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Linee, luci, colore. Foucault e Manet
E. Manet, Le bar aux folies-bergère (1881-82)

È noto che Michel Foucault intendeva scrivere un libro sul pittore Édouard Manet, dal titolo Le noir et la couleur, la cui pubblicazione era prevista da parte delle Éditions de Minuit (Defert 2001, p. 41). Egli aveva redatto un gran numero di pagine sull’argomento, senza però consegnarle all’editore. A quanto sembra, dopo aver conservato molto a lungo l’ampio manoscritto su Manet, da ultimo il filosofo ha scelto di distruggerlo (Guibert 2019, p. 27). Tuttavia alcuni segni significativi del suo interesse per l’artista francese sono emersi a più riprese, nel corso dei decenni.

Già in un saggio su Flaubert datato 1964, Foucault ha introdotto un parallelismo fra il narratore e il pittore ottocenteschi: «Flaubert è, rispetto alla biblioteca, ciò che Manet è rispetto al museo. Essi scrivono e dipingono in un rapporto fondamentale con quel che è stato dipinto e scritto – o piuttosto con ciò che della pittura e della scrittura rimane indefinitamente aperto. La loro arte si edifica là dove si forma l’archivio. Non in quanto segnalino il carattere tristemente storico – gioventù diminuita, assenza di freschezza, inverno delle invenzioni – con cui ci piace stigmatizzare la nostra epoca alessandrina; ma essi fanno emergere un fatto essenziale per la nostra cultura: ogni quadro appartiene ormai alla grande superficie quadrettata della pittura; ogni opera letteraria appartiene al mormorio indefinito di ciò che è scritto. Flaubert e Manet hanno fatto esistere, nell’arte stessa, i libri e le tele»[1]. In effetti, lo scrittore – specie in opere come La tentation de saint Antoine o Bouvard et Pécuchet[2] – aveva costruito dei volumi che erano il frutto di innumerevoli letture, così come Manet presupponeva nello spettatore delle proprie tele la capacità di riconoscere analogie e differenze rispetto ai capolavori pittorici dei secoli precedenti, a cui non di rado si ispirava.

Occorre ricordare inoltre che Foucault ha dedicato al pittore una serie di conferenze tenute in vari luoghi del mondo: nel 1967 a Milano, nel 1970 a Tokyo e a Firenze, nel 1971 a Tunisi, nel 1972 a Buffalo. L’esposizione orale di Tunisi, dal titolo La peinture de Manet, ha avuto una storia editoriale piuttosto complessa. Dapprima, per la sua pubblicazione su una rivista tunisina, avvenuta nel 1989, ci si è basati su una registrazione parziale (l’unica disponibile) della seduta. Più tardi, è stato possibile, tenendo conto di una trascrizione che era in possesso di Daniel Defert, ricostruire una versione più fedele del testo, edita nel 2001 nel bollettino annuale della Société française d’esthétique. Infine, grazie al fortunato ritrovamento di una registrazione sonora completa, nel 2004 si è giunti alla pubblicazione integrale della conferenza, in un volume corredato anche da vari interventi di studiosi che la commentano[3].

Nel suo discorso rivolto all’uditorio tunisino, Foucault esordisce scusandosi per il fatto di parlare del grande pittore pur senza essere un esperto d’arte. Aggiunge che non è sua intenzione occuparsi dell’opera di Manet in generale, bensì soltanto di prendere in esame una dozzina di dipinti. In effetti, però, la parte iniziale della conferenza riguarda quelle che, a giudizio del filosofo, sono le intenzioni di fondo del lavoro del pittore. Foucault conferma il giudizio tradizionale che vede in quest’artista il precursore dell’impressionismo, ma si spinge ben oltre: «Mi sembra che Manet abbia reso possibile non solo l’impressionismo, ma tutta la pittura successiva, tutta la pittura del XX secolo, la pittura al cui interno si sviluppa ancora, attualmente, l’arte contemporanea» (Foucault 2005, p. 9-11). Il filosofo non è certo l’unico ad attribuire al pittore francese un ruolo inaugurale. Malraux e Bataille, per esempio, lo avevano già fatto, l’uno sostenendo che «Manet passa dalle sue prime tele romantiche ad Olympia, al Portrait de Clemenceau, al piccolo Bar aux Folies-Bergère, così come la pittura passa dal museo all’arte moderna», mentre l’altro, in maniera ancor più esplicita, scrivendo che «Manet non è soltanto un grandissimo pittore: in rotta con coloro che l’hanno preceduto, ha aperto il periodo in cui viviamo, accordandosi col mondo attuale, il nostro» (Malraux 1999, p. 41: Bataille 2013, p. 11).

E. Manet, Olympia (1863)

Per dimostrare la propria audace tesi, il filosofo passa ad esaminare alcuni dipinti, ben pochi in rapporto alla vasta produzione dell’artista francese, ma comunque rilevanti e rappresentativi[4]. Il primo aspetto che Foucault vuole sottolineare riguarda il modo in cui Manet ha messo in rilievo gli aspetti materiali della tela. Fa dunque notare che in La musique aux Tuileries le teste dei numerosi personaggi raffigurati (ricordiamo per inciso che fra essi ci sono il pittore stesso e alcuni suoi amici, come Baudelaire) sono disposte lungo una linea orizzontale, mentre gli assi verticali vengono indicati dagli alberi. Una composizione simile si ritrova in Le bal masqué à l’Opéra: anche qui, infatti, i cappelli a cilindro indossati dai personaggi maschili sono disposti lungo una linea orizzontale. Tuttavia, rispetto al quadro precedente, vi sono alcune modifiche significative, volte a diminuire la profondità di campo. Dice il filosofo: «Questa profondità è ora chiusa, chiusa da uno spesso muro; e come per segnalare bene che vi è un muro e nulla da vedere dietro, osservate i due pilastri verticali e l’enorme barra orizzontale che incornicia il quadro, che raddoppia in qualche modo all’interno del dipinto la verticale e l’orizzontale della tela. Questo grande rettangolo della tela viene ripetuto all’interno del quadro, lo chiude sul fondo, eliminando così l’effetto di profondità» (Foucault 2005, p. 27). L’unica modesta apertura di campo dovrebbe trovarsi in alto, al di sopra della barra orizzontale (che è una specie di soppalco), ma tale apertura mostra solo i piedi di altri individui, come se la scena fosse raddoppiata, ricominciasse da capo. La tendenziale chiusura dello spazio è ravvisabile anche in un altro quadro, L’exécution de Maximilien, il cui sfondo è quasi interamente costituito da un muro: questo fa sì che i personaggi si trovino confinati su una stretta superficie di terreno. Inoltre essi sono vicini fra loro al punto che i fucili del plotone di esecuzione esplodono i loro colpi quasi a contatto col petto delle tre persone giustiziate. E anche qui non manca l’inizio di una scena ulteriore nella parte alta del dipinto.

L’incrociarsi delle linee orizzontali e verticali è al centro di un’opera, Le port de Bordeaux, in cui le alberature delle navi formano un reticolo talmente fitto da richiamare, secondo Foucault, non soltanto la forma del quadro, ma qualcosa di ancor più concreto, in quanto sono «in certo modo la riproduzione, nella filigrana del dipinto, di tutte le fibre orizzontali e verticali che costituiscono la tela stessa, la tela in quel che ha di materiale» (Foucault 2005, p. 35)[5]. Ciò diviene ancor più chiaro in Argenteuil, dove tale effetto viene ottenuto grazie ai tessuti riprodotti nel quadro, quelli degli abiti indossati dalle due figure in primo piano: il vestito a righe verticali della donna e la maglietta a righe orizzontali dell’uomo che le sta accanto.

Oltre ai due procedimenti citati (restringimento della profondità di campo ed evidenziazione delle linee ortogonali), Foucault ne segnala un terzo, che consiste nel rappresentare dei personaggi che stanno guardando in direzioni opposte, in avanti e all’indietro, come accade in La serveuse de bocks o in Le chemin de fer. Con qualche forzatura, egli ravvisa qui l’intento, da parte del pittore, di richiamare l’attenzione sul fatto che il quadro è un oggetto bifronte, giacché presenta un recto e un verso. Se a ciò si aggiunge che, in entrambe le opere, quel che i personaggi guardano si vede a malapena o non si vede affatto, allora la strategia dell’artista diviene ancor più perversa: «È questo gioco dell’invisibilità, assicurata dalla superficie stessa della tela, che Manet usa all’interno del quadro in un modo che si può comunque definire, come vedete, vizioso, malizioso e crudele; poiché, in fin dei conti, è la prima volta che la pittura si offre mostrandoci qualcosa di invisibile: gli sguardi sono lì per indicarci che c’è qualcosa da vedere, qualcosa che per definizione, e per la natura stessa della pittura, della tela, è necessariamente invisibile» (Foucault 2005, p. 45-46).

Il filosofo passa poi a considerare un altro aspetto del lavoro di Manet, quello che riguarda i problemi legati alla luce. Un primo esempio viene offerto dal quadro Le fifre, che mostra un ragazzino, con un’elegante divisa militare, intento a suonare il piffero. Tuttavia la soppressione della profondità di campo fa sì che il personaggio si stagli su uno sfondo neutro e del tutto vuoto. Solo poche ombre attorno ai piedi suggeriscono che egli si trova su un pavimento, distinguibile a stento dalla parete di fondo. Tale semplificazione è una delle caratteristiche per cui il dipinto, nel 1866, è stato rifiutato dalla giuria del Salon. Ma non è questo ad interessare a Foucault, bensì il fatto che, mentre nella pittura classica l’illuminazione proviene sempre da una certa direzione, e spesso la fonte di luce viene resa esplicita anche quando la scena si svolge in un interno, in Le fifre non si nota nulla del genere. Qui la luce raggiunge la figura di fronte, è un’«illuminazione dunque totalmente perpendicolare, come lo sarebbe l’illuminazione reale della tela se questa, nella sua materialità, fosse esposta davanti a una finestra aperta» (Foucault 2005, p. 50). Ma la tecnica relativa alla luce può essere, in Manet, anche più complessa, come mostra un dipinto celebre, Le déjeuner sur l’herbe. Foucault scorge in quest’opera la compresenza di due diversi metodi di illuminazione. Per quanto riguarda lo sfondo, la luce proviene dall’alto e da sinistra, in una maniera che si può definire tradizionale, mentre i personaggi in primo piano vengono illuminati frontalmente. «Questi due sistemi di rappresentazione, o piuttosto questi due sistemi di manifestazione della luce all’interno del quadro, sono qui giustapposti nella stessa tela, e la giustapposizione dà al quadro il suo carattere discordante, la sua eterogeneità interna» (Foucault 2005, p. 52-53).

Foucault giunge così ad affrontare Olympia, il dipinto forse più famoso di Manet, o se si preferisce il più famigerato, viste le reazioni che aveva prodotto al momento della sua esposizione al pubblico. Il filosofo, che di norma nella sua conferenza sorvola sugli aspetti relativi alla ricezione delle opere dell’artista, in questo caso fa un’eccezione e accenna ai fatti accaduti all’epoca: «L’Olympia, come ben sapete, ha suscitato scandalo quando è stata esposta al Salon del 1865, uno scandalo tale che si è stati costretti a ritirarla. Alcuni borghesi, in visita al Salon, volevano trafiggerla con la punta dei loro ombrelli, tanto la trovavano indecente. Ora, la rappresentazione della nudità femminile nella pittura occidentale è una tradizione che risale al XVI secolo, e se n’erano viste molte altre prima di Olympia […]. Cosa c’era dunque di così scandaloso in questo quadro, da far sì che non si riuscisse a sopportarlo?» (Foucault 2005, p. 53-56)[6]. Una prima risposta, non formulata da Foucault, è piuttosto ovvia: pur ispirandosi a quadri classici, in particolare la Venere di Urbino di Tiziano, l’artista francese aveva scelto di raffigurare non una dea dalle forme perfette e sensuali, bensì una donna dall’aspetto banale e realistico. Ciò viene riconosciuto anche dai rari e coraggiosi difensori di Manet, come Émile Zola: «Quel corpo nudo è parso indecente; così doveva essere, perché è carne, una ragazza che l’artista ha gettato sulla tela nella sua nudità giovane e già appassita» (Zola 1993, p. 27). Infatti il senso della scena rappresentata non sfugge agli osservatori: la donna stesa sul letto è una prostituta, cui la domestica di colore sta consegnando un mazzo di fiori portato da un cliente. Jules Claretie scrive appunto, con tono d’indignazione: «Olympia? Quale Olympia? Senza dubbio una cortigiana» (Claretie in Romano 2004, p. 14). I vari aspetti provocatori del quadro convergono fra loro, come ha notato un amico e ammiratore dell’artista, il poeta Stéphane Mallarmé, ravvisando nell’Olympia «quella cortigiana pallida e scarna la quale offre per la prima volta al pubblico il nudo che sfugge alle convenzioni e alle tradizioni» (Mallarmé 2004, p. 65).

Il filosofo, da parte sua, ricorda che «gli storici dell’arte sostengono, e indubbiamente hanno ragione, che lo scandalo morale era soltanto un modo maldestro di esprimere lo scandalo estetico: non si sopportava questa estetica, queste tinte piatte, questa grande pittura alla giapponese» (Foucault 2005, p. 56). E in ciò anche la luce gioca il suo ruolo: se nella Venere di Tiziano «c’è una fonte luminosa in alto a sinistra che viene a illuminare dolcemente la donna […] e che sembra una sorta di doratura che le accarezza il corpo», nel quadro di Manet la luce, essendo fredda e frontale, produce un effetto assai meno idealizzante. Inoltre, proprio per il fatto che sembra provenire dal luogo stesso in cui si trova l’osservatore del quadro, «è il nostro sguardo che, aprendosi sulla nudità dell’Olympia, la illumina. Siamo noi a renderla visibile» (Foucault 2005, p. 56-57).

Che la luce eserciti il suo pieno effetto solo sulle figure in primo piano trova conferma in un altro quadro di Manet, Le balcon. In esso, oltre al consueto gioco sulle linee orizzontali e verticali, si ritrova, sia pure in maniera diversa, anche il restringimento della profondità di campo. In teoria, oltre ai tre personaggi (uno maschile e due femminili) che si trovano sul balcone, l’illuminazione dovrebbe estendersi anche alla stanza retrostante, ma di fatto ciò non accade, poiché l’interno appare quasi buio. Secondo Foucault, che esagera un pochino, «si distingue solo il vaghissimo riflesso di un oggetto metallico, una specie di teiera, e un ragazzo che la porta, ma è a malapena visibile. E tutto questo grande spazio cavo, questo grande spazio vuoto che normalmente dovrebbe aprire su una profondità, ci è reso assolutamente invisibile, e perché? Ebbene, semplicemente perché tutta la luce è all’esterno del quadro» (Foucault 2005, p. 60-61). In questa scena appiattita, i personaggi appaiono situati tra la luce e l’ombra, quasi fossero al confine tra la vita e la morte. A tal proposito, il filosofo non manca di ricordare che il pittore surrealista René Magritte ha eseguito un’ironica variante di Le balcon, nella quale al posto delle figure umane si trovano altrettante bare[7].

E. Manet, Le balcon (1868)

Riguardo all’ultimo dei temi che è sua intenzione affrontare, ossia quello del luogo assegnato da Manet allo spettatore dei dipinti, il conferenziere sceglie di riferirsi a una sola opera, Un bar aux Folies-Bergère. Si tratta di una tela complessa: mostra infatti una figura centrale, la giovane donna che serve al bancone di un bar, ma dietro a lei si trova un grande specchio, nel quale possiamo vedere riflesso, in maniera più o meno distinta, il resto de locale. Il fatto che nel dipinto lo specchio eserciti un ruolo rilevante richiama alla memoria (benché il parallelismo non venga esplicitato) un celebre quadro che si basava su un dispositivo simile, Las Meninas di Velázquez, al cui minuzioso esame era dedicata l’ouverture di un altro libro del filosofo, Les mots et les choses (Foucault 2012, p. 17-30). Anche se l’inclusione nell’immagine dipinta di un riflesso speculare non costituisce di per sé una novità, Manet adotta ulteriori soluzioni innovative, coerenti col proprio stile. Tanto per cominciare, nel quadro lo specchio occupa interamente lo sfondo, dunque delimita e restringe lo spazio così come un muro lo chiudeva in L’exécution de Maximilien. L’illuminazione, ancora una volta, è frontale, con l’astuzia supplementare data dal fatto che il riflesso mostra i lampadari presenti nella sala, dunque nello spazio antistante rispetto a quello in cui si trova la barista.

Ma il riflesso medesimo offre ben altre sorprese. Osserva il filosofo che, «in linea di principio, questo è uno specchio, dunque tutto quel che si trova davanti allo specchio deve essere riprodotto all’interno di esso […]. In realtà, se provaste a contare e a ritrovare le stesse bottiglie qui e là, non ci riuscireste, perché di fatto c’è una distorsione tra ciò che viene rappresentato nello specchio e ciò che dovrebbe esservi riflesso» (Foucault 2005, p. 68). La distorsione raggiunge il massimo nella figura della donna, la cui immagine riflessa si trova alquanto spostata a destra rispetto alla posizione che dovrebbe logicamente occupare. È come se lo spettatore osservasse la scena da un’angolazione molto laterale, ma se così fosse egli non potrebbe vedere la barista di fronte, come invece il quadro ce la mostra. «Dunque il pittore occupa – e lo spettatore è invitato a farlo con lui – successivamente, o piuttosto simultaneamente, due posizioni incompatibili» (Foucault 2005, p. 68). Non si può neanche ipotizzare che lo specchio sia disposto in obliquo, poiché il suo bordo è perfettamente parallelo al bancone del bar, e alla cornice stessa del dipinto. Non basta ancora: il riflesso rivela un personaggio maschile che sta parlando con la barista, e che dunque dovrebbe trovarsi, fuori dallo specchio, di fronte a lei, mentre in effetti non c’è. Da tutte queste stranezze consegue che Manet «fa giocare la proprietà del quadro di non essere assolutamente uno spazio normativo la cui rappresentazione ci assegna, o assegna allo spettatore, un punto e un unico punto da cui guardare, e il quadro appare come uno spazio davanti al quale e in rapporto al quale ci si può spostare» (Foucault 2005, p. 71). È quel che accade quando osserviamo una tela appesa alle pareti di una stanza o nella sala di un museo. Manet – conclude il filosofo – «è dunque in procinto di inventare, se volete, il quadro-oggetto, la pittura-oggetto, ed è questa senza dubbio la condizione fondamentale affinché, finalmente, un giorno ci si liberi dalla rappresentazione e si lasci giocare lo spazio con le sue proprietà pure e semplici, le sue stesse proprietà materiali» (Foucault 2005, p. 72)[8].

Se il testo completo dell’esposizione tunisina è ora accessibile, lo stesso non può dirsi per quello delle altre conferenze tenute da Foucault sul pittore. Tuttavia nel 2011 è stata pubblicata la riproduzione fotografica (con relativa trascrizione) di una serie di ventiquattro fogli manoscritti senza data su Manet, dal titolo Le noir et la surface (Foucault 2011, p. 378-395). Si tratta di appunti schematici, ma ricchi di riferimenti sia alla biografia dell’artista che, più in generale, alla storia della pittura. Da essi, ci limiteremo a trarre solo poche osservazioni. Il filosofo ricorda che «Manet viene considerato come […] il primo pittore del XIX secolo ad aver attuato, in maniera violenta e scandalosa, una rottura con l’accademismo. […] E non, come Courbet, tramite la scelta dei soggetti, ma per via del modo stesso di dipingere» (Foucault 2011, p. 380). Riguardo all’altra delle definizioni tradizionali dell’artista, visto come antesignano dell’impressionismo, Foucault si mostra invece più cauto: riconosce che «senza dubbio c’era qualcosa, della pittura di Manet, che rendeva l’impressionismo possibile; e qualcosa che resisteva ad esso. Tuttavia ciò che resisteva all’impressionismo non era […] il classicismo della pittura, ma piuttosto qualcosa che doveva apparire in piena luce solo dopo l’impressionismo» (Foucault 2011, p. 380).

L’artista, che da giovane era stato un allievo, ancorché indocile, di Thomas Couture, da lui aveva desunto l’idea di un richiamo non propriamente accademico alla tradizione, per cui i nuovi quadri che venivano realizzati potevano instaurare un nesso, per così dire laterale, con i dipinti del passato. Da qui il fatto che, in Manet, «Le déjeuner sur l’herbeha più rapporti con Giorgione che con una vera colazione. Olympia con la Venere di Urbino» (Foucault 2011, p. 381). Questo e altri insegnamenti di Couture, in parte accolti da Manet, «resteranno in sospeso, inavvertiti, fino a quando la pittura postimpressionista – Cézanne e Gauguin, Bonnard, i Nabis, i Fauves – ne risveglierà per noi i poteri rimasti dormienti» (Foucault 2011, p. 383). Foucault prosegue esaminando alcune opere al livello della composizione e dell’uso dei colori. A tal proposito entra il gioco il nero, che agisce al tempo stesso «come colore e come valore (distinguendosi così dal bianco e dal chiaro, che continuano ad essere assimilati fra loro […])» (Foucault 2011, p. 384). In Le déjeuner sur l’herbe, per esempio, «a partire dal momento in cui il nero funziona come colore, gli altri colori se ne liberano: – il verde acido degli alberi – i volti e i corpi sono assolutamente lisci – il fondo si schiarisce» (Foucault 2011, p. 385).

E. Manet, Le déjeuner sur l'herbe (1863)

Il filosofo appare minuziosamente attento agli aspetti tecnici del lavoro pittorico e ricorre spesso al confronto tra l’artista francese e i suoi predecessori: «Manet abolisce la distinzione scena-ritratto – Gainsborough aveva collocato dei ritratti su un fondo di paesaggio – Courbet e Corot avevano collocato dei ritratti […] nei paesaggi, e l’illuminazione era la stessa per gli uni e per gli altri. Mai erano stati dipinti in un paesaggio ritratti dotati delle dimensioni, dell’illuminazione e del contrasto netto che sono propri di un ritratto. È evidente che nell’evoluzione di Manet (almeno fino al 1870) la tecnica del ritratto prevale sulle esigenze specifiche dei paesaggi» (Foucault 2011, p. 385). Foucault è sempre pronto a cogliere quel che distingue il pittore di cui si occupa dagli impressionisti, anche proprio a livello tecnico. Così, se Manet sopprime «uno degli elementi più importanti della pittura classica: il tono locale (tono dell’oggetto stesso, opposto al tono fondamentale del quadro)», non lo fa in maniera analoga agli impressionisti: questi ci riescono «tramite il colore puro, che è al tempo stesso sostanza della luce e sostanza dell’oggetto», mentre in Manet ciò avviene «tramite l’utilizzo di colori complessi offerti alla luce, ma alla luce che illumina realmente il quadro», vale a dire dall’esterno (Foucault 2011, p. 388). E il filosofo ribadisce nuovamente che, tra i colori, è il più scuro ad avere la prevalenza: «Il nero è sì un colore come gli altri, ma ha una funzione spaziale che gli altri non hanno – si è visto quale ruolo giocava a titolo di linea di contorno – ma gioca anche un ruolo organizzatore in quanto macchia centrale. […] Di modo che, in fin dei conti, lo spazio del quadro s’illumina per effetto del nero, e sembra volatilizzarsi grazie al potere di questa macchia enigmatica. Sorta di macchia cieca che fa scintillare il visibile» (Foucault 2011, p. 389-390).

Un altro metodo usato per ottenere un effetto di apertura o dispersione consiste nel modo in cui è orientato lo sguardo dei personaggi: «A partire dal Rinascimento italiano, la divergenza degli sguardi aveva la funzione di definire lo spazio del quadro, e in certo modo di incorniciarlo, percorrerlo e solidificarlo – in Manet, gli sguardi escono dal quadro, ma in una direzione non valutabile, dunque per rivolgersi non verso lo spettatore, bensì verso qualcosa che contesta il quadro» (Foucault 2011, p. 391). Un risultato analogo viene ottenuto allontanando alcune delle figure umane dal centro del dipinto e rendendole visibili solo in parte: «È in certo modo il quadro stesso ad essersi spostato in rapporto allo spazio che rappresenta. Perciò il fatto che i personaggi non siano al centro della tela non è dovuto a loro, ma a uno slittamento del quadro in rapporto al proprio spazio. Da qui i personaggi tagliati» (Foucault 2011, p. 392).

Proprio come nella conferenza tunisina, anche in Le noir et la surface la conclusione è dedicata all’analisi di Un bar aux Folies-Bergère. Oltre a mettere in evidenza il gioco sulle immagini riflesse dallo specchio, Foucault rende esplicito il rapporto, nel contempo analogico e oppositivo, stabilito dall’artista con Las Meninas di Velázquez (oppositivo perché in Manet i riflessi speculari risultano dislocati). Da ultimo, la forma e il colore del corsetto della barista che vediamo in primo piano acquistano, agli occhi del filosofo, un significato particolare, funereo: «Questa macchia nera in forma di busto ha le stesse linee di una clessidra: è la figura del tempo e della morte, così come la gondola del Grand Canal, errante in uno spazio incerto e decomposto, aveva tutti i poteri della barca dei morti» (Foucault 2011, p. 394)[9].

E. Manet, Le Grand canal de Venis (1875)

Prima di concludere a nostra volta, dobbiamo ricordare che Foucault ha fatto riferimento al pittore francese anche in due interviste. La prima, del 1970, è tuttora inedita, ma un passo significativo di essa è stato citato da Didier Eribon nella sua biografia del filosofo. Parlando del progetto di scrivere un libro su Manet, Foucault spiega di aver scelto di occuparsi dell’artista in quanto rappresenta un «fenomeno di rottura»; infatti «la sua opera è apparsa all’interno di una storia della pittura che era lirica, rappresentativa, spaziale, voluminosa, mentre egli, senza aver coscienza (o avendo scarsa coscienza) della propria stranezza, si è messo a dipingere figure piatte e brutte. Ed è proprio questa distruzione della pittura quale veniva riconosciuta dalle persone del suo tempo che, quindici anni più tardi, diverrà il segno stesso della modernità per altri pittori, gli impressionisti, che del resto non sono fedeli a Manet. È sorprendente…» (Foucault in Eribon 2011, p. 299).

La seconda intervista è datata 1975. A un domanda volta a chiarire se egli sia interessato all’arte pittorica in generale, il filosofo risponde di sì, specificando che, in quell’ambito, «ci sono cose che assolutamente mi affascinano e m’incuriosiscono, come Manet. Tutto mi stupisce in lui. La bruttezza, ad esempio. L’aggressività della bruttezza, come in Le balcon. E poi l’inesplicabilità, tale che lui stesso non ha mai detto nulla sulla propria pittura. Manet ha fatto, in pittura, un certo numero di cose rispetto alle quali gli “impressionisti” erano del tutto regressivi» (Foucault 1974, p. 1574). Spiazzato dall’elogio della bruttezza, l’intervistatore gli chiede di spiegarsi meglio. Foucault precisa che «può trattarsi della distruzione totale, dell’indifferenza sistematica a tutti i canoni estetici, e non solo a quelli della sua epoca. Manet è stato indifferente a canoni estetici talmente radicati nella nostra sensibilità che persino adesso non capiamo perché e come egli abbia potuto far questo. C’è una bruttezza profonda, che ancora oggi continua ad urlare, a stridere» (Foucault 1974, p. 1574). Secondo il filosofo, il carattere urtante di tale pittura, lo choc che (sia pure in forma attenuata rispetto a quanto avveniva nell’Ottocento) essa produce anche adesso sullo spettatore, va considerato come un merito, non come un difetto.

Si può dunque dire che l’analisi condotta da Foucault sull’opera di Manet, nonostante l’indubbia originalità del metodo adottato, perviene a conclusioni piuttosto simili a quelle a cui giungeva Bataille, che a sua volta scorgeva in essa un elemento di mistero e, nel contempo, una significativa anticipazione dell’arte novecentesca. Infatti, nel 1955, Bataille chiudeva il proprio libro con queste frasi: «Ho voluto presentare Manet come uno dei pittori più segreti, più difficilmente penetrabili. Come il più degno di annunciare la nascita di quel mondo favoloso, così fertile di sorprese, che oggi la pittura moderna apre dinanzi ai nostri occhi» (Bataille 2013, p. 90)[10].

di Giuseppe Zuccarino

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SAISON, Maryvonne, Introduction, in Michel Foucault, La peinture de Manet, cit., pp. 11-17 (tr. it. Introduzione, in La pittura di Manet, cit., pp. 9-16).

ZOLA, Émile, Édouard Manet, étude biographique et critique (1867), in Pour Manet, Bruxelles, Complexe, 1989, pp. 81-139 (tr. it. Édouard Manet, studio biografico e critico, in Manet e altri scritti sul naturalismo, Roma, Donzelli, 1993, pp. 3-37).

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[1] Testo pubblicato prima in tedesco nel 1964, poi in francese nel 1967 col titolo Un «fantastique» de bibliothèque, ora in Foucault 1971: 139; si avverte che i passi delle traduzioni italiane cui si rimanda vengono spesso citati con modifiche).

[2] Sul nesso fra i due libri, cfr. gli appunti per una conferenza del 1970, Foucault 2019: 265-286.

[3] Su tutto ciò, cfr. Maryvonne Saison in Foucault 2005: 9-11.

[4] I quadri commentati da Foucault vengono riprodotti a colori nel volume La peinture de Manet. Per un esame complessivo dell’opera, si può vedere ad esempio Cachin 1991.

[5] Anzi, se si isola la parte del dipinto che raffigura le alberature, diviene legittimo scorgervi un’analogia con «la serie di variazioni che Mondrian ha fatto sull’albero […], il suo famoso albero a partire dal quale – contemporaneamente a Kandinskij – ha scoperto la pittura astratta» (Foucault 2005: 35-36).

[6] Sulle polemiche suscitate dal quadro, cfr. Rewald 1991: 110-113, e Romano 2007.

[7] Anni prima, il filosofo aveva chiesto chiarimenti a Magritte sul suo quadro Perspective: «Le balcon» de Manet (1950), e l’artista belga gli aveva risposto con una lettera del 4 giugno 1966, ripresa in appendice a Foucault 1980: 84-85).

[8] Su come ciò si sia verificato in molte opere novecentesche, si veda ad esempio Menna 1975.

[9] Per Giorgione, il riferimento è al Concerto campestre, uno dei modelli del Déjeuner sur l’herbe.

[10] L’altro quadro di Manet qui richiamato è Le Grand Canal à Venise.

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