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veca_copertinaLa barca di Neurath. Sette saggi brevi, pubblicato quest’anno per le Edizioni della Normale, è un libro che ad una prima lettura potrà dare l’impressione di una certa frammentazione. L’itinerario che il lettore sarà chiamato a seguire procederà per svolte repentine e salti tematici che a prima vista lo indurranno a credere di essere di fronte a una raccolta di riflessioni tra loro scollegate, non soltanto per argomenti ma anche per gli autori di volta in volta chiamati sulla scena, facenti spesso parte di contesti geografici e accademici reciprocamente alieni. Se sono queste le prime considerazioni che balzano alla mente la ragione è che sempre più raramente siamo abituati a confrontarci con autori in grado di tener conto e servirsi in modo proficuo dei risultati e delle domande fondamentali sorte in ambiti di ricerca diversi da quelli di provenienza. In questa raccolta – che rappresenta il proseguimento di un itinerario iniziato nel 1997 con il suo celebre saggio Dell’incertezza e continuato nel 2011 con L’idea di incompletezza – Salvatore Veca non esamina soltanto questioni recentemente al centro del dibattito della filosofia politica e morale, come il rapporto tra equità, diritti fondamentali e beni comuni o i dilemmi generati da nozioni quali libertà e qualità della vita (capitoli dal 4 al 6), ma si impegna anche nell’analisi della recente querelle tra postmodernismo e nuovo realismo ricollocandola all’interno di una cornice decisamente più ampia, richiamando a quelle risorse concettuali disponibili nell’ormai classico dibattito anglosassone sul tema (capitoli dal 1 al 3).

Alla base vi è il tentativo di testare la validità della sua ricerca sull’idea di incompletezza affrontando questioni filosofiche che hanno a che vedere con i rapporti che intercorrono tra impegni ontologici, epistemologici e normativi. Se è l’incertezza negli ambiti di ciò che vi è, di ciò che vale e di chi noi siamo a chiedere teoria, sia in campo filosofico che scientifico, la natura delle teorie con cui rispondiamo all’incertezza è invece caratterizzata da costitutiva incompletezza sia nell’ambito del valore e dei suoi metodi di giustificazione che nell’ambito dell’interpretazione e della dimostrazione nel caso paradigmatico dei sistemi formali. Entrando più nel dettaglio, possiamo estrapolare dalle dieci proposizioni fondamentali del paradigma di incompletezza – che Veca propone all’inizio del primo capitolo come linee guida per i successivi – due importanti considerazioni preliminari. In primo luogo, «dati i confini di un qualche dominio, si incappa nel riconoscimento della sua incompletezza, quando si accerta, in vario modo, che c’è qualcosa, c’è un eccedenza, un sovrappiù che non è catturabile restando alle risorse disponibili entro il dominio». Questo vale nel dominio dei valori e della loro giustificazione, nel dominio dei fatti e della loro interpretazione, descrizione o spiegazione e in quello dei sistemi assiomatici, dei linguaggi formali e dei metodi di dimostrazione. Ma si badi bene che ha senso parlare di qualcosa di incompleto solo dopo aver soddisfatto l’esigenza di identificazione dei confini;
in altri termini, incompletezza sì ma di qualcosa. In secondo luogo, è necessario fare riferimento a più di un livello linguistico; potrà quindi darsi il caso in cui avremo a che fare con linguaggi e metalinguaggi e sarà proprio a partire da questo riconoscimento che potremo sciogliere i dilemmi dell’autoriferimento, come per la dimostrazione nei sistemi assiomatici formali. Diversamente, nel caso dei sistemi di valori giocherà un ruolo il variabile confine tra ‘noi’ e gli ‘altri’. In casi come questi, puntualizza Veca, «dovremo riconoscere che vi sono valori che non possono essere giustificati con le risorse disponibili entro un dominio, e tuttavia riconoscere allo stesso tempo che si tratta pur sempre di valori». Infine, in merito all’interpretazione e al differente grado di osservazione di fatti, eventi, opere e testi – a distanza per l’osservatore, in prossimità per il partecipante – le proposizioni fondamentali ci suggeriscono il modo di evitare la conclusione scettica secondo cui non ci sono fatti ma solo interpretazioni, e allo stesso tempo l’asserzione ingenua secondo la quale dall’inemendabilità dei fatti possa derivare una chiara quanto necessaria idea di sapere, progresso e felicità.

Se a tal proposito consideriamo il recente dibattito tra postmoderni e nuovi realisti, sostiene Veca facendo soprattutto riferimento al dibattito tra Gianni Vattimo e Maurizio Ferraris inaugurato nel 2011, ci troviamo di fronte a due tesi altrettanto radicali La prima fa riferimento alla previa assunzione secondo cui l’indagine filosofica è in grado di fondare e giustificare idee di tipo etico e politico solo se può immunizzarle rispetto alla storia e al mutamento. Se non è possibile una fondazione o giustificazione del tipo sub specie aeternitatis allora nessuna fondazione o giustificazione è possibile. Da quella che potremmo considerare un’esperienza di delusione deriverebbe dunque sia l’impossibilità di argomentare a favore e contro impegni normativi sia il rifiuto di credere nella verità di enunciati che vertono su stati di cose. Di contro, il nuovo realista, ribaltando la massima nietzscheana, denuncia giustamente i pericoli derivanti dall’aver fatto collassare l’ontologia sull’epistemologia, ma partendo da una bipartizione del mondo in oggetti sociali e oggetti naturali si limita a sostenere un realismo minimalista che ricorda la fisica ingenua. Soltanto nei confronti degli oggetti sociali è possibile aprire al gioco delle interpretazioni mentre è escluso che ciò abbia senso rispetto a quelli naturali. Inoltre dal solo riconoscimento dell’inemendabilità del mondo deriverebbero impegni normativi emancipatori di stampo illuminista. Secondo l’autore, nella loro pretesa di completezza entrambe le posizioni propongono una tesi che restringe oltremodo il campo delle possibilità dell’indagine razionale andando incontro ad un’eccessiva imprecisione argomentativa e ad un’inevitabile vaghezza normativa.

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Nel caso del postmoderno il restringimento alla sola interpretazione a scapito della descrizione – non ci sono fatti ma solo interpretazioni – vanifica la possibilità di tener fede alle promesse di critica ed emancipazione sociopolitica. Certamente riconoscendo il ruolo della contingenza e della storia sappiamo che metodi e criteri di qualsivoglia narrazione non sono immunizzati rispetto al mutamento e alle circostanze, «ma riconoscere che cose come criteri e metodi siano rivedibili e valgano sino a prova contraria non equivale a sostenere che le argomentazioni a favore o contro scelte, condotte, pratiche e istituzioni non si avvalgono di criteri e metodi» che a seconda delle circostanze possono essere migliori o peggiori. Del resto, fa notare Veca, Bernard Williams nella sua celebre lezione del 2000 La filosofia come disciplina umanistica ha mostrato come lo spazio delle ragioni o dei metodi con cui ci impegniamo filosoficamente a difendere o criticare valori e credenze non sia dissolto dal fatto di presupporre una storia ma semmai è proprio sulla base di quest’ultima che siamo indotti a prendere sul serio la controversia e il disaccordo a proposito di ciò che per noi vale. Descrizione e interpretazione vanno di pari passo e soltanto in questo modo possono avere senso come esercizi del pensiero; nel conservare l’attrito con la realtà e garantire il mutamento esse ci permettono di identificare i limiti e le possibilità dell’attività filosofica. Per utilizzare un’efficace formulazione cara all’autore: «qualsiasi fatto può essere un’interpretazione tra le interpretazioni possibili, ma non tutti i fatti lo possono essere congiuntamente». La presenza reale e l’irrevocabilità del passato ci permettono così di non ricadere continuamente nella girandola dell’interpretazione.

La lezione del nuovo realista è invece riconducibile al vecchio adagio di Quine secondo cui ciò che vi è non dipende dal nostro linguaggio, ma ciò che diciamo che vi è . L’inemendabilità del mondo è una tesi non controversa, semmai i problemi iniziano un passo dopo e dipendono dai mutevoli modi di descriverlo e spiegarlo veridicamente che sono esposti a continue trasformazioni e mutamenti; proprio in ciò consiste il compito dell’impresa scientifica che mira a dirci come stanno le cose, com’è fatto il mondo e noi che ne facciamo parte. Alla luce di questi elementi ci rendiamo conto che la bipartizione del mondo in oggetti sociali e naturali e la reclusione della possibilità dell’atto interpretativo solo al primo gruppo ci portano alla sorprendente conclusione per cui gli oggetti naturali non sarebbero altro che «l’arredo di un’ontologia che ricorda la fisica ingenua». Invece noi sappiamo che le scienze hanno molte cose interessanti da dire in merito a questi oggetti e sembra proprio che «la tensione, l’interazione o il corpo a corpo fra indagine filosofica ed esiti della ricerca scientifica siano questioni centrali e ineludibili per definire i mutevoli confini dello spazio per la filosofia oggi». Basti pensare alla costante domanda di teoria generata dagli stessi programmi di naturalizzazione, sia in senso critico quando sembrano ricadere nelle pretese del riduzionismo, sia nella direzione di una qualche forma di compatibilismo rispetto agli esiti che di volta in volta sono raggiunti dall’impresa scientifica. È dall’attrito prodotto dall’incontro con il reale che comincia l’analisi filosofica, nella forma dell’indagine su come questo incontro avviene e su quale sia la sua natura. Niente di più controverso e stimolante se ripercorriamo la rapida carrellata che Veca ci propone dei classici che su questi temi si sono susseguiti negli ultimi decenni: Word and Object di Quine, Philosophical Explanations di Robert Nozick, Representing and Intervening di Ian Hacking, Mind and World di John McDowell, The Conscious Mind e il più recente Constructing the World di David J. Chalmers, Knowledge and its Limits di Timothy Williamson e ancora sul senso dell’espressione «reale» i lavori di Saul Kripke, Robert Stalnaker, David M. Armstrong o David Lewis. Se poi ci concentriamo sulle promesse di emancipazione e sull’annuncio di impegni normativi determinati dalla riscoperta del reale, ci rendiamo conto che il nuovo realista non fornisce indicazioni precise ma si limita al richiamo del nesso tra ragione, progresso e felicità che, come fa notare Veca richiamando alle riflessioni di Pietro Rossi e Giulio Preti, nasce non da una necessità ma dal carattere di possibilità alla luce delle tensioni e delle discordanze che si esercitano e manifestano nello spazio pubblico delle ragioni, per dirla con le parole di Norberto Bobbio.

Riassumendo, se il postmoderno richiama giustamente alla nostra dimensione storicamente situata e contingente, il nuovo realista ci avverte saggiamente che la realtà è comunque inemendabile, che una ciabatta sul tappeto ci farà inciampare e che se usciamo di casa senza ombrello in una giornata di pioggia  ci bagneremo la testa. Detto ciò, elidere lo spazio dei fatti dall’indagine filosofica così come lo spazio delimitato delle interpretazioni dall’ambito degli oggetti naturali sembrano impegni fallaci anche a livello normativo, poiché così facendo «non si preservano le condizioni della scelta tra possibilità alternative sulla base di ragioni». «E questo spazio», continua Veca, «è non solo contingente e storico […] ma è anche severamente delimitato da quanto detta il senso della realtà […]. Nello spazio dei confini mutevoli delle ragioni, contingenza storica e normatività vanno in tandem».

MILANO 2004 / SALVATORE VECA / FILOSOFO/ PHILOSOPHER / © ARMANDO ROTOLETTI

A questo punto potremmo chiederci se il senso della possibilità di cui parla Veca –  magistralmente esposto il 25 marzo 2015 in una lectio tenuta presso l’Accademia delle Scienze di Torino – possa trovare adeguato spazio nei recenti lavori del filosofo tedesco Markus Gabriel che, rifacendosi anche ai lavori di Thomas Nagel, con il suo nuovo realismo ontologico mira a dimostrare l’esistenza dei fatti senza che con ciò sia fissato sin dal principio in che cosa essi consistano, a riprova che il lavoro di perenne ricostruzione che impegna i naufraghi alla deriva sulla celebre barca di Neurath non accenna a fermarsi.

 

di Alberto Giustiniano

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