«L’architettura è un’arte di frontiera. Solo se si accetta la sfida di farsi contaminare, ha ragione di essere. Altrimenti è roba da salotto». Renzo Piano
Nonostante la funzionalizzazione costrittiva che ha iniziato a investire anche questa lingua di terra alberata, continuano a manifestarsi davanti a noi indizi di un diverso utilizzo dell'area e di un passato piuttosto recente: un vecchio divano sotto un acero, un tavolino, qualche scatola di medicine e piccoli suppellettili che richiamano l'intimità della vita domestica. Vedere questi oggetti in un parco è abbastanza peculiare perché non è il luogo che per primo si associa alle scelte di sosta dei senzatetto. Subito verrebbe da pensare che ci fosse fino a poco tempo fa un riparo più stabile, e che forse proprio la presenza degli ingenti lavori abbia minato in qualche modo le vite di chi ne usufruiva.
Un'anziana signora con le buste della spesa ci vede scattare la foto al divano e ci spiega velocemente il perché qualcuno la notte ci dorma, confermando così le nostre deduzioni.
«Eh ragazzi....Ora che è iniziato il bel tempo, anche un posto aperto come questo diventa casa per chi non ce l'ha. E che si deve fare?»
«Perché non ci sono case abbandonate nelle vicinanze?»
«Certo. Fino a sei mesi fa dormivano là, alla vecchia cascina, ma ora che hanno tirato su tutto questo non ce li vogliono.»
«Ma erano in tanti?»
«Sì, avreste dovuto vedere quante luci e i fumi dei fuochi si vedevano la notte. Ora non c'è più nessuno, la notte è tutta buia e hanno cacciato anche quelli che ci facevano l'orto attorno!»
«Ah, c’erano pure gli orti…»
«Ci sono sempre stati da che vivo qua. Una mattina sono arrivati con la ruspa e hanno raso tutto al suolo mentre i signori degli orti stavano a guardare.»
La nostra interlocutrice si riferisce alla Cascina Fossata, imponente casolare seicentesco all'altro lato della strada della stazione, da cui deriva il nome della zona. È un complesso fatiscente ma che mostra ancora quell'antica bellezza georgica che fa dimenticare per un attimo delle vite costrette in quaranta metri quadri, dei parcheggi multi-piano, della voracità del cantiere.
Mentre la stazione di fronte è un segno univoco di futuro che sembrerebbe rigettare qualsiasi connotazione personalistica, la Cascina Fossata è un luogo che accoglie in sé tracce sedimentate di più passati, di storie vissute, di molteplici possibilità di interpretare lo stesso spazio. Secoli fa era un cascinale padronale, diventata poi fortezza e avamposto contro l'avanzata dei francesi; successivamente abbandonata e occupata da uomini e donne dalle diverse provenienze, e orticoltori del quartiere. Nella desolazione attuale sopravvive solo il nome, eredità dei vecchi padroni e punto di contatto con la nuova geografia del potere.
Salutiamo la signora e andiamo a curiosare nei dintorni della cascina: è vero, hanno sgomberato tutti, lo ricorda un piccolo cartello all'ingresso che intima il divieto di entrare a ogni possibile futuro occupante. Ci vien da ridere amaramente al pensiero dei volti, tra l'imbarazzato e il nervoso, di poliziotti che varcano quelle mura, violando l'intimità delle persone che vi vivevano. Ci immaginiamo i furgoni blu, le ruspe e i muratori che “mettono in sicurezza” la struttura, gli occupanti che se ne vanno con i pochi averi, e ce li immaginiamo trasportare il divano dalla cascina fino al parchetto.
Ci ricordiamo che proprio al parco, a un palo non lontano dalle scritte di protesta, vi era affisso con dello scotch un articolo di giornale scolorito. Avviene spesso nelle periferie torinesi che piccole contrarietà al governo urbano passino per biglietti e fogli di giornale lasciati all'attenzione delle intemperie, maggiormente leste di possibili complici. “Che sia un articolo che parla proprio della Fossata?” Torniamo indietro a guardare con più accortezza ma la carta è troppo rovinata. Si parla di un futuro Social Housing e di qualcos'altro che viene ritenuto impellente. L'unica frase leggibile è quella del presidente di circoscrizione: «la rinascita di quel vecchio edificio è un punto d’arrivo importantissimo, sia per le istituzioni del territorio sia per i cittadini. Il lavoro che verrà portato avanti nei prossimi mesi allontanerà per sempre il ricordo di disperati e senzatetto.»
Ecco, allora, che la geografia da passeggio, che in queste righe tratteggiamo già, allude al fatto che gli spazi urbani siano anche il frutto di voli immaginifici dove l'espulsione di persone reali si tramuta nell'eufemismo di un semplice ricordo. Se c'è qualcosa di interessante, in quelle poche righe, è l'intersezione tra spazi reali e spazi immaginati che ci riporta ad alcune tesi sul nevrotico elaborate dalla psicanalisi: come se il ricordo della cacciata dei disperati nascondesse un senso di colpa di cui il discorso sulla rigenerazione urbana non fosse che un tentativo di sublimazione creato allo scopo di porre freno a quello che si suol definire “ritorno del rimosso”.
Non di sogni stiamo parlando qui ma di carne, sangue e ossa sulle quali il presidente non proferisce parola. A chi viveva questo posto, infatti, non resta che trovare un angolo del parco in cui passare la notte quando il tempo lo permette o comprare la frutta e la verdura in uno dei tanti ipermercati della periferia.
Continuiamo la perlustrazione intorno alla cascina: le recinzioni costruite con mezzi di fortuna che delimitavano gli orti sono sostituite dalle reti arancioni da cantiere. L'unica traccia del trascorso utilizzo agricolo sono alcune piante “amiche” dell'orto: nespoli, peri e fichi lasciati a loro stessi. Poco più in là una palma, specie di difficile coltura nel clima torinese, probabile vanto di qualche pollice verde oramai cacciato.
Il prima e il dopo. «Qui dove affonda un morto/viluppo di memorie/orto non era, ma reliquario». Eugenio Montale
Non siamo gli unici a trovarci di fronte a queste rovine, due innamorati e un solitario immerso nella musica siedono nelle panchine proprio di fronte alla cascina. Ma le rovine non sono più la proiezione emotiva che nell'Ottocento accompagnava i viaggiatori teutonici lungo la penisola, non lasciano più spazio a considerazioni sulla finitudine umana, con la loro presenza non riescono a riattualizzare il trascorso fascino e così lo sguardo dei ragazzi scivola indifferente su di esse.
Come l'antica cascina non riesce a evocare riflessioni romantiche in chi la vede quotidianamente, neppure la stazione dirimpetto suscita lo sbalordimento che caratterizzò gli animi parigini durante la costruzione della grande torre d'acciaio del progresso. Ciò che lega le infelicità del presente ai segni del futuro dovrebbe essere una promessa di felicità universale, seppur mendace, come quella che accompagnò la modernità industriale. Tuttavia nel presente delle persone che abbiamo incontrato qua attorno non risuona l'eco di questa promessa perché hanno tutti gli indizi per sapere che quel futuro non sarà per loro. Neppure lo sguardo dell’angelo rivolto al passato, seppellito da ruspe e sgomberi, pare essere sufficiente a rianimare le loro prospettive. Come nelle immagini restituite dalle telecamere di sorveglianza della stazione, qui il tempo appare una ripetizione di fotogrammi vuoti.
«La lieta novella che lo storico, con il respiro ansante, reca al passato, viene da una bocca che forse, già nell'attimo in cui si apre, parla nel vuoto». Walter Benjamin