“E’ una bella buffoneria, il parlare: con esso l’uomo danza su tutte le cose.
Come è gradevole ogni discorso e ogni bugia di suoni!
Con i suoni il nostro amore danza su arcobaleni multicolori”
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra
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Nel 1973 un giovane psicologo allora poco più che ventenne convinse altre sette persone mentalmente sane a farsi internare assieme a lui in dodici ospedali psichiatrici americani, omogeneamente distribuiti tra la East e la West Coast, per condurre un esperimento scientifico.
Gli pseudomalati si presentarono presso questi centri specialistici esponendo una problematica specifica: sentivano delle voci proferire affermazioni confuse, oscure e dalle quali era possibile distinguere solo parole come “Empty” (Vuoto), “Thud” (rumore sordo) e “Hollow” (cavo), lamentando inoltre un senso di insoddisfazione generalizzato: come l’impressione di vivere per l’appunto una vita “vuota e priva di significato”.
Sette su otto pazienti vennero internati con una diagnosi di schizofrenia e furono poi dimessi, da una settimana fino a due mesi dopo, una volta accertata la “remissione” della loro fantomatica crisi psicotica.
Ironia della sorte, solo alcuni tra i pazienti psichiatrici ricoverati in questi ospedali si accorsero che in effetti c’era qualcosa che non quadrava, ovvero che questi sedicenti malati mentali non avevano nulla a che spartire con gli altri (quelli veri…), mentre i dottori si limitarono a giustificare i tempi record in cui erano state guarite queste psicosi immaginarie evocando il potere taumaturgico degli psicofarmaci somministrati.
Come se già questi risultati sperimentali, letteralmente raccolti sul campo, non bastassero da soli a insinuare qualche dubbio relativamente all’affidabilità dell’impianto nosografico e dottrinario di quella branca della medicina che passa sotto il nome di “psichiatria”, il noto esperimento – il Rosenham experiment, che prende il nome dallo psicologo David Rosenham, l’ideatore ed il primo sperimentatore di questa entusiasmante beffa epistemologica… – continuò anche dopo che tutti i sedicenti malati mentali furono dimessi dai reparti in cui erano stati maldestramente ricoverati. Lo staff di questi sanatori, infatti, venne informato che nei tre mesi successivi alla dimissione degli pseudomalati (i quali, per parte loro, avevano già palesato la loro identità ed i loro intenti al personale sanitario) negli stessi ospedali sarebbero stati inviati altri individui mentalmente sani per continuare a mettere alla prova la plausibilità e la veridicità delle categorie diagnostiche allora in uso. In un ospedale lo staff tacciò addirittura quarantuno pazienti su centonovantratrè nuovi ricoverati di essere dei finti malati, dei simulatori sperimentali di psicosi, ma nessun individuo era stato in realtà inviato da Rosenham in quell’istituto – come d’altronde negli altri, che caddero però tutti nello stesso tranello…
Ora: se l’esperimento in questione da una parte prova a rispondere alla domanda “Se la sanità e la malattia mentale esistono, come facciamo a conoscerle?” (Rosenham 1973, 250), dall’altra – e forse proprio perché offre una risposta a dir poco perturbante a questo quesito… – fa piombare gli studiosi di psicologia, scienze sociali, medicina e filosofia in un vero e proprio paradosso istituzional-epistemologico.
La psichiatria infatti esiste, esiste il TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio) quale sua extrema ratio ed esistono le pratiche di contenzione farmacologica che in alcuni casi compromettono irreversibilmente il funzionamento psichico e sociale dei pazienti che le ricevono, ma non esiste nulla che assomigli, anche solo lontanamente, ad una definizione scientifica, irrefutabile e chiara, di cosa sia la malattia mentale, di quali siano i parametri oggettivi che la definiscono e le cause che la innescano. Mancano, in breve (oggi come all’epoca del Rosenheim experiment), i criteri tali per cui la malattia psichica possa essere istituita come categoria scientifica ontologicamente opposta, in modo definitivo e non ambiguo, a quella altrettanto problematica di “sanità mentale”.
Ebbene: lo strumento atto a risolvere (anche se solo a livello legale, istituzionale e squisitamente formale, come vedremo) questo paradosso ontologico - politico di per sé insolubile è il DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders 2014) ovvero il testo sacro della psichiatria occidentale, in costante aggiornamento ed ormai giunto alla sua quinta edizione, sul quale Sergio Benvenuto getta uno sguardo spietato ed ironico in una delle sue più recenti pubblicazioni: Lo psichiatra e il sesso. Una critica radicale del DSM – 5 (Mimesis, 2020).
L'indagine di Benvenuto (rinomato psicanalista e filosofo napoletano, allievo di Laplanche ed interprete sui generisdell’opera di Freud e Lacan) si distingue per originalità e audacia dalle innumerevoli, viete e monotone critiche al DSM di matrice antipsichiatrica. Il testo si propone per l’appunto di rilevare le criticità, le aporie e le contraddizioni che emergono da una lettura, certosina e attenta come solo l’ascolto psicoanalitico può permettere, della sezione dedicata ai disturbi sessuali. Certo, non manca un intero capitolo dedicato all’indagine della filosofia e dello spirito intellettuale che animano il monumentale progetto enciclopedico-nosografico del tanto celebre quanto bistrattato manuale diagnostico e ciò che lì traspare, in controluce, oltre all’assoluta infondatezza scientifica di quello che nel DSM-5 è affermato con inflessibile rigore, è anzitutto la torbida collusione ed il fatale intreccio tra le funzioni normative e descrittive, disciplinari ed analitiche che animano tale opera. L’autore sostiene infatti che «il DSM non è creatura della sperimentazione scientifica; è una costruzione essenzialmente etico-politica, addirittura un artefatto filosofico. Un costrutto “ideologico” direi, se io fossi marxista» (p. 53).
D’altronde anche solo per quanto riguarda la sfera dei disturbi sessuali – quella su cui si concentra la maggior parte del libro – l’autore evidenzia come lungi dal porre dei problemi relativi all’eziopatogenesi o al decorso clinico dei disturbi esaminati, e piuttosto di porsi questioni relative all’elaborazione teorica dei concetti che definiscono le patologie in questione, il DSM-5 aspiri anzitutto a perpetrare in ambito medico ed istituzionale una vera e propria finzione epistemico-ontologica. Il DSM-5, “l’artefatto filosofico” che Benvenuto nel suo libro smonta e demolisce pagina dopo pagina, non sarebbe nient’altro allora che lo strumento atto a sostenere e a diffondere il miraggio, l’illusione o la conciliante utopia secondo cui la sessualità potrebbe essere intesa come qualcosa di governabile, amministrabile e rendicontabile. E nel fare questo il manuale più utilizzato dagli psichiatri di tutto il mondo per produrre delle diagnosi psichiatriche sembrerebbe rispondere più a necessità di ordine igienico-sociale (come d’altronde già rilevato dallo stesso Foucault, e proprio a proposito della storia della psichiatria…) che ad esigenze di tipo scientifico o meramente medico-sanitario.
Il DSM viene infatti presentato dall’autore come un testo che, non misurandosi con i criteri di veridizione e validazione scientifici canonicamente intesi, si profila come il risultato di una calibrazione di varie correnti ideologiche e culturali presenti anzitutto nella psichiatria americana ed in secondo luogo nel cosiddetto “senso comune”. Basti pensare al caso esemplare dell’omosessualità: questa è stata depennata dalla ridda dei disturbi mentali elencati nel DSM solo nel 1974, durante la stesura della terza edizione e non a seguito di uno studio scientifico, statistico o quantitativo che ne stemperasse la supposta nocività ma letteralmente per alzata di mano…
In fondo è come se la metodologia che presiede alla definizione della malattia mentale e segnatamente dei disturbi sessuali, nel DSM, si limitasse a replicare passivamente l’andamento delle morali secolari, delle ideologie dominanti e del senso comune che si susseguono, di volta in volta e di epoca in epoca, come vere e proprie mode – così da offrirne una sorta di sanzione pseudoscientifica, una convalida istituzionale che ha lo scopo precipuo di assicurare stabilità (per quanto debole e basculante, in quanto teoricamente infondata…) all’assetto istituzionale e politico della psichiatria.
Quello che rimarca Benvenuto, allora, è che grazie ad una strategia che si basa su una sorta di formalizzazione grossolana ed approssimativa del senso comune dominante e collocandosi negli anfratti di quell’interdipendenza esiziale e per certi versi ineluttabile tra l’istituzione medica e quella giuridica, «la diagnostica psichiatrica – DSM-5 incluso – non è affatto oggettiva” ma “assorbe invece come una spugna visioni diffuse, mentalità, tropismi politico-filosofici alla moda, pregiudizi correnti, insomma, quelle che chiamerò Filosofie Popolari Dominanti, e dà a questo assorbimento una sorta di avvallo scientifico» (p. 31).
Esemplare, a tal proposito, è il caso del diverso trattamento riservato dai redattori del DSM-5 a quei due atteggiamenti che potremmo localizzare agli estremi della sessualità umana ovvero la castità e la promiscuità: quali sono i criteri che definiscono patologica l’assenza di eros e interessi sessuali (detta “anerosia”) tra i sedici ed i quarantaquattro anni (e perché non quattordici, quarantacinque o cinquanta?) e che permettono d’altra parte di soprassedere silenziosamente su di un’eventuale patologizzazione dell’ipersessualità, ovvero della dipendenza morbosa da rapporti sessuali con molti partner? La risposta dell’autore è netta ed ha un valore paradigmatico per quanto riguarda l’impianto pseudo-teorico e pseudo-scientifico del DSM:
«La ragione […] è etico-filosofica, non certo scientifica. Il punto è che oggi una certa promiscuità sessuale non solo è pienamente accettata, anche nelle donne, ma in molti casi è persino esaltata. Ammettere una categoria di sessuo-dipendenza potrebbe diventare una mina per un manuale diagnostico, in quanto potrebbe patologizzare chiunque sia un po' promiscuo. […] È la prevalenza di una filosofia popolare favorevole ad un’intensa attività sessuale, sia negli uomini che nelle donne, ad aver fatto scartare questo comportamento come disordinato» (p. 86).
Ora: è proprio nella misura in cui risulta logicamente e materialmente impossibile offrire un rendiconto sistematico, scientifico ed obiettivo di quei fenomeni cangianti e plastici che sono i costumi e le morali sessuali che i redattori dei vari DSM sono stati costretti ad adottare una metodologia non solo antiscientifica, ma anche assolutamente priva di qualsiasi riferimento critico all’epistemologia o alla filosofia della scienza. D’altronde ad essere recepita dagli autori del manuale diagnostico, secondo Benvenuto, non sarebbe nient’altro che la richiesta di senso avanzata dai più reconditi ed inconfessati anfratti della realtà sociale, e relativamente a questioni che potremmo benissimo derubricare – in un’ottica non ossessionata dalla medicalizzazione o dalla politicizzazione di ogni intimo recesso dell’esperienza umana… – come “esistenziali”, “ontologiche” o più semplicemente “metafisiche”. Tanto il concetto di sanità mentale quanto quello di una sessualità articolabile nei termini sanzionati e previsti dai linguaggi medico e giuridico solleverebbero per l’appunto interrogativi difficilmente liquidabili ricorrendo ad una terminologia e ad un metodo scientifici, con studi statistici o con generalizzazioni “da manuale” ad usum consumi di medici e giuristi. Là dove il DSM-5 e le edizioni che lo hanno preceduto falliscono, o quantomeno mostrano la corda, insomma, non è allora tanto nell’uso improprio di un impianto assolutamente privo di solide basi scientifiche ma è, al contrario, proprio nella pretesa (…delirante?) e nella perversa velleità di rendicontare e misurare, a fini tutto sommato disciplinari ed organizzativi, un fenomeno così proteiforme e variegato com’è quello della sessualità umana. Ma mai come in questo caso è proprio l’oggetto in sé (l’oggetto che in un linguaggio lacaniano ed heideggerianeggiante potremmo chiamare Das Ding…) che non si presta ad essere regolato, ordinato ed addomesticato da nessun discorso oggettivante e scientifico.
Come giustamente saprà Benvenuto, infatti, non v’è altra lezione che la psicoanalisi possa offrire per quanto concerne il rapporto del soggetto con il sesso e con il godimento ivi implicato se non questa: che “il sesso fa buco nel sapere” (per dirla con una celebre espressione di Lacan) e che il vuoto scavato da questa assenza deve essere assunto soggettivamente, secondo modalità sempre individuali e non generalizzabili. La sessualità umana costituisce infatti l’ostacolo, l’incaglio inaggirabile di ogni ontologia proprio perché quel che vi è in ballo, in questioni del genere, è davvero impermeabile ad ogni riduzionismo (manualistico, ideologico, politico) e refrattario ad ogni tipo di generalizzazione (enciclopedica, giuridica, ma anche identitaria…) in quanto radicalmente e fondamentalmente privo di senso[1]. Ed è qui che il libro di Benvenuto si presta ad una lettura inaspettatamente attuale e decisamente controcorrente.
Quando l’autore afferma che «i DSM non sono affatto liquidabili come aggeggi conservatori; al contrario, sono molto porosi a tutte le lobbies “identitarie” che oggi dilaniano l’America» (p. 86) sembra proprio che suggerisca un insolito parallelismo tra il programma diagnostico/disciplinare propalato dai redattori del DSM ed il programma emancipazionista che anima i vari movimenti identitari, come il movimento LGBTQIA+, che oggi imperversano ovunque nel mondo (o almeno in quello occidentale, democratico e liberale).
Per cogliere appieno il senso di questa sublime coincidentia oppositorum indicata quasi subliminalmente dall’autore basti pensare, ad esempio, che l’espansione costante a cui è sottoposta la sigla acrostica “LGBTQIA+” (e che varia a seconda di quanti genders o quante espressioni della sessualità umana vengano…come dire…scoperte? Ma poi: da chi?) sembra essere direttamente proporzionale all'aumento cui è sottoposto il tanto vituperato manuale psichiatrico (le pagine del DSM passano in sessant’anni, dalla prima alla quinta edizione, da 130 a 886 mentre le diagnosi psichiatriche quasi triplicano, aumentando da 106 a 297). In fondo è come se sia la sigla “LGBTQIA+” che il DSM fossero spronati da una sorta di forza motrice, invisibile e costante, che se da una parte concede a quelle minoranze che di volta in volta si scoprono tali il lusso di farsi rappresentare da una letterina maiuscola all’interno della sigla ufficiale della loro community dall’altra, al rovescio, produce una differenziazione ed una moltiplicazione incessante delle voci indicanti le patologie psichiatriche. Ad un prima occhiata è proprio come se vi fosse una sorta di paradossale comunione d’intenti (e che concerne la classificazione, la numerazione e la schedatura…) tra un programma politico liberatorio e la redazione di un manuale diagnostico…ma il punto, ovviamente, non è questo. Il punto è che entrambi i discorsi che stanno dietro a quegli “artefatti filosofici” che sono il movimento LGBTQIA+ da una parte e il DSM dall’altra (ovvero il discorso emancipatorio e quello disciplinare), proprio perché sono lungi dal porsi i problemi relativi all’elaborazione ontologica ed epistemologica delle loro premesse possono benissimo essere ascritti alla risma di quelle Filosofie Popolari Dominanti che per Benvenuto non fanno altro, come abbiamo già detto, che condensare il turbinio di “visioni diffuse, mentalità, tropismi politico-filosofici alla moda e pregiudizi correnti”. Ma non è tutto.
Il parallelismo tra DSM e movimento LGBTQIA+ può essere spinto ancora più in la, sino al cuore della questione che interessa le premesse ideologiche del DSM. Infatti è proprio il concetto che funge da pietra angolare ai gender studies, il concetto di “disforia di genere”, ad essere chiamato in causa da Benvenuto quale vera e propria “chiave di volta” dell’intera architettura pseudo-teorica del manuale diagnostico nella misura in cui, secondo l’autore, «per il DSM tutti i Disordini, tutto lo psicopatologico, sono disforie. Avrebbe potuto chiamarsi Diagnostic and Statistical Manual of Disphorias» (p. 98). Il termine in questione difatti non ha un preciso significato medico e non si riferisce a nulla che possa essere in un qualsiasi modo rilevato, verificato o testato ma, anzi, «connota qualcosa di squisitamente affettivo. Il termine greco δυσϕορία deriva da δυσ- (“cattivo”) e φέρω- (“porto”); letteralmente: “portare del cattivo”. Quindi, il termine ha una marcata connotazione emotiva, patetica. Si oppone a “euforia” e potremmo tradurlo con malessere» (p. 97).
È evidente, allora, come in un contesto in cui risulta impossibile separare e distinguere il normale dal patologico o il sano dal malato in modo netto, oggettivo e con l’obiettivo di produrre generalizzazioni profittevoli tanto sul piano nosografico quanto su quello politico-rappresentativo, il concetto di disforia possa funzionare come vero e proprio asso piglia tutto, come un jolly retorico. Tagliando corto su questioni di non poco conto come l’elaborazione di parametri atti ad individuarne la cogenza, o l’istituzione di soglie di tolleranza tali da rendere i disturbi psichici in questione più o meno gravi, il concetto di disforia funziona come passepartout retorico sia sul piano politico-identitario che su quello psichiatrico. D’altronde qual è il miglior discrimine per creare consenso attorno a ciò che non va, nella realtà sociale così come nella psiche individuale, che l’accorato appello ad una forma di inesprimibile, privato ed insondabile malessere?
Come abbiamo visto la critica radicale al DSM che Benvenuto propone nel suo acuto ed originalissimo libro è tesa a vagliare, ad indagare e a contestare la credibilità e la plausibilità della nosografia psichiatrica con gli strumenti offerti dalla psicanalisi e dalla filosofia. Per concludere si potrebbe però affermare, ed al netto di ogni ironia, che tanto i risultati del Rosenheim experiment condotto negli anni settanta quanto le riflessioni proposte più recentemente da Benvenuto confermano indirettamente quanto ebbe a dire Giacomo Contri, in una delle sue ultime interviste, a proposito della figura di Jacques Lacan: "Il manicomio di Lacan era il mondo!". Per quanto perturbante e scomodo possa sembrare, infatti, è necessario ammettere che il ricorso a quelle finzioni epistemico-ontologiche che sostengono l’infrastruttura istituzionale della psichiatria è reso necessario da un’urgenza antropologica specifica – magari inconscia, certo, ma comune ad ogni cultura... – che è quanto di più simile vi sia all’evitamento di un’incipiente psicosi. In ballo non c’è niente di meno che l’ineludibile esigenza di istituire un ordine simbolico, l’inaggirabile bisogno di demarcare dei significati, di perimetrare la comunicazione e di istituire quei confini soggettivi ed intersoggettivi senza i quali l’esperienza (ogni tipo di esperienza) è destinata ad inabissarsi nel fondo indistinto e magmatico del non-differenziato. In un simile contesto, quello che connota la condizione umana come sulla soglia del costante crollo psicotico, è chiaro come le categorie di sanità e di malattia mentale (così come quelle di uomo e di donna, verrebbe da dire…) rivestano un ruolo cruciale, fondamentale e cardinale nell’economia della verità, ovvero all’interno di quella pratica specificamente umana che consiste nel riempire di senso quelle pure entità differenziali che sono i significanti. Ma è altrettanto chiaro, soprattutto dal punto di vista psicanalitico, come sia impossibile produrre generalizzazioni, definizioni e categorizzazioni definitive, immutabili e dalla valenza universale – e questo è tanto più vero quanto più la discussione verte su tematiche quali la salute mentale, l’erotismo e la liceità dei costumi sessuali…
Il bisogno di quelle finzioni epistemico-ontologiche di cui parla Benvenuto, insomma, è un bisogno inaggirabile e propriamente umano al quale il Manuale Diagnostico e Statistico delle malattie mentali cerca di rispondere con tutti i limiti del caso ed in modo parziale, certo, ma obbedendo a criteri minimali di efficacia non solo burocratico-istituzionale. Il DSM assolve ad una funzione stabilizzante sul piano simbolico anche a livello, giocoforza, comunicativo ed esistenziale. Per quanto possa risultare difficile o quasi impossibile da riconoscere per gli studiosi di scienze sociali, per gli attivisti e per i filosofi – soprattutto per quelli che non riescono a muoversi al di fuori del recinto della critica, forse un po' dogmatica, al potere costituito… –, in fondo, forse è opportuno ammetterlo e accettarlo senza riserve: l’uomo si nutre di finzioni funzionali, di compromessi simbolici e di definizioni approssimative per evitare di rimettere costantemente in discussione le basi della comunicazione, le premesse del proprio agire e, in ultimo, per non impazzire…
Per tutto il resto ci sono la filosofia e la psicanalisi (e una menzione speciale, qui, spetta ai preziosi libri di Benvenuto). D’altro canto è stato proprio Freud – reclutato suo malgrado tra le file dei filosofi, o quantomeno assurto a punto di riferimento cardine per un certo modo di intendere la filosofia… – a tributare accanto all’ineluttabilità della finzione che ci tiene in ostaggio la necessità di rielaborare, di ripensare e di re-inventare nuovi confini, nuove regole del gioco simbolico individuale e collettivo – egli per primo, infatti, «ha considerato che non c’è nulla se non il sogno, e che tutto il mondo (se ci è concesso usare quest’espressione), tutto il mondo è folle, cioè delirante» (Lacan 1979, 278).
di Filippo Zambonini
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Bibliografia
Benvenuto S. (2021). Il teatro di Oklahoma. Miti e illusioni della filosofia politica contemporanea, Castelvecchi, Roma 2021.
Benvenuto S. (2021). Lo psichiatra e il sesso. Una critica radicale del DSM – 5, Mimesis , Milano – Udine.
Clemente L. F. (2018). Jacques Lacan e il buco del sapere. Psicoanalisi, scienza, ermeneutica, Orthotes, Nepoli – Salerno.
_ (2014). Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Quinta edizione, DSM-5. Raffaello Cortina Editore, Milano.
Lacan J.(1979). Ornicar? «Journal d’Ornicar?», n°17-18.
[1] Vale la pena di menzionare, a tal proposito, il libro di Alenka Zupancic (2018) oltre che l’inaggirabile volume di Luigi Francesco Clemente (2018).