analisi, a un tempo stesso teorica e politica, discussa e recepita sul piano globale perché programmaticamente situata nel piano di immanenza del farsi-mondo del capitale» (p. 32). Come sottolinea Riccardo Baldissone, più che di innesto, occorrerebbe parlare di chiasmo: «il divenire francese dell’Italian Theory si incrocia, per cosi dire, col divenire italiano della French Theory» (p. 108); emergerebbe, allora, la tendenza alla contaminazione e all’ibridazione con altri paradigmi che per Esposito caratterizza il pensiero italiano fin dal Rinascimento. Questa tendenza è stata ripresa anche dal saggio di Sandro Mezzadra e discussa su un piano geopolitico. Per Mezzadra il pensiero del fuori è la forzatura delle categorie utilizzate attraverso la messa in tensione di queste con esperienze capaci di porle in discussione, magari contestandone lo statuto universale e svelandone la particolarità storica e geografica al fine di reinventarle. La tensione che così si crea è quella tra l’universalismo, che Mezzadra considera imprescindibile per creare piattaforme di comunicazione e contro-saperi, con situazioni particolari e singolari che destabilizzano questa pretesa, costringendo le categorie a ridefinirsi e articolarsi diversamente. Il pensiero italiano deve allora misurarsi con un sistema capitalistico che ha perso il suo centro occidentale cercando di ridefinire una geopolitica della conoscenza in grado di provincializzare l’Europa (p. 60). Si tratterebbe, dunque, di mettere in tensione le categorie italiane calandole in contesti distanti, per valutarne la plasticità e la capacità germinativa, aprendole all’improprio, sottoponendole a una continua contaminazione ed esponendole a una costante alterazione.
L’alterazione è chiamata in causa anche nella costruzione di un’ontologia del vivente che voglia scongiurare il pericolo di reificare, positivizzare e idealizzare la vita: è ciò che, secondo Vittoria Borsò, ha tentato di fare Esposito nella sua trilogia (composta da Communitas, Immunitas e Bios). Borsò mette in luce che per Esposito «la norma degli organismi viventi è la tendenza continua a una decostruzione del proprio» (p. 124). A differenza del diritto politico, infatti, la norma biologica non produce prescrizioni (qui Georges Canguilhem è il riferimento principale): «la sua dinamica è la plasticità del sistema, ossia la capacità di alterarsi per drift, per deviazione» (ibidem). La norma è sempre immanente alla vita ed è a partire da questa immanenza che può essere pensata una politica della vita contrapposta a una politica sulla vita. Borsò sottolinea la ricaduta che questo discorso ha sul piano antropologico: l’uomo può venire pensato a partire dal vettore deterritorializzante dell’animalizzazione, intesa anch’essa come alterazione dell’essere umano, capace di ridefinire la specie in termini non più umanistici, o antropologici, ma antropotecnici e biotecnologici. In questo senso la riflessione sulla vita s’intreccia con quella sulla tecnica.
Tale intreccio è preso in esame da Marco Assennato da una prospettiva affatto particolare, attraverso cioè la questione sulla tecnica che vede coinvolti Raniero Panzieri e Massimo Cacciari. Per Assennato il rapporto tra bios e potere, tra norme e forme di vita, è sempre tecnologicamente mediato. Se in Sull’uso capitalistico delle macchine e Plusvalore e pianificazione Panzieri invita a pensare la tecnica a partire da una critica della dialettica che mira a contestare le letture metafisico-idealistiche che fanno dell’Aufhebung l’orizzonte trascendentale di ogni determinazione reale, Cacciari, con la sua filosofia della krisis, reintroduce una lettura destinale della stessa, nella quale nessun intervento soggettivo sarebbe capace di rompere il dominio tecnologico e dove il capitale, inteso come successione di crisi, sussumerebbe qualsiasi tentativo di rottura, riconducendo al suo linguaggio ogni antagonismo. Ciò non lascia altra soluzione se non quella di propugnare l’autonomia del politico come luogo capace di contenere e pilotare il processo dall’alto. Secondo Panzieri, per il quale la scienza e la tecnica sono il luogo di una contesa di potere nel sapere, non si tratta di rivelare l’occulta razionalità insita nel moderno processo produttivo, quanto di costruire una razionalità radicalmente nuova e contrapposta a quella prodotta nel capitalismo. La tecnologia è allora un campo di tensione, il luogo di una contesa e non un destino tragico, ineluttabile e implicito nelle premesse del processo. La posta in gioco ruota intorno a un rapporto diverso tra uomo e macchina, che rimanda a un’etica emergente e a composizioni inedite.
Per Panzieri, dunque, la tecnologia, che nel biopotere contemporaneo funziona da collante tra la vita e il potere, è il luogo di un conflitto. È su quest’ultima categoria che fanno leva gli interventi di Antonio Negri e di Judith Revel. Per Negri la novità della pratica e del pensiero che si affaccia in Italia negli anni ’60 si dispone proprio all’interno di un conflitto politico: l’operaismo nasce dalla preminenza della pratica sulla teoria, dove la cassetta degli attrezzi precede tutto il resto. Si trattava, per l’operaismo, di criticare la visione storicista di stampo gramsciano-togliattiana e l’ortodossia del PCI, nelle quali si confondevano continuità dello stato e innovazione socialista. L’operaismo, invece, come afferma Revel, pone l’accento sulla storicizzazione dell’analisi e sulla soggettivazione (p. 51): non esistono soggetti politici, ma processi di soggettivazione legati al conflitto. La classe non è un’entità, non è un soggetto, ma è il prodotto della lotta, è composta dal conflitto stesso. Sia per Negri sia per Revel l’Italian Theory – e qui gli obiettivi polemici sono principalmente Giorgio Agamben ed Esposito – occulta questa dimensione del conflitto pur riconoscendola: se per Negri l’Italian Theory è «l’ennesimo schema storiografico debole che conduce a pacificazione le determinazioni temporali e locali del processo storico» (p. 27) distogliendo l'attenzione dalla fenomenologia contradditoria del biopotere, eliminando ogni punto di vista storicamente determinato, eticamente situato e politicamente orientato e portando a una pacificazione che esclude ogni emergenza autonoma di nuove potenze che conducono a rottura; per Revel la categoria di vita nasconderebbe un «doppio vuoto» (p. 54) nella riflessione politico-filosofica italiana contemporanea, quello della storicizzazione e della soggettivazione, che non sono solo i capisaldi dell’operaismo ma anche del pensiero di Michel Foucault, per il quale la vita è un indicatore epistemologico, sempre posto in essere da un sapere-potere, dunque inquadrabile in termini biopolitici attraverso un preciso riferimento storico, quello che vede l’emergere dei dispositivi securitari e di precise strategie di governo.
Abbiamo così un quadro che ci permette di cogliere un minimo comun denominatore tra le differenze italiane: come sostiene Baldissone, il tratto condiviso risiederebbe nell’operazione, ereditata dal pensiero francese del dopoguerra, di pensare in termini di processi e non di entità, di produzione e non di rappresentazione (p. 107). Questa operazione, però, si esprimerebbe in due modi diversi nel pensiero politico-filosofico italiano contemporaneo: da una parte il tentativo di costruire un’ontologia del vivente capace di dinamizzare la categoria di vita dall’interno con il fine di aprire alla possibilità di una politica della vita contrapposta a una politica sulla vita (mutazione, contaminazione, ibridazione ne sarebbero i vettori principali); dall’altra pensare il processo in termini storici, facendo leva sulla concretezza del lavoro vivo, della potenza costituente, del capitale variabile, della cooperazione produttiva contro la cattura del biopotere. Due modi di intendere la biopolitica che convergono nella critica della teologia politica, sia nella versione katechonica dell’autonomia del politico di Mario Tronti e del pensiero della krisis di Cacciari, sia in quella mistica ed escatologica di Agamben.
Per dirla con Federico Luisetti, da una parte troviamo un pensiero selvaggio che ha “somiglianze di famiglia” con i lavori di Gilles Deleuze e Félix Guattari, di Claude Lévi-Strauss e di Pierre Clastres e che si prepone la «ridefinizione dello stato di natura occidentale e del quarto nomos della terra» (p. 79); dall’altra un pensiero barbarico, che fa capo al testo di Foucault Bisogna difendere la società, «in grado di assorbire il naturalismo nella storia e nella critica» e che mira a una «barbarie storica costituente» (p. 73).
Le differenze italiane, allora, possono essere considerate come il prodotto di un’oscillazione tra queste due polarità, disparate ma accumunabili per analogia, che si sovrappongono senza identificarsi nella critica delle categorie politiche della modernità, della sovranità statale, e della governamentalità economicista. Non si tratta di due traiettorie inconciliabili, tant’è vero che convergono verso lo stesso oggetto critico; ci sono, piuttosto, delle ragioni strategiche per mantenerle in tensione, rintracciabili nell’esigenza di non racchiudere questa fucina di proposte nei confini di una teoria, ma facendole giocare tra di loro. Far giocare le differenze italiane contro l’Italian Theory, la quale rischia, se non lo è già, di trasformarsi in un semplice marchio, in un logo che immobilizza un pensiero vivente.
«La passeggiata dello schizofrenico: un modello migliore di quella del nevrotico sul divano. Un po' d'aria aperta, una relazione con l'esterno»
Così scrivevano Deleuze e Guattari nell'Anti-Edipo; questa citazione esprime non solo un'ironica, quanto spiazzante denuncia delle normatività e delle costrizioni dell'analisi freudiana ma anche una valida alternativa alla filosofia da scrittoio.
Da questo spunto nasce la volontà di scrivere una rubrica di Passeggiate urbane che si ricollega a un'eredità antica quanto la filosofia, se con questa intendiamo la tradizione socratica e cinica. Anche se da essa, per questioni probabilmente dettate dal passaggio alla modernità, se ne distacca in quanto alla conversazione preferisce la narrazione e l'indagine emotiva.