Alla voce “posthumanism” Wikipedia elenca sette possibili sfumature semantiche del termine, tutte riconducibili a diverso titolo a questa controversa nozione: si menzionano l’anti-umanismo, il postumanismo culturale, il postumanismo filosofico, la condizione postumana, fino ad arrivare ai massimalismi di transumanismo, Al Takeover ed estinzione volontaria dell’uomo. Ora, senza entrare nel merito di questa catalogazione – che come tale implica una certa arbitrarietà – cercheremo di presentare il saggio di Antonio Lucci Umano Post Umano (Inschibboleth, 2016), azzardandone una collocazione all’interno del cosiddetto postumanismo filosofico. Premessa: “postumano” indica un ambito delle scienze umane distante da una stabilizzazione disciplinare; i margini tematici a cui richiama sono sfrangiati ed estremamente porosi, continuamente soggetti a sconfinamenti e ampliamenti epistemici – di carattere sia inclusivo sia esclusivo. Dagli anni ’70 fino a oggi, infatti, l’idea di poter parlare di “postumano” nei termini di una questione culturalmente rilevante ha fatto sì che il sintagma “post” – su cui pesa tutta la portata della sua novità concettuale – divenisse l’oggetto di innumerevoli branche delle humanities. Con buona probabilità il motivo di questa fortuna è dipeso dal fatto che parlare di post-umano significhi, più o meno consapevolmente, testare la tenuta di un’idea di scienza – “umana” appunto – che mai come oggi pare minacciata da un preoccupante autosuperamento. L’espressione post-umano effettivamente, come ricorda anche Wikipedia, richiama tanto all’idea di crisi quanto alla categoria generale del “salto al di là”, sia storico (after Humanism) che locale (beyond Humanism). Posthumanism va dunque maneggiato come si maneggia un sintomo, concertando prudenza e perizia. Sarebbe eccessivamente sbrigativo liquidare l’emersione prepotente di questa nozione riducendola a un che di passeggero o magari, per additarne l’inconsistenza, a un evanescente fenomeno mediatico. E’ vero, la confusione non manca: l’oggetto su cui si dibatte rimane il più delle volte nascosto dietro un’impenetrabile cortina di nebbia concettuale; le metodologie di analisi talvolta si combinano seguendo giustapposizioni naïf, talaltra si arroccano su anguste posizioni protocollari figlie di specialismi nati l’altro ieri. Eppure, come vedremo, navigando a vista tra interdisciplinarità e tecnicismo, è ancora possibile mantenere un certo equilibrio, tale da consentirci di formulare una risposta plausibile alla domanda “cosa significa postumano?”.
A tal proposito, uno dei meriti del libro di A. Lucci è senz’altro quello di sviluppare una definizione coerente dell’oggetto postumano, a partire da una altrettanto efficace esplicitazione del metodo di ricerca seguito. Una domanda apre e attraversa l’intero libro: «come parlare da dopo l’umano, permanendo umani?» (Postfazione, p. 13). Lucci decide di articolare la risposta al quesito percorrendo un duplice binario: da una parte lavora a compattare un robusto ground teorico-filosofico (cap. 1-3); dall’altra ci propone delle testimonianze di chi, a suo parere, in un modo o nell’altro – H. Ph. Lovecraft, A. Kojève, Ph. K. Dick, M. Houellebecq – è riuscito a parlare da dopo l’umano.
Da dove stiamo parlando?
Durante una conferenza, apparsa in traduzione italiana con il titolo Come non essere postmoderni, Jacques Derrida sosteneva, non senza vena polemica, l’inadeguatezza teorica di tutti i titoli in “neo” e in “post”. Sottostando a un «a priori storicista», irrispettoso della fondamentale non-linearità delle invenzioni teoriche, la retorica epifanica del “post” esibisce la forza di uno stratagemma culturale – sempre saldamente istituzionalizzato – di «autopresentazione» e di «autopromozione» del presente. Secondo Derrida, questa strategia inficia la comprensione del reale meccanismo che presiede alla storia delle idee: i trapianti, le ripetizioni, i parassitismi e gli scambi – vale a dire i nemici giurati delle tassonomie orientate a fotografare istantanee del prima e del dopo – svaniscono irrevocabilmente. Un processo di normalizzazione storicistica di questo genere si scaglia contro ciò che c’è di mostruoso nelle teorie, finendo per mancare la specificità e la fecondità di quella che siamo incertamente abituati a chiamare innovazione teorica. Come comportarsi allora?
Il “post” a cui fa riferimento il postumano è il medesimo a cui rimandavano i “post” novecenteschi più noti – poststoria, postcolonialismo, poststrutturalismo, etc. – oppure si ha a che fare con qualcosa di differente? Trattandosi di un “post” che segue l’umano in generale, un post che succede l’intera era dei “dopo” novecenteschi, che trattamento dovremmo riservargli? Dovremmo, forse, continuare a sostenere con Derrida – anche per la nozione di postumano – l’illegittimità di una logica basata sulla successione cronologica? A questo proposito, nel suo Umano Post Umano A. Lucci è convinto di poter mostrare l’effettiva pregnanza filosofica della nozione di postumano, riportandone alla luce la sua duplice natura dialettica, di rottura con il passato e di insuperabile continuità.
Dal punto di vista ampio di una teoria antropologica delle fasi – Gehlen, Mumford, Toffler – potremmo sostenere con buone ragioni che l’uomo postumano incarni la forma compiuta della grammatica della rivoluzione neolitica: l’umano odierno pare per lo più stanziale, monogamico, integrato in un gruppo familiare ristretto, dedito a pratiche religiose e culturali ereditate da un lontano passato. In realtà, se si pone attenzione agli sviluppi degli ultimi trent’anni, il «postumiano» – con la “i”, riprendendo il conio di Peter Sloterdijk – è prevalso: la facilità crescente nel coprire distanze sempre maggiori in breve durate ha consentito a corpi e informazioni di raggiungere un dinamismo inimmaginabile, anche solo dagli abitanti del neolitico di mezzo secolo fa. Nello specifico, il postumiano, «epoca dell’umano diversa dalla nostra» (p. 17), sarebbe segnato a livello fattuale da una trasformazione mediologica profonda che – come sostiene Friedrich Kittler – ha mutato del tutto la nostra posizione nel cosmo. Non è esagerato affermare che con l’uso delle nuove tecnologie di comunicazione, sia in atto un «esodo da quel sistema di a priori che ha costituito per molte migliaia di anni la nostra Lebenswelt» (p. 20).
Questo processo di superamento, ben lungi dal riposare pacificamente compiuto, ha assunto man mano tratti sempre più dolorosi. Le cosiddette malattie dell’anima dell’uomo contemporaneo, sostiene Lucci in accordo con il Gehlen de L’uomo nell’era della tecnica, sono infatti causate dallo sfasamento attuale tra modelli socio-culturali diversi, ma in via di sovrapposizione. Stiamo assistendo al progressivo acuirsi dell’attrito tra sopravvivenze fantasmatiche di eredità culturali marcatamente neolitiche da una parte, e modi di operare compiutamente postneolitici dall’altra (pp. 23-24). In questo contesto critico, allora, riflessione sul significato della nozione di postumano e compito filosofico finiscono per coincidere. Al fine di sviluppare un’antropologia filosofica della contemporaneità, che faccia i conti con l’approssimarsi di una nuova era dell’umano, caratterizzata dall’influenza massiva della tecnica, è indispensabile sfruttare gli strumenti concettuali forniti dalle scienze della cultura e dei media. Del resto la descrizione e la chiarificazione filosofica di tale passaggio può favorire la difficile sincronizzazione tra quei due livelli di esperienza, attraverso cui stiamo tentando di filtrare la nostra uscita dal neolitico: i valori del passato contra le pratiche del presente. L’auspicio dell’autore è quindi quello di portare a termine – almeno a livello di consapevolezza filosofica – il processo di superamento del neolitico, al fine di elaborare un’idea di uomo adeguata al nuovo assetto globale indotto dalle tecniche. Per evitare l’imporsi dell’idea – umana troppo umana – secondo cui un giorno saremo in grado di dominare il mondo sotto ogni suo aspetto, è bene considerare quella dell’uomo postumiano un’epoca di convivenza allargata o – per usare l’espressione di Thomas Macho – di «umanismo inclusivo». Mai come adesso il filosofo dovrà quindi ricercare hegelianamente «il proprio tempo colto in pensieri».
«Con la presa in carico da parte dell’uomo (tramite la manipolazione della vita, dell’energia e della biosfera) del destino della sua e delle altre specie, la scrittura delle regole di convivenza e il riconoscimento della comunità inclusiva in cui ci troviamo – il mondo contemporaneo è la comunità allargata dove convivono gli uomini, gli animali, le piante, i rituali, gli oggetti, le immagini, le reti, gli ambienti, i morti e i non ancora nati – appaiono solo i primi dei numerosi grandi compiti filosofici della contemporaneità. La possibilità di trovare regole comuni per la convivenza di tutti gli autori globali, umani e non umani si basa su unico presupposto: uccidere ciò che ancora c’è di neolitico nell’uomo, diventare definitivamente postum(i)ani» (p. 25)
Ciò constatato, Lucci non sembra avere intenzione di posizionare la sua idea di postumano nello scenario delineato dalla contrapposizione tra Transhumanism e Posthumanism. I suoi autori di riferimento, effettivamente, gli consentono di aprire una prospettiva immune dalla consueta opposizione – ormai entrata nella vulgata delle postumanologie – tra conservatori e innovatori dell’umano. La tesi filosofica sviluppata in questo saggio è stratificata e teoreticamente densa. Può pertanto risultare utile una rapida perlustrazione tra gli assunti teorici portanti.
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I lineamenti dell’umano postumano emergono in primis sotto la lente di un – per usare l’efficace sintagma deleuziano – empirismo trascendentale. Gli apriori dell’uomo hanno consistenza ontologica e storica, sorgono cioè da catene complesse di processi biologico-adattivi. L’orizzonte percettivo del soggetto umano varierà dunque – nei tempi della lunga durata – come retroeffetto epistemologico di mutazioni ed evoluzioni insorte nella specie. Già il padre dell’etologica contemporanea Konrad Lorenz nel 1941, nel suo La dottrina kantiana dell’apriori e la biologia contemporanea, aveva indicato una via di questo tipo. (pp. 29-33);
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L’uomo è un animale la cui vita biologica – come insegnano prima Leroi-Gourhan poi Bernard Stiegler – è immediatamente intaccata dalla tecnica. La storicità dell’uomo, il suo tempo, equivale peculiarmente alla relazione che si instaura tra memoria biologica della specie, memoria individuale e memoria tecnica archiviata su supporti. L’esperienza umana è dunque trascendentale – cioè correlazione di a priori e a posteriori – perché «epifilogenetica», ossia da sempre tecnicamente mediata. (pp. 35-43);
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Uno sguardo più vicino a quello di storici della cultura come Macho e Sloterdijk ci conduce infine a concepire il soggetto postumano come un corpo-teatro, all’interno del quale la différance primordiale tra empirico e trascendentale ha portato in scena la sua “prima”. Dal rapporto microsferologico del feto con la madre sino alle culture di massa, infatti, il soggetto si è sempre configurato come entità che si rapporta a se stesso solo ed esclusivamente per mediazione tecnica. Per pensarsi come individuo – unico, solo, autonomo, etc. – il soggetto deve necessariamente procurarsi un accompagnatore che funga da atmosfera o da schermo della sua riflessione (pp. 45-50).
In questa triplice misura si ribadisce quindi l’inadeguatezza, biologico-ontologica, trascendentale e mediologico-culturale di quelle nozioni di uomo che affermano la possibilità di un isolamento completo dell’animal rationale. Le tecniche di solitudine, ricorda Lucci sulla scorta di Macho, sono le forme esperienziali minime – eppure già intimamente comunitarie – di ogni possibile autopercezione e, dunque, di ogni opportunità concreta di riqualificazione identitaria (pp. 50-58).
I testimoni: «uomini che nascono postumi»
Adesso, se è vero che al momento non siamo ancora in grado di vivere e concepire consapevolmente la nostra dimensione postumana, perché ancora influenzati da valori e routines neolitiche, come potremmo mai riconoscere la vera identità del mondo postumano e dei suoi abitanti? Una via, seppur molto angusta e dissestata, esiste. Secondo Lucci l’oggetto di quella che lui chiama significativamente «futuribile post-paleo-ontologia» (p. 59) è ricostruibile a partire dalle tracce presenti nei testi di alcuni autori. Gli scrittori in questione sono soggetti inattuali che, grazie all’elaborazione di tecniche culturali particolari, sono riusciti a osservarci da lontano. Si tratta di alieni terrestri nati postumi, inusuali latori di preziose documentazioni sul tema del totalmente altro. Interpretare questi testi vuol dire però scontrarsi con l’estraneità più assoluta, con la difficoltà apparentemente inaggirabile di comunicare linguisticamente l’impercepibile. Si può pensare la vita dall’esterno? Come si fa a raccontare una storia che si snoda seguendo un tempo letteralmente out of joint?
Lo scrittore americano H. Ph. Lovecraft nelle sue opere – in particolare nel suo Commonplace Book e ne Il ciclo di Chtulhu – ha tentato di esprimere narrativamente questa estraneità, attraverso l’invenzione di una cosmologia fantastica fatta di divinità dell’esteriorità pura. Il fuori, gli intermundia, sono per Lovecraft dentro di noi; ci osservano, scavando un abisso senza fondo nelle strutture linguistico-percettive della nostra comune esperienza. Persino i colori, in questa dimensione di ulteriorità assoluta – e qui penso al Calvino di Senza colori –, risultano impercettibili perché estranei agli schemi della nostra sensibilità cromatica.
Altro testimone chiave dell’inesprimibilità del fuori è, secondo Lucci, il filosofo francese di origini russe Alexandre Kojève. Nella sua famosa opera Introduzione alla lettura di Hegel, in una nota dedicata al desiderio di riconoscimento come dinamica antropogena, Kojève parla esplicitamente di «fine della storia» e di «scomparsa dell’uomo». Ora, senza addentrarci nelle scrupolose analisi di Lucci, relative ai rimaneggiamenti kojèviani di questa nota, ci basti ricordare il tipo di scenario post-storico e post-umano esposto dal filosofo francese. Con la realizzazione napoleonica dell’idea di libertà l’uomo d’azione, perennemente in lotta contro il potere signorile, giunge al proprio compimento finale. Questa fine non è però una vera e propria «catastrofe cosmica» – come Kojève stesso aveva inizialmente sostenuto – bensì un esaurimento e uno svuotamento delle potenze vitali della storia. Tant’è che del desiderio di riconoscimento (servo vs signore) non rimane quasi più nulla, se non la carcassa di un rapporto tra soggetto e oggetto, ormai completamente formalizzato. Dal regime della felicità si giunge a quello del sostentamento: soggetti e forme nomadi si accontentano adesso di interagire con contenuti qualsiasi. Il mondo atomizzato dell’astuzia della ragione si impone: «il mondo post-storico è un mondo di soggettività fredde, di soggetti-animali-sapiens, o di monaci orientali detentori del Vuoto» (p. 103). Forse, a ben vedere, le soggettività della dimensione post-storica di Kojève non soddisferebbero più neanche i requisiti minimi richiesti dal test per l’empatia, somministrato agli androidi di Do Androids dream of Electric Sheeps?.
Ma, appunto, cosa ne pensa lo scrittore Ph. K. Dick della situazione post-storica? L’esperienza postuma di Dick va rintracciata per Lucci in quel singolare punto di incontro tra vita privata e scrittura fantascientifica, verificatosi nel febbraio del 1974. Secondo quanto raccontato dallo stesso Dick nei suoi appunti autobiografici (Exegesis), in seguito a un’operazione dentistica egli trascorse settimane intere in balia di allucinazioni e visioni, riconducibili a una dottrina sapienziale dell’antichità. In quei giorni Dick era entrato in contatto con «una particolarissima religione cosmica alternativa» (p. 119), di cui cercò di registrarne contenuti e forme. Secondo la lettura di Lucci, il tentativo descrittivo di Dick si è rivelato così radicale da mettere a seria prova la normale separazione tra illuminazione e psicosi: Dick inventa una tecnica culturale di scrittura capace di svolgere l’«esegesi completa» di un’esperienza inaccessibile ai suoi contemporanei. Provenendo da un mondo a noi ignoto, lo scrittore di Chicago ha reso testimonianza di un’impossibile corrispondenza tra immaginario e reale. Lo sguardo del narratore – ricordiamo le considerazioni di Deleuze ne Il freddo e il crudele – assume qui una strabica eppur eccezionale efficacia, metà clinica e metà patologica. Dick finisce per incarnare la posizione anomala di un bicameralista post-storico, ossia di un individuo che – in accordo con quanto sosteneva Julian Jaynes sulla mente bicamerale – è in grado di sospendere tramite il dispositivo scritturale la Spaltung normalmente vigente tra pensiero ed essere, coscienza e oggetto. Dick, detto altrimenti, rovescia e simultaneamente sposta l’assunto di Wittgenstein circa i nostri limiti cognitivi: ora «i limiti della nostra immaginazione segnano i confini del nostro mondo». (p. 140)
L’ultimo messaggero postumano a cui Lucci dà voce nel suo saggio è M. Houellebecq. Lo scrittore francese, nei suoi libri Piattaforma, Le particelle elementari, La possibilità di un’isola e Sottomissione, racconta un universo di soffocante immanenza, in cui il dentro e il fuori finiscono paradossalmente per coincidere. Da ottiche differenti – burocratizzazione e violenza, disperazione e tristezza, immortalità biologica, scelta politica come sottomissione volontaria – Houellebecq mostra il progressivo allontanamento dell’inquilino della post-storia rispetto a se stesso. Il soggetto post-storico è ormai divenuto così saggio da poter arretrare e guardarsi da lontano (p. 157). L’interrogativo che Houellebecq ci invita a formulare concerne, dunque, la possibilità di prendere commiato da noi stessi e dalla nostra natura, rischiando sempre più quella che K. Lorenz chiamava un’«evoluzione distruttrice» (p. 155).
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Ora, secondo l’autore di Umano Post Umano, la comparsa di una natura senza uomo, intesa come evento finale di una storia lineare, non solo non è auspicabile ma nemmeno può riguardarci. L’uomo può al più – ed è bene che lo faccia – diventare straniero alla specie. Assecondando la sua strutturale propensione mediologica e tecnica, l’umano post umano – contro ogni promotore di «tecnofobia nostalgica» – deve essere capace di reinscrivere la sua genesi tecnica all’interno di una storia naturale circolare. Ossia, deve installarsi nel campo aperto di una convivenza tra umani e non umani in cui, per continuare a essere veramente hegeliani, occorrerà appellarsi a un nuovo mantra dialettico: «ciò che è tecnico è naturale e ciò che è naturale è tecnico» (p. 160).
Se così non sarà, quella che venne definita da Heidegger "differenza ontologica" assumerà sempre più i connotati di un "apartheid ontologico", laddove gli agenti che non verranno riconosciuti come "umani", costretti a un asservimento, logico, ontologico, etico e materiale senza precedenti termineranno con il lasciarci finalmente soli, onnipotenze sradicate di un mondo che porterà tragicamente impressi, immutabili, i lineamenti del nostro volto umano, troppo umano (pp. 26-27)
di Carlo Molinar Min