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Non sono prigioniero della Storia. Non devo ricercarvi il senso del mio destino. Devo ricordarmi in ogni momento che il vero e proprio salto consiste nell’introdurre l’invenzione nell’esistenza. (F. Fanon, Pelle nera, maschere bianche) [1]

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L’attualità di Sul razzismo. Strutture logiche e paradigmi storico-filosofici di Fabio Ciracì è, per limitarsi a un aggettivo, disturbante. Non che l’attualità di per sé sia un criterio per misurare la tenuta filosofica di una proposta teorica, ma in questo caso colpisce il fatto che la fucina di ideazione e lavorazione del volume, ossia la constatazione della legittimazione di fatto e di diritto della violenza xenofoba in seguito al risultato delle elezioni politiche americane del 2016 si ritrovi pressocché identica a se stessa otto anni dopo, e che il libro venga dato alle stampe mentre Trump e la destra conservatrice si confermano ai vertici del potere.

Assistiamo oggi al trionfo di quell’incubatrice ideologica all’interno della quale l’uso massiccio di un linguaggio esplicitamente xenofobo irrobustisce le proprie gambe fino ad abbandonare il nido, pericoloso ma apparentemente circoscritto, della retorica politica, nell’attesa della prossima Charlottesville e del prossimo Georges Floyd. Se la sensazione di déjà-vu si accompagna inevitabilmente a un certo modo di indugiare nello sconforto, l’analisi di Ciracì non autorizza ad attardarsi sul territorio arido dell’autocommiserazione, ma avanza ponendo la questione intorno alle ragioni profonde della rinnovata riuscita di un clamoroso Trump-l’œil. Sul piano speculativo, egli non ritiene più sufficiente nemmeno impegnarsi nel mostrare, con clamore o con pacatezza, come scriveva Fanon, che «ci sono troppi imbecilli su questa terra» [2]; piuttosto, occorre fare un passo indietro, guadagnando così quella distanza filosofico-ermeneutica grazie alla quale il fragore dell’incrocio tra spade si attenua, permettendo alle strutture logico-concettuali dalle quali il conflitto trae alimento di emergere nei propri tratti costitutivi. La presa di discorso all’interno di questo spazio ha una intenzione molto chiara, che può essere espressa con le parole di Machiavelli: «voi piangerete anchora, et sanza fructo, se non vi mutate di opinione; perché io vi dico che la Fortuna non muta sententia, dove non si muta ordine; né e cieli vogliono o possono sostenere una cosa che voglia ruinare ad ogni modo» [3]. L’orizzonte di riferimento è quindi – e non potrebbe essere diversamente – quello etico: la proposta sulla quale si apre e conclude il volume è il dischiudersi di una «etica solidaristica» (p. 404), cantiere di lavoro di oggi per l’avvenire. Per tenere insieme queste due dimensioni senza cadere nella forma sclerotizzata del manuale o del breviario, Ciracì si situa con decisione nel solco metodologico della teoria critica. Ben radicato nella storia materiale delle idee, l’autore si impegna nel sovraesporre, come in una camera oscura, il passaggio del razzismo da visione del mondo a ideologia, fino a fare emergere gli strumenti categoriali scomodati nel processo di razionalizzazione sistematica della discriminazione, il cui fine «è fissare posizioni di privilegio – rispetto alla gestione e l’allocazione delle risorse disponibili o allo status di riconoscimento sociale – di una certa classe di individui all’interno della società, a discapito di individui subalterni» (pp. 20-21). Dopo aver specificato che le pulsioni identitarie e gli istinti aggressivi su cui il razzismo fa leva sono precategoriali, e non coincidono quindi con i valori morali che le costruzioni culturali associano loro, Ciracì fa emergere un elemento fondamentale del discorso razzista, che ritorna come un Leitmotiv lungo le due macro sezioni del volume: la sua legittimazione passa attraverso la costruzione dell’altro. Questo esercizio creativo del razzismo si è affinato nel tempo: da un modo ingenuo e rudimentale di sfruttamento della paura in funzione xenofoba a elaborate pretese ontologico-ritrattistiche (si pensi all’hitleriano «Wer Jude ist, das bestimme ich»). La complessità del fenomeno costringe a procedere lungo un doppio binario: se la prima parte del volume si interroga sugli strumenti categoriali che definiscono il razzismo, come essenza, identità, alterità, purezza, parallelismo fisico-psichico, deumanizzazione e tradizione dell’odio, nonché su quelle due categorie storico-ermeneutiche che sono l’evoluzione e la degenerazione, la seconda parte si concentra sui profili storico-filosofici dell’alterità, dallo xénos greco al mito del buon selvaggio, attraverso i quali emerge la genealogia del concetto di razza. Questo lavoro di scavo permette una interrogazione stratificata dei paradigmi interpretativi del fenomeno razziale, come il colore della pelle, la purezza del sangue, il tema del suolo natìo, le caratteristiche fisiche teorizzate dalla fisiognomica e della frenologia, fino ad arrivare all’iperrazzismo. Attraverso questa griglia complessa è possibile mettere in tensione le specificità delle diverse forme storiche del razzismo (religioso, fenotipico, naturalistico, ariano, nero, sovranista, …) su un ordito di invarianza. E se a definizione univoca non corrisponde un oggetto molare, bensì una realtà molecolare, l’assalto frontale monodirezionato come strategia d’attacco deve cedere il posto a una forma di guerriglia organizzata. Attraverso incursioni mirate, Ciracì mostra come dietro a ogni supposto ritratto si celi una maldestra caricatura, inevitabilmente contraddittoria. Per quanto possa suonare anti-intuitivo infatti, il tema del mascheramento fa parte sin dalla grecità del discorso intorno allo straniero, e può forse fornire una traccia di lettura non del tutto oziosa per attraversare alcuni passaggi di Sul razzismo. Il suo contraltare teorico, ossia la più immediata capacità di riconoscere “a occhio nudo” il diverso, potrebbe allora essere pensato non come il momento in cui la maschera cade, ma al contrario come il portato fondamentale della maschera stessa. Ma procediamo per punti. Scrive Ciracì in apertura alla seconda sezione del volume:

Xénos è anche la maschera ritrovata in mare da alcuni pescatori dell’isola di Lesbo, interpretata come epifania proprio di Dioniso. Quindi, il dio delle maschere è il dio straniero (tracio) perché, coprendosi il volto, non può essere identificato, rimane celato. La maschera però è sia lo strumento che copre il vero volto, per proteggerlo, sia l’immagine che rivela il personaggio, dal latino persona, ovvero la maschera attoriale, che porta con sé un universo simbolico e identitario complesso, il tramite della relazione sociale. (p. 152)

La maschera è dunque un modo dell’ambiguità tra nascondimento e svelamento, e non necessariamente un correlato del pensiero dell’essenzializzazione, ossia di quel binarismo teorico-psicologico che Ciracì aggredisce in ogni pagina del volume. Ora, la peculiarità di questo strumento teorico è che non appena la maschera viene appiattita lungo una delle due direzioni perde, insieme alla sua capacità di mettere in sospeso, il proprio potenziale critico, e cade a servizio dell’ideologia. Per questa ragione il suo utilizzo fa gioco e controgioco al discorso razzista, e se da una parte lo afferma e lo rinforza, dall’altro gli sottrae terreno. La razza, «simulacro di un’essenza, un feticcio ideologico […] deve per definizione essere immutabile e pura» (p. 95), e può esprimersi direttamente sul corpo del soggetto (colore della pelle, naso aquilino, labbra sporgenti, bozzi sul cranio, occhi bovini, mostruosità di sorta), oppure manifestarsi nel suo comportamento intellettivo-morale (esseri incolti, grado zero della civilizzazione, criminali e figure paradigmatiche dell’immoralità, viziosi, parassiti della società). Ad ogni incrocio tra questi due piani si trova una maschera, fissa e necessaria, con pretese ontologiche: la sensazione che si ha è allora quella di procedere lungo una galleria fotografica, alle cui pareti sono affisse caricature e bozzetti che si spacciano per ritratti, un museo di feticci ideologici le cui specificità traggono le mosse, di volta in volta, dalla contingenza storica. Sul crinale della corrispondenza biunivoca tra interiorità e fattezze estetiche troviamo il primato del “colpo d’occhio”, che può essere più o meno specialistico, e che è il grado zero della maschera: il corpo disarmonico o brutto, il volto segnato come quello di Caino, il razzismo della pelle e le categorie fisiognomiche più elementari fino alla silhouette di Lavater, passando per le tassonomie naturaliste, sono alla portata di tutti, mentre l’indice cefalico di André Retzius o le dimensioni del cranio descritte da Blumenbach hanno bisogno di strumenti tecnici di misurazione. Ma se la pelle nera è «una sorta di stigma visibile del male» (p. 171), occorre anche correggere la storia laddove rischia di smentire la coincidenza tra caratteristiche fisiche e qualità morali. Tra i diversi casi di manipolazione storica affrontati da Ciracì, tra cui Winckelmann che, lavando via dalle statue greche gli ultimi residui di colore, «inventa, con l’olio di gomito delle brave massaie, la classicità bianca e abbagliante che ammiriamo oggi nelle collezioni d’arte di tutto il mondo» [4], vale senz’altro la pena ricordare la lattizzazione di Sant’Agostino, di colore nelle rappresentazioni del XIV secolo, ma sbiancato mille anni dopo la sua nascita per assurgere a padre della chiesa cattolica occidentale. Maschere bianche, insomma. Ma la maschera è anche un rischio per il razzista, che prova a difendersi con argomenti come la «purezza del sangue» (p. 171). Preoccupazione di Ferdinando II d’Aragona e di Isabella di Castiglia era infatti che la conversione degli ebrei al cattolicesimo potesse essere una conversione “di facciata”, una maschera da aggirare attraverso il riferimento del decreto del 1492 alla purezza del sangue. In questi casi al razzista non basta allora il colpo d’occhio, egli deve scovare, ricercare, farsi più astuto dell’infido che rincorre, mappare, rintracciare le coordinate che inchiodano il subalterno al proprio stato. Lungo l’asse dello svelamento un esempio particolarmente interessante che Ciracì affronta in questo volume è il fenomeno dell’iperrazzismo, dunque di un razzismo in cui al criterio genetico fenotipicamente espresso occorre aggiungere un principio di selezione territoriale. Se la vitalità di un conquistador nato in terra straniera era già ritenuta inferiore a quella di un figlio della corona nato in Spagna, questo principio ritorna nel Blut und Boden ariano e nel razzismo antisemita di Julius Evola. La questione non è pacifica perché, come Ciracì non manca di sottolineare, il cosiddetto principio di Anteo mal si coniuga alla Machtpolitik, perché la terra conquistata è e rimane straniera, inadatta ad alimentare le forze vitali dei non autoctoni. È a questa altezza che Ciracì infligge un colpo teorico di un certo spessore:

Il confine di questa posizione è il limite negativo del concetto di razza, ovvero il pericolo del meticciato, che può giungere all’ideazione di una non-razza, come l’ebreo di Evola che sfugge finanche alla classificazione razziale altrui. Da qui si evince l’arbitrarietà della definizione di altro e la sua strumentalità politica e sociale. E anche la capacità del potere di soggettivizzare i sottomessi e i subalterni. (p. 306)

Fuori dall’essenzialismo, l’altro si riappropria della propria dimensione ambigua e inafferrabile, riafferma quel connotato già presente nello xénos greco e antagonista alla logica razzista, permettendo a sua volta a quell’io che lo definisce come altro da sé di strapparsi di dosso le effigie del binarismo identitario. In conclusione al volume, Ciracì prende posizione all’interno del dibattito contemporaneo sull’antirazzismo: se l’antirazzismo è, con Traverso, una battaglia per la memoria, occorre interrogare la cancel cultur come pratica per non cadere nel rischio di farne l’ultima maschera del razzismo:

Si tratta […] di operare una risignificazione culturale, un processo di destrutturazione del potere: decolonizzare la storia. Tale processo non ha solo una pars destruens, ma anche una pars construens, ovvero una riappropriazione di un passato obliterato dal potere (pp. 388-389).

L’invito di Ciracì è allora a risemantizzare, ovvero a ricollocare il significato del fatto storico, e di conseguenza dei modi in cui se ne preserva la memoria, all’interno di un contesto culturale e sociale. Si tratta di una vera e propria ritenzione terziaria, il cui esempio preso qui in esame è la risposta di Banksy alla proposta di reinserire la statua di Edward Colston, commerciante di schiavi nella rotta atlantica, sul suo piedistallo in un parco di Bristol, dopo che i manifestanti antirazzisti l’hanno abbattuta nel 2020. La proposta dell’artista è quella di rimettere la statua al suo posto, aggiungendo però alla sua prima versione il ricordo della sua contestazione: l’aggiunta dei manifestanti a grandezza reale che, armati di corde, la trascinano giù, potrebbe allora rappresentare una scelta percorribile a difesa di una pluralità di senso. La risemantizzazione auspicata da Ciracì non lascia indenne il diritto: allo stesso modo occorre, per il filosofo, riformulare l’articolo 3 della Costituzione italiana, nel quale compare l’espressione “razza”. Coerentemente a quanto espresso, non si tratta di elidere il termine, ma di scardinare il vocabolario essenzialista al quale ammicca, per farla finita, una volta per tutte, con il dog-whistling e con ogni forma di compiacenza al razzismo.

Emilia Marra

[1] F. Fanon, Pelle nera, maschere bianche, tr. it. di S. Chiletti, ETS, Pisa 2015, p. 206.

[2] Ivi, p. 25.

[3] Cfr. Machiavelli, Parole da dirle sopra la provisione del danaio, in Id., “Opere di Niccolò Machiavelli”, a cura di E. Raimondi, Mursia, Milano 1966.

[4] R. Falcinelli, Cromorama, Einaudi, Torino 2017, pp. 303-304.

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