In occasione del V Seminario di Teoria politica intitolato Eurotecnocrazia tenutosi a Torino in ottobre ho avuto la possibilità di intervistare l’antropologa ed etnologa Annamaria Rivera. Saggista, scrittrice e attivista da anni si occupa di razzismo e forme della discriminazione. A lei dobbiamo uno dei primi studi in lingua italiana sulla correlazione tra razzismo, sessismo e specismo. Abbiamo affrontato il complesso rapporto tra paura, intolleranza e razzismo in Europa, alla luce degli arrivi in massa di migliaia di migranti sulla costa nord del Mediterraneo, ignari di quel che sarebbe accaduto di lì a poco a Parigi.
Che cos’è la paura dell’altro, qual è il suo significato antropologico? A tal proposito cosa ne pensa delle più recenti ricerche in ambito anglosassone che sembrano rivelare un rapporto profondo a livello cognitivo tra paura, disgusto e il fenomeno dell’esclusione sociale?
Non credo che la paura, intesa come sentimento spontaneo, sia il movente principale dell’intolleranza e del razzismo (anche se, paradossalmente, si usa il termine “xenofobia” per nominare il rifiuto e/o il disprezzo degli altri). Quello della paura ha finito per diventare un luogo comune, talvolta messo al servizio di un’interpretazione del razzismo all’acqua di rose, ridotto a pregiudizio, ignoranza, timore che sempre susciterebbe l’Altro. E’ una teoria spontanea riduzionista, poiché trascura le dimensioni economica, istituzionale, politica, mediatica del razzismo e sembra ignorare che esso è un sistema complesso, spesso subdolo, di disuguaglianze sociali, caratterizzato da forti scarti di potere fra i gruppi sociali coinvolti. E comunque anche la paura è l’esito di condizionamenti sociali, culturali, politici. Infatti, è spesso indotta da contingenze storiche, da leggi e scelte istituzionali, nonché da campagne propagandistiche di tipo politico e/o mediatico, che propongono immagini negative degli altri e finiscono per additarli come “nemici interni” o capri espiatori.
Come dimostra la storia italiana recente, il capro espiatorio è sempre mutevole, anche nel senso che la medesima categoria di persone può essere percepita, considerata e trattata in modo diverso, addirittura opposto, secondo le contingenze storiche, anche di breve durata. Basta considerare il caso dei migranti albanesi nel corso degli anni ’90 del Novecento. Dapprima sono considerati fratelli separati della comune patria adriatica: “Ci sono affini, hanno la nostra stessa storia, vogliono quel che noi vogliamo”, scriveva Giorgio Bocca in un articolo del 10 marzo 1991. Una volta cambiato l’orientamento istituzionale italiano, tra uno sbarco e l’altro di quell’anno, finiscono per diventare gli indesiderabili per eccellenza, e ciò nel giro di appena cinque mesi. A tal punto che nella seconda metà degli anni ’90 ogni fatto di cronaca nera veniva ricondotto, arbitrariamente, a un colpevole albanese del tutto immaginario; e “albanese” era diventato insulto consueto che si scambiavano perfino i bambini. La stessa cosa può dirsi in rapporto col lungo ciclo degli attacchi terroristici di marca jihadista, dall’11 settembre 2001 al 13 novembre 2013. Nell’uno e nell’altro caso, gli attentati rinfocolano l’islamofobia latente –ma da ben prima espressa patentemente dalla Lega Nord, essendo un tratto costitutivo della sua ideologia e del suo programma – e spostano sui musulmani (oggi si dice gli “islamici” e non per caso) la propaganda e gli atti razzisti, e l’attenzione delle politiche repressive. L’ideologia dello scontro di civiltà, in Italia rappresentata in modo esemplare dalla trilogia di Oriana Fallaci, s’insedia saldamente nell’immaginario collettivo, offre nuovi pretesti alla propaganda e alle azioni dei fascio-leghisti, condiziona la prassi repressiva e le politiche istituzionali. La ziganofobia è la sola eccezione rispetto alla variabilità del capro espiatorio. I rom, i sinti, i camminanti sono vittime strutturali di discriminazione, esclusione e razzismo, che di solito si perpetuano, immutabili anche nelle forme, al di là delle congiunture storiche e sociali. Lo conferma il sondaggio più recente del Pew Research Center (2015). L’antiziganismo è la forma di xenofobia più strutturale, ma in modo variabile. E’ l’Italia a illustrarsi in questo campo e con un dato impressionante, anche rispetto alla Polonia: l’86% del campione intervistato (l’anno scorso era l’84%) esprime ostilità o timore per la presenza di appena 180mila fra rom e sinti (70mila dei quali cittadini italiani), corrispondenti a un magro 0,23% della popolazione totale.
Il razzismo è sempre identico a se stesso ma al contempo sempre in trasformazione. Quali sono le caratteristiche salienti delle manifestazioni di intolleranza e ghettizzazione in un’Europa che oscilla tra il riproporsi di episodi che evocano un triste passato e la volontà di continuare sulla strada dell’integrazione sociale ed economica?
Oggi i migranti forzati (tutti lo sono, in misura diversa, anche quelli detti economici), cioè “gli espulsi dalla vecchia trinità Stato-popolo-territorio” (per citare Hannah Arendt) approdano, paradossalmente, in un continente disseminato di confini blindati, muri e barriere di filo spinato. Approdano in un’Europa ove risorgono nazionalismi aggressivi; ove si compete per respingere il massimo possibile di profughi verso il territorio del confederato più vicino; ove a difesa del proprio territorio si arriva a schierare gli eserciti; ove si torna a usare i vagoni blindati per trasportare i profughi oltre i propri confini. Ove, infine, nella “civile” Danimarca, oggi governata dalla destra, si arriva a proporre per legge la confisca dei beni personali dei cittadini stranieri per compensare lo Stato delle spese per la loro assistenza: reiterando così l’ignominia delle confische compiute sotto il regime nazista. Io penso che il riproporsi del razzismo in forme così “classiche” ed esplicite dipenda non solo dagli effetti della crisi economica, ma anche dal fatto che l’Unione Europea, coltivando una sorta di sovra-nazionalismo armato a difesa delle proprie frontiere, non solo ha provocato l’ecatombe di cui sappiamo, ma ha anche contribuito a incoraggiare i nazionalismi “nazionalitari” o etnici, quindi al successo delle destre, anche estreme, in tutta Europa. In questo momento storico, non mi sembra che l’Europa “oscilli” e che abbia tra le sue preoccupazioni principali l’inserimento sociale ed economico dei migranti e dei rifugiati, ma che si sia incamminata verso una china assai pericolosa.
Che rapporto c’è tra l’instaurarsi di un sempre più rigido atteggiamento di chiusura verso l’esterno da parte della cosiddetta “fortezza Europa” e i sempre più pressanti conflitti interni che stanno mettendo in crisi il suo assetto socio economico, anche a causa del progressivo depotenziamento dei sistemi di welfare e protezione sociale?
Penso che le trasformazioni della società, la crisi economica, sociale e identitaria, l’indebolimento dei sistemi di protezione sociale, lo stesso decadimento della democrazia rappresentativa, nonché la crisi morale, culturale e politica dell’Unione Europea non facciano che incrementare, nella potenziale “comunità razzista” (per citare Etienne Balibar), frustrazione, risentimento, rancore, rabbia, aggravati dal senso d’incertezza, d’impotenza e di perdita. Gli imprenditori politici e mediatici del razzismo provvedono poi a socializzare il rancore, indirizzandolo verso chi finisce per essere considerato come occupante abusivo del nostro territorio e della nostra nazione.
In un periodo storico in cui la figura dello studioso in campo umanistico e la sua stessa materia di studio non sembrano più in grado di rivestire un ruolo di indirizzo per la collettività come concilia il rigore della ricerca scientifica e l’impegno politico?
Non so se gli studiosi seri e pensosi abbiano mai avuto qualche influenza rilevante sulla “società civile”, ancor meno dacché televisione e media elettronici sono divenuti i mezzi di comunicazione di massa più influenti. Questi mezzi perlopiù hanno bisogno di e privilegiano la semi-cultura, se non la mediocrità e il conformismo, meglio se accompagnati da esibizionismo. In Italia, quando si lanciano invettive contro il presunto disimpegno degli intellettuali su questa o quella questione sociale o politica (“Dove sono gli intellettuali?”) è a quelli mediatici (o mediatizzati) che ci si riferisce. Degli altri semplicemente s’ignora l’esistenza. Ciò succede anche dalle parti della sinistra: gli studiosi che cercano di conciliare “il rigore della ricerca scientifica con l’impegno politico” hanno poco spazio anche negli organi di stampa più a sinistra. Quindi la domanda più opportuna dovrebbe essere: “Come fa lei a perseverare nella sua ricerca engagée nonostante questo contesto desolante?”
Infine vorremmo chiederle un consiglio di lettura: qualche saggio o un romanzo (non necessariamente tradotto) che possa orientarci riguardo temi complessi come il razzismo e le migrazioni.
A mio parere, uno dei saggi più pregevoli di analisi del razzismo è quello di Colette Guillaumin, L'Idéologie raciste, genèse et langage actuel, Mouton, Paris-La Haye, 1972, ripubblicato da Gallimard nel 2002, purtroppo mai tradotto in Italia. Uno strumento utile per orientarsi sui concetti-chiave è: René Gallissot, Mondher Kilani, Annamaria Rivera, L’imbroglio etnico, in quattordici parole-chiave, Dedalo, Bari 2012 (1997). Un romanzetto ironico, in forma di giallo, d’ispirazione antirazzista e antispecista, è il mio Spelix. Storia di gatti, di stranieri e di un delitto, Dedalo, Bari 2010.
di Alberto Giustiniano