-
-
Sul secolo mistico
Recensioni / Luglio 2021Il campo semantico che gravita attorno alla parola “mistico” è comunemente riferito a riflessioni e, ancor più, a esperienze che sembrano riguardare esclusivamente l’ambito dell’esperienza religiosa o della rivelazione. Il vocabolario online dell’Enciclopedia Treccani, per esempio, indica come significato primario del termine mistico ciò ch’è relativo alla mistica, una «esperienza di vita interiore che porta il soggetto verso un’intima unione con una realtà superiore, diversa, assoluta, fuori delle forme ordinarie di conoscenza e di esperienza». Poco più avanti, invece, esso è riferito a ciò che potremmo chiamare il “misticismo”, termine con cui s’indicano quegli atteggiamenti e quelle posizioni che interpretano la realtà trascendendo «i dati sensibili» e rapportandoli «con forze soprannaturali». A un primo sguardo, dunque, il termine “mistico” sembra essere direttamente riassorbito nel dominio di pertinenza della mistica e del misticismo, che interseca le sfere del religioso e della metafisica. Uno sguardo più attento, però, è in grado di rivelare una situazione ben più complessa: un filone importante della riflessione filosofica del Novecento ci ha insegnato che con “mistico” si può indicare un’esperienza che non collima necessariamente con questi due significati. E che, anzi, proprio la definizione e l’esplorazione della dimensione aperta da quest’ulteriore esperienza possono condurci al cuore di nodi e problemi teorici cruciali per determinare il senso dell’esperienza umana in genere.
L’ultimo libro di Stefano Oliva, intitolato Il mistico. Sentimento del mondo e limiti del linguaggio, pubblicato per i tipi di Mimesis nel 2021, sembra far propria quest’ultima constatazione, da cui prende le mosse, per proporre un percorso teoretico di ampio respiro e di grande attualità attraverso alcuni fra i principali luoghi teorici del pensiero novecentesco. Come si legge nelle pagine dell’Introduzione, con “Mistico” (la maiuscola ricalca la grafia prediletta dall’autore) si designa qui, innanzitutto e soprattutto, un sentimento «connesso a una specifica modalità di visione del mondo» e «radicato in ciò che più di ogni altra cosa caratterizza la forma di vita umana», ovvero la «facoltà di linguaggio» (p. 9). Tale sentimento non va inteso pertanto nel senso di una rivelazione «riservata a pochi eletti, spiriti elevati o patologicamente eccitabili», bensì dev’essere compreso come una «esperienza paradossale» che «costituisce una possibilità antropologica basilare, inscritta nella stessa articolazione linguistica del pensiero umano» (ibid.). Anche per questo motivo l’interrogazione di Oliva sulla specificità dello sguardo mistico è condotta sempre in relazione a ciò che lo distingue dallo sguardo dell’uomo comune.
Il rapporto fra questi due è uno dei fil rouge più evidenti del libro, continuamente ripreso fino al capitolo conclusivo, in cui l’autore sancisce che la differenza fra il sentimento mistico e lo sguardo comune è dovuta alle rispettive modalità di relazione al mondo che essi dischiudono (cfr. p. 94-98). Più precisamente, nella prospettiva istituita e indagata da Oliva il Mistico possiede alcuni caratteri che in filosofia sono stati a lungo «attribuiti all’esperienza estetica», ovvero «i tratti della riuscita e del compimento» (p. 96). Uno degli aspetti che contraddistinguono la modalità propria del Mistico è, infatti, quello della finalità senza fini, che almeno da Immanuel Kant in poi ha rappresentato per il pensiero critico ed estetico uno dei segni distintivi del bello. Per esempio, immerso nel sentimento mistico è, come si legge nel testo, il camminatore che avanza «con la gratuità di chi è senza meta e può così dedicarsi semplicemente al fatto stesso di camminare» (p. 95), di chi cammina, a rigore, “senza perché”. Similmente, osserva Oliva, l’osservazione del mondo sub specie artis «vuol dire vederlo al di fuori dei consueti interessi pratici che indirizzano la nostra attenzione» (p. 96). Per tale motivo la locuzione “senza perché”, che ricorre sovente in relazione al tema del mistico (in particolare nella mistica renana), possiede una «risonanza» potente con l’ambito estetico e permette pertanto di comprendere il Mistico come un’esperienza la cui possibilità è radicata nella struttura esistenziale dell’essere umano.
Il quotidiano e il Mistico, in altre parole, divergono per atteggiamento, per modalità, e non per essenza, ontologicamente. Così, a nostro avviso il libro di Oliva si propone come una riflessione sul secolo Mistico nel duplice senso cui la parola secolo può rinviare: da una parte, il periodo di riferimento principalmente (ma, come vedremo, non esclusivamente) indagato dall’autore, ovvero il pensiero filosofico del Novecento che sul Mistico è ritornato in numerose circostanze; e, dall’altra, il Mistico nel suo radicamento nella dimensione della quotidianità, dunque di ciò ch’è secolare in quanto contrapposto alla vita spirituale, religiosa o ultraterrena.
Nel primo dei sette capitoli che strutturano il testo, Oliva riprende appunto la distinzione citata in apertura fra mistico, mistica e misticismo per impostare la propria indagine. Questa necessaria operazione preliminare di precisazione terminologica è condotta con riferimento alle opere di Michel de Certeau e alla sua analisi della mistica, ad alcune note di Bertrand Russell sul tema del misticismo e ad alcuni passi di Ludwig Wittgenstein. È il pensiero di quest’ultimo, infatti, a costituire la stella più luminosa della costellazione filosofica che guida il testo: dalle pagine del filosofo austriaco è possibile ricavare strumenti teorici accuratissimi per affrontare una lettura rigorosa e profonda del secolo mistico poiché troviamo in esse, formulato con la massima radicalità, il problema cruciale incarnato dall’esperienza-limite del mistico, quel «sentimento del mondo come totalità delimitata» (Tractatus Logico-Philosophicus, prop. 6.45) indagato da Oliva. Dal momento che l’intenzione di quest’ultimo è di non relegare il Mistico esclusivamente alla sfera dell’estatico e del religioso per indagarlo piuttosto nel campo del quotidiano e, più generalmente, per cogliere il senso ch’esso può rivestire in riferimento alla struttura esistenziale dell’essere umano, allora è proprio Wittgenstein il filosofo che ha inaugurato tale pista interpretativa e più di tutti ha saputo ricavare dall’esperienza del mistico un inedito e proficuo angolo prospettico per osservare la costituzione dell’animal loquens. Tale proficuità è dimostrata dall’autore anche nel capitolo successivo, che insiste e scava ancor più profondamente nella filosofia di Wittgenstein mostrando come non siano soltanto i passi più noti ch’egli dedica al tema del Mistico – con riferimento a das Mystische che appare nelle celebri proposizioni finali del Tractatus Logico-Philosophicus (1921) – a rappresentare un terreno di confronto fruttuoso per una simile indagine, ma rilevando la persistenza, composta beninteso pure attraverso tensioni e slittamenti, di problemi affini a quelli del Mistico anche nella sua produzione successiva, riferendosi per esempio alla Conferenza sull’etica (1929) e ad alcuni passi delle Ricerche filosofiche (1953). Infatti, le occorrenze del Mistico presenti nelle proposizioni finali del Tractatus, che, sottolinea Oliva, si configurano sia in forma di sostantivo sia in luogo di aggettivo (cfr. p. 24), sembrano riflettere e, insieme, istituire i limiti fra il mondo e l’ineffabile lasciando aperto il problema di un sentimento «senza soggetto e senza oggetto, ma che non per questo perde la propria specifica connotazione affettiva» (p. 27). In altre parole, il Mistico nel Tractatus appare connesso a una «visione del mondo sub specie aeterni» (p. 35) senza però che la dimensione dischiusa da quest’ultima sia esplorata fino in fondo, in linea con l’ultima proposizione dello stesso Tractatus la quale prescrive di tacere su ciò di cui non si può parlare. In tal senso, il Mistico rinvia qui a un’esperienza pre-logica, al di qua del linguaggio e al limite del mondo, che precede ogni possibile analisi logico-filosofica. Nel “secondo Wittgenstein”, invece, pur diradandosi i riferimenti espliciti al mistico (in merito cfr. p. 84), sono presenti talvolta passi e considerazioni in cui sembra affiorare una configurazione logica e problematica simile a quella che scaturisce da esso – come nella Conferenza sull’etica, dove il filosofo austriaco si confronta col sentimento di stupore per l’esistenza del mondo e con quello di assoluta sicurezza. Secondo Oliva, la distinzione e la «divaricazione» fra queste due fasi del pensiero wittgensteiniano in merito alle configurazioni problematiche ingenerate dal mistico «si gioca sul terreno logico e modale» (p. 30): il mistico del Tractatus si lega alla «contingenza del mondo […] vista come necessità» (p. 35), mentre la meraviglia per l’esistenza del mondo è un sentimento riconducibile alla “possibilità” dell’esistenza del mondo.
Col terzo capitolo Oliva tenta quasi una prosecuzione delle riflessioni wittgensteiniane attraverso i testi di Simone Weil, autrice che, pur apparendo molto lontana dai temi e dai problemi affrontati dal filosofo austriaco, sembra possedere nondimeno alcuni punti di contatto singolari con la sua produzione che riguardano perlopiù il tema dell’impersonalità e dell’indipendenza dalla forma soggettiva. In primo luogo, la prospettiva adottata dall’autore rileva nel concetto weiliano di persona impersonale «una delle possibili traduzioni» del Mistico wittgensteiniano poiché ne specifica un aspetto caratteristico. Nel Mistico, infatti, sarebbe esibito un «divenire-mondo» dell’individuo che, «coinvolto in un simile processo trasformativo», giunge a deporre la forma soggettiva, «il proprio Io», per divenire «impersonale […] ‘morendo’ come persona» (pp. 40-41). La configurazione logico-sentimentale del mistico, dunque, possiede un carattere impersonale che Weil sembra esplorare laddove l’analisi di Wittgenstein si arresta molto prima. In secondo luogo, nel «sentimento di realtà» che secondo Weil accompagna l’esperienza mistica si ravvisa un movimento concettuale analogo a quello presente nell’analisi wittgensteiniana poiché, similmente a quanto accade per quest’ultimo, nel sentimento di realtà «non vi è più un soggetto che stia lì a provarlo» e, «liberato dalle profondità interiori entro cui viene abitualmente relegato» tale sentimento sprigiona la propria «natura effusiva e atmosferica» (p. 43). Occorre aggiungere, infine, come rileva puntualmente Oliva, che questi accostamenti sono resi possibili anche dai lavori di alcuni allievi di Wittgenstein, come Maurice O’Connor Drury, Drush Rees e Peter Winch, che hanno in qualche misura favorito l’evidenziazione di prospettive teoriche inedite fra le posizioni dei due autori.
Nel quarto capitolo è soprattutto Jacques Lacan a figurare come l’intercessore privilegiato del percorso sulle tracce del Mistico compiuto da Oliva. Da una parte, lo psicoanalista francese ha disseminato qui e lì nel proprio insegnamento e nei propri scritti riferimenti e considerazioni su questo tema. In merito si possono ricordare, per non fare che qualche sparuto esempio, tanto l’affermazione contenuta nel Seminario XX secondo cui i suoi scritti apparterrebbero all’ordine della mistica, quanto le sezioni del medesimo in cui riflette su desiderio e godimento a partire dal Camino de Perfección di Teresa d’Avila, dalla mistica di Hadewijch di Anversa e san Giovanni della Croce; tanto il commento ad alcuni brevi passi del Peregrino Cherubico di Angelus Silesius nel Seminario I, quanto l’idea che l’accesso al godimento sia accessibile soltanto alla mistica esposta fulmineamente con la consueta allusività durante il corso del Seminario VI. Dall’altra parte, invece, la nozione lacaniana di «Reale» e l’insistenza con cui, almeno a partire da un certo momento, egli vi ritorna per svilupparla, rivela dei tratti e delle sfumature che collimano con i caratteri del Mistico indagati da Oliva in questo libro. Entrambe le nozioni, infatti, si situano aldilà di ciò che cattura e costituisce la rete del simbolico e del linguistico; entrambe si determinano come un punto cieco degli strumenti categoriali che il soggetto utilizza per la propria autopoiesi e per la strutturazione del mondo; entrambe sembrano implicare un sentimento, un modo di sentire, come testimoniato dall’analisi della «gioia dolorosa» osservata da Simone Weil (punto di partenza concettuale del capitolo) e dal godimento indagato da Jacques Lacan; entrambe, infine, come mostra Oliva passando attraverso e riformulando un accostamento di Alain Badiou, possono essere accostate grazie al concetto lacaniano di matema, il cui «contatto con il reale […] condivide con il Mistico l’individuazione dei limiti del linguaggio come operazione che ha luogo all’interno del linguaggio stesso» (p. 63). Un paragrafo del medesimo capitolo, inoltre, compie un breve détour che ha per oggetto il «non-sapere» di Georges Bataille, inquadrato criticamente attraverso alcune annotazioni di Alexandre Kojève – secondo il quale è contraddittorio, come fa Bataille, contrapporre l’«esperienza interiore» alla «speculazione filosofica» determinando una sorta di ritiro al di qua della parola per parlare del quale, tuttavia, è necessario l’uso del linguaggio. Secondo Oliva, in tal modo Bataille «scade nel misticismo», secondo l’accezione prima osservata, poiché, diversamente dal Mistico «inteso come mossa integralmente filosofica di ‘interruzione della filosofia’», le sue posizioni compiono un «un passo oltre l’“estremo del possibile”», terreno dove non può darsi alcun progetto, foss’anche «quello di uscire dal campo del progetto» (p. 53).
La sezione successiva, invece, osserva le riflessioni di Martin Heidegger relative alle «tonalità emotive», seguendone le vicissitudini, gli avanzamenti e gli slittamenti sino a sorprendere nel concetto di Stimmung «il limite del domandare e del chiedere ragioni» (p. 79). E il sesto capitolo prende le mosse da questo limite per far ritorno ancora una volta a Wittgenstein e per considerare le proposizioni contenute nella sua ultima grande opera – Della certezza (pubblicata postuma nel 1969) – rilevandone alcune possibili consonanze proprio con la fenomenologia heideggeriana della tonalità emotiva. Tanto nell’indagine heideggeriana sulle tonalità emotive fondamentali – come l’angoscia che appare in Essere e tempo (1927) e in Che cos’è metafisica? (1929) o la noia abbordata nel corso I concetti fondamentali della metafisica (1929-1930) – quanto la riflessione dell’ultimo Wittgenstein, infatti, a tenere banco sono la questione dei limiti del linguaggio e quella della visione del mondo «come tutto concluso» (p. 80). Entrambe “compendiate” nella lettura del Mistico esposta al termine del Tractatus, tali questioni sembrano risuonare in numerosi luoghi degli itinerari filosofici dei due autori, conducendo il lettore al settimo e ultimo capitolo, di cui abbiamo anticipato precedentemente alcune argomentazioni, che si conclude riflettendo sulla modalità che abita intrinsecamente il gesto del Mistico. Come abbiamo visto, per Oliva ciò che tiene insieme tutte queste riflessioni apparentemente disparate che vanno dagli albori agli anni conclusivi del XX secolo è l’aver rilevato, osservato, approfondito e studiato una peculiare modalità di guardare il mondo dischiusa dal mistico. Esso si configura pertanto come un gesto che trasforma lo sguardo comune. In questo esso non è un gesto necessariamente filosofico, eppure è di grandissima pregnanza per la disciplina perché esibisce e suscita esemplarmente alcune questioni al centro dell’interrogazione filosofica del Novecento. In ciò il Mistico figura come «un gesto conclusivo che, in una inaspettata inversione del pensiero wittgensteiniano, non aggiunge nulla sul piano del ‘che’ ma modifica – come in un improvviso cambiamento d’aspetto – la determinazione del ‘come’» (p. 96). In altre parole, nel Mistico non è più ciò che vediamo di fronte a noi a determinare il nostro sguardo, ma è quest’ultimo a presentarsi secondo una modalità radicalmente altra.
Ai sette capitoli sin qui osservati, si aggiungono, inoltre, una postfazione a firma di Daniela Angelucci, la quale sottolinea la pregnanza delle argomentazioni di Oliva per il modo in cui quest’ultimo riconfigura ed elabora la «dimensione estetica» connessa al tema del Mistico rivendicandone «la pesantezza, la necessità, la solidarietà con gli aspetti essenziali della nostra vita» (p. 123); e, soprattutto, un denso Post-scriptum sul quale vogliamo soffermarci per terminare le nostre considerazioni. In questa sede, infatti, Oliva prolunga ulteriormente la riflessione sul “secolo mistico” mostrando la persistenza dell’interesse per il mistico nella filosofia contemporanea più recente.
Il poscritto inquadra il prepotente ritorno, sulla scena filosofica mondiale degli ultimi quindici-venti anni, di posizioni che a vario titolo si richiamano al realismo (dal nuovo realismo di Maurizio Ferraris al realismo speculativo di Graham Harman) concentrandosi in particolar modo su Quentin Meillassoux e il suo libro Dopo la finitudine (2006). La critica al «correlazionismo» avanzata da quest’ultimo, infatti, giunge a considerare il Mistico e dipingerlo come una figura affatto rivelatrice, a suo dire, di alcuni esiti estremi cui la filosofia correlazionista del Novecento può dar luogo. Il Mistico, rileva l’autore, «diviene nelle pagine di Meillassoux la figura di una riduzione della filosofia a pietas, in cui l’accettazione dei limiti della pensabilità si traduce in una apertura nei confronti della credenza irrazionale e del fanatismo» (p. 103). Eppure, a ben vedere, grazie a un’argomentazione puntuale, Oliva rovescia le posizioni del filosofo francese mostrando che, contrariamente a quanto egli afferma, ciò ch’è contenuto nella declinazione wittgensteiniana (quella considerata da Meillassoux) del Mistico «non è il frutto scettico-fideistico del correlazionismo forte», bensì, piuttosto, «l’incarnazione di un realismo ancor più radicale di quello speculativo» (p. 108). Tale rovesciamento è operato da Oliva attraverso la dimostrazione che la maniera adottata da Meillassoux per inquadrare il Mistico (o, perlomeno, la sua declinazione wittgensteiniana) è viziata da un errore piuttosto vistoso. Il filosofo di Vienna, infatti, «non ha mai inteso il Mistico in maniera diversa da un assoluto» (p. 106) e dunque comprenderlo come l’esito di una posizione correlazionista vuol dire, in realtà, non averlo compreso affatto. Il poscritto si chiude con una riflessione che prende le mosse dalla constatazione di Badiou secondo cui in Wittgenstein si disvela il compimento di un atto teorico definibile come «arci-estetico» (cfr. p. 110) e gettare le basi per la formulazione di un «realismo mistico» o «estetico» (p. 113).Il mistico è un testo decisamente rilevante per numerosi problemi che interessano e abitano il dibattito filosofico contemporaneo. Essi vanno dal rapporto fra l’uomo e il mondo, in un’epoca di globalizzazione e crisi ecologica in cui diventa sempre più urgente la riflessione sulle modalità in cui esso si realizza, all’interrogazione della specificità dello sguardo estetico contemporaneo; dalla diatriba contemporanea sui nuovi realismi, sui correlazionismi e sul senso del filosofare oggi, alla discussione dell’eredità filosofica consegnataci dal Novecento; dalle nuove possibili configurazioni della teoria psicoanalitica, alla questione, sempre aperta, relativa ai limiti del linguaggio. Il libro di Oliva pone così il lettore di fronte a un’esperienza radicale, e lo invita a riflettere sui possibili sensi che la determinano e che a partire da essa si dipanano, fedele all’esigenza filosofica di riflettere sui limiti che ci attraversano e ci costituiscono.
di Claudio D'Aurizio
-
Roberto Calasso – L’innominabile attuale
Recensioni / Novembre 2017L'innominabile attuale, uscito quest’anno per i tipi di Adelphi, è l'ultimo anello della collana di opere scritte da Roberto Calasso. Il titolo riprende un'espressione che si trova nella prima pubblicazione dell'autore, La rovina di Kasch (Adelphi, 1983), sancendo così un collegamento tra l'inizio e la provvisoria fine della sua vasta produzione. Così come l'attuale di cui si occupa il testo, altrettanto sfuggente è l'opera di Calasso, irriducibile a un genere e a uno stile. Anni fa Pietro Citati, recensendo il suo I quarantanove gradini (Adelphi, 1991), ebbe a definirlo «uno scrittore imprendibile: sta celato nei suoi libri, come un animale occulto, enigmatico e pericoloso. […] Se tutto, nella sua mentalità e nella sua educazione, lo predisponeva a essere un saggista filosofo, il caso o gli astri o altri libri hanno voluto che egli diventasse molto di più: uno scrittore» (La Repubblica, 3 novembre 1991). Interrogato in merito al crogiolo di saperi e parole che appronta nelle sue opere, Calasso si è espresso così: «in rapporto a quello che scrivo l'espressione di Nietzsche pensiero impuro mi sembra una buona approssimazione» (“Il Venerdì”, 15/7/2016). Indubbiamente un'eco nietzscheana (non a caso l'opera omnia di Nietzsche è stata una delle prime pubblicazioni di Adelphi, la casa editrice di cui Calasso è proprietario e direttore) si avverte anche nell'Innominabile attuale: nello stile ricercato e potente, tendente all'aforisma; nello sguardo acuto, allo stesso tempo disincantato e meravigliato, che si posa sulle cose del mondo. Si potrebbe definire l'opera di Calasso un esercizio di pensiero, forse un po' nascosto, se, come l'autore stesso scrive, «al pensiero sarebbe quanto mai utile un periodo di occultamento, di vita clandestina e camuffata, da cui tornare a emergere in una situazione che potrebbe avvicinarsi a quella dei presocratici» (2017, p. 47).
Il libro è diviso in tre parti. La prima, Turisti e terroristi, è dedicata al mondo contemporaneo, sfuggente al punto da provocare la sensazione di non sapere dove si stanno mettendo i piedi, «l'opposto del mondo che Hegel intendeva stringere nella morsa del concetto» (p. 13). L'uomo che abita l'innominabile attuale, definito da Calasso Homo secularis, ha smarrito non tanto la religione quanto il brivido del sacro, il senso del divino. Ha sperimentato un alleggerimento da tutti i vincoli, senza però riuscire a viverlo come una possibilità liberatoria, ma avvertendo piuttosto un costante senso di minaccia, gravato dal peso dell'inconsistenza.
C'è però un'eredità delle epoche passate talmente potente e cruciale da non riuscire a tramontare: il sacrificio. Presenza costante nell'opera di Calasso, in questo libro viene accostato al fenomeno del terrorismo. Negli atti terroristici dei fondamentalisti islamici, osserva l'autore, è l'attentatore stesso a essere la vittima sacrificale, mentre la popolazione che viene uccisa è il mezzo per compiere il sacrificio. Secondo Calasso il terrorismo jihadista è compiuto in odio alla società secolare, che è dilagata nel mondo islamico portando con sé un frutto avvelenato: la pornografia. La possibilità improvvisa di vedere milioni di corpi nudi femminili che fanno sesso «fu un oltraggio estremo e una attrazione indominabile», capace di scatenare in modo incontrollato la pulsione di morte, più che quella erotica. La convergenza tra culture oggi infatti si verifica, secondo l'autore, proprio attraverso la pornografia, e ancor più con il turismo. In entrambi i mondi, nei quali le azioni sono prevedibili e ripetitive, l'estetica è omologata, l'esecuzione meccanica prevale sul dubbio. Le pagine dedicate al turismo, che denunciano come l'esperienza dell'altro venga sottratta allo shock dell'inatteso e addomesticata, suonano a dire il vero un po' banali.
Osservazioni penetranti riguardano invece il pensiero dell'età secolare, se di pensiero si può parlare. La società secolare, privata della possibilità di rivolgersi al trascendente, ha finito per adorare se stessa; un'ulteriore trasformazione del sacrificio è avvenuta attraverso l'esperimento: l'estensione del campo dello sperimentabile all'intero materiale umano ha condotto agli esiti drammatici del totalitarismo. La stessa logica si ritrova in una nuova «religione secolare», il transumanesimo, che considera la morte alla stregua di un problema da risolvere. Una delle voci più forti tra quelle pronunciate dall'Homo secularis è oggi progressista e umanitaria, talvolta anche spirituale, ma espressione di un umanitarismo e di una spiritualità infondati, retorici, dimentichi delle proprie origini. Della stessa mancanza di fondamento soffre del resto la democrazia, che risiede unicamente in un insieme di procedure, ma è la sola forma di governo capace di rendere sopportabile la convivenza umana. La società secolare, che esalta l'immediatezza e la disintermediazione, mette a rischio il metodo democratico, basato, come del resto l'intera esistenza, sulla mediazione.
Calasso si sofferma poi sulla «religione dell'informazione», l'ossessione per i bit e gli algoritmi che pervade la nostra era, condivisa da buona parte delle élites imprenditoriali e scientifiche. L'informazione, che è necessariamente una grandezza discreta, non potrà mai chiarire il mistero della coscienza, che è invece situata al confine tra discreto e continuo, ma certamente è irriducibile a qualsiasi logica autistica e binaria. Come nel caso del turismo, anche nell'era informatica Calasso individua una minaccia alla possibilità del fare esperienza: «La digitabilità è il più grave assalto che abbia subito l'inclinazione a esporsi allo shock dell'ignoto» (p. 88).
Di fronte a tutto questo, secondo l'autore non resta che coltivare il proprio senso di non appartenenza, situandosi tra le pieghe della società, come «contemplanti nascosti e non riconosciuti», senza indulgere in lamentele che si rivelerebbero inconsistenti quanto la realtà di cui si dolgono. Una soluzione di ripiegamento individualistico, venata di pessimismo nei confronti dell'attuale, che lascia un po' a desiderare.
La seconda parte del testo, La Società Viennese del Gas ripercorre invece l'epoca che precede l'affermarsi dell'innominabile attuale: il periodo che va dal 1933 al 1945, in cui «il mondo ha compiuto un tentativo di autoannientamento, parzialmente riuscito». La storia viene ripercorsa attraverso una selezionata cronologia composta dalle testimonianze di scrittori e intellettuali: tra gli altri, Céline, Walter Benjamin, Brasillach, Ernst Jünger, Simone Weil, Klaus Mann, Curzio Malaparte, Vasilij Grossman. Sono le pagine migliori del libro: Calasso, attingendo alla sua sconfinata erudizione, riesce a dipingere un affresco inquietante e illuminante, impossibile da riassumere e tutto da leggere.
La terza e ultima parte, Avvistamento delle Torri, riprende un frammento di Baudelaire, in cui viene descritto un sogno, che è anche un triste presagio: un'immensa torre sta per cadere, è impossibile trovare l'uscita, ma nessuno sembra accorgersene, né sembra possibile avvertire alcuno.
L'innominabile attuale è una lettura che non lascia indifferenti; a suo modo, una testimonianza del fatto che lo «shock dell'ignoto», tanto caro all'autore, è possibile ancora oggi attraverso la fruizione di un prodotto culturale. Non mancano tuttavia le pagine in cui prevale uno sguardo elitario, ai limiti dello snobismo: questo accade quando lo sforzo di dare un nome alla contemporaneità, pure definita come inafferrabile, indulge in una solerzia eccessiva e quasi semplificatrice. Ciò di cui si avverte la mancanza, in fondo, è il gusto di cogliere l'innominabilità evocata nel titolo come qualcosa di misterioso, di irrisolto, ma foriero di possibilità inedite. Di certo il presente risulta irriducibile a visioni tranquillizzanti e lascia poco spazio a ogni ingenuo volontarismo progressista, ma non per questo deve essere ricoperto, con un opposto gesto di sottile moralismo, da un velo di negatività.
di Luca Pagano