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Alla vigilia del centenario del Manifesto di Breton (1924), è apparso in Italia, per i tipi de L’Orma, una nuova edizione dell’Arte e la morte di Antonin Artaud, curata da Giorgia Bongiorno e Maia Giacobbi Borelli. Già tradotto nel 2003 per Il Melangolo, il volume si compone di otto testi redatti tra il 1925 e il 1928, che furono originariamente pubblicati, a eccezione di Chi, nel cuore…, su riviste surrealiste, per poi venire raccolti per la prima volta nel 1929. Nel lasso di questi pochi anni Artaud aderisce entusiasticamente al movimento surrealista (dirige addirittura un intero numero della rivista La Révolution surréaliste), per poi venirne espulso nel 1926. Questa nuova pubblicazione rende conto della complessità del contesto in cui l’opera vede la luce, grazie ai due saggi delle curatrici, in apertura al volume, e alle note introduttive a ogni testo, che, seppur brevi, ne tracciano efficacemente la genesi. 

L’adesione ambivalente e sofferta di Artaud al Surrealismo può d’altronde essere sintetizzata dallo stesso autore nella Lettre à Madame Toulouse nel 1924: 

J’ai fait connaissance avec tous les dadas qui voudraient bien m’englober dans leur dernier bateau surréaliste, mais rien à faire. Je suis beaucoup trop surréaliste pour cela. Je l’ai d’ailleurs toujours été, et je sais, moi, ce que c’est que le surréalisme. C’est le système du monde et de la pensée que je me suis fait depuis toujours (Artaud 1993, 112).

Più surrealista dei surrealisti, colpevoli di confinare la rivoluzione nella sfera politica o artistica quando doveva investire ogni aspetto della vita, Artaud raccoglie e rielabora stimoli del gruppo fino a portarli all’estremo. La contestazione surrealista della ragione come unico strumento per indagare e interpretare il mondo si radicalizza in Artaud nella volontà di ritrarre un universo molteplice e contradditorio fino a erodere il rapporto biunivoco tra le parole e le cose. Dietro le apparenze si nascondono infinite dimensioni di significato che la razionalità non è in grado di cogliere;  nel momento in cui si tenta di ritrarla, la realtà si rivela ineffabile. Sintomo di questa continua sovrapposizione di piani è, nei testi dell’Arte e la morte, l’osservazione della misura degli oggetti e della natura, che appaiono sempre sproporzionati, percepiti ora minuscoli ora giganteschi. 

Nella vertigine di questo infinito, la sfida di Artaud è quella di riuscire a stare in bilico, senza cristallizzarsi mai in un significato definitivo; ed ecco che l’arte e la morte del titolo acquistano centralità in quanto stati di sospensione tra i vari aspetti del reale. Il primo di questi due poli, l’arte, intesa come visualizzazione del possibile, rappresenta in questo senso un eccellente campo d’indagine. La centralità che Artaud attribuisce all’arte figurativa come strumento di conoscenza e fonte d’ispirazione per la sua scrittura, tratto saliente dell’intera produzione artaudiana (basti pensare a Van Gogh ou le suicidé de la societé o a Le Théâtre et son double), risulta già qui ampiamente attestata. Paolo Uccello figura tra i protagonisti della raccolta, mentre i dipinti di Jean de Bosschère (di cui un’illustrazione è stata scelta per la copertina) e André Masson sono esplicitamente indicati come punti di riferimento per la redazione, rispettivamente, di L’automa personale e L’incudine delle forze

E tuttavia l’arte figurativa non si limita a essere fonte di ispirazione in queste pagine; essa ne influenza potentemente la scrittura. Come sottolinea Bongiorno nel suo saggio introduttivo al volume, Un’oscura e intraducibile scienza, L’arte e la morte «richiede una lettura che della circolarità tra immagine e parola che rasenta a tratti l’intraducibilità» (2023, 7). Il pensiero di Artaud mal si adatta alla progressione ordinata di un testo articolato ma riesce a condensarsi in visioni capaci di suggerire connessioni inattese. In contrapposizione alla corrispondenza perfetta e forzata tra la parola e il suo referente e alla gerarchia sottesa nella sintassi, Artaud si affida alla potenza evocativa dell’immagine, che si dimostra un linguaggio più efficace per veicolare una realtà multiforme e in continua trasformazione. L’arte figurativa diviene dunque modello imprescindibile per la scrittura di Artaud, alla ricerca di una forma che possa veicolare l’autentica natura delle cose. 

L’arte risulta dunque uno dei poli d’attrazione fondamentali della raccolta, in quanto momento che mette in crisi la distinzione di ciò che è reale e ciò che è immaginario, capace di esprimere istanze contraddittorie per il linguaggio analitico. Ma anche la morte costituisce, paradossalmente, un momento di sospensione. Artaud lo sottolinea esplicitamente fin dalla breve lirica posta a esergo della raccolta: «La morte giace / come l’ultimo sobbalzo / piena di trance / ma SOSPESA» (23). Come quello che abitualmente si immagina essere lo stato definitivo per eccellenza, la fine, possa essere percepito come una fase di transizione, viene argomentato già nell’apertura del primo saggio:   

È il corpo stesso, giunto al massimo dell’espansione e delle forze, che deve comunque andare più lontano. Una specie di ventosa messa sopra l’anima, la cui asprezza corre come vetriolo fino agli ultimi limiti del sensibile. E l’anima non ha neanche la possibilità di spezzarsi. Perché questa stessa espansione è falsa. La morte non si accontenta così facilmente. L’espansione nell’ordine fisico è come l’immagine rovesciata di un restringimento che deve occupare lo spirito su tutta la superficie del corpo vivo (27-28).

La morte viene dunque descritta come la soglia che vanifica gli orizzonti di significato inevitabilmente parziali che attribuiamo alla realtà; è il passaggio per eccellenza, che secondo Artaud non conduce all’annientamento, ma costituisce il punto in cui questo flusso perenne, questo movimento di espansione-restringimento, diviene manifesto sul corpo.

Immediatamente evocati nel titolo, arte e morte non rappresentano tuttavia gli unici mezzi a disposizione per entrare in contatto con l’infinità del reale. La raccolta ne suggerisce molti altri: il sogno, le sostanze psicotrope, l’occulto, l’amore e il teatro. D’altronde, Artaud introduce il tema del sogno nella raccolta proprio mentre parla della morte, di cui sembra costituire una sorta di prova generale: il testo descrive l’agonia come qualcosa di simile alla sensazione di soffocamento e di angoscia che si prova negli incubi. Il sogno ha pertanto una valenza fondamentale in quanto consente di conoscere e di vivere determinate sensazioni senza doverne subire le conseguenze su un piano concreto. Il fatto che l’attività onirica non trovi riscontro nel mondo materiale ma rimanga virtuale non inficia il suo valore, non la rende meno vera. 

Anche l’esperienza delle droghe, a cui Artaud fu esposto precocemente a causa della malattia psichica, contribuisce a raggiungere questo obiettivo: contro «l’ottenebramento della vita», ovvero contro l’idea che sia reale soltanto ciò che ha una manifestazione sensibile, le droghe permettono di raggiungere una «lucidità assolutamente anormale» (30), che consente di avere chiara percezione anche di altri aspetti della verità. Proprio come nei sogni, nei momenti di alterazione l’uomo può accedere a una dimensione altra che normalmente è preclusa all’esperienza. Dato che «il reale è solo uno degli aspetti più transitori e meno riconoscibili dell’infinita realtà» e che «il reale uguaglia la materia e imputridisce con lei, le sostanze tossiche recuperano la loro dignità superiore dal punto di vista dello spirito, cosa che ne fa le più prossime e utili collaboratrici della morte» (31).

Se di fatto le droghe sono secondo Artaud un mezzo per acuire i sensi e percepire ciò che della realtà normalmente sfugge, esistono tuttavia personaggi dotati di una sensibilità tale da non aver bisogno di ricorrere a ulteriori sovreccitazioni: è il caso di Madame Sacco, cartomante cara ai surrealisti, protagonista della Lettera alla veggente. Artaud siede davanti a lei «come un’ombra», pallido riflesso di ciò che è, ma sa che agli occhi di lei è finalmente «intero senza far nulla, integro senza sforzar[si]» (35). La veggente è presentata come depositaria di un sapere che trascende ogni sforzo razionale, ogni studio: percepisce la verità profonda delle cose senza i filtri normalmente imposti dal pensiero logico e dai limiti dei sensi. Madame Sacco vede l’integrità del reale con tutti gli strati che lo compongono; in questo senso, può vedere Artaud nella sua nuda interezza laddove lui stesso non riesce a cogliere che contraddizioni insanabili. La differenza dei due sguardi diventa manifesta nel momento in cui l’autore esplicita il suo sgomento davanti a una figura che gli appare così potente e contemporaneamente così ordinaria: «Mi sembra così graziosa, di una grazia talmente umana, talmente quotidiana. Graziosa come una qualsiasi delle donne dalle quali mi aspetto il pane e lo spasmo» (39). 

E tuttavia, paradossalmente, scorgere la donna dietro la veggente allontana Artaud; la donna, in ogni manifestazione che assume all’interno di questa raccolta, veggente, madre o compagna che sia, è l’altro per eccellenza, colei che esplicita il dramma della separazione, l’oppressione dell’identità personale e la necessità di andare oltre. Sono esemplari, in questo senso, i due testi successivi alla lettera, Abelardo ed Eloisa e Abelardo il Chiaro, entrambi ispirati alla famosa vicenda dei due amanti. Al centro dei due brani c’è il tentativo di indagare l’amore e il desiderio sessuale attraverso l’accumulo di immagini brucianti. Abelardo è irresistibilmente spinto a unirsi a Eloisa, a perdersi in lei; eppure, questa pulsione irrefrenabile rimane iscritta in una «prospettiva tutta maschile» (48), come nota giustamente l’introduzione, in cui l’incontro reale non avviene. La passione tra i due innamorati non può essere vissuta a causa della castrazione del filosofo; ma l’impossibilità fisica di portare a compimento l’atto sessuale fortifica il legame tra i due, capaci di creare «un amore preso nella tensione fra sesso e cielo» (Bongiorno 2023, 11). L’uscita dal sé e l’unione con l’altro non si concretizzano attraverso l’atto sessuale ma diventano infatti la spinta verso l’incontro mistico, l’estasi: «Ma ecco che Santa Eloisa lo sente. […] Entra muggendo nelle cavità della sua testa. Lei solleva il coperchio del suo sepolcro con una mano di ossicini di formica» (51-2). La mutilazione di Abelardo diviene dunque simbolo di un bisogno di fondersi nell’altro che, incapace di scaricarsi sul piano fisico, rimane in uno stato di tensione e mantiene in purezza tutta la sua potenza. 

Nel culmine di questo strano amplesso metafisico, dal fantasma di Abelardo emerge esplicitamente la figura dell’autore: 

Pover’uomo! Povero Antonin Artaud! È proprio lui l’impotente che scala gli astri, che cerca di mettere in relazione la sua fragilità con i punti cardinali degli elementi, che si sforza di comporre un pensiero che tenga, un’immagine che stia insieme da ognuna delle superfici sottili o solidificate della natura  (52). 

Abelardo, come del resto tutti gli altri personaggi che popolano la raccolta, non rappresentano per Artaud un’immedesimazione posticcia, ma un vero e proprio riconoscimento, un’identificazione autentica e profonda che riesce a rivelarsi soltanto attraverso la libertà concessa all’espressione artistica: la scrittura permette di visualizzare un orizzonte immaginifico nella quale l’io e l’altro coincidono laddove nella dimensione del reale si creerebbe una contraddizione. È questo del resto il presupposto fondamentale alla base dell’arte per cui Artaud viene maggiormente ricordato, il teatro. Proprio perché consente di visualizzare una sovrapposizione di significati, la pratica teatrale costituisce, almeno a questa altezza, uno dei terreni di studio essenziali in cui portare avanti la sua ricerca intellettuale. Se Artaud ha già lavorato come attore nelle compagnie di Dullin e Pitoëff nei primi anni Venti, risale proprio al periodo di composizione di questi saggi l’esperienza del teatro Alfred Jarry; fondato con Vitrac e Aron, si delinea come il primo tentativo artaudiano di rifondare un’arte che gli stessi surrealisti percepivano come vecchia e sterile e costituisce il banco di prova in cui maturano molti degli stimoli alla base di Le Théatre et son Double. L’arte e la morte restituisce la vitalità di queste riflessioni riunendo dei saggi «altamente poetici e insieme già profondamente teatrali» (Giacobbe Borelli 2023, 13). Nell’ultimo, Il vetro dell’amore, quello che più si avvicina al teatro anche a livello formale, l’amore di uno studente per una «serva abietta e mal lavata» (75) è il pretesto per far rivivere una nutrita schiera di scrittori pronti a consigliare l’innamorato. Sotto un’apparenza di «vaudeville hoffmanniano» (74), il testo evoca lo spazio di una misera stanzetta che si allarga fino a comprendere la storia e la letteratura, in cui alla fine gli amanti possono abbracciarsi e confondersi: «Ci fu soltanto l’amore: Eloisa col mantello, Abelardo con la tiara, Cleopatra con l’aspide, tutte le lingue dell’ombra, tutte le stelle della follia» (79). Il brano è fitto di questi travestimenti che, più che nascondere, rivelano l’autentica identità molteplice dei personaggi. Amore, arte e sogno si rincorrono e si confondono con l’aspide mortifera: è forse l’unica via per conoscere tutte le lingue dell’ombra, tutte le stelle della follia.

Lorenza Valsania

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