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PK#21 \ settembre 2024
a cura di Carlo Deregibus e Aurosa Alison
Siamo abituati a guardare alle forme dell’architettura come portatrici di significati. Quello tra forma e significato era un nesso così ovvio, così connaturato alla costruzione e alla realtà sociale, da rimanere perlopiù implicito, premessa a qualsiasi discorso e trattato. Valeva nell’architettura classica come in quella medievale, in quella egizia come in quella barocca, in quella moderna come, persino, in quella propriamente detta postmoderna. Solo in tempi relativamente recenti, quando il postmodernismo fa vacillare non tanto quel legame, quanto la la sua univocità, il significato diventa un problema per l’architettura. Da un lato, perché la missione del Moderno, così assoluta da polarizzare qualsiasi dibattito, si rivela alla prova del tempo quantomeno aleatoria. Dall’altro, perché si avvertono i primi sentori di quel cambiamento, fatto di globalizzazione e moltiplicazione del pensiero che diverrà travolgente nel nuovo millennio. Nasce cioè l’idea che la forma sia parte di un sistema di comunicazione di significati, più che la latrice di un univoco messaggio.
In questo contesto usciva in Italia, ormai 50 anni fa, Il significato in architettura, curato da Charles Jencks e Georges Baird e pubblicato a Londra cinque anni prima. Raccoglieva una quindicina di testi tra loro spesso in contrasto, editati e commentati, che indagavano il significato da vari punti di vista: secondo approcci semiotici o fenomenologici, con accenti teoretici od operativi, con critiche o proposte, i testi tracciano una storia del significato possibile. Tanto che proprio il contrasto, a volte violento ed esplicitamente sobillato dai curatori, diventa il tratto più distintivo del volume: un contrasto reso possibile dalla convinzione, vana, che fosse ancora possibile definire il rapporto tra significato e forme.
Cosa resta, cinquant’anni dopo, di quel dibattito? Poco, in effetti. Lungi dall’essere sparito dai radar degli architetti, in questi decenni il significato si è moltiplicato in rivoli talmente frammentati da non permettere più una geografia culturale precisa. Nuovi significati - la globalizzazione appunto, ma anche i temi dell’antropocene, della gentrification, delle ecologie, della resilienza, dei gender studies, e così via - offrono infinite possibilità di teorizzazione, sempre legate a pratiche tra loro distinte, separate e che non comunicano. Ma che si considerano tutte Architettura. È uno sfilacciamento riflesso anche dalle teorie sull’arte e dalla crescente distanza tra arte e mercato, tra significato e esperienza, tra percezione e comprensione. Eppure, continuiamo a progettare, a produrre e a criticare l’Architettura, continuamente attribuendo alle sue forme significati, e rivestendola di intenzioni e speranze.
Così, questo numero di PK esplora, una volta di più, questa sfuggente ma insieme ineludibile relazione tra significato e architettura. Lo fa secondo tre assunti metodologici. Il primo è che, lungi dall’essere scomparso, il significato oggi ecceda, e largamente, la forma, e dunque sia sempre e di nuovo possibile riscoprire e riprogettare la loro relazione: certo quel legame muta a velocità variabili, secondo sistemi diversi la cui reciproca irritazione produce cambiamenti spesso imprevedibili, ma tuttavia esiste. Il secondo è che le dimensioni teoretica e pratica dell’architettura non siano pensabili separatamente, se non come coppia oppositiva derridiana: il progetto dell’architettura deve essere sempre inteso nella sua dimensione performativa e secondo gli effetti che questo produce, e la distinzione tra progetto e progetto di architettura è ad essi strettamente quanto problematicamente legata. Il terzo è la dimensione sistemica dell’architettura, che deve essere intesa nelle sue condizioni socio-tecnico-economiche: questo vale sempre, storicamente, e oggi implica una relazione costitutiva con un pervasivo sistema neoliberale, un confronto con una dimensione produttiva che cancella le tensioni artigianali, e la modifica delle modalità di produzione del progetto che, circolarmente, ne stravolgono concezione e quindi significato. Le connessioni tra i tre assunti - ad esempio nella tensione tra agire individuale e dimensione sistemica, da cui emerge una valenza tattica e strategica del progetto - sono altrettanto decisive.
Le proposte possono affrontare il tema del significato in architettura da una prospettiva ontologica ed epistemologica, anche con una prospettiva storico-critica, oppure rientrare in uno dei quattro nuclei tematici qui enucleati, anche esplorandone connessioni e interrelazioni e trattandoli da diversi punti di vista - storico, teoretico, critico:
- Nuove forme del significato. I luoghi sono sempre stati collettori del senso di comunità, sia in senso simbolico sia in senso esperienziale. Come coordinare il continuo moltiplicarsi di forme di socializzazione reale e digitale (dal metaversale alla visual turn) con l'aspetto ontologico e reale della progettazione? Sulla scorta della retorica di una democratizzazione dei processi comunicativi, sociali e relazionali, è davvero possibile innestare un significato nello spazio pubblico, o questi progetti non fanno altro che illudere i partecipanti di farlo? È il processo, o il programma, a dare un significato a un’architettura in cui le forme non hanno rilevanza alcuna se non come trasposizione tecnica o, al contrario, l’architettura va considerata e trattata come un palinsesto che vive persino indifferentemente dagli usi, diventandone uno sfondo neutrale? Nel mezzo, un’infinita sfumatura di pratiche e approcci.
- Nuovi significati delle forme. Vorremmo riflettere su quei significati che più sembrano trasversali e sostanziali nell’impattare l’architettura. Il primo è ascrivibile al tema della sostenibilità: ad esempio, come superare pratiche estetizzanti e approcci puramente prestazionali e sviluppare una dimensione autenticamente ecologica del progettare? È un tema di norme, di cultura, di azioni, di tecniche, di approcci, di forme, di strategie, o ancora di altro tipo? Il secondo è il cosiddetto design for all, che raccoglie questioni pratiche - come l’accessibilità - e culturali - come l’urbanistica di genere - e che però, curiosamente, si sostanzia in limitazioni burocratiche variamente normate: quasi che il progetto non definisse, ontologicamente, i limiti di qualche libertà. Come superare questa visione, aggrappata a una logica di tutela dei gruppi di minoranza, per sviluppare il tema della libertà nel progetto e nelle forme?
- Resilienza dei significati. C’è Architettura e architettura. Gran parte dei progettisti nel mondo non si occupano di quelle rare opere “straordinarie” (auditorium, chiese, musei), cioè i tradizionali portatori di significati condivisi: bensì di ordinarie, comuni, quotidiane costruzioni. Non parliamo dell’ordinario sperimentale e d’élite esplorato dagli architetti di punta, ma proprio della pratica comune, di quel significato che nasce e si sostanzia in una continua variazione e ripetizione, nel real estate come negli slum. Spogliata dalle stratificazione semantiche dell’Architettura, resta cioè un’architettura: lontana dalle accademie e dalle pagine patinate, ma che traccia il nostro mondo. A livello ontologico e pratico, il progetto di questa architettura è diverso da quello di Architettura? E in che modo si evolve, ad esempio guardando all’ascesa impressionante dei software basati sull’Intelligenza Artificiale?
- Resilienza delle forme. Il costruito ha una immensa capacità resiliente. Certo, non sempre questa va d’accordo con gli usi, e i significati di quelle forme. Il caso italiano è emblematico, tra tensioni verso la rigenerazione e l’esigenza di tutela e conservazione del patrimonio. Casi come Palazzo dei Diamanti a Ferrara o lo stadio Meazza a Miano sono solo le evidenze mediatiche di un problema diffuso e in inevitabile crescita: lo scontro tra valori e significati diversi, che si sovrappongono nelle forme. La risposta è nella qualità del progetto? Oppure in quella del processo? È un problema di procedure e soggetti decisori, oppure di proposte e gestione? In che modo significati sempre più essenziali e inconciliabili - ad esempio la fruizione dei beni storici, la sicurezza in caso di sisma, il risparmio energetico, il costo degli interventi, vincoli antincendio, di accessibilità e così via - si intersecano nelle forme?
È nostra intenzione, in omaggio al tratto più distintivo de Il significato in architettura, promuovere una circolazione dei contributi tra gli autori prima della pubblicazione, in modo da raccogliere commenti specifici da parte di tutti gli autori e offrire una possibilità di controreplica ai commenti da parte degli autori stessi. Un dibattito interno al volume, unico quanto prezioso.
Bibliografia:
Ando, T., (1990), Complete Works, Taschen
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Boudon, R. (1984). La place du désordre. Critique des théories du changement sociale. Paris: Presses Universitaires de France.
Chia, R. & Holt, R. (2011). Strategy without Design: The Silent Efficacy of Indirect Action, Cambridge: Cambridge University Press.
Deregibus, C. (2016). Intention and Responsibility. Milano: IPOC.
Derrida, J. (2008). Adesso l’architettura. Milano: Scheiwiller, 2008.
Haraway, D. (1985). Manifesto for cyborgs: science, technology, and socialist feminism in the 1980s. Socialist Review, no. 80, 65-108.
Holl, S., Pallasmaa, J. & Perez-Gomez (2007). A. Questions of Perception: Phenomenology of Architecture. San Francisco: William K Stout Pub.
Jencks, C. & Baird, G. (ed) (1974). Il significato in architettura. Bari: Dedalo.
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Koolhaas, R. (1978). Delirious New York. A Retrospective Manifesto for Manhattan. New York: Oxford University Press.
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Pareyson, L. (1954). Estetica. Teoria della formatività. Torino: Edizioni di Filosofia.
Ponti, G. (1957). Amate l’architettura. Genova: Società Editrice Vitali e Ghianda (Quodlibet, 2022).
Preciado, P. B. (2020). Un appartamento su Urano. Cronache del transito. Roma: Fandango libri.
Preciado, P. B. (2022). Dysphoria Mundi, Paris: Grasset.
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Ward, C. (1973). Anarchy in Action. London: Freedom Press.
Windhoff-Héritier, A. (1992). City of the Poor, City of the Rich: Politics and Policy in New York City. Berlin: de Gruyter.
Procedura:
Per partecipare alla call, inviare all'indirizzo redazione@philosophykitchen.com, entro il 16 luglio 2023, un abstract di massimo 4.000 caratteri, indicando il titolo della proposta, illustrando la strutturazione del contributo e i suoi contributi significativi, e inserendo una bibliografia nonché una breve biografia dell’autore o dell’autrice.
L'abstract dovrà essere redatto secondo i criteri scaricabili qui [Template Abstract], pena esclusione.
Le proposte verranno valutate dai curatori e dalla redazione. I contributi selezionati, che saranno sottoposti a double-blind peer review.
Lingue accettate: italiano, inglese, francese.
Calendario:
- 16 luglio 2023: consegna degli abstract
- 03 settembre 2023: comunicazione degli esiti
- 17 dicembre 2023: consegna dei contributi selezionati
- 03 luglio 2023: comunicazione degli esiti della selezione
- Primavera 2024: circolazione dei pezzi tra gli autori
- Settembre 2024: pubblicazione del volume
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Se riconoscere il superamento del progetto artistico dall’alterità di cause determinanti benché inavvertite sembra ormai essere un luogo comune delle rappresentazioni del fare artistico (si pensi alle diverse teorie di ispirazione divina, a quelle di involontario condizionamento ideologico, alla postulazione dell'esistenza di una logica dell'inconscio), l'implicazione del caso quale causa della produzione artistica non consente di accedere a un'interpretazione dell'opera come manifestazione di determinazioni essenziali, sociali o psicoanalitiche. In altre parole, il riconoscimento di una parte di caso nel processo creativo implica modalità di significanza per le quali l'identificazione di un progetto diventa altamente problematica.
Although acknowledging that any artistic project is necessarily exceeded by the alterity of determining causes is quite a mundane way of representing the artistic fact (one thinks of the various theories of divine inspiration, of involuntary ideological conditioning, of the postulation of the existence of a logic of the unconscious, etc.), the implication of chance as the root cause of a work raises a critical issue since it rules out any interpretation of the work either as a manifestation of a truth that would have been pre-existing in god, or as a social or psychoanalytical determination of the forms produced and interpreted. In other words, the recognition or claiming of a measure of chance seems to imply modes of signifiance for which the identification of a project becomes problematic.
A cura di Benoît Monginot, Stefano Oliva e Sébastien Wit
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English version
DOI: https://doi.org/10.13135/2385-1945/14.2021
Pubblicato: marzo 2021
Indice
INTRODUZIONE
Benoît Monginot, Stefano Oliva, Sébastien Wit - Tra caso e progetto: alea e forme di soggettivazione nelle pratiche artistiche [PDF It]
I. Forma e alea nelle arti performative
Alessandro Bertinetto - (Caso) per caso. La contingenza nell'improvvisazione artistica [PDF It]
Veronica Cavedagna, Alice Giarolo - Il movimento: tutto qui. L’ordine aleatorio delle macchine danzanti [PDF It]
Alberto Giustiniano, Carlo Deregibus - Progetto e ricerca della forma. Dall'aleatorio ai campi di validità [PDF It]
Daniela Angelucci - L’infallibilità dell’improbabile: dipingere, camminare, filmare [PDF It]
Mauro Folci, Stefano Oliva, Guido Baggio - Intervista a Mauro Folci [PDF It]
II. Toccare il codice: processi e alea
Sylvain Reynal - Entre processus stochastiques et métriques d’évaluation : l’IA-créatrice à l'épreuve de l'étrangeté [PDF Fr]
Rodolphe Olcèse - L’image du monde en son infinition. L’aléa dans la pratique filmique de Jacques Perconte [PDF Fr]
Alice Iacobone - The Strategy of Genesis. On the Productive Power of Artistic Iteration [PDF En]
III. Scritture contingenti - caso e letteratura nel Novecento
Jean-Pierre Zubiate - Face au hasard : ouvraisons poetiques au XXe siecle [PDF Fr]
Sibylle Orlandi - Coup de « dé » et « lois du hasard » dans les créations poétiques et plastiques de Ghérasim Luca [PDF Fr]
Sébastien Wit - Hasard et orient au XXe siecle. Les controverses artistiques Boulez / Cage et Queneau / Breton [PDF Fr]
Paulo Fernando Lévano - Decolonizzare la lettura. Indecidibilità nella prosa rioplatense (1960-1969) [PDF It]
IV. Coda: les jeux sont faits
Anne Duprat, Benoît Monginot, Sébastien Wit - « Le hasard ne fait rien au monde – que de se faire remarquer ». Entretien avec Anne Duprat [PDF Fr]
V. Varia: focus su Guillaume Artous Bouvet
Guillaume Artous-Bouvet - Lieu (Artaud, Jabès) [PDF Fr]
Benoît Monginot - Infondatezza di una pratica discorsiva. Su "Poésie et Autorité" di Guillaume Artous-Bouvet [PDF It]
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Aldo Rossi – L’architettura della città
Recensioni / Giugno 2019Recensire questa ristampa de L’architettura della città scritta da Aldo Rossi e pubblicata in prima edizione nel 1966, per noi architetti, implica grossomodo lo stesso sentimento misto di timore e noia che potreste provare voi di fronte a Essere e tempo o lo Zarathustra. Cosa si può dire, o meglio aggiungere, a ciò che è già stato detto in molteplici e svariati modi fino a generare una ciclopica orografia di interpretazioni? Cosa si può dire di più? Ci poniamo quindi di fronte al fatto in sé: una ristampa fedele alla prima edizione del libro. Partiamo quindi da qui, dal 1966, anno in cui la casa editrice Marsilio dà alle stampe questo libro che si colloca nella collana "Biblioteca di architettura e di urbanistica".
Uscire per Marsilio aveva già un significato di per sé importante perché questa casa editrice, nel corso degli anni Sessanta e Settanta, si presentava come un importante veicolo di diffusione della cultura architettonica italiana e del suo dibattito avente come protagonista una nuova figura di architetto: intellettuale prima e professionista poi. Architetti quindi che scrivono e progettano allo stesso modo, senza manifestare una prevalenza tra le due attività. Non è che tutto ciò suoni particolarmente nuovo; anche gli architetti che li avevano preceduti scrivevano libri e trattati (l’attuale interesse per il tema ben si riflette nel recente libro di Marco Biraghi L’architetto come intellettuale, Einaudi 2019). Nonostante ciò, se fino a quel momento scrivere riguardava in primis le poetiche dell’architettura, per gli architetti-intellettuali degli anni ’60 l’obiettivo era un altro e aveva come focus la città. Volumi come La Torre di Babele (1967) di Ludovico Quaroni e La costruzione logica dell’architettura (1967) di Grassi, pubblicati entrambi per Marsilio, esprimevano un tentativo che Aldo Rossi, forse meglio di tutti gli altri, era riuscito ad esprimere, ovvero: mettere in scena l’architettura come un carattere della città fisica che non ha nulla a che vedere né con l’amministrazione urbanistica pianificata dai burocrati, né gli standard edilizi sponsorizzati dall’industria delle costruzioni, e nemmeno le intenzioni (‘quasi sempre’ buone ma altrettanto ‘quasi sempre’ ineffettuali) dei maestri dell’architettura.
A poche righe dall’inizio di questa recensione, ci siamo già spinti troppo in là. D’altronde la storia di questo libro è talmente pregna di aneddoti e vicende da aprire una mole notevole di discorsi che si ripresentano come tutti importanti a tal punto da perdere ogni volta il filo della matassa che si vorrebbe dipanare. In ogni caso, questo groviglio di discorsi non ha alcun legame con l’operatività che ci si attende prosaicamente da un libro di architettura, cioè un libro scritto dagli architetti per altri architetti che (di norma) progettano e che vorrebbero trovare nei libri uno spunto per questa attività. In realtà, qualcuno ci aveva provato a dare un taglio manualistico al libro; ci riferiamo all’edizione del 1978, curata da Daniele Vitale per la casa editrice Clup. Dalle 215 pagine a cui ammontava originariamente, si era giunti a ben 350 pagine, di cui 30 di nuove note e altrettante in cui si raccoglievano le varie introduzioni redatte da Rossi in occasione delle edizioni straniere. Canonizzare questo testo nel vocabolario dottrinale dell’accademia non poteva che avere questo effetto collaterale adiposo. Un appesantimento a cui seguiva, già dall’edizione successiva del 1995, un dietrofront con cui si tornava al numero di pagine originario; e così Il Saggiatore ce lo ripresenta oggi con un’immagine di copertina che non ha nulla dell’originale sapore di collage analogico della prima edizione, con la pianta di una città cinquecentesca sovrapposta a una figura astratta, bensì un dettaglio fotografico della facciata dell’edificio residenziale del Quartiere Schützenstraße di Berlino, realizzazione fedele di un progetto di Rossi degli anni ‘90.
Se il libro è rimasto quello che era all’origine, una montagna di eventi, di pubblicazioni più o meno cerimoniose si sono depositate nella sua immediata periferia. In questi ultimi anni, le occasioni di parlare e pubblicare raccolte di saggi su L’architettura della città non sono mancate. Ci riferiamo per esempio, al collettaneo Aldo Rossi, la storia di un libro: l'architettura della città, dal 1966 ad oggi (2014), curato da Fernanda De Maio, Alberto Ferlenga, Patrizia Montini Zimolo per le edizioni IUAV; o al gruppo di architetti che si è riunito attorno al magazine San Rocco che ha riportato al centro del dibattito una certa fascinazione per l’architetto che scrive oltre a progettare (il volume 14, uscito nel 2018 e intitolato “66”, si ispira proprio a libro di Rossi).
Insomma, di Aldo Rossi se ne è parlato tanto e se ne continua a parlare al punto che sorge spontanea la domanda: non ne avevamo già sentite abbastanza su L’architettura della città? Sì, è evidente, ne abbiamo sentite tante, forse troppe… al punto che lo vediamo come un catino stracolmo che tende a tracimare al solo pensiero di sollevarlo per vedere cosa ci sta sotto.
Quindi, avviandoci a questa recensione abbiamo pensato che fosse meglio lasciar perdere per un attimo tutto ciò che è stato detto sul libro. Altrimenti non avremmo mai iniziato.
Ci siamo posti cioè nell’ottica di guardare al libro con lo stesso spirito con cui Rossi ha guardato alla città e ai luoghi della Pianura Padana, ovvero con una certa simpatia per le cose semplici, un amore spontaneo che accomuna i luoghi fragili alle grandi città. Un approccio che mette da parte per un attimo i pregiudizi e lascia spazio alle intuizioni. D’altronde, dopo tutto quello che altri hanno scritto siamo arrivati a sapere tutto del libro, quali sono stati i suoi riferimenti culturali e le sue ricadute su altre opere. A valle di tutto ciò, ci sembra però di aver perso la ragione della sua lettura; non sappiamo più come usarlo. Davanti a questa ristampa ci siamo fatti qualche domanda e abbiamo provato a rispondere.
1. È un libro di storia della città?
No. L’architettura della città non è un libro di storia della città né dell’architettura. Come ricorda Beatrice Lampariello [cfr. Aldo Rossi e le forme del razionalismo esaltato, Quodlibet 2017], Rossi nella sua introduzione parla del libro come di un «abbozzo di teoria» o uno «schizzo di teoria»; teoria urbana, per inciso. Per formulare questa teoria Rossi si avvale di testi che non sono di architettura ma scritti principalmente da geografi che si sono occupati della città tra cui, in particolare: Federico Chabod, Pierre Lavedan e Jean Tricart. Per Rossi l’obiettivo è quello di conferire una operatività al sapere geografico, caratterizzato da una “ricerca rigorosa ma chiusa”, proiettandone gli effetti sulla realtà urbana tramite l’architettura, o meglio «servirsene per la scienza urbana e l’architettura». Così, constatando la diffusione del libro a livello internazionale (iniziata nel 1971 con la traduzione spagnola per Gustavo Gilli), possiamo notare che nell’introduzione all’edizione portoghese del 1977 Rossi afferma: «ho usato di questi testi come si usa un materiale da costruzione [...], ho cercato di forzare questo materiale fino a renderlo assimilabile alla teoria dell’architettura». Rossi ci dice che porsi come obiettivo la scienza urbana non significa fare una cronistoria della sua evoluzione, bensì tentare di mettere in pratica ciò che si ha a disposizione, quindi i testi e le teorie di coloro che precedentemente si sono posti in questa prospettiva; per esempio, i geografi. Chiaramente in tutto ciò, la storia c’entra e Rossi non economizza nel richiamarsi a questo concetto in molte parti del libro. Si tratta però di una storia che dissolve l’istanza scientifica in quella spiritualistica della memoria, ovvero l’anima dei luoghi (e dei suoi abitanti): «l’ame de la cité diventa la storia, il segno legato alle mura dei municipi, il carattere distintivo e nel contempo definitivo, la memoria». Rossi ci propone quindi un’ermeneutica dei luoghi, un’istanza di mediazione tra i fatti della città, che preesistono e perdurano senza doverlo dimostrare, e le proiezioni valoriali di coloro che vivono la città: la cui esistenza (e permanenza) è tutta da dimostrare.
2. È un libro che insegna a progettare la città?
Se si pensa di trovare nel libro indirizzi per la progettazione architettonica si rimane delusi; al contrario, se si ricercano spunti poetici il libro straripa di suggerimenti… Partiamo da una considerazione sulla continuità tra teoria e progettazione, una questione epistemologica annosa in architettura. Se ci concentriamo sui progetti di Aldo Rossi constatiamo che essi non esprimono alcuna continuità evidente e logicamente determinata (sottolineiamo bene questi due concetti: continuità evidente e logicamente determinata) con le proposte teoriche che egli avanza nel libro. Non si tratta di assumere questa discontinuità come constatazione di un fallimento teorico o di una incapacità progettuale dell’autore; al contrario, questa condizione ci aiuta a chiarire che la scienza urbana, nella prospettiva di Rossi, non ha il significato di una ricetta per fare edifici. Il libro è ben lontano da esprimere questo genere di determinismo. E a questo scopo vorremmo sottolineare che la copertina scelta per questa ristampa del Saggiatore sembrerebbe proprio spingerci in questa direzione (sbagliata), che vede nelle parole di Rossi i suoi progetti; progetti, che sottolineiamo essere successivi al libro ma non conseguenti ad esso in senso teorico. Questa scelta, alquanto superficiale in effetti, contribuisce forse a demistificare qualsiasi morbosità bibliofila verso il libro come oggetto, investendo invece proprio sulla spontaneità e contingenza della sua sostanza.
In effetti, la vera priorità per Rossi era un’altra e stava proprio nella premessa al libro, uno studio giovanile intitolato Manuale di urbanistica (1963) dove individuava l’obiettivo essenziale del suo lavoro futuro in cui «studio e progetto si dovranno fondere in un’unità inscindibile». Nell’ottica di Rossi, il ‘manuale’ perdeva il suo significato convenzionale di indirizzo pratico per la progettazione e si riallacciava piuttosto alla tradizione del trattato, ovvero a un genere misto tecnico-letterario in cui il pensiero e l’esperienza dell’architetto fanno tutt’uno; in cui non c’è una priorità tra il fare e il pensare, tra progettare e studiare, poiché entrambe partecipano alla stessa costruzione. L’architettura della città va letta quindi come espressione di un atteggiamento verso l’architettura, che è grossomodo questo: progettare vuol dire porsi nella prospettiva di studio di un luogo. Studiare l’architettura significa porsi nella prospettiva del progetto.
3. Cosa ci dice di nuovo?
Fin qui abbiamo parlato di temi con cui il libro tende a rispecchiare il buon senso di un progettista; temi che per manifestarsi non avrebbero avuto davvero bisogno di L’architettura della città di Aldo Rossi. Ne abbiamo invece bisogno per un altro motivo, che è poi l’apporto suo personale e preziosissimo all’architettura, che consiste nell’individuazione di un vocabolario con cui affrontare la città, da architetto e con quella che egli definisce una «impostazione aristotelica». Il libro invita il lettore a entrare nel dominio ontologico della città attraverso alcune parole tra cui, in particolare: locus, elementi primari, tipo, area, monumento, memoria collettiva. Il lettore ci scuserà se non ci addentreremo sul significato di ciascuno dei termini elencati; ciò che possiamo affermare è che essi hanno il compito di conferire alle cose che si incontrano nella città e che di per sé resterebbero mute, il valore di fatti urbani che si consolidano nella memoria dei luoghi. Il lettore non si aspetti che questi concetti conducano alla scoperta di una prassi progettuale innovativa o alla scoperta di spazi inediti. Leggendo egli potrà constatare che Rossi non parla di una realtà altra rispetto a quella che si dà nel quotidiano; egli non ci dice nulla di veramente nuovo, semplicemente ci mostra come la quotidianità dei luoghi possa diventare dominio di una narrazione. Questa mossa, che può apparire un escamotage narrativo, un intellettualismo gratuito, ha in realtà una ricaduta decisiva nello svelare un moto latente del libro che «riporta [i problemi della] scienza urbana al complesso delle scienze umane»; una scienza urbana di difficile delimitazione di cui Rossi intende delineare la specificità, mostrando come la sua sfera di azione riguardi il dato ultimo di un’elaborazione complessa: l’architettura come fatto costruito. Solo a partire da questo ‘dato ultimo’ emerge chiaramente la portata politica implicita alla proposta di Rossi che trova un timido abbozzo nel capitolo che chiude il libro intitolato La politica come scelta.
4. Perché ha avuto successo?
Questa domanda ha chiaramente tante risposte. Ci interessa solamente una risposta possibile che implica la riformulazione della domanda. A nostro avviso le considerazioni sul libro come bestseller hanno pochissima utilità. È ovvio che il suo successo in termini di vendite sia esito di una congiuntura e che il libro sia figlio del suo tempo, ecc.. Tutto ciò riguarda l’industria culturale e la politica di marketing delle case editrici che ci compete fino a un certo punto. Fatichiamo a pensare ad Aldo Rossi come a un influencer dei nostri giorni, che scrive un libro nella prospettiva della sua diffusione mediatica; e se anche ciò avvenisse sarebbe al limite un effetto e non una causa. Il progetto editoriale del Saggiatore quindi, che come abbiamo detto appare essenzialmente estraneo dai pesi di una importante tradizione scolastica rossiana, può semmai offrire l’opportunità di acquisire il testo per ciò che è, senza giustificarne limiti o contraddizioni.
L’obiettivo di Rossi in effetti non era scrivere un libro, bensì proporre un atteggiamento nei confronti della progettazione architettonica diverso da quello del professionista tradizionale. Pertanto, il successo del libro andrebbe valutato negli effetti che esso ha avuto nell’ambito della professione architettonica. Come abbiamo detto, Rossi ci presenta una figura di architetto che studia e progetta a un tempo e L’architettura della città è un libro che non può essere compreso al di fuori di questa dimensione duplice. Una proposta intellettuale che trova un riscontro personale in un libro successivo intitolato Autobiografia scientifica (1990) in cui, dal confronto con altre figure come Ignazio di Loyola, emerge una dimensione biografica profondamente intrisa da un progetto intellettuale (per approfondimento ci permettiamo di rimandare A.A. Dutto, “The Saint and the Architect”, LOBBY (Bartlett School of Architecture magazine), n. 05 ‘Faith’, pp. 116-119, Aldgate Press: Londra). Il successo della proposta di Rossi non si misura tanto con le vendite ma con la capacità di conferire alla lettura un riorientamento dell’apparato concettuale con cui si guarda la città; città non solo come fatto ma anche come progetto. Un riorientamento quindi del soggetto che legge e non della città, oggetto del libro, che resta lì ferma dov’era.
5. Chi lo leggerà?
Tutte le osservazioni fatte fin qui ci portano inevitabilmente a questa domanda, a cui tuttavia non abbiamo una risposta. In linea di massima, gli architetti che si interessano di architettura (che costituiscono una parte minima degli architetti abilitati con licenza di uccidere) lo conoscono già, o almeno ne hanno sentito parlare e per quella che è la nostra esperienza lo odiano o lo adorano come fazioni avverse di uno scontro che ha tutti i caratteri di una guerra di religione. Lo leggeranno gli studenti di architettura di alcune università in cui la presenza carismatica di Aldo Rossi si è protratta a suon di conferenze e seminari più o meno celebrativi. Forse, grazie a questa recensione, qualche non architetto ne sarà incuriosito perché ci avrà trovato qualche legame con i filosofi citati o implicitamente richiamati. Sicuramente, il miglior supporto a una futura ristampa lo daranno i profondi odiatori, che a suon di critiche e veti costituiscono di fatto la più autentica e produttiva risorsa pubblicitaria del libro.
Un libro che anche i veri fans devono ammettere che non possa essere che amato e odiato a un tempo. D’altronde chi lo ama solo o chi si ostina a odiarlo non si godrà mai un vero classico.
di Andrea Dutto e Gregorio Astengo
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Tim Ingold – Making. Una ecologia del produrre
Recensioni / Maggio 2019Potremmo pensare che filosofi e artigiani facciano due mestieri molto diversi, che hanno davvero poco a che vedere l’uno con l’altro: il primo infatti pensa, scrive e parla mentre il secondo fa, produce e manipola. Forse proprio per questo è poco usuale, per i filosofi, interrogarsi sul nesso tra la loro attività abituale, il pensiero, e il fare che segna tanto il lavoro dell’artigiano quanto la più comune prassi quotidiana. Ed è forse altrettanto poco usuale per un operaio o un artigiano chiedersi in che modo, nella sua attività di produzione, egli stia anche pensando. Eppure si tratta di una questione straordinariamente feconda, ci insegna Tim Ingold nel suo Making, prima opera dell’autore ad essere interamente tradotta in italiano a cura di Gesualdo Busacca per Raffaello Cortina (Milano, 2019, pp. 262). Il testo scaturisce dall’esperienza di un corso universitario tenuto da Ingold a partire dal 2004 nella facoltà di Antropologia dell’università di Aberdeen, intitolato: Le quattro A: Antropologia, Archeologia, Arte e Architettura. Più volte ripreso e messo da parte nel corso degli anni, Making esce per la prima volta nel 2013 e riprende l’ossatura teorica di Being alive (2011), la raccolta di saggi in cui si sviluppa un originale percorso teorico mosso dall’esigenza di riavvicinare l’antropologia alla vita. Ciò che però contraddistingue Making, rispetto a questa raccolta, è l’intimo legame che la riflessione intrattiene con l’esperienza al contempo didattica e di ricerca dell’insegnamento universitario. Ingold intende spingersi ben oltre la trasmissione di nozioni ridotte a rappresentazioni astratte, ferme e chiuse; è piuttosto interessato a coinvolgere i suoi studenti in percorsi di movimento nell’ambiente che aprano ad esso in un atteggiamento di ascolto ed esplorazione. Il gruppo si educa così a una forma di attenzione percettiva che permette di porsi sulle tracce delle cose che abitano il mondo tramite una paziente e scrupolosa raccolta di indizi. Gli studenti, infatti, erano chiamati non solo a seguire lezioni frontali, ma soprattutto a cimentarsi in esperienze di manipolazione di materiali e costruzione di oggetti nel corso di esperimenti e laboratori collettivi sempre accompagnati da momenti di restituzione e discussione. Le quattro A intrecciava dunque attività di produzione ed elaborazione riflessiva, facendole scaturire come momenti di una conoscenza trasformativa che si innesta sui percorsi vitali delle cose e si sviluppa con essi. Questo lavoro dà origine alla pratica di formazione collettiva nella quale prendono corpo le idee che animano il libro. Nell’ambito di un corso universitario, volto comunemente a produrre tramite il pensiero, Ingold e i suoi studenti imparano ad imparare in un altro modo, ossia a pensare tramite il produrre.
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Extra#2 \ TURNS. Dialoghi tra architettura e filosofia
Extra / Febbraio 2018TURNS. Dialoghi tra architettura e filosofia è la traccia di un dialogo spesso acceso, ricco di incomprensioni e riconciliazioni, che coinvolge architetti e filosofi, docenti e professionisti, e ancora biologi, dottori di ricerca, studenti. È il racconto di due discipline, architettura e filosofia, che si voltano per guardarsi reciprocamente, provando a innescare una svolta concettuale che deve divenire un nuovo punto di partenza. Precisamente questo è il doppio significato del termine “Turns”.
Da un lato infatti, il filosofo ha sempre avuto difficoltà a interloquire con l’architetto, sia per ragioni storiche sia per ragioni strettamente legate al suo metodo e ai suoi obiettivi. L’architetto sembra infatti presentarsi allo sguardo del filosofo come un personaggio al contempo perturbante e conturbante, in un misto di attrazione e biasimo, di invidia e ammirazione: una figura tanto sfuggente da investire la riflessione filosofica con effetto retroattivo, facendo scricchiolare le sue fondamenta concettuali e mettendo in dubbio nozioni fondamentali quali verità, libertà, realtà, conoscenza, invenzione, possibilità, necessità, che hanno rappresentato per secoli il lessico base del pensiero occidentale. L’interesse verso una simile figura sembrerebbe ovvio. Eppure, quasi sempre è il filosofo che viene interpellato, utilizzato o coinvolto nel lavoro dell’architetto, in molti casi con l’intento di distillare spazialmente il senso dei suoi discorsi nel progetto. Non che ciò sia impossibile, ma, forse, dovremmo domandarci se è proprio questo quello che vogliamo: o se invece non sia compito del filosofo esercitare una sistematica e implacabile strategia di provocazione interessata, al fine di produrre un effetto, una particolare condizione dello sguardo. Creare la crisi, mettendo in discussione ciò che è dato, sapendo che, come spesso accade, l’apertura verso un nuovo oggetto di conoscenza lascia insoluti quei quesiti che lo vedono direttamente implicato per produrre un effetto retroattivo di chiarificazione nel soggetto indagatore, impegnato a leggersi ora attraverso una nuova forma di mediazione.
Dall’altro lato, per l’architettura il rapporto con la filosofia è storicamente naturale, quasi che questa fosse una visione complementare sul mondo rispetto al suo operato: questo era possibile perché la società si evolveva in modo relativamente lento, attraverso sedimentazioni di usi che diventavano convenzioni sociali, di pensiero, di stile. Così andava nell’architettura egizia, in quella classica, nel medioevo, nel rinascimento, finanche nel Modernismo: i significati erano decifrabili perché si condivideva un sostrato convenzionale. Ma qualcosa è cambiato. Le correnti durano pochi anni: poi passano, come le mode, spesso senza lasciar traccia – tranne edifici già superati, ovviamente. Così, spariscono le teorie dell’architettura, cioè sistemi che dicano cosa sia giusto costruire. E senza una teoria che legittimi le scelte, fioriscono le retoriche e le poetiche personali, spesso così ridicole da essere persino (e giustamente) oggetto di satira. La condizione di fragilità dell’architettura contemporanea è ormai fisiologica. Ed è qui che la filosofia diventa non solo utile, ma necessaria. A patto, certo, di non usarla in senso analogico, con derivazioni dirette che trasformano concetti in forme e pensieri in stili. Dialogare con i filosofi serve perché essi ragionano su temi che, in qualche modo, toccano gli architetti – ad esempio, lo spazio, l’invenzione, la città, la generazione della forma, il potere. Capire qualcosa di quei temi aiuterà a progettare con una maggior consapevolezza, o una più approfondita convinzione sulle ragioni del progetto, e a capirne meglio effetti ed esiti.
A cura di Carlo Deregibus e Alberto Giustiniano
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DOI: https://doi.org/10.13135/2385-1945/1.2018
Pubblicato: gennaio 2018
Indice
Alberto Giustiniano - ARCHITECTURAL TURN. Il filosofo e le sfide del progetto [PDF It]
Carlo Deregibus - PHILOSOPHICAL TURN. Fragilità dell’architettura contemporanea [PDF It]
(S)Block-Seminar
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DA LASCAUX AI JUNKSPACE
Giovanni Leghissa - Da Lascaux ai junkspaces (passando per Ippodamo da Mileto) [PDF It]
Giovanni Durbiano – Descrivere il progetto dello spazio [PDF It]
Riccardo Palma – Molteplicità e non naturalità degli spazi nella produzione del progetto di architettura [PDF It]
RIFERIMENTI di Andrea Dutto [PDF It]
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DECOSTRUZIONE, IMMANENZA, ILOMORFISMO
Giulio Piatti – Simondon e Deleuze di fronte all’ilomorfismo. Appunti sul rapporto forma-materia [PDF It]
Carlo Deregibus – Appunti su Chōra, spazio e architettura. Da Platone a Derrida [PDF It]
Paola Gregory – Le nuove scienze e la conquista dell’informale [PDF It]
Riccardo Palma – L’assenza necessaria dell’architettura [PDF It]
RIFERIMENTI di Andrea Canclini [PDF It]
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FENOMENOLOGIA E PROGETTO
Claudio Tarditi – Fenomenologia e architettura. Introduzione al problema della percezione spaziale in Edmund Husserl [PDF It]
Alberto Giustiniano – Tempo, forma, azione. Il senso del progetto nel dialogo tra Enzo Paci e Ernesto Nathan Rogers [PDF It]
Silvia Malcovati – Per un razionalismo relazionale [PDF It]
Carlo Deregibus – L’orizzonte del progetto e la responsabilità dell’architetto [PDF It]
RIFERIMENTI di Federico Tosca [PDF It]
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MORFOGENESI E AUTOORGANIZZAZIONE
Veronica Cavedagna & Danilo Zagaria - Quale spazio per la morfogenesi e l'auto-organizzazione? [PDF It]
Paola Gregory – Morfogenesi architettonica e “vita artificiale” [PDF It]
Carlo Deregibus – Progetto e complessità. Fascino dell’analogia e libero arbitrio [PDF It]
RIFERIMENTI di Edoardo Fregonese [PDF It]
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ANTROPOGENESI E COSTRUZIONE DELLO SPAZIO
Roberto Mastroianni – Regimi dello sguardo. Sloterdijk e la metafora spaziale [PDF It]
Alessandro Armando – La scrittura del futuro e la promessa del progetto [PDF It]
Daniele Campobenedetto – Leggibilità e materialità dello spazio [PDF It]
RIFERIMENTI di Federico Cesareo [PDF It]
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POTERE E SPAZIO
Luigi Giroldo – Genealogie dello spazio contemporaneo. Utopie moderne e nascita dell’urbanistica [PDF It]
RIFERIMENTI di Andrea Canclini [PDF It]
BIBLIOGRAFIA
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