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Philosophy Kitchen

Potremmo pensare che filosofi e artigiani facciano due mestieri molto diversi, che hanno davvero poco a che vedere l’uno con l’altro: il primo infatti pensa, scrive e parla mentre il secondo fa, produce e manipola. Forse proprio per questo è poco usuale, per i filosofi, interrogarsi sul nesso tra la loro attività abituale, il pensiero, e il fare che segna tanto il lavoro dell’artigiano quanto la più comune prassi quotidiana. Ed è forse altrettanto poco usuale per un operaio o un artigiano chiedersi in che modo, nella sua attività di produzione, egli stia anche pensando. Eppure si tratta di una questione straordinariamente feconda, ci insegna Tim Ingold nel suo Making, prima opera dell’autore ad essere interamente tradotta in italiano a cura di Gesualdo Busacca per Raffaello Cortina (Milano, 2019, pp. 262). Il testo scaturisce dall’esperienza di un corso universitario tenuto da Ingold a partire dal 2004 nella facoltà di Antropologia dell’università di Aberdeen, intitolato: Le quattro A: Antropologia, Archeologia, Arte e Architettura. Più volte ripreso e messo da parte nel corso degli anni, Making esce per la prima volta nel 2013 e riprende l’ossatura teorica di Being alive (2011), la raccolta di saggi in cui si sviluppa un originale percorso teorico mosso dall’esigenza di riavvicinare l’antropologia alla vita. Ciò che però contraddistingue Making, rispetto a questa raccolta, è l’intimo legame che la riflessione intrattiene con l’esperienza al contempo didattica e di ricerca dell’insegnamento universitario. Ingold intende spingersi ben oltre la trasmissione di nozioni ridotte a rappresentazioni astratte, ferme e chiuse; è piuttosto interessato a coinvolgere i suoi studenti in percorsi di movimento nell’ambiente che aprano ad esso in un atteggiamento di ascolto ed esplorazione. Il gruppo si educa così a una forma di attenzione percettiva che permette di porsi sulle tracce delle cose che abitano il mondo tramite una paziente e scrupolosa raccolta di indizi. Gli studenti, infatti, erano chiamati non solo a seguire lezioni frontali, ma soprattutto a cimentarsi in esperienze di manipolazione di materiali e costruzione di oggetti nel corso di esperimenti e laboratori collettivi sempre accompagnati da momenti di restituzione e discussione. Le quattro A intrecciava dunque attività di produzione ed elaborazione riflessiva, facendole scaturire come momenti di una conoscenza trasformativa che si innesta sui percorsi vitali delle cose e si sviluppa con essi. Questo lavoro dà origine alla pratica di formazione collettiva nella quale prendono corpo le idee che animano il libro. Nell’ambito di un corso universitario, volto comunemente a produrre tramite il pensiero, Ingold e i suoi studenti imparano ad imparare in un altro modo, ossia a pensare tramite il produrre.

Che cosa significa dunque produrre? Quale forma di conoscenza si esercita nell’attività di produzione? E ancora, cosa si intende per cooperare con le cose al fine di conoscerle e conoscersi? Ponendosi queste domande, Ingold elabora nel saggio un’ecologia del produrre che si incarna in un ambiente formato da materiali fluenti e forze che li orientano.

I capitoli iniziali intendono definire la forma di conoscenza ricercata dall’autore nel suo intimo rapporto con la materialità. Questa nozione è illustrata a partire da una critica della distinzione dicotomica tra forma e materia promossa dal modello ilomorfico di origine aristotelica, che implica una concezione fuorviante tanto della conoscenza quanto della produzione. L’obiettivo dell’argomentazione è superare lo sradicamento e la staticità della conoscenza rappresentativa, puramente astratta rispetto all’essere di cui vuole appropriarsi trascendendolo (p.20). Se la conoscenza non è che un apparato teorico esterno, che rappresenta la realtà attraverso una giustapposizione di dati quantitativi o qualitativi, essa si distanzia dalle condizioni vitali che determinano il suo emergere illudendosi della propria autonomia e impedendo ai suoi operatori di «essere nello stesso mondo che si propongono di conoscere». La conoscenza è invece un processo sempre situato in una forma di vita che abita un ambiente e agisce con esso. Recidere questi legami, in una presunta dinamica di emancipazione, significa condannarsi a smarrire qualsiasi contatto con l’essere cui l’atto conoscitivo si rivolge. Ingold intende quindi il conoscere come intrinsecamente guidato da un impegno ontologico che rispecchia il coinvolgimento pratico e sensoriale in cui la conoscenza prende forma. Tale conoscenza viva e immanente si innesta su processi che in essa proseguono e assumono nuove forme, invece di essere rappresentati simbolicamente. Al contrario, una conoscenza astratta, rappresentativa e simbolica in-forma dall’esterno la materia inerte, proprio come nell’atto di produzione una forma mentale costituita a priori rispetto a qualsiasi coinvolgimento materiale permette di dare forma alla materia passiva. L’ilomorfismo coglie il polo formale e l’elemento materiale di una particolare dinamica morfogenetica come entità astratte e prive di storia, dotate di una funzione rigida univocamente determinata: da un lato l’imposizione della forma e dall’altro la sua passiva ricezione. Eppure, come dimostra Gilbert Simondon in un testo essenziale nella trama teorica di Making (Simondon, 1964, 1989, 2005), nel ciclo di produzione dei mattoni tanto l’argilla quanto lo stampo in cui è cotta costituiscono momenti di un processo di trasformazione che modula dei materiali, inserendoli in un campo di forze dove cooperano e diventano effettivi rendendo possibile l’emergere di una nuova forma. Non si tratta dunque di imporre una forma mentale trascendente ad una materia inerte che attende di essere informata, ma di contrapporre forze e materiali in un sistema che da una situazione entropica giunge a produrre una momentanea configurazione di equilibrio.

L’autore intende così oltrepassare il paradigma della produzione transitiva intesa come conversione di immagini in oggetti, seguita dal consumo come speculare conversione di oggetti in immagini (Ingold, 2011, p. 9). Il modello ilomorfico che qui opera veicola dunque una concezione simbolica della rappresentazione, secondo cui l’immagine traspone l’oggetto sul piano formale, isolandolo dal contesto e permettendogli così di raggiungere il piano dell’astrazione coscienziale. Ingold invita il suo lettore a cambiare radicalmente prospettiva. Dalla correlazione tra due punti posti l’uno accanto all’altro, l’immagine rappresentante e l’oggetto rappresentato, si dovrebbe spostare lo sguardo ai flussi dei quali i due punti sono configurazioni momentanee: il flusso della coscienza e il flusso dei materiali (p. 44). I percorsi individuali della coscienza senziente penetrano, infatti, in un mondo di materiali che a loro volta fluiscono. Immagini e oggetti sono grani puntuali in cui i flussi si cristallizzano. Essi si corrispondono in un precario equilibrio simbolico, significativo solo a condizione che si recidano i legami di ciascun grano con la dinamica processuale da cui emerge. È perciò inesatto parlare di materia e forma come istanze contrapposte e individuate indipendentemente l’una dall’altra, poiché si tratta di funzioni in una dinamica complessa di morfogenesi e individuazione. La produzione va intesa intransitivamente, come dispiegamento di cose, forme di vita e materiali che nell’incontro dei loro percorsi stabiliscono le condizioni della propria crescita (Ingold, 2011, p. 8). La materia, di conseguenza, consiste nell’attività stessa di emergenza della forma, in una serie di trasformazioni in cui si succedono assetti temporaneamente stabili e fasi critiche che rompono gli equilibri aprendo nuove configurazioni possibili del sistema. I materiali in divenire raccontano così una storia di successive prese di forma. Per questo le loro proprietà non possono essere espresse da attributi statici che catturano in una definizione univoca ciò che i materiali sono, ma piuttosto da storie che raccontano ciò che i materiali fanno (p. 58). Conoscere un materiale significa dunque partecipare alla sua storia, deviando il suo flusso tramite l’esercizio di una forza modulata ed entrando così in corrispondenza con esso (Ingold, 2011, p. 32). In questa prospettiva, nella sezione centrale del volume, Ingold indaga l’attività dei materiali e le possibilità di rapporto con essi in alcuni contesti specifici, come l’industria litica preistorica e l’architettura medievale. La riflessione sui processi di progettazione e costruzione prende corpo nel racconto di storie in cui i materiali sono protagonisti. Queste storie sono refrattarie ai progetti di classificazione che dipingono, attraverso attributi oggettivi e misurabili, entità dotate di un’essenza costituita a priori rispetto alla loro azione e al loro movimento nell’ambiente.

I due densi capitoli conclusivi esplorano le potenzialità, al contempo produttive ed espressive, della mano nel gesto tecnico. La corrispondenza con i materiali nella prassi produttiva è colta in rapporto a vari esempi di produzione tecnica, alcuni classici come la lavorazione della ceramica al tornio, altri tratti dall’esperienza didattica del corso come la costruzione di ceste di vimini o la realizzazione di corde con foglie di palma intrecciate.

In queste situazioni l’azione di un operatore senziente, mediata da uno strumento, si rivolge a un materiale. La percezione visiva e aptica dell’operatore serve ad accordare il gesto di manipolazione alle proprietà del materiale, dando luogo ad un campo di forze che rende effettivo un dialogo ritmico tra gli organi corporei, il materiale e lo strumento tecnico. La produzione consiste dunque in una prassi di coinvolgimento sensoriale attivo tra elementi che nel gesto entrano in corrispondenza e diventano realmente produttivi, poiché innescano un processo di modulazione generatore di forme. I palmi delle mani e i polpastrelli sensibili che modellano l’argilla collaborano con gli occhi attenti che ne osservano la superficie nell’interrogare il materiale per scoprirne le disposizioni e andare loro incontro, facilitando l’interazione. L’attenzione percettiva permette all’artigiano di cogliere i suggerimenti del materiale stesso, modulando su di essi il proprio gesto, mentre il tornio amplifica le possibilità di manipolazione. Si instaura così una sinergia gestuale che attualizza una possibilità di sviluppo insita nella messa in risonanza dei ritmi della coscienza sensoriale e del flusso materiale (p. 84). La forma emergente non è dunque racchiusa in un’idea a priori preesistente alla pratica, ma affiora nel processo di strutturazione della corrispondenza in atto. Se qualcosa l’anticipa, non sono soltanto le intenzioni dell’artigiano ma allo stesso modo le configurazioni latenti nei materiali stessi, anch’essi artefici.

In questa dinamica le cose esercitano un ruolo trasduttivo, ossia operano una forma di mediazione che permette di agganciare il flusso della coscienza cinestetica al flusso del materiale (p. 174). La trasduzione è il punto di raccordo tra due percorsi continui e persistenti, il cui procedere autonomo si arresta in una costellazione di forze che reindirizza le traiettorie aprendo nuovi sviluppi possibili. Il tornio consente infatti di tradurre il movimento della mano nel flusso materiale dell’argilla; analogamente uno strumento musicale, un violoncello ad esempio, permette di convertire il movimento del braccio e la presa della mano del musicista in una trama sonora, modulata dall’attività trasduttiva dell’archetto che sfrega le corde e della cassa di risonanza.

Per comprendere fino in fondo la portata teorica della tesi secondo cui la corrispondenza è l’essenza del produrre, non resta che cogliere in tutta la sua ampiezza il significato di corrispondenza e produzione. La riflessione finale dedicata alla linea e al gesto di tracciarla va proprio in questa direzione. Produrre significa, infatti, prodursi come forme di vita lungo un cammino lineare di crescita, in un mondo che non è lo sfondo su cui si stagliano i percorsi individuali ma il risultato del loro aggrovigliarsi. La corrispondenza con i materiali e con le cose nel processo di produzione rivela quanto i contorni dell’organismo vivente siano porosi e permeabili, quanto esso ecceda essenzialmente il suo presunto dentro per proseguire nel fuori la propria individuazione. Se dunque nell’interazione le cose puntuali si collegano instaurando una relazione reciproca esterna ad esse, nella corrispondenza le cose si generano come nessi trasduttivi tra dinamiche relazionali. Gli individui che inter-agiscono sono i punti tra i quali ha luogo l’azione, gli individui che con-rispondono sono linee di sviluppo che si accordano l’una con l’altra. Se volessimo rappresentare graficamente questi due modi di concepire la trama dei movimenti vitali avremmo da una parte un network, una rete e dall’altra un meshwork, un reticolo (p.222). Nel network troviamo dei punti nodali circoscritti, pensiamoli come piccoli cerchi dal contorno marcato, dotati di un’agency che permette loro di agire attivamente influenzando il corso degli eventi e il comportamento degli altri agenti. Immaginiamo ora di aprire le linee di contorno dei nodi, trasformando i cerchi in linee curve ormai prive di un interno e un esterno: ecco comparire il meshwork, figura con cui Ingold chiude il libro. Ciò che nel network è fuorviante, sino a costituire una “logica dell’inversione” che impedisce di comprendere il vivente, è il fatto che i percorsi lungo i quali procede il movimento della vita diventano i limiti entro i quali è contenuto (Ingold, 2011, p. 148). Le linee aperte del meshwork tracciano invece i percorsi di crescita e movimento lungo i quali la vita si sviluppa; non contengono o possiedono l’agency ma abitano un mondo intimamente animato. Essere in corrispondenza con un mondo animato non significa interagire con esso, descriverlo o rappresentarlo, ma interpellarlo e rispondergli.

Ripensiamo ancora un momento ai filosofi e agli artigiani nell’esercizio delle loro attività.

Ingold ha illustrato le possibilità di un pensiero artigianale che affiora nella sinergia tra il corpo, il materiale e gli strumenti di lavoro nel gesto produttivo. Potremmo chiederci, in conclusione, in che modo gli operatori del pensiero teorico producano a loro volta. Molte sono le risposte possibili, ma in un momento in cui la teoria ha l’urgenza – anche politica – di corrispondere al proprio contesto ecologico, ci sembra che Ingold colga qualcosa di importante. Il pensiero teorico non può più avere la vocazione di trascendere il reale per tradurlo in forma concettuale, deve al contrario innestarsi su di esso come percorso di crescita possibile, proprio come nella pratica agronomica dell’innesto un nuovo ramo è saldato ad una pianta e penetra nel suo sviluppo favorendone la crescita. Ciò che Ingold sembra avere imparato, forse proprio insegnando, è questo modo di esercitare il pensiero che si radica in un processo produttivo e, a partire da una prassi di interrogazione e ascolto di cose e materiali, pratica su di esso un innesto.

 

Bibliografia

T. Ingold, Being alive. Essays on Movement, Knowledge and Description, Abingdon 2013.

T. Ingold, The Life of Lines, Abingdon 2015.

A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, tr. it. a cura di Franco Zannino, Einaudi, Torino 1977.

L. Malafouris, How Things Shape the Mind. A Theory of Material Engagement, The MIT Press, Cambridge 2013.

G. Simondon, L’individuazione alla luce delle nozioni di forma e di informazione, tr. it. a cura di Giovanni Carrozzini, Mimesis, Milano 2011.

 

 

di Ada Tenuti

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