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Sostiene Merleau-Ponty nel suo importante saggio Le philosophe et son ombre che il compito del filosofo sia quello di penetrare l’ombra di coloro ci hanno preceduti e sui quali ci siamo formati. Con questa evocativa immagine, intende restituire vivacità ad una pratica filosofica che rischia di illanguidirsi nella riproposizione del già detto e del presunto acquisito. L’ombra è quel non-detto, quella non-cosa che eppure è presente, che prolunga l’immagine da cui proviene oltre il limite che la figura definisce: il compito del filosofo è allora prendersi carico di quell’ombra, penetrarla, attraversarla e, impregnandosi della sua sostanza, ripensarla, nella consapevolezza che «[p]enser n’est pas posséder des objets de pensée, c’est circonscrire par eux un domaine à penser, que nous ne pensons donc pas encore»[1]. Una ricerca, quindi, che ci vede coinvolti in prima persona, intimamente, e che ci spinge a ripensare quel non detto che noi stessi non abbiamo ancora pronunciato. Gilbert Simondon

E di intimità è a parlare proprio Giovanni Carrozzini, autore di Simondonian Rhapsody: «[a]l termine di uno dei miei due interventi al film-documentario di François Lagarde, Simondon du désert, Pascal Chabot, notando la mia tendenza a riferirmi a Gilbert Simondon con il solo nome di battesimo, mi chiese come mai scegliessi di farlo. Risposi, senza alcuna titubanza, che ciò si spiegava sulla scorta del fatto che avevo stabilito con il filosofo una tale “intimità” da caratterizzare la mia ricerca su di lui come un’autentica storia d’amore».[2] In questo libro, composto da dieci saggi che intrecciano la filosofia simondoniana con quella di grandi pensatori del passato e a lui contemporanei (da Nietzsche a Lacan, passando per i presocratici e Sartre, per giungere fino a Barthes, Ruyer e Jankélévitch), si concretizza quella penetrazione dell’ombra caldeggiata da Merleau-Ponty: ampliamento e prolungamento della filosofia nel dialogo tra filosofie differenti, ma ugualmente genuine. Proprio per la sua natura di ricerca inesausta, il volume si riflette caleidoscopicamente, in continui rimandi di fasci luminosi che gettano luce reciproca: alla luce del pensiero di Simondon si rileggono i vari filosofi cui l’autore si confronta, così come alla loro luce se ne indagano le ricadute, in ottica di una migliore comprensione del pensiero di Simondon. Da questo serrato confronto cosa possiamo imparare? Ecco allora il cuore pulsante del lavoro di Carrozzini: ripensare la filosofia alla luce dell’ombra di Simondon.

I vari contributi del saggio sono collegati da una tematica di fondo che trova condensazione nel capitolo dedicato al confronto tra la riflessione sulla morte in Jankélévitch e in Simondon. Per il filosofo della tecnica, difatti, la questione tanatologica è della massima importanza. Alla luce della sua tesi dottorale principale dal titolo estremamente significativo - L’individuazione alla luce delle nozioni di forma e di informazione[3] - appare evidente come l’interesse preminente della sua filosofia sia il processo di individuazione, di presa di forma, di in-formazione come dinamismo immanente all’essere stesso che si individua e individualizza senza esaurire la sua carica di potenzialità inespresse. Carrozzini afferma correttamente che «l’informazione è l’innesco, apportato da una singolarità di un processo che implica il mutamento degli equilibri e degli assetti del sistema in cui si propaga»[4], concentrando così l’attenzione alla propagazione interna agli assetti del sistema. In questo senso l’aspetto tanatologico assume un ruolo rilevante: come è possibile pensare un sistema che sia in sé aperto, in equilibrio non stabile ma dinamico dunque, con termine sinondoniano, metastabile? Ovvero un sistema che possa includere in sé la morte come momento, come fase che non impedisce il processo di presa di forma. In questo senso si possono leggere anche le critiche mosse dal filosofo francese alla Gestaltheorie, alla teoria della Forma in qualità di Buona Forma, di forma formata. L’equilibrio che si verrebbe a creare sarebbe esclusivo e adiabatico: verrebbe a mancare proprio quella dimensione di attraversamento trasversale, di trasformazione proprie di un sistema in-formativo. Dal punto di vista della Gestaltheorie l’obiettivo finale dell’informazione è il completamento della formazione, è la piena assunzione di una forma in sé completa, etimologicamente perfetta, cui nulla si può aggiungere. Esito di questa processualità spuria: la morte del sistema.

Di conseguenza, l’impostazione formulata da Simondon cerca di bypassare, nella sua elaborazione, le secche entro le quali rischia di incagliarsi alla fin fine ogni pensiero astrattamente ontologico. L’ipotesi che guida la sua ricerca – la formulazione di un sistema aperto e in formazione – richiede una riconcettualizzazione complessiva della terminologia filosofica che sappia dialettizzare la sterile dicotomia classica ilemorfismo vs sostanzialismo. Come che sia, l’aspetto però veramente rilevante di questo rinnovamento concettuale è la critica alla dialettica di stampo hegeliano. Interessante è però notare che Simondon stesso è un utilizzatore del metodo triadico hegeliano. Solamente, differente è lo spirito che lo anima. Difatti, Carrozzini individua alcune strutture che possono rimandare alla mente la dialettica tesi-antitesi-sintesi, ma che presentano una logica ben differente. La prima è formulata in Imagination et invention,[5] in occasione di un importante corso di Psicologia alla Sorbona. Analizzando il processo di formazione delle immagini, tre sono le tappe individuate: l’immagine a priori, la cui operazione principale è l’anticipazione; l’immagine a praesenti, che presenta contenuti cognitivi in quanto «ogni percezione è accompagnata da un’attività immaginativa che funge da selezione degli stimoli esterni»[6]; infine, l’immagine a posteriori che si concretizza nel simbolo, figura dalla forte carica affettivo-emotiva. Se è vero che il simbolo può essere inteso come una sintesi di anticipazione e cognitività, tra a priori e a praesenti, lo è altrettanto il fatto che quest’ultimo ha natura eminentemente metastabile, ovvero apre il sistema all’ontogenesi dell’invenzione.

È con il concetto di ontogenesi che la dinamicità dell’essere si svincola dalle catene dialettiche. Al momento speculativo dell’in sé e per sé dell’Idea, si sostituisce così il prolungarsi dell’individuazione, della presa di forma che riattiva, di volta in volta, quel bacino che resiste all’esaurimento. Al preindividuale – associato all’ápeiron anassinandreo – segue l’individuato, ciò che si è condensato nel processo di individuazione, che non rimane chiuso in sé, ma prosegue la sua espansione nel terreno del transindividuale, in quella individuazione collettiva indisgiungibile da quella psichica e individualizzata.[7] E il processo non si arresta: in gioco non è la struttura, ma la strutturazione, la continua relazionalità ontogenetica[8] che dinamicizza l’essere: l’ontogenesi è performatività, è operatività. Così Carrozzini: «[l]a forma diviene così una presa di forma, una processualità: la struttura corrisponde a una strutturazione, il divenire a una genesi, il principio di individuazione a un’operazione»[9].

Questione tanatologica, rinnovamento del concetto di informazione in qualità di in-formazione, ovvero di presa di forma, critica alla dialettica in ottica ontogenetica: sono queste le più importanti acquisizioni della filosofia di Gilbert Simondon e che l’autore di Simondonian Rhapsody bene illustra in questa raccolta di saggi. Ripensare alla luce di queste nozioni per penetrare l’ombra del non detto, per riattivare quella carica di potenziali sempre in procinto di essere espressi e di esprimersi è l’obiettivo di questo lavoro che ha il merito di introdurre il filosofo francese tra i grandi interlocutori del Novecento e della nostra contemporaneità.[10]

Un’ultima, breve nota, tratta dal capitolo conclusivo Sacralità e tecnicità. Breve storia di un intreccio[11], a testimonianza dell’ampiezza della sua filosofia, e che permette un ulteriore ampliamento delle prospettive ontogenetiche. Riconoscendo l’importanza del sacro per il pensiero tecnico e per la filosofia in senso lato,[12] è la sacralità stessa a essere rivalutata: non più l’inviolabilità della separazione, dell’intangibilità differenziante che isola domini in sé autosufficienti, ma la reticolarità di nodi e punti-chiave che emergono stagliandosi, figure che spiccano da uno sfondo che ne rende possibile l’ek-stasi. Evidente la fecondità di queste riflessioni solamente accennate in vista di futuri scandagli filosofici: come è possibile pensare l’essere in chiave trascendentale?

Simone Vaccaro


[1] M. Merleau-Ponty, Le philosophe et son ombre, in Signes, Gallimard, Paris 1960, p. 260.

[2] G. Carrozzini, Simondonian Rhapsody, Orthotes, Napoli-Salerno 2024, p. 5.

[3] G. Simondon, L’individuazione alla luce delle nozioni di forma e di informazione, Mimesis, Milano-Udine 2011.

[4] G. Carrozzini, op. cit., p. 18.

[5] G. Simondon, Imagination et invention 1965-1966, PUF, Paris 2014.

[6] G. Carrozzini, op. cit., p. 48.

[7] Cfr., ivi, p. 83.

[8] Cfr., ivi, pp. 93-97. Considerazioni che ricordano quelle avanzate più recentemente da Graham Priest in One: «[th]e matter is rather like that in classical gravitational theory. Every object exerts a gravitational influence on every other, however far apart. Thus, the net gravitational force on me is partly determined by a rock on a planet in another galaxy […]. So it is with the relations which constitute my quiddity». Cfr., G. Priest, One, Oxford University Press, Oxford 2014, p. 173.  

[9] G. Carrozzini, op., cit., p. 62.

[10] Accogliendo la proposta di Frédéric Worms nella presentazione del volume Sur la philosophie di pensare «à la lumière de Simondon». Cfr, F. Worms, Présentation, in G. Simondon, Sur la philosophie 1950-1980, PUF, Paris 2016, pp. 5-14.

[11] G. Carrozzini, op. cit., pp. 131-134.

[12] Degne di nota sono le notevolissime considerazioni contenute nel corso Psicosociologia della tecnicità (1960-1961), sui rapporti tra tecnica e sacralità. Cfr., G. Simondon, Sulla tecnica, Orthotes, Napoli-Salerno 2017, pp. 13-99.

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