Breve introduzione alla lettura di Tim Ingold
La conversazione che segue si è svolta il 27 maggio 2017 a Aberdeen, al termine di una settimana di incontri della piattaforma europea Knowing from the inside, animata da attori tanto della pratica quanto della teoria attorno alla questione di una conoscenza viva e immanente. Una questione che Tim Ingold elabora da diversi anni, per lo più in maniera collettiva. All’incrocio tra arte e ricerca, questo gathering ha tentato di praticare e pensare un paradigma epistemologico e deontologico che, insieme a varie di letture dei suoi scritti, ha suscitato in noi una serie di domande relative al comune, alla democrazia e all’attenzione. Tali domande sono emerse nel corso di tale settimana dall’osservazione del percorso verso una « conoscenza dall’interno » intrapreso da Tim e da chi lo accompagnava. Ecco ricapitolati alcuni punti di riferimento preliminari affinché chi non conoscesse l’universo ingoldiano, assai singolare, possa orientarvisi.
Corrispondenze con il mondo
« Gli uomini di scienza non s’interessano semplicemente alle forme finali delle cose », scrive l’antropologo scozzese, « Essi cercano di penetrare al cuore dei processi della loro formazione ». Per cogliere la fabbricazione di un cesto, la costruzione d’un nido d’uccello, l’interpretazione di continuo rinnovata di uno spartito al violoncello, Ingold ha scelto la via dello studio della percezione incarnata dell’ambiente. A partire dal presupposto che ogni gesto emerge in corrispondenza con il mondo, che non può esser il prodotto d’una vuota astrazione impressa su una materia inerte, Ingold ha fatto di un certo paradigma ecologico la colonna vertebrale di un pensiero le cui ramificazioni raggiungono gli ambiti del fare (making), dell’educare, dell’abitare. Fare con (un mondo di materiali-in-divenire), fare lungo (delle linee), tramarsi in (un mondo-metereologico).
Attizzare l’aria immobile
La lettura di Ingold fornisce l’impressione di assistere ad un corpo a corpo ontologico: la trasmissione delle rappresentazioni contro l’educazione dell’attenzione, l’occupazione contro l’abitazione, il trasporto contro l’itineranza, l’hylemorfismo contro la morfogenesi. Nei suoi scritti l’antropologo si scaglia (non senza una certa ostinazione) contro le posizioni concettuali che tenderebbero ad alienare, ovvero a non prestare attenzione all’implicazione d’un organismo nel suo ambiente, a reificare, ovvero a non prestare attenzione al continuo divenire del mondo, a imporre, ovvero a considerare il mondo come un dato, inerte e impassibile, una « superficie di letteralità opaca, piatta e gelata». Ingold invita ad attizzare e nel contempo abbracciare il medium attraverso il quale siamo in divenire, e pensare le continuità che spezziamo piuttosto che sognare cocci da ricomporre.
Controllo e prensilità
Poiché separare gli organismi dal loro ambiente — come abbiamo separato lo spirito dal corpo per poter sovrastare il reale — non ha soltanto implicato un’illusione di controllo delle cose, ma ci ha anche trascinato in un processo opposto di perdita della presa rispetto alle cose, processo che costituisce un perquisito ad ogni ex-powerment radicale. Questa perdita prensile pare esattamente costituire una dei tormenti di Ingold: alimentati da un’interrogazione circa le possibilità e le forme del fare, dell’abitare e dell’educare, i suoi testi rappresentano degli inviti a offrire una presa, a esporsi alle forze e ai materiali che strutturano i nostri ambienti per meglio situarvisi e intesservi le nostre stesse forze e energie.
Ecologie politiche
È qui, sul terreno della percezione ecologica e incarnata dell’ambiente, che sembra prodursi il lavoro propriamente estetico-politico di Tim Ingold. Spesso implicito, poiché inscritto all’interno di scontri epistemologici, esso è divenuto la materia della conversazione che abbiamo avuto con l’antropologo. Come pensa le lotte di potere l’ecologia delle linee? Quali rapporti la poetica dell’abitazione del mondo intrattiene con il pensiero democratico così caro a Ingold? Quali sono le forme d’impegno e le possibilità d’azione dell’antropologia e delle arti in questa lotta?
di Martin Givors e Jacopo Rasmi
Prestare attenzione al comune che viene
Tim Ingold
Conversazione con Martin Givors e Jacopo Rasmi
Martin Givors e Jacopo Rasmi: Lei si riferisce spesso alla fenomenologia di Merleau-Ponty per sviluppare un pensiero della continuità tra l’organismo e il suo ambiente, una continuità che talvolta traduce una sorta di fusione. Non pensa che la postura fenomenologica possa tendere all’uniformazione della molteplicità degli esseri ecologici, ovvero la diversità dei modi di esistenza all’interno d’un ambiente? In altre parole, non pensa che la differenziazione e la resistenza al cospetto dell’ambiente sino tanto importanti quanto la continuità?
Tim Ingold: È una domanda delicata, ma un’ottima domanda! Innanzitutto, non ritengo che si possa caratterizzare la prospettiva fenomenologia precisamente in questo modo. Io sviluppo una prospettiva che definisco eco-fenomenologica: ciò non corrisponde esattamente a ciò che trovate nelle opere di Merleau-Ponty, anche se è a partire da queste ultime che tento di costruirla. Nel pensiero del fenomenologo francese, l’organismo e l’ambiente sono avvolti l’uno nell’altro (l’ambiente è nell’organismo e, vice versa, l’organismo è nell’ambiente). Ma non credo che « fusione » sia il termine corretto per descrivere questa relazione. Scrivendo il mio recente The life of lines (2015), mi sono immerso nel pensiero di Durkheim e ho constatato che utilizza senza distinzione i termini « aggregazione », « fusione » e « interpenetrazione ». Penso che ciascuno di questi termini designi qualcosa di diverso. La fusione designa il fatto che due cose si riuniscono letteralmente per formarne una sola, mentre interpenetrazione suggerisce l’idea che due cose possano intrecciarsi o intricarsi restando comunque distinte.
L’immagine che mi viene in mente è quella di un nodo. Quando voi fate un nodo con i lacci delle vostre scarpe (che io non ho in questo momento) o con delle corde, il nodo può essere ben stretto, la sua struttura è ferma grazie alla frizione dei fili, me i differenti fili che compongono il nodo non si fondono gli uni negli altri, non c’è fusione. Essi si interpenetrano, sono strettamente intricati. Per cui la fusione è una cosa, l’interpenetrazione un’altra. Penso che questa differenza sia quella che si ritrova nella storia del pensiero sociale tra Durkheim e Mauss. Durkheim avanza l’ipotesi che, quando degli individui si riuniscono insieme, i loro spiriti si riuniscono e si ritrovano a fondersi per formare una coscienza collettiva. Quanto a Mauss, egli propone di pensare che, per quanto gli individui possano unirsi, dare e ricevere, essi resteranno comunque loro stessi.
M.G. e J.R.: Faceva riferimento a questo nel suo intervento di due giorni fa alla tavola rotonda di Knowing from the inside, quando invitava a costruire del comune pur senza avere nulla in comune?
T.I.: Esatto. Possiamo essere in comune, insieme, senza tuttavia fonderci gli uni negli altri. Essere insieme costituisce perfino una parte del percorso attraverso il quale ciascuno diviene un individuo particolare. Il mio discorso consiste dunque nel dire che la fabbrica del comune e la variazione procedono di pari passo e non sono contraddittori. In tal senso, sarebbe ingiusto dire che l’approccio di Merleau-Ponty non tiene conto delle relazioni di un organismo con il suo ambiente al di fuori della modalità della fusione, creando così un vasto oceano in cui tutto sarebbe identico. Si tratta in realtà di un oceano dalla variazione: come un paesaggio dove ogni luogo è differente da ogni altro luogo senza che essi siano separati l’uno dall’altro. Voi potrete recarvi alle colline, camminare fino alla cima di questa o quella montagna, e il paesaggio sarà differente in ogni vetta. Ma in nessun caso nel corso della vostra camminata passerete da una cosa all’altra. Non dovete supporre che le montagne siano dei segmenti di variazione disposti sopra una base di omogeneità. Avete a che fare con un campo di eterogeneità.
M.G e J.R.: Nella sua ultima pubblicazione intitolata Correspondances, edita nel contesto della serie KFI, spiega che preferisce parlare di « corrispondenza » piuttosto che di « interazione ».
T.I.: Sì, perché il termine « interazione » inizia con il prefisso « inter ». Inter significa « tra ». È un po’ come se inducesse l’idea di un movimento che va avanti e indietro: per esempio, si io vi sto parlando, vi dico qualche cosa poi voi mi rispondete. O ancora, se stiamo giocando a scacchi: io muovo uno dei miei pezzi, poi tu ne muovi uno dei tuoi. Avanti-indietro, avanti-indietro… Mentre all’interno di una corrispondenza, noi camminiamo uno di fianco all’altro. Nel caso di una conversazione, ad esempio, avanziamo insieme: io inizio a parlare, poi voi parlate, ma i due discorsi non sono dei movimenti opposti, vanno piuttosto nella medesima direzione. Prendiamo come analogia due persone che camminano sulla strada insieme: Martin, tu non stai direttamente guardando Jacopo, ma tu sai che è là. E voi avanzate così, rispondendovi l’uno all’altro nei vostri movimenti, nella vostra conversazione, e così via… Ora, supponiamo che voi cominciate un dibattito: vi fermate, vi voltate l’uno di fronte all’altro. A quel punto non potete più avanzare senza scontrarvi: in quel momento, intraprendete un’interazione. La differenza tra interazione e corrispondenza è quella che distingue un movimento laterale e un movimento longitudinale. Ritengo che si debba pensare la società come un movimento longitudinale di corrispondenza.
M.G e J.R.: Nel corso di una recente conferenza, Yves Citton ha criticato il termine « interazione », preferendogli quello di « intra-azione ». Questa distinzione corrisponde a quella che lei propone?
T.I.: Il concetto di intra-azione viene dal pensiero di Karen Barad: diverse persone l’hanno fatto proprio. Quando leggo Barad, ho l’impressione che tenti (per mezzo di uno di quei suoi percorsi contorti) di esprimere esattamente quanto io ho appena detto, e sono pertanto d’accordo con te. Se due persone hanno una conversazione, allora sono entrambe impegnati in uno stesso processo destinato a continuare, a proseguire. Tuttavia, preferisco il termine « corrispondenza » a quello di « intra-azione ». La differenza tra « interazione » e « corrispondenza » è quella che esiste tra attraversare un fiume da una riva all’altra e seguire la corrente. Si tratta di una rotazione a 90°. Ma, a mio avviso, l’ « intra-azione » indica una rotazione di 180°. Continuate a fare avanti-indietro, ma dall’interno. Credo che questo renda l’immagine più confusa.
M.G e J.R.: Restando a questa nozione di corrispondenza, come dovremmo approcciare i fenomeni di opposizione e di resistenza?
T.I.: Si critica spesso il fatto che, se ho parecchio da dire sull’armonia, la simpatia e ogni sorta di fenomeno riguardante una forma di intesa, non vi è tuttavia alcuno spazio nella mia riflessione per il conflitto, la rottura e l’interruzione. È una critica giusta, ma replicherò in parte dicendo che non può esserci alcuna rottura, interruzione o conflitto senza che ci sia innanzitutto continuità. Si può infrangere qualcosa solo se c’è qualcosa da infrangere… Ma non penso che si possa costruire un processo di vita sociale a partire dalla rottura: sarebbe come spaccare un bicchiere e in seguito tentare di riunirne i pezzi. Non funziona. Io ritengo che, ontologicamente, la continuità della vita sociale debba avere il primato sulla discontinuità. Dobbiamo innanzitutto comprendere questa continuità al fine di cogliere, in seguito, ciò che può interromperla. Ma non si può cominciare dall’interruzione.
L’altra parte della mia risposta consisterebbe nel dire che ciò che è continuità per qualcuno può essere una discontinuità per altri. Ipotizziamo che io rappresenti l’esercito sudafricano e di conseguenza costruisca una strada attraverso il territorio dei cacciatori-raccoglitori indigeni, impedendo a questi ultimi di seguire i loro cammini abituali, che si trovano interrotti dalla strada. Tale strada è una continuità per me, l’esercito, ma infrange il mondo di questo popolo indigeno. Mi avvicino così alla questione a cui voi volete giungere: perché la linea di una persona sbarra quella di un’altra? Perché la prima persona detiene il potere. La questione diventa dunque politica: alcune linee sono più potenti di altre; le linee permettono la continuità della vita per taluni e la bloccano per altri. Abbiamo qui una politica, riguardo alla quale ho scritto nel mio testo dedicato ai diversi tipi di linee. Lì mostro, ad esempio, come le linee punteggiate possano costituire una strategia del potere, in particolare con l’idea che esse hanno permesso l’imposizione dei regimi coloniali sulle modalità indigene di movimento e cammino.
M.G e J.R.: Di recente si è dedicato sempre più alla questione dell’educazione, vorremmo sapere di più al riguardo. Quale differenza pone tra una « educazione dell’attenzione » (secondo la sua stessa definizione) e un’educazione dell’ « intenzione »?
T.I.: Ho appena terminato la redazione di un libro su questo tema, è in stampa proprio ora . Nella stesura sono stato influenzato in particolare da due filosofi dell’educazione. Il primo si chiama Jan Masschelein, lavora a Lovanio, mentre il secondo si chiama Giert Biesta e lavora in Olanda. In questo caso mi riferirò unicamente a Masschelein, che propone di distinguere due sensi dell’educazione: c’è un senso convenzionale, proviene dal latino educare, che significa instillare all’interno dei giovani spiriti delle maniere normate de pensare, d’agire e di comportarsi. Ma esiste anche un altro senso del termine educazione, formato a partire da e-ducere e che potrebbe letteralmente essere tradotto come « condurre fuori » / « accompagnare all’esterno ». Si tratta di un processo di es-posizione e non di in-stallazione: non mettere del sapere all’interno, ma condurre i novizi all’esterno, nel mondo. Ho teorizzato questa nozione di educazione, seguendo Masschlein, come un modo di condurre fuori, qualcosa che non concerne le istituzioni educative, ovvero ciò che si svolge nelle scuole al giorno d’oggi. La mia definizione minimale di educazione è dunque: « azione del condurre una vita » (leading life). La questione fondamentale dell’educazione ci conduce quindi a comprendere cosa significhi condurre una vita. Qual è la differenza, o dov’è la differenza, tra condurre la propria vita (come in -ducere) e vivere la propria vita? Cos’à c’è di supplementare nel condurre rispetto al semplice vivere? Penso che ci sia qualcosa di supplementare, ma che ciò non si traduca affatto in questioni cognitive o intenzionali. Potremmo supporre che gli esseri umani conducano la loro vita mentre gli altri animali non lo facciano (per quanto non ne sia certo). Potremmo ragionevolmente pensarlo, affermiamolo dunque così, a causa di quest’immensa capacità cognitiva che permette agli esseri umani di fare piani, avere intenzioni e progetti. Condurre la propria vita consisterebbe dunque nel fare in modo che ogni azione effettuata sia il risultato di un piano elaborato preventivamente. Ma non credo a tutto ciò: meglio, mi oppongo a questa idea! I piani sono delle cose che formuliamo mentre avanziamo nel processo stesso della vita. Ciò che intendo esprimere sarebbe che condurre la vita consiste nel prestare attenzione alle cose, di modo che — mentre percorriamo il mondo — possiamo ritrovarci pienamente implicati in un processo di attenzione e osservazione.
Il significato di attenzione è esso stesso duplice. James Gibson, nel suo lavoro sull’educazione dell’attenzione, la intende in un certo modo e Jan Masschelein (che congiunge parimenti educazione e attenzione) in un altro. Secondo il primo approccio, fare attenzione a qualcosa, consiste in una forma di controllo pratico dato che si tratta in quel caso di individuare le affordances (inviti) delle cose: così un soggetto esperto, all’interno di un ambiente in cui è abituato a operare, identifica le affordances che gli servono per continuare. L’ipotesi implicita è dunque che le affordances siano già date nell’ambiente. Nell’interessarsi a tale problematica, Jan Masschelein pone l’accento sul fatto che attendre, in francese, significa attendere (to wait) che qualcosa capiti e di conseguenza fare attenzione a qualcosa (to attend something) non è per nulla un controllo, ma piuttosto una forma di sottomissione. Questo consiste nell’attendere il mondo (to wait upon the world), a essere nel contempo attenti alle cose e alle persone, secondo il modello del « cameriere » (waiter) in un ristorante, che fa attenzione ai clienti e si mantiene pronto a fare quanto domandano: il cameriere si trova dalla parte del servizio piuttosto che da quella del controllo. Fare attenzione, per Masschelein, comporta dunque il sottomettersi all’ambiente: sono qui, aperto e pronto a fare quanto sollecitate. Gibson, al contrario, ha sviluppato un approccio ben più centrato sul controllo. L’idea che io tento di difendere è che questi due sensi dell’educazione non sono incompatibili. Essi rappresentano piuttosto delle tappe, o dei livelli, in ogni tipo d’azione: quando voi intraprendete un’azione, ciò inizia da una forma di sottomissione, poi evolve verso una forma di controllo. L’attenzione-sottomissione descritta da Masschelein evolve in un’attenzione-controllo presso il soggetto esperto di Gibson. Credo che questo rimanga vero per ogni attività implicante lo sviluppo di abilità pratiche [skilled practices]. Se prendo il mio violoncello per suonare, sistemo il mio archetto sulle corde senza sapere cosa può succedere. Devo sottomettere, altrimenti non farei nulla. Poi, nel momento in cui l’accetto strofina le corde e il mio movimento incerto diviene più sicuro, mi dico: « Ecco, una nota! » (le mie dita sono in quel posto e l’accetto in quell’altro). E ciò diventa un movimento certo. Ma il controllo segue la sottomissione, non il contrario.
M.G e J.R.: Potremmo dire che, perfino quando raggiungiamo una certa padronanza, non si deve dimenticare del tutto la tappa precedente. Che, in fondo, si abbia sempre bisogno di « tremare » (come direbbe Agamben), di ricordarci dello stato iniziale.
T.I.: Esatto. C’è un ritmo continuo. Dobbiamo tremare un po’. Se consideriamo la marcia, possiamo constatare che ci sottomettiamo alla terra ad ogni passo che facciamo e ad ogni tappa pensiamo: « Bene: ora continuiamo sino al prossimo passo! » Questo ciclo si ripete ancora e ancora: coma la respirazione (inspirazione e espirazione), come una domanda e una risposta, come la corrispondenza. Ecco l’idea, in ogni caso.
M.G e J.R.: Ora ci piacerebbe ritornare alla questione della « prospettiva residenziale » (dwelling perspective) che lei ha articolato. Siamo stati molto sensibili alla sua concezione dell’abitazione come pratica dell’ascolto, della cooperazione e della tessitura con le diverse forme di vita di un ambiente. Essa risuona nella nostra recente lettura di Anna Tsing in cui l’antropologa sviluppa una critica del capitalismo come modo di produzione di una forma di alienazione che lei chiama « ex-abitazione » (e che consiste in una modalità d’estrazione delle forme di vita dal loro ambiente). La sua concezione dell’abitazione tenta parimenti di resistere o lottare contro una prospettiva così violenta (ovvero quella di un’alienazione)?
T.I.: Per certi aspetti, rimpiango d’aver utilizzato l’espressione « prospettiva residenziale » perché certa gente se n’è impadronita annunciando « adotterò la prospettiva residenziale » come se si trattasse di una postura metodologica (dato che sembra un metodo, effettivamente). Mentre essa non è stata concepita in questo senso. Ci sono due ragioni per le quali io non sono più del tutto a mio agio oggi con una tale espressione, dopo tutti questi anni. La prima riguarda il fatto che la gente pensa spesso che o si risiede o si costruisce, poiché io avrei proposto questa opposizione tra « prospettiva residenzialista » e « prospettiva costruttivista ». Ebbene non è di questo che si tratta: la questione è piuttosto di sapere quale delle due avrebbe una priorità ontologica. Bisogna piuttosto chiedersi: costruiamo perché risediamo oppure risediamo perché costruiamo? Il punto non è che si abita se non si costruisce, eppure questo è quanto la gente pensa troppo spesso e si tratta di un’incomprensione. L’altro problema concerne il termine stesso di « risiedere » (to dwell). Benché io tenti di difendere l’idea che l’atto di risiedere non sottenda nulla di confortevole, facile o gradevole, il termine stesso sembra evocare queste risonanze. Evoca una comoda poltrona presso il camino, in una bella casa dove si sta bene. E inoltre suggerisce qualcosa di piuttosto locale, radicato in un luogo solo. Mentre io non volevo affatto esprimere questo, cercavo piuttosto di trasmettere un senso della residenza legato, al contrario, a molto movimento; non qualcosa d’immobile, ma qualcosa che procede di luogo in luogo. È per questo motivo che mi sono convinto ad adottare piuttosto il termine « abitazione » (inhabitation), dato che non aveva la stessa eco semantica. Ecco quindi i problemi che ho incontrato con la nozione di prospettiva « residenzialista » e le ragioni per cui ho smesso di utilizzarla.
Ho scritto parecchio circa l’habitation e l’ex-habitation pensando il secondo termine come un’alienazione. Non ho provato a comparare precisamente l’impiego del termine « ex-habitation » in Anna Tsing con il mio; dovrete occuparvene voi! Ma la critica che è stata rivolta al mio lavoro (con tutta l’enfasi sulla residenza e sull’abitazione) è che la politica non vi è esplicitata. Potete leggere il libro di Anna Tsing e saprete che è politico dall’inizio alla fine, mentre potete leggere uno dei miei scritti e chiedervi: « Dov’è la dimensione politica? Perché non compare? ». Ci sono due risposta a una tale critica: una debole e l’altra forte. La risposta debole, che è piuttosto un modo di raggirare il problema, consiste nel dire: ma in fin dei conti perché dovrei parlare di politica? Se fossi uno storico dell’arte e lavorassi sull’analisi di un dipinto, non sarei obbligato a parlare di politica; se volessi comprendere perché gli uomini preistorici fabbricano delle asce, perché dovrei convocare la questione della politica? Ci sono dei soggetti rispetto ai quali è pertinente il parlare di politica, mentre per altri non lo è. Se m’interesso a questioni di percezione perché dunque dovrei parlare di politica? Sarebbe come criticare dei politologi per non aver parlato di percezione. Ma questa risposta rimane in fondo estremamente debole. L’argomento forte, credo, consiste nel dire che lo scrivere è intrinsecamente politico. Se qualcuno scrive contro le posizioni dominanti difese nelle scienze cognitive o nella teoria evoluzionista, che nel contempo supportano e sono supportate da un pensiero politico capitalista, o neoliberale, o statalista, allora tale gesto è in se stesso politico. Ho spesso l’impressione che, nel fare della teoria, la produzione di teoria politica e l’analisi delle situazione ci risultino semplici, ma al prezzo, per lo più, di restare distanti, consacrandosi alla pura osservazione. Penso che si debba al contrario andare al cuore delle cose. Se si pensa che certi argomenti o posizioni siano erronei o traviati, o semplicemente che essi sostengano delle organizzazione di potere insostenibili, bisogna attaccarli direttamente. È politico; e non c’è bisogno di ripeterlo di continuo. È intrinsecamente politico.
M.G e J.R.: Molti scritti difendono l’idea che la percezione possa essere in essa stessa considerata come problematica micro-politica, dato che configura almeno in parte i modi in cui percepiamo e agiamo rispetto agli altri e rispetto al nostro ambiente — e tutto ciò ad un livello non istituzionale, ma individuale. Sempre su questi temi, dopo avere ascoltato il suo richiamo ad una società più democratica nel corso delle giornate KFI, desideravano chiederle cosa fosse per lei la « democrazia ». Pensa che si debba intenderla come un lavoro specifico sulla percezione e sull’attenzione?
T.I.: Si tratta effettivamente di quel tipo di lavoro, e questo è estremamente legato alla pensiero e alla sua creazione del comune (commoning). Penso che si debba difendere la democrazia, ma penso al tempo stesso che, nel clima politico e retorico attuale, la democrazia sia stata svuotata di tutto il suo significato ed è perfino suscettibile di essere utilizzata per giustificare cose che in realtà attentano ai valori democratici. Coloro che, in Inghilterra, affermano con insistenza che « è in seguito ad una decisione democratica che abbiamo scelto di abbandonare l’unione europea » non hanno la benché minima idea di cosa intendano per « democrazia ». Pensano che ciò consista semplicemente nell’imposizione con la forza di un insieme di decisioni, sotto le mentite spoglie della « volontà del popolo », sulla vita di tutti gli altri. Questo non ha nulla a che vedere con la democrazia, e si avvicina anzi a una forma di totalitarismo. Si deve allora essere chiari al riguardo di cosa si intenda per « democrazia ». A mio avviso, essa implica ripensare la nostra concezione della libertà. Bisogna ritornare (piuttosto che inventare) a un senso della libertà che non comporta che la libertà di certi si stabilisca al prezzo della subordinazione o dell’assoggettamento di altri. La sostenibilità è in fondo la medesima questione. La concezione dominante della sostenibilità vuole che si pensi di poter mantenere una cosa esaurendone un’altra o sbarazzandosene. Ma ciò di cui abbiamo realmente bisogno è una concezione di sostenibilità che accordi uno spazio ad ogni cosa, nel contempo ora e nel futuro prossimo, senza tuttavia definire preliminarmente cosa siano queste cose. Ed abbiamo parimenti bisogno di una concezione di libertà che sia legata ad una certa idea della vita in comune in perpetua evoluzione. Ma ciò che accade in questo momento, mi pare che sia la separazione della democrazia da un certo pensiero della vita in comune (ovvero la vita sociale) colta nella sua evoluzione. Dobbiamo riunirle nuovamente. A tal proposito ho di recente letto un libro di Roberto Esposito che mi ha particolarmente colpito.
M.G e J.R.: Avevamo precisamente pensato a lui quando lei faceva riferimento all’essere delle persone che non hanno « nulla-in-comune », nel corso della tavola rotonda…
T.I.: Ho tratto questa frase da un’opera di Alphonso Lingis, ma l’idea è la medesima. Esposito spiega che il termine « comunità » o « comune » proviene dal latino cum-munus che significa letteralmente « donare insieme ». Partendo da qui è possibile postulare che è necessario che tutti gli individui che formano un gruppo siano differenti affinché possano condurre una vita insieme, ovvero una vita fondata su quanto essi danno insieme al comune. Se fossero tutti uguali, non avrebbero di conseguenza nulla da donare. In sintesi, il discorso propone di pensare che la vita in comune è una forma attraverso cui gli individui possono differenziarsi, si tratta dunque di una forma della differenza o della differenziazione. Dato che essa si costruisce a partire dalla differenza, ha dunque una forma aperta e non chiusa. È per questo che abbiamo bisogno di un concetto della libertà, un concetto della democrazia e un concetto della persona che si riferiscano al postulato di un’apertura, piuttosto che a quello di una chiusura. Nella democrazia contemporanea, tali concetti sono stati ridotti poiché collegati a un’asfittica concezione neoliberale dell’individuo come unità definita da certi interessi, desideri e risorse. In tal modo la « comunità » si è trovata a designare una collezione di individui dotati d’interessi in comune che saranno pronti a difendere contro tutti gli altri. Se costituiscono la maggioranza, allora vincono e tutti gli altri debbono perdere. Bisogna rifiutare tali riflessioni nell’ambito d’un pensiero della libertà e della comunità al cui interno la libertà implichi la necessità senza esserle opposta. Si tratta, d’altra parte, del senso che il termine « libertà » aveva nel Medioevo, come sostiene Esposito, ed è la ragione per cui io affermavo che dovremmo ritornarvi piuttosto che inventarla nuovamente. Affrontando la questione da un punto di vista epistemologico, freedom (libertà) è legata a friend (amico) e a friendship (amicizia), liberty (libertà) è legata a love (amore), Liebe (amore) a life (vita). Tutti questi termini sono legati etimologicamente. Così, in origine, la libertà non significa il contrario della necessità. Essa non significa che siamo liberi di fare qualcosa perché non dobbiamo farne un’altra o perché altri sono obbligati a farla al posto nostro. La libertà non si oppone alla costrizione, perché la sua « necessità » viene da nexus, ovvero da ciò che è legato insieme, nell’amore o nell’amicizia. Ciò che tento qui di mostrare è che la creazione del comune e la variazione si implicano mutuamente come la libertà e la necessità. Per sviluppare il tipo di democrazia a cui dovremmo a mio avviso aspirare, bisogna che la nostra concezione di democrazia sia conforme a questa ricerca d’una vita in comune che associa senza opporli i processi di fabbricazione del comune e di differenziazione. Credo che si tratti di un punto capitale, ma l’abbiamo oggi smarrito a causa di un impoverimento del discorso politico.
M.G e J.R.: Affermerebbe dunque che la democrazia è anche una « pratica attenzionale »?
T.I.: Certamente, sì, dato che si deve pensare la cittadinanza e la libertà non come dati per scontati, ma come elementi a cui dobbiamo di continuo lavorare. Ciò significa che la cittadinanza democratica costituisce qualcosa che si deve fare, praticare, e non un diritto o una proprietà che ci apparterrebbe a priori. Dobbiamo lavorarci nelle relazioni che tessiamo con gli altri.
M.G e J.R.: Di conseguenza, nella misura in cui ci invita a considerare il modo in cui ascoltiamo e co-componiamo il nostro ambiente, il suo pensiero dell’abitazione potrebbe divenire un mezzo per pensare la democrazia?
T.I.: Sì, per certi aspetti. Di recente leggevo Democrazia e educazione di John Dewey, un’opera pubblicata nel 1916, circa un secolo fa’, in cui si studia il significato della democrazia: io aderisco a quanto Dewey propone. A suo parere, la democrazia è una forma della vita in comune, ma ciò che conta è che il comune non è dato a priori: si tratta di un’attività a cui ci dedichiamo senza posa. Nel corso del loro cammino insieme, gli individui devono proiettarsi essi stessi davanti verso un luogo dove potranno cominciare a produrre quanto Dewey chiama un’affinità di menti (like-mindedness). Non bisogna ritornare a qualcosa che avremmo avuto in comune e partir dal quale cominciare; al contrario, bisogno andare avanti per trovare insieme ciò che ciascuno di noi non avrebbe potuto immaginare all’inizio.
M.G e J.R.: Si riferisce per caso a quanto accadde nei movimenti nazionalisti?
T.I.: Esatto. Dunque, la creazione del comune non consiste affatto nel dire: « Oh, proveniamo da uno stesso sangue e calchiamo lo stesso suolo! », ma piuttosto a procede chiedendosi: « Potremmo immaginarci, tu ed io, in un luogo dove condividiamo lo stesso cammino? » È un luogo che non potrebbe essere conosciuto da alcuno di noi all’inizio, ma che sarebbe al contrario una nuova scoperta. Questa prospettiva offre una forma di speranza, una possibilità per ogni nuova generazione di intraprendere una nuova partenza e quindi non ripetere semplicemente quanto fatto in precedenza. Voi conoscete la terribile retorica che consiste a parlare di « fare la storia » (making history). Parliamo di « fare la storia », ma chi dovrà utilizzare ciò che abbiamo fatto?
M.G e J.R.: La nozione di an-archive proposta da Erin Manning nel corso della sua conferenza ci sembra cruciale a questo proposito.
T.I.: Io e lei giungiamo alle medesime conclusioni. Bisogna costantemente reinventare: si tratta dell’opposto dell’archivio nel senso di accumulo del passato. Sono stato molto influenzato dai lavori di Erin Manning, in particolare in quest’opera scritta di recente sull’educazione e in cui mi riferisco molto direttamente sui suoi argomenti.
M.G e J.R.: A tal proposito, ci sembra che lei sia sempre più interessato alle pratiche artistiche, come abbiamo potuto constare nel progetto KFI. Come collega il campo artistico alle vostre ricerche tanto antropologiche quanto epistemologiche sull’ecologia come questione percettiva? Pensa che gli esperimenti artistici possano nutrire una sensibilità ecologica in un mondo in cui i nostri sensi sono di frequente strutturati da esperienze mediali che, al contrario, tendono a isolarci dal nostro ambiente?
T.I.: Credo che l’antropologia possa essere una pratica artistica e che l’arte possa essere una pratica antropologica. C’è un aspetto rispetto al quale non riusciamo più distinguerli ovvero quello dove l’arte come l’antropologia sono pratiche d’inchiesta sulle possibilità e le condizioni della vita in un ambiente. Molti artisti definiscono la loro pratica in questi termini, in particolare coloro che sono più sensibili alle questioni ecologiche. Potrebbero così dire: « Il mio lavoro non è uno studio sul presente: sono piuttosto interessato a quali potrebbero essere le condizioni e le possibilità della vita ». Penso che sia un’eccellente definizione anche per l’antropologia, poiché il lavoro dell’antropologia non consiste semplicemente nel documentare il modo in cui la vita è vissuta da certe popolazioni in un certo luogo e in una certa epoca, ma piuttosto — basandosi su esperienze di terreno e d’altrove — a immaginare le possibilità della vita. Credo, tuttavia, che le relazioni tra antropologia e arte possono infrangersi non appena si giunge al dibattito che oppone antropologia e etnografia — un dibattito in cui ho preso posizione in modo significativo.
Rispetto a molti miei colleghi antropologi, difendo l’idea che antropologia e etnografica sono pratiche distinte. L’etnografia cerca di fornire delle descrizioni dettagliate e minuziose, delle intercettazioni e delle analisi della vita tale quale essa è vissuta dai popoli in un determinato luogo e a una determinata epoca — e va benissimo. Ma l’antropologia persegue uno scopo diverso: è un’inchiesta speculativa che si basa su quali possano essere le condizioni e le possibilità della vita. Se voi tentate di combinare arte e etnografia, otterrete di certo un’arte scadente e un’etnografia altrettanto scadente: di ciò abbiamo già sufficienti esempi. Non funziona semplicemente poiché, da un lato, compromettete la precisione e la fedeltà dell’etnografia mentre, dall’altro, smarrite il carattere speculativo e inventivo dell’arte. Per avvicinare arte e antropologia, dobbiamo innanzitutto stabilire una separazione chiara tra antropologia e etnografia. Si deve egualmente insistere sulla differenza (che sta dietro al progetto KFI) tra un pensiero dell’arte come una cosa sulla quale possiamo fare uno studio antropologico e un pensiero dell’arte come cosa con la quale si può fare dell’antropologia — di modo che non si possa più distinguere esattamente tra arte e antropologia. La cosa che non ci auguriamo affatto sarebbero ulteriori analisi antropologiche dell’oggetto d’arte o delle opere d’arte. Ci posizioniamo contro la trasformazione delle pratiche artistiche in « opere » (workification), contro l’oggettivizzazione dell’arte. Non intendiamo concepire l’arte come composta di opere, ma piuttosto come consistente in pratiche d’investigazione, in arti dell’inchiesta. L’antropologia è, essa stessa, un’arte dell’inchiesta, ed è così che possiamo connettere queste due discipline.
M.G e J.R.: Sembrerebbe che esista una relazione stretta tra quanto ha affermato precedentemente riguardo politica e democrazia (come attenzioni a un comune a venire) e tale investigazione della maniera in cui la vita potrebbe essere vissuta insieme. In fondo, ha espresso dei pareri simili a proposito delle coppie democrazia/attenzione e arte/antropologia: potremmo concludere che esse condividono il medesimo spirito d’inchiesta.
T.I.: È corretto. Penso che arte e antropologia possano entrare insieme in corrispondenza con un rinnovamento del pensiero della democrazia come modo di condurre la vita in comune attraverso la differenziazione e l’attenzione.
M.G e J.R.: Qual è dunque il ruolo dei media tecnologici in una simile inchiesta?
T.I.: Quando ci riferiamo alla questione della mediazione tecnica il problema che emerge è quello di capire se una tale mediazione — ad esempio la dipendenza di fronte alle immagini — si mette di traverso rispetto all’esperienza o meno… Prima di cominciare l’intervista, lei ha presentato, Jacopo, la sua ricerca al riguardo dell’ecologia del cinema documentario postulando che effettivamente esistano delle forme di mediazione tecnica che possono arricchire l’esperienza piuttosto che impoverirla. E sono certo che ciò esista. Ma sono altrettanto certo che, fino ad oggi, i grandi principi che hanno governato la concezione delle nuove tecnologie hanno operato in una direzione completamente opposta a quella. Prendiamo l’esempio della scrittura manuale — uno di quei soggetti su cui ho scritto parecchio, a cui sono molto legato. Sono preoccupato a causa della perdita della pratica della scrittura manuale e della dipendenza del modo in cui la testiera e lo schermo intralcino il flusso diretto che lega il nostro pensiero e la carta. Tali media interrompono un flusso e ci isolano dalla relazione non mediata con ciò su cui scriviamo. Qui si trova una della mie accuse alla tecnologia. Ma, in seguito, devo anche ammettere che se si potesse sviluppare una penna elettronicamente aumentata — una penna che, quando la utilizzate, vi faccia sentire la superficie cartacea più sottilmente rispetto a una penna ordinaria — allora questa tecnologia potrebbe sviluppare significativamente la potenza espressiva della scrittura manuale. Tuttavia i fatti storici tendono a mostrarci che, fino al giorno d’oggi, tutti i designers impiegati sulle tecnologie digitali hanno tentato di sviluppare dei prodotti sempre più sofisticati e fantasiosi per scopi commerciali. Non si sono dati allo sviluppo di penne elettronicamente aumentate.
M.G e J.R.: Ma concorderebbe con il principio che le esperienze artistiche possono indicarci cosa potremmo fare di altro con le tecnologie, come utilizzarle altrimenti?
T.I.: Sono d’accordo. Ho avuto un dibattito simile nel contesto di un dibattito circa l’uso della cinepresa nella pratica sul campo in antropologia. « Perché non ci si limita a disegnare? — ho detto — Come mai dobbiamo impiegare questa cinepresa? » E la gente mi rispondeva: « Oh, quello che non riesci a cogliere al riguardo delle cineprese è che nelle mani di persone capaci servono effettivamente a disegnare. Le cinepresa diviene come una penna digitalmente aumentata ». Allora ho replicato: « D’accordo, ma se ciò è corretto, allora non qualifichiamo la cinepresa come tecnologia dedita alla produzione d’immagini perché se utilizzate il termine « immagine » (image), state nuovamente tagliando e separando le cose ». I miei interlocutori mi hanno infine risposto: « Dovresti avere un concetto più ricco della nozione di immagine. L’immagine non è per forza uno schermo tra te e il mondo, può anche essere una cosa differente ». A quel punto ci siamo smarriti in una discussione sul senso delle parole. L’impiego commerciale della tecnologia ha completamente distrutto la nostra connessione con il mondo: ci ha resi meno sensibili ai nostri ambienti. Ma non si deve accusare la tecnologia in se stessa di come il capitalismo l’ha modellata. Possiamo optare per un approccio più sperimentale per cercare altre maniere di utilizzarla, sono d’accordo a questo riguardo. Ma resto preoccupato rispetto all’idea che, in generale, abbiamo smarrito una sensibilità immediata al nostro ambiente — qui « noi » indica la gente nel complesso, coloro che non fanno più attenzione a ciò che li circonda come eravamo abituati per necessità in precedenza. Per molta gente, la tecnologia ha generato una forma di immunizzazione, una specie di corpo-armatura che ci impedisce di dovere negoziare direttamene con l’ambiente (nel senso ecologico del termine). Proponiamo ogni sorta di cammino per uscirne o per migliorare la situazione, ma niente può funzionare fintanto che ci troviamo in questo fondamentale stato d’insensibilità. Non è possibile utilizzare un’altra forma di tecnologia per sopperire alle lacune che la prima ci ha permesso di generare. Bisogna piuttosto ritrovare una tale sensibilità e scoprire i mezzi per farlo. Ritorniamo così alla questione dell’educazione basata sull’attenzione non sull’intenzione. Questo ci conduce alla vostra domanda precedente, a cui la mia ultima opera è dedicata.
M.G e J.R.: Per concludere, ci piacerebbe porle un’ultima domanda precisamente riguardo allo scopo dei suoi libri. L’idea (sviluppata in Making) di co-comporre con i materiali senza coalizzarsi su forme mentali, ovvero di passare da una postura hylemorfica ad una posture morfogenetica, sembra descrivere particolarmente bene l’attività interpretativa di alcuni ballerini, come quello su cui lavoro io [Martin]. È quanto dà vita alla danza, secondo loro. Considera in fondo un’opera come Making la proposta di una svolta epistemologica o piuttosto come una guida dedicata agli attori delle pratiche?
T.I.: L’ho concepito come una specie di manuale. Cercavo di trovare un cammino che trascendesse le divisioni vigenti tra il libro pratico e il libro teorico. Immagino che il libro pratico per eccellenza sia la raccolta di ricette nelle vostra cucina (con cui preparate il cibo) e che il libro teorico tipico è il libro posato s’uno scaffale del vostro studio. Penso che non tentereste mai di invertirli, per esempio provando a cucinare con l’Esquisse d’une théorie pratique di Bourdieu. Eppure per certi aspetti con Making ho tentato di studiare cosa avverrebbe se si tentasse di mescolare i due. Tutti noi possediamo libri che non hanno alcuno spazio nell’ambito della vita pratica e altri che non ne hanno nell’ambito del pensiero. Non credo che questa sia una situazione soddisfacente. Abbiamo bisogno di testi di un genere che potrebbe riunire teoria e pratica e dobbiamo pensare come scriverli. Si tratterebbe di un manuale, ma dotato di una dimensione filosofica. Sarebbe in ogni caso una filosofia da leggersi nel mondo e non in uno spazio recluso dove vi limitereste alla semplice lettura. Ho cercato un modo di fare ciò. Non son sicuro di esserci riuscito, ma ciò che desidererei sinceramente, ciò che ricerco, è che la gente possa fare suo un libro come Making e metterlo per terra quando si prova una coreografia o si costruisce un edificio. Tali persone non leggerebbero l’opera semplicemente per trovarvi delle istruzioni su cosa fare in seguito, ma piuttosto per pensare con ciò che stanno facendo, meditarlo e… non so. Non importa: ecco cosa tento di fare.
Testo inizialmente pubblicato in versione francese sul numero 68 della rivista Multitudes.
Traduzione italiana ad opera di Jacopo Rasmi, con la complicità meticolosa di Nicola Manghi