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Nella costellazione del pensiero liberale, una corrente in particolare, nata negli Stati Uniti tra la fine della Seconda guerra mondiale e gli ultimi anni Cinquanta, si distingue per aver espresso il nucleo teorico del liberalismo classico nel suo senso più radicale: il libertarianismo. È opportuno innanzitutto fare chiarezza sul lessico, dato che il termine si presta ad equivoci: sue varianti sono infatti diffuse anche in Europa, ma con significati radicalmente diversi. Da una parte, con il termine “libertarianismo”, di cui si parlerà in queste righe, si indica una tradizione di pensiero fondata sulla garanzia della libertà individuale e dei diritti di proprietà – in che termini, si vedrà oltre. Dall’altra, con “libertarismo” si intende una corrente egualitaria in buona misura coestensiva all’anarchismo europeo, che ha in comune con la precedente una tendenza alla limitazione del potere coercitivo dello Stato, ma allo scopo di massimizzare l’uguaglianza e la giustizia sociale – valori lontani, se non opposti, rispetto a quelli del libertarianismo americano. È facile ricadere nella semplicistica dicotomia “libertarianismo di destra” e “libertarismo di sinistra”: tuttavia, va tenuta in conto l’avversione dei libertarian statunitensi ad essere frettolosamente associati al partito Repubblicano e al movimento neoconservatore. La destra politica, infatti, per reazione al movimento pacifista degli anni Sessanta, ha ceduto ad una deriva autoritaria e interventista in politica estera, incompatibile, come si vedrà, con l’idea di Stato debole propria del movimento. D’altro canto, la componente anarchica di questa corrente è quella che distingue i libertarian dai conservatori: se questi ultimi sono moralisti sul tema delle libertà civili (opposizione all’aborto, all’uguaglianza matrimoniale, alla legalizzazione degli stupefacenti o della prostituzione), i libertarian non hanno obiezioni di principio su questo fronte; le preferenze nella vita privata competono alla responsabilità di ognuno, e sono legittime finché non ledono la libertà o la sicurezza altrui. Ad ogni modo, per i nostri scopi, è importante ricordare che la tradizione di pensiero libertarian è radicata nel contesto statunitense, e non va confusa con l’anarchismo europeo, che adotta modalità e giunge ad esiti opposti, nonostante alcune superficiali sovrapposizioni nelle premesse ideologiche.

I principi fondamentali di questo liberalismo “estremo” possono essere riconosciuti, come si è accennato, in alcuni dei pilastri del liberalismo classico, come la salvaguardia delle libertà fondamentali dell’individuo – in particolare, il diritto di proprietà. Va da sé che ad una società formata da individui liberi meglio si associa la competizione e il libero mercato, con un ridotto – anzi, auspicano alcune frange libertarian, nullo – intervento dell’autorità statale (laissez-faire). Non è difficile trovare le ragioni storiche per cui questi valori abbiano trovato terreno fertile negli Stati Uniti: innanzitutto, le tredici colonie atlantiche nacquero sotto il segno dell’avversione per il centralismo, dal momento che i Pilgrim Fathers, in quanto membri di sette religiose, quali quaccheri e puritani, ritenute sovversive in madrepatria, avevano solcato l’Atlantico per sfuggire all’oppressione della Corona inglese. Inoltre, il Far West, con la sua “ideologia della frontiera”, divenne il laboratorio politico ideale per tipi di società individualistiche, sottratte, nel bene e nel male, all’ingerenza da parte di un governo accentratore. Il fascino per una società così concepita continua a far parte della sensibilità americana: oggi il Libertarian Party è il terzo partito di maggior successo negli Stati Uniti. Ciononostante, si tratta di una corrente di pensiero che, pur essendo spesso al centro del dibattito teorico-politico per le sfide che oggi propone alle democrazie liberali, è rimasta piuttosto marginale nelle applicazioni pratiche, per via, come si vedrà, di alcuni suoi limiti intrinseci.

Carlo Lottieri, uno dei maggiori esponenti di questa corrente in Italia, nel suo Il pensiero libertario contemporaneo (Liberilibri, Macerata 2001), ha ricostruito una genealogia completa del movimento: nulla che si possa dire qui può superare la sua analisi in completezza e lucidità, ma vale la pena spendere poche parole sulle diverse “anime” che hanno ispirato questa tradizione di pensiero, per poterne comprendere più chiaramente le criticità e le aporie.

  • Give me Liberty or give me Death. L’eredità del liberalismo.

I padri del liberalismo sono tra i maggiori riferimenti intellettuali dei libertarian. Ha infatti origine dal giusnaturalismo di John Locke la convinzione che ogni ordinamento politico sia determinato esclusivamente dall’esigenza di proteggere e custodire i diritti di cui ogni individuo è titolare per natura.  Il potere politico è legittimo solo se si propone lo scopo di garantire e tutelare le libertà individuali e, soprattutto, il diritto di proprietà, da eventuali minacce e infrazioni. Appropriarsi dei beni di un altro, infatti, è una violazione della libertà individuale, poiché è lesivo del diritto del proprietario di godere dei frutti del proprio lavoro: per questa ragione, libertà e proprietà, nel quadro del liberalismo classico, si equivalgono, e costituiscono la condizione necessaria per la convivenza civile e per la prosperità economica.

Sarà Robert Nozick a riprendere le tesi giusnaturaliste di Locke integrandole nel pensiero libertarian, ma in versione decisamente più radicale. Nel 1974, Nozick pubblica un testo fondativo, dal titolo Anarchy, State and Utopia. Il testo nasce in polemica con il liberalismo egualitario espresso in A Theory of Justice (1971) di John Rawls, che teorizzava un’idea di giustizia come redistribuzione, ammettendo, a questo scopo, l’intervento regolatore dello Stato. Nozick, al contrario, afferma che ogni individuo sia, per natura, titolare di alcuni diritti che precedono il diritto positivo: questi sono il diritto alla vita, alla proprietà e all’autodeterminazione. Una società veramente libera è quella in cui questi diritti sono supremi ed inviolabili, e l’unico potere legittimo è quello che può tutelarli. La soluzione di Nozick è dunque quella di limitare ogni ingerenza statale, in sé dannosa per la capacità autoregolatrice dei mercati, limitando l’intervento di un potere centrale a quei campi della vita sociale in cui è necessario tutelare le libertà e i diritti fondamentali dell’individuo – dunque le funzioni giudiziarie e quelle di pubblica sicurezza. Nozick avanza dunque un modello di Stato minimo, inteso come “guardiano notturno” (nightwatcher state), che ha il solo compito di vigilare perché i diritti dei consociati non vengano mai violati, ma senza influenzare attivamente le loro imprese e i loro progetti. Si noti che uno “Stato” così inteso non potrebbe sottrarsi alla libera concorrenza: Nozick lo concepisce infatti come “agenzia protettiva dominante”, nel senso che, rispetto ad altre agenzie disponibili sul mercato, risulta il più efficace nell’offrire i suoi servizi di protezione. Si capisce bene, a questo punto, come gli esiti del giusnaturalismo di Nozick siano molto diversi, e per certi versi contraddittori, rispetto all’antecedente lockiano: il filosofo inglese, infatti, nei suoi Due trattati sul governo (1689) scriveva a sostegno di un governo liberale la cui legittimità si fonda su un contratto stipulato fra tutti i cittadini, di contro ad una monarchia ereditaria ed assoluta, esercitata nel nome esclusivo di chi governa. Eppure, Nozick, con la sua idea di “agenzia protettiva dominante”, sostanzialmente ricade in una visione del potere politico come potere privato, a cui è difficile attribuire una vera e propria legittimità. Inoltre, la proposta teorica di Nozick non si oppone a che un individuo possa ridursi volontariamente in schiavitù, se acconsente liberamente e con cognizione alla violazione dei suoi diritti fondamentali, giungendo così al paradosso di ammettere la schiavitù, pur difendendo la libertà come diritto supremo.

  • “Don’t Tread on Me”. Anarchismo e utopia.

È nell’orizzonte del liberalismo classico che viene teorizzato un ideale di libertà “negativa” inteso come libertà da vincoli estrinseci – la “libertà dei moderni” secondo Benjamin Constant – fondata sul godimento delle libertà civili, sul governo delle leggi (e non sull’arbitrio degli uomini), e sulla limitazione dell'ingerenza dello Stato. Non per nulla, ancora oggi, un motto in cui l’area libertarian largamente s’identifica è “Don’t Tread on Me”, vale a dire “Non calpestarmi”: il motto è riportato, su fondo giallo, in cui campeggia un serpente a sonagli, sulla cosiddetta “bandiera di Gadsen”, dal nome di Christophen Gadsen, colonnello e patriota nella Guerra d’Indipendenza americana, che la adottò a partire dal 1775 e la fece diventare un simbolo della rivoluzione.

L’argomento che sta alla base di questo rifiuto dell’ingerenza dello Stato nella vita dei cittadini è motivato dalla convinzione che ciascuno conosce le proprie esigenze e circostanze di vita meglio di quanto possa fare qualunque governante, il che, a ben vedere, rappresenta la parte più utopica del pensiero libertarian: d’altronde, lo Stato così come si è configurato in epoca moderna sembra un datum difficilmente eliminabile per fare posto all’anarchia, comunque intesa. Per le ragioni storiche sopra menzionate, tuttavia, l’anti-statalismo è un argomento che ricorre in alcuni classici del pensiero americano che hanno avuto grande influenza sulla tradizione libertarian, come Henry David Thoreau e Benjamin Tucker; si ricordi in particolare il saggio di Thoreau, spesso citato, dal titolo Disobbedienza civile (1849). In queste pagine, l’autore contesta le politiche militari del governo statunitense, in particolare la guerra espansionistica contro il Messico. Per questa ragione, egli si rifiuta di pagare le tasse, con l’intento, dettato dalla propria coscienza, di non contribuire né alla guerra, né al rafforzamento dello schiavismo nel Sud. L’autore di Walden, ovvero la vita nei boschi non è però un anarchico: attraverso questa sua difesa appassionata ed umanistica della libertà e della responsabilità individuale, egli teorizza la necessità di un governo migliore, e, nell’attesa di questo, ammette la disobbedienza ad un governo ingiusto, nella convinzione che sia diritto di ognuno rivendicare la disobbedienza a qualunque società a cui non si è acconsentito di far parte. L’esempio di Thoreau ha però fatto scuola, e l’evasione fiscale come atto di ribellione al potere centrale è concepita dai libertarian come un atto ammissibile di disobbedienza civile, coerentemente con l’idea che la tassazione equivalga sostanzialmente ad un furto di Stato. Ben più estreme sono le posizioni di Albert Jay Nock, autore di un saggio dall’eloquente titolo Our Enemy, The State (1935). Nock, in apertura del suo saggio, sostiene che i padri fondatori, propendendo per la forma costituzionale del federalismo, avessero compiuto un vero coup d’état, un tradimento dei valori americani: l’accentramento dei poteri nelle mani del presidente contravveniva infatti alla proposta di decentramento politico estremo avanzata da Thomas Jefferson, di cui Nock era grande estimatore. Pietro Adamo, tuttavia, nella sua ricognizione storica dal titolo L’anarchismo americano nel Novecento. Da Emma Goldman ai Black Bloc (Franco Angeli, Milano 2016), evidenzia come l’inclusione di Nock nel canone del pensiero libertario presenti delle forzature: Nock si riteneva innanzitutto un anarchico di sinistra, e il suo estremo individualismo mal si adattava con la componente conservatrice che si saldò con il movimento libertario negli anni successivi al New Deal.

  • Si monumentum requiris, circumspice. I frutti del libero mercato.

La libertà politica difesa dai libertarian è saldamente connessa alla libertà economica, e senza di essa non avrebbe alcun senso. Quando negli Stati Uniti si aprì una fase di tendenze interventiste del potere centrale in economia, in risposta alla crisi del ’29 e dopo il grande successo delle teorie keynesiane, le posizioni dei libertarian si fanno più definite, ed è in questa fase che il movimento si dà propriamente il nome di libertarianism.  Erede dell’Old Right, si distingue da una parte dall’autoritarismo dei conservatori e dall’altra dall’eredità socialista degli anarchici di sinistra, che concepiscono la giustizia come “equa distribuzione”. Infatti, dal rifiuto dei libertarian di ogni forma di coercizione deriva un’avversione anche per l’intervento statale volto a ridimensionare le disuguaglianze. Il welfare State, in quest’ottica, costituirebbe un disincentivo al lavoro e all’impresa, e con ciò l’economia di mercato sarebbe privata del suo fondamentale catalizzatore. Il New Deal, per esempio, con il suo “socialismo rooseveltiano”, fatto di interventi pubblici e di previdenza sociale, fu interpretato dai libertarian come un tradimento dei valori americani, imperniati sull’individualismo e sull’anti-centralismo.

Sono queste le idee di quella che è spesso considerata la tradizione del pensiero economico che per i libertarian rappresenta il principale punto di riferimento: la Scuola austriaca, nata a Vienna ma trapiantata negli Stati Uniti dopo l’Anschluss del 1938. Ludwig von Mises e Friedrich von Hayek furono i maggiori esponenti della Scuola, fondata sull’impegno a difesa della libertà personale e al libero mercato delle teorie neoclassiche. In Human Action (1949), che si prefigge di costruire una teoria dell’azione individuale, Mises è molto chiaro sulla questione della giustizia sociale. Il problema della disuguaglianza non sarebbe una piaga sociale, ma una fisiologica manifestazione dell’illimitatezza dei bisogni umani. D’altronde, i frutti del capitalismo sono evidenti, basta guardarsi intorno: il libero mercato ha portato ad un benessere senza precedenti.

“Per più di un secolo, l’opinione pubblica dei paesi occidentali è stata illusa dall’idea che esista una “questione sociale” o un “problema del lavoro”. […] La verità è che il capitalismo non ha soltanto moltiplicato le cifre della popolazione, ma ha al tempo stesso migliorato il tenore di vita in una misura priva di precedenti. Il pensiero economico e l’esperienza storica non suggeriscono alcun altro sistema sociale che potrebbe essere più vantaggioso alle masse. I risultati parlano da soli. L’economia di mercato non ha bisogno di apologeti o di propagandisti”.

Una versione estrema dei temi finora esposti si ritrova nella corrente dell’anarco-capitalismo, nata negli anni Sessanta e Settanta dalla fusione tra frange di destra e di sinistra, le prime insofferenti verso il centralismo conservatore, le seconde verso l’eredità socialista della sinistra tradizionale. Il caposcuola si può individuare in Murray Rothbard, allievo di Mises, che nel 1965 fonda una rivista dal titolo programmatico di Left and Right. Rothbard propone una versione radicale della teoria dello Stato minimo, auspicandone la totale abolizione. Intorno a Rothbard si crea un milieu intellettuale che contribuirà a rendere popolare il pensiero libertarian e la sua visione creativa e positiva del capitalismo nella cultura americana. A questo successo contribuisce ovviamente anche la guerra fredda, durante la quale si rende necessaria l’elaborazione di modelli culturali che dimostrino la superiorità degli Stati Uniti rispetto al collettivismo sovietico: tra le figure di spicco di quest’ambiente culturale vale la pena citare Ayn Rand, immigrata di origine russa che presto si afferma negli Stati Uniti come filosofa e scrittrice. In opere letterarie come in Atlas Shrugged (1957) ella immagina una società concepita secondo le idee libertarie in cui trionfa un individuo titanico, leader di una società meritocratica, contrapposto alla grigia massa del popolo e all’atmosfera di asfissia indotta dal collettivismo.

È evidente, tuttavia, che il capitalismo non ha portato solo buoni frutti. Se è vero che il libero mercato ha generato un arricchimento generalizzato a lungo termine, in linea di massima la forbice tra ricchi e poveri si è fatta più ampia, a fronte di un ristretto gruppo sociale che detiene una grande quantità di ricchezza. La piena fiducia nel principio di autoregolazione dei mercati non è abbastanza per prendere sul serio il problema disuguaglianza: il potere statale non è solo violento e corrotto, ma ha anche funzione di pacificazione sociale – senza di esso, le sperequazioni diverrebbero causa di conflitti sociali, e delegittimerebbero qualsiasi potere politico che non sapesse darvi risposte adeguate. La disuguaglianza è violazione della dignità umana, e ostacolo alla piena realizzazione del potenziale di ognuno: in altre parole, senza condizioni materiali dignitose, la libertà conta davvero poco. Con il suo scarso riguardo per le condizioni materiali, se il pensiero libertarian si tramutasse in policy, rischierebbe di cementificare la pericolosa saldatura tra potere pubblico e interesse privato, tutelando così i privilegi di pochi, a discapito degli interessi di tutti.

D’altro canto, però, come notava Norberto Bobbio nell’introduzione a Il futuro della democrazia (1984), molte sono le promesse ancora non mantenute della democrazia liberale: la persistenza di gruppi di interesse, l’ipertrofia burocratica, il rischio della tecnocrazia da una parte (altrimenti nota come “democrazia epistemica”) e le derive populiste dall’altra, per citarne solo alcuni. È innegabile dunque che il punto di forza delle teorie libertarian stiano nello sforzo di indagare forme di comunità politiche che vadano oltre la cornice dello Stato, ponendo così sfide importanti e critiche efficaci alle categorie del pensiero politico occidentale.

 

di Alessandra Maglie

 

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