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Leggere… o peggio. Il Seminario XIX di Jacques Lacan
Recensioni / Novembre 2023“L’uno non è nato ieri, ma è nato a proposito di due cose completamente differenti, a proposito di un certo uso degli strumenti di misura e, contemporaneamente, a proposito di qualcosa che non c’entrava niente, ossia la funzione dell’individuo.” J. Lacan,“Leggere… o peggio." Il Seminario XIX, 1971 – 1972”, Einaudi, Torino, 2020, p. 154 "Leggere… o peggio."
Con la pubblicazione di Leggere…o peggio. Il Seminario XIX di Jacques Lacan, volume collettaneo curato magistralmente dal giovane filosofo Marco Ferrari, la casa editrice Galaad prosegue nell'impresa di scolastica e certosina delucidazione dei seminari tenuti dal poliedrico psicanalista francese per più di vent’anni a Parigi, dal 1953 fino a poco prima della sua morte. In questi seminari, trascritti dall’allievo-testamentario-genero Jacques Alain Miller, sono infatti condensati ancor meglio che negli Scritti [1] tanto il sapere quanto il metodo che definiscono la pratica psicoanalitica ad orientamento lacaniano e la loro frequentazione permette di osservarne direttamente, come in un cantiere, il work in progress teoretico. Ma, com’è noto, leggere Lacan e accompagnare in itinere lo sviluppo delle sue folgoranti intuizioni, il suo perdersi nei vicoli ciechi della ragione ed il suo riemergere infine vittorioso dai flutti di quel fiume acheronte che già per Freud era da considerarsi metafora eminente dell’inconscio non è cosa facile, anzi. E così, assieme al precedente volume curato da Chiara Massari e dedicato al seminario XVI [2], questo pregiato testo della collana chiamata per l’appunto “Leggere Lacan” può ben fungere da bussola, o da mappa, per chi voglia provare ad orientarsi nella fase più complessa ed oscura, la più tarda dal punto di visto cronologico, del suo insegnamento.
L’enigmatico titolo del seminario XIX, “…o peggio” (in francese: …ou pire), con quei tre puntini di sospensione seguiti da un’apparentemente ingiustificata formula peggiorativa, lascia infatti già presagire quelle che saranno le continue allusioni, le ambiguità e le aporie che accompagnano, sincopandone il passo, gli inciampi dialettici, le contorsioni logiche e le funamboliche misture di biologia, linguistica e filosofia di cui questo seminario, tra i più difficili, è letteralmente infarcito. E così, per consentire un accesso facilitato ai molteplici temi lì trattati (il rapporto della psicanalisi con la sessualità, della sessualità con la metafisica, l’inesistenza del rapporto sessuale e la logica dei processi inconsci…per citarne solo alcuni), il curatore Marco Ferrari ha deciso di chiamare a raccolta uno stuolo di filosofi e psicanalisti che si sono occupati, ognuno singolarmente o in coppia, di una o al massimo due lezioni del seminario in questione. Il risultato è un concerto ermeneutico polifonico che non esaurisce, non congela il testo di Lacan in una serie di interpretazioni definitive e statiche, ma anzi amplifica il contenuto già di per sé ricchissimo di “…o peggio” nella misura in cui, per l’appunto, ne offre diversi scorci, diversi punti di vista anche tra loro contradditori.
Il primo intervento è firmato da Silvia Lippi, psicanalista bolognese che esercita a Parigi, e offre una rilettura queer della psicanalisi freudiana e lacaniana che pone un particolare accento sulle identità trans. L’autrice muove dall’assunto per cui “secondo Lacan ci sono e ci saranno sempre due sessi” [3], ma visto che “come sostiene giustamente Judith Butler, è il discorso che determina la differenza sessuale” [4] allora si deve ammettere, anzitutto, che “pensare che un uomo debba avere il pene e la donna una vagina è una convenzione sociale e come tutte le norme non ha valore universale” [5] e, in secondo luogo, che la psicanalisi debba essere mondata dalle sue tare fallogocentriche. Il testo, che si propone di interpretare le prime due lezioni di “…o peggio” in cui viene sviscerato il tema del fallo (simbolizzato da Lacan con il simbolo phi: Φ) e degli effetti che questi ha sulla logica soggettiva (un tema a dir poco centrale per la disciplina psicanalitica) potrebbe fungere benissimo da manifesto per una psicanalisi queer all’italiana [6] e non mancherà certamente di entusiasmare chi è impegnato nella battaglia per la liberazione del desiderio – sia anche nelle già liberalissime, lussuriose e ultrapermissive società occidentali. Certo, il rischio di queste letture inclusive e queer che sembrano riscuotere oggi molto successo risiede paradossalmente nel fatto che sottoscrivere le posizioni di Butler, e confondere il sesso con il genere, può portare ad abbandonare una forma di (supposto) riduzionismo biologista in favore di un’altra (questa volta senz'altro riduzionista…): quella del costruttivismo sociale radicale. Sacrificare una visione in cui biologia e cultura concorrono, anche se in modo giocoforza asimmetrico, a definire l’identità di soggetti liberi di autodeterminarsi entro i confini dettati, oltre che dalla cultura, anche dalla fisicità e dalla materialità del corpo in favore di una concezione marcatamente costruttivista (secondo cui il sesso altro non è che un indice, un’etichetta assegnata dal biopotere medicale da intendersi sempre, comunque ed inesorabilmente in termini oppressivi) come quella promossa da Judith Butler potrebbe, infatti, rivelarsi un operazione che non solo non aiuta nessuna minoranza ad emanciparsi ma, anzi, corre il rischio di minare la credibilità di queste stesse battaglie…come si suol dire: dalla padella alla brace. Senza contare, poi, che non è Lacan a credere che i sessi siano due: quanti e quali sarebbero precisamente gli altri sessi e quale branca della scienza dovrebbe supportare quest’idea? [7] Leggere… o peggio.
Nel secondo capitolo il filosofo Felice Cimatti azzarda un felice parallelismo tra godimento femminile e postumano. Seguendo il solco tracciato da Lacan e senza cercare di forzarne o di travisarne il testo, l’autore cerca di sbrogliare il nodo che lega come in un unico groviglio il godimento di
LaDonna, la castrazione ed il celebre tema metafisico dell’Uno, che Lacan riprende storpiandolo nella formula Yadl’un (C’è dell’uno):“Quindi il Yadl’un è la condizione, affatto singolare, in cui si viene a trovare un essere umano che sia passato attraverso l’universalità della castrazione senza esserne completamente schiacciato. Ma siccome per Lacan è umano solo chi è individuato da Φx, allora il “c’è dell’uno” si colloca in qualche modo al di là dell’umano”
Cimatti mostra chiaramente come per Lacan sia
LaDonna la figura che incarna al meglio lo statuto singolare ed irriducibile che contraddistingue quegli individui che hanno assunto una postura esistenziale tale da permettere un superamento della castrazione (anch’essa simbolizzata nell’algebra lacaniana dal simbolo Φ), ovvero gli individui che nelle intenzioni degli psicanalisti hanno conquistato questa posizione perché hanno portato a termine un’analisi. Ciò a cui agogna l’analizzante, infatti, per gli psicanalisti lacaniani non è tanto il raggiungimento di una non meglio specificata sanità mentale o, peggio ancora, il ritorno ad una mitologica e stereotipica “normalita” ma, all’opposto, la possibilità di “superare il linguaggio […] rimanendo però nel linguaggio” [8], ovvero la chance di bypassare “la logica della definizione e quindi dell’imposizione” [9] che costituisce, fuori di metafora, il vero senso della castrazione. Se “la posizione femminile sfugge alla condanna di tutti i viventi che si trovano invece intrappolati nel desiderio dell’Altro” [10], allora, è proprio perché lungi dal profilarsi come un riduzionista fallogocentrico, Lacan concepisce la femminilità come ciò che incarna uno stile (che nel seminario dedicato al godimento femminile, Ancora [11], troverà il suo riferimento illustre nell’esperienza mistica di Santa Teresa, di Ildegarda di Bingen o di San Tommaso, che donna di certo non era…) tipico di chi riesce ad assumere su di sé la strutturale incompletezza ontologica della realtà senza per questo farsi annichilire da essa [12]. Che le donne si trovino facilitate, rispetto agli uomini, in questo gioco in cui in ballo vi è niente poco di meno che la soggettivazione è un fatto che Lacan da per scontato al punto da orientare tutta la sua tecnica analitica nel verso di uno spossessamento, di un abbandono che ricordano dappresso una sorta di femminilizzazione del soggetto. Tant’è che come osserva puntualmente Cimatti da quella tecnica postumana che è l’analisi ci si aspettano risultati postumani nella misura in cui ciò che si paventa è una trasformazione corporea che però, quasi magicamente, non ricorre a nessun tipo di intervento chirurgico:“Il corpo che esce dall’analisi è allora un corpo che ha assunto la posizione femminile (questo vuol dire che può assumere questa posizione anche un uomo e che non è affatto detto che tutte le donne siano capaci di assumerla). La posizione femminile è quella di un corpo capace di un godimento non fallico, ossia fuori castrazione, e quindi anche fuori dal controllo dell’Io” [13]
In ballo, in un’analisi, c’è infatti proprio la possibilità di andare a maneggiare l’articolazione logica della soggettività dell’analizzante ovvero la struttura psichica che altro non è se non quel che per millenni è stato chiamato “l’anima” – ed il cui sapore metafisico è ripreso da Lacan proprio mediante la formula “C’è dell’uno” che ritorna, lungo tutto l’arco del seminario “…o peggio”, con l’insistenza di una goccia cinese. Ma l’inesausta ripetizione di questo adagio, come a voler motteggiare la millenaria riflessione filosofica sull’Uno (quell’ἕν – hen – che da Parmenide a Schelling, passando per Plotino e Spinoza, allude alla possibilità di conchiudere la totalità dei fenomeni in un’unità concettuale che sintetizza l’infinito ed il finito nell’apprensione metafisica dell’Assoluto), fa da contrappunto ad un altro mantra del lacanismo ortodosso, il ben più celebre “non esiste rapporto sessuale” (il n’y a pas de rapport sexuel) e si pone rispetto a questo come una sorta di integrazione o, meglio, di polo dialettico capace di generare una tensione concettuale decisamente prolifica. Come mostrano bene l’intervento in tandem di Pierpaolo Cesaroni e Mavie Loda ed il seguente, quello della psicanalista Stefania Napolitano, infatti, il fatto che Lacan tra gli anni sessanta e settanta si sia dedicato ad una rilettura della tradizione logica e metafisica occidentale è da intendersi come il mastodontico tentativo di rifondare le premesse teoriche della psicanalisi sulle impasse, sulle aporie e sui fallimenti che hanno punteggiato la storia della filosofia e che sembrano riproporsi, come in controluce, nel vissuto degli analizzanti. L’interesse per i quantificatori aristotelici, per la logica formale e per la riflessione metafisica sull’essenza che negli anni di “… o peggio” acquistano via via sempre più centralità, e che soggiace alle formalizzazioni matematiche della vita psichica come i quattro discorsi o la tavola della sessuazione, indica per l’appunto un luogo di pulsazione centrale nell’economia dell’insegnamento lacaniano, il luogo dell’intersezione, dell’incrocio tra la filosofia e la psicanalisi. E “C’è dell’uno”, la formula ottenuta dalla copula del verbo essere con il sostantivo che allude ad una mitica unità tra l’uomo e il mondo, di questa intersezione è un po' il condensato, il significante che indicherebbe – come già ricordato nell’esergo di questa recensione – il rapporto tra “un certo uso degli strumenti di misura” così come questi vengono codificati nella storia della cultura occidentale “e […] qualcosa che non c’entrava niente, ossia la funzione dell’individuo”. E così dalle parole proferite dai pazienti sul lettino degli psicanalisti, in breve, trasparirebbero come su scala ridotta, sul piano soggettivo e singolare, le stesse aporie e lo stesso smarrimento che per millenni hanno animato quell’avventura del pensiero che passa sotto il nome di filosofia, gli stessi crucci metafisici, le stesse tensioni verso un Assoluto tanto irraggiungibile (con il quale non esiste il rapporto) quanto allettante e che la psicanalisi ha interpretato come il fantasma, la copertura immaginaria e simbolica della piena soddisfazione libidica. Quando Cesaroni e Loda scrivono, ad esempio, che:
“…fin dall’inizio del suo insegnamento, Lacan insiste sull’errore di considerare la comunicazione come un passaggio lineare di messaggi. “Non è questo” non si trova tra domanda e offerta, consiste nella loro distanza, non loro non essere uguali né corrispondenti” [14]
quello a cui i riferiscono è allora l’interdipendenza, la reciprocità intrinseca tanto del fatto che “non c’è rapporto sessuale” quanto del fatto che “c’è dell’uno”: l’assenza dell’uno implica la presenza dell’altro ed il continuo fallire la ricerca di una risposta definitiva sul piano filosofico e di una soddisfazione completa su quello psicologico è proprio ciò che anima, sia dal punto di vista della storia collettiva (o storia della filosofia) che di quella soggettiva, l’infinito articolarsi della catena significante, lo scorrimento metonimico del desiderio e quindi il ritorno inevitabile, benchè parziale, della jouissance...Come a dire che il fallimento connaturato ad ogni forma di comunicazione (quel che potremmo intendere come il pane della psicanalisi, ma anche come il presupposto ultimo della millenaria ruminazione che passa sotto il nome di filosofia) reca con sé le tracce, le impronte e gli indizi che permettono agli analisti di raccapezzarsi nella loro pratica: orientarsi attorno ad un punto di impossibilità (“Non c’è rapporto sessuale”) ed interpretare le modalità attraverso cui la soddisfazione così inizialmente impedita ritorna in modalità surrogate e parziali (“C’è dell’uno”) sarebbero così gli estremi, i veri e propri Scilla e Cariddi per la direzione della cura nella clinica psicanalitica.
Certo, una volta appurato tutto questo rimane inevasa la questione del perché alla donna, o al femminile piuttosto che al maschile, sia riservato un accesso privilegiato a quel che Lacan definisce godimento mistico, così affine e simile al godimento dell’Uno che c’è, e che è l’unica alternativa all’inesistenza del rapporto sessuale. Ad occuparsi di questo annoso problema è Federico Leoni in un testo molto ispirato in cui dimostra, attraverso un sapiente uso della metafora, come la postura del femminile per Lacan si ponga al di là della logica fallica ossia al di là delle contrapposizioni dialettiche che istituiscono ogni tipo di macchinazione e di manipolazione razionali del mondo, essendo queste pratiche invischiate nell’oscillazione dialettica del significato, dei suoi limiti e della sua assenza (ragion per cui sia il fallo che la castrazione sono simbolizzati, come abbiamo già ricordato, dal significante Φ).
LaDonna starebbe allora nell’economia generale della psicanalisi lacaniana come il supporto stesso, la condizione di possibilità stessa della ragione che svanisce e diviene inaccessibile ogni qual volta la ragione stessa viene applicata:“..la questione del femminile è appunto la questione del supporto, o se preferiamo, la questione del supporto è la questione del femminile. In questo caso, il non-rapporto non si impone come un abisso che separa il maschile dal femminile intesi come una mela e una pesca, si impone semmai come un abisso che separa la mela e la pesca dal cesto in cui stanno, o dallo scaffale su cui sono appoggiate”
Com’è noto, infatti, sin dall’articolo “La significanza del fallo” [15] per Lacan il Φ è il significante che conferisce significato ad ogni altro significante, e porsi al di là della castrazione (che del significato ne indica per l’appunto il limite) non significa necessariamente ricadere in un mondo privo di senso ma, piuttosto, raggiungere una postura soggettiva collocata al di là della sua sfibrante ricerca, dell’inseguimento del significato come problema maniacale e assillante – un al di là che ne costituisce paradossalmente la premessa, la condizione di possibilità. Quando Lacan parla di
LaDonna parla infatti proprio di questo: di un’attitudine soggettiva che sappia sottrarsi alla caccia ossessiva e maniacale dell’Assoluto, di un’inclinazione teorica e metafisica priva della smania di quell’Uno che ha tenuto occupati per millenni i filosofi e in nome del quale sono state riempite (da uomini, non a caso…) intere biblioteche di trattati e manuali: come se si trattasse di un esercizio o di uno stile, per l’appunto, teso a sovvertire e a mettere a soqquadro il mondo così come questo è stato pensato per millenni nei termini squisitamente utilitaristici e strumentali dagli uomini. Quale colpo di scena, allora, e soprattutto per chi taccia Lacan di fallogocentrismo, ritrovare nel femminile (e segnatamente nelle figure che meglio ne esemplificano l’orientamento mistico come le già citate Ildegarda di Bingen o Santa Teresa, figure da sempre marginalizzate quando non addirittura escluse nella storia della filosofia…) un modello o un paradigma innovativo per intendere la filosofia stessa?In continuità con questi temi e sempre a proposito dell’annosa questione del rapporto tra psicanalisi, mistica e filosofia ritorna anche lo psicanalista Ettore Perrella nel suo intervento che mette a fuoco l’interesse nutrito da Lacan per la dimensione sapienziale tipica delle forme più antiche di conoscenza:
“Lacan aveva fatto di tutto per aprire l’esoterismo della saggezza a un insegnamento che, pur non volendosi universitario, aveva finito per rivolgersi a centinaia di persone. […] E il più grande tentativo di Lacan di aprire alla scienza l’esoterismo delle scuole di saggezza fu, proprio negli anni in cui teneva il seminario …o peggio, la proposta della passe” [16]
La femminilizzazione come esito di una psicanalisi, la mistica e lo stile esistenziale de
LaDonna allora non sono che esempi paradigmatici che illustrano, ognuno a modo loro e ognuno con sfumature diverse, quel che Lacan intendeva come obiettivo o fine della pratica analitica: sono figure o concetti che recano con sé una forma di incompletezza ontologica radicale rispetto alla quale si rende necessario quel che la passe dovrebbe riuscire a ratificare, ovvero l’avvento di una “posizione etica individuale coerente con le esigenze pratiche della formazione” [17]. Detto altrimenti: per evitare la riduzione accademica e burocratica della psicanalisi e per scongiurare quel che sarebbe poi avvenuto comunque, nonostante tutto (ovvero la rimasticatura libresca e nozionistica della sua opera) Lacan avrebbe tratto dalle antiche scuole sapienziali oltre che l’afflato metafisico che traspira dalla sua originale reinterpretazione dell’Uno anche la passione – assolutamente incompatibile con qualsiasi etica utilitaristica disponibile nelle società capitaliste – per l’ingaggio morale, per la scelta individuale e per la centralità dell’esperienza etica. Ed è qui che, finalmente, le opache e cerebrali elucubrazioni di Lacan sull’Uno condotte nel seminario “…o peggio” acquistano il loro proprio vigore e si rivelano in tutta la loro ammaliante, stringente attualità.Il godimento che vi è in ballo quando si evoca il “C’è dell’uno” lacaniano, infatti, è quel tipo di godimento incontrollato e coatto che si qualifica come ripetizione involontaria e che, nella reiterazione dello stesso, esibisce come in controluce la struttura del soggetto che vi si trova implicato e che così vi si scopre, per l’appunto, fatalmente assoggettato. Miller ne sottolinea esemplarmente il carattere coercitivo quando ricorda che, nell’ultima fase del suo insegnamento, Lacan passa da una concezione di ciò che anima gli individui che all’inizio è intesa alla stregua di “un’insondabile decisione dell’essere” ma poi, dopo la svolta di cui “…o peggio” testimonia gli avanzamenti critici, è descritta come un “insondabile decisione dell’Altro” [18], ovvero come effetto forzoso e incontrollato dell’ordine simbolico, come una successione di significanti che si ripetono automaticamente e che quasi meccanicamente fanno godere il corpo. È quel “godimento assoluto, quello prodotto dall’incidenza del significante sul corpo, che fa del corpo un corpo (di) godimento, cioè un corpo fissato in un’alterazione di sé, in uno sfasamento di sé” [19] di cui parlano il curatore del volume, Marco Ferrari, e l’analista Alex Pagliardini nel loro intervento in coppia che chiude il volume – e che in un certo senso condensa i risultati dei loro due ricchissimi interventi individuali tesi ad offrire una lettura davvero rischiaratrice dell’algebra lacaniana.
Come porci, quindi, di fronte a questo strapotere dell’automatismo simbolico e come reagire d’innanzi a questa tanto scabrosa quanto fondamentale caratteristica della psiche umana scrutata da Lacan negli anni settanta, quasi a preconizzare l’avvento della nostra odierna società turboconsumista? Come opporsi a questo godimento uniano, a questo godimento autistico che, anche grazie alla diffusione di dispositivi che letteralmente incollano lo sguardo di ogni-uno alla parata infinta del significante, ha assunto oggi una portata tale da risultare difficilmente circoscrivibile in quanto interessa fenomeni tutt’affatto eterogenei (dal doom scrolling alle più gregarie manifestazioni di piazza condotte nel nome di ideali posticci, passando per gli hikikomori e per la riduzione del discorso politico a mera passerella identitaria), come a voler sancire la diffusione ormai capillare di soggettività richiuse su sé stesse, che hanno come loro unico orizzonte l’Altro della ripetizione significante? Posto che non esistono, al di là dei richiami populisti che provengono sia da destra che da sinistra, risposte univoche a queste domande e una volta appurato con sconforto lo stato in cui riversa la realtà sociale, può essere utile anche solo – ma forse è già molto… – ritornare umilmente a frequentare i classici, a Freud, ritornare a Lacan. E ritornare a leggere Lacan non tanto con l’intento di elaborare nuove teorie o di rinnovare nominalmente, formalmente, la psicanalisi o la filosofia ma per assumere su di sé, singolarmente ed in modo giocoforza unico, quello stesso godimento dell’Uno per rivoltarlo contro sé stesso attraverso “un’operazione che riporta l’insopportabile al suo posto” [20]. Solo così è possibile rendere urgente, inaggirabile e inderogabile l’azione, la decisione insondabile che arricchisce il reale scabro e desertico con qualcosa di inedito, di singolare. È questo infatti il limite critico della scienza, incapace com’è di valicare i suoi scopi descrittivi, che la mistica ed il femminile secondo Lacan dovrebbero riuscire a scardinare ed è questa, in breve, la grande lezione etica della psicanalisi:
“Forse solo una considerazione epistemologica della scienza, se riuscisse ad allargarne il concetto fino ad includervi anche la psicanalisi, e quindi l’etica, potrebbe rendere il contributo di Freud e di Lacan centrale non solo nella storia della psicanalisi, ma in una teoria della formazione” [21]. "Leggere… o peggio."
Filippo Zambonini
Note:
[1] Lacan, Scritti, 2 Voll, Einaudi, Torino, 1974
[2] Chiara Massari, “Leggere…Da un Altro all’altro. Il Seminario XVI di Jacques Lacan”, Galaad Edizioni, 2021
[3] Marco Ferrari, “Leggere…o peggio. Il Seminario XIX di Jacques Lacan”, Galaad Edizioni, 2023, p. 55
[4] Ivi., p. 53
[5] Ivi., p. 54
[6] Il riferimento qui è a Fabrice Bourlez, Queer Psicanalisi. Clinica minore e decostruzione del genere, Mimesis, Milano – Udine, 2022
[7] A tal riguardo rimando a questo illuminante saggio di Richard Dawkins: https://areomagazine.com/2022/01/05/race-is-a-spectrum-sex-is-pretty-damn-binary/
[8] Marco Ferrari, “Leggere…o peggio. Il Seminario XIX di Jacques Lacan”, op.cit., p. 74
[9] Ibidem.
[10] Ivi, 75
[11] Jacques Lacan, Il Seminario XX. Ancora, Einaudi, Torino, 2011
[12] Lacan scrive
LaDonna barrandone l’articolo proprio in modo da ricordare lo statuto di negatività radicale che Heidegger attribuisce all’Esserci (Dasein) alla fine di “Essere e Tempo”, dove per indicare che “l’Essere” (Sein) dell’Esserci non è esso stesso un Essere – e quindi irriducibile a qualsivoglia ontologia – si ricorre all’espediente tipografico “Essere”(Sein).[13] Ivi, 76
[14] P. 97
[15] Lacan, J, La significazione del fallo: Die Bedeutung des Phallus, in Scritti, op. cit.
[16] Pp. 194 - 195
[17] P. 200
[18] Jacques Alain Miller, Cause et consentement, corso inedito del 1997 – 1998, lezione del 2 Dicembre 1987
[19] P. 211
[20] P. 244
[21] P. 204
Bibliografia:
Fabrice Bourlez, Queer Psicanalisi. Clinica minore e decostruzione del genere, Mimesis, Milano – Udine, 2022
Richard Dawkins: https://areomagazine.com/2022/01/05/race-is-a-spectrum-sex-is-pretty-damn-binary/
Marco Ferrari, “Leggere…o peggio. Il Seminario XIX di Jacques Lacan”, Galaad Edizioni, 2023
Jacques Lacan, “… o peggio. Il Seminario XIX, 1971 – 1972”, Einaudi, Torino, 2020
Jaqcues Lacan, Il Seminario XX. Ancora, Einaudi, Torino, 2011
Jacques Lacan, Scritti (2 voll.), Einaudi, Torino, 1974
Chiara Massari, “Leggere…Da un Altro all’altro. Il Seminario XVI di Jacques Lacan”, Galaad Edizioni, 2021
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L’universo di bell hooks
Recensioni / Gennaio 2021Recensione a bell hooks, Elogio al margine. Scrivere al buio, a cura di Maria Nadotti, TAMU, Napoli 2020, pp. 258.
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Un corpo unico fatto di margine e centro
Per molto tempo, il pensiero è stato orfano di madri. In balia di padri autoritari, molte figlie hanno imparato a costruire concetti mettendo da parte il proprio particolare sentire. Nel far ciò hanno aspirato, più o meno consapevolmente, a una falsa uguaglianza, che altro non era che un’omologazione del femminile al maschile. È necessario, pertanto, «pensare attraverso le madri» (Woolf 2013, p. 67) oltre che attraverso i padri. Tale bisogno è stato intercettato ed espresso da Gloria Jean Watkins, che, giovanissima, ha scelto di lasciare impressa la firma di bell hooks sui propri scritti. Questo nome è infatti un richiamo alle due donne – la madre e la nonna – che più di ogni altro hanno saputo insegnarle il prezioso valore della resistenza, tema su cui si concentra il primo saggio di Elogio al margine. Scrivere al buio, a cura di Maria Nadotti, TAMU, Napoli 2020, pp. 258. In esso, la casa viene individuata come un sito di resistenza sorretto dalle donne, in cui imparare «a stare al mondo con dignità, con integrità» (p. 29) e, soprattutto, un luogo in cui imparare «ad avere fede» (ibidem). Pertanto, l’idea dell’interconnessione tra genere, classe e razza, che ha reso bell hooks un’«“intersezionalista” avant la lettre» (Bränström Öhman 2010, p. 285), emerge sin dalle prime pagine di questa raccolta di saggi, curata e tradotta da Maria Nadotti, pubblicata da Feltrinelli nel 1998 e riproposta ora – insieme a Scrivere al buio – da Tamu Edizioni. La scrittrice afroamericana sottolinea la rilevanza del ruolo delle donne nere, che si sono assunte il compito di «fare della casa una comunità di resistenza» (p. 31), necessaria per la formazione della solidarietà politica. Infatti, ultime tra gli ultimi, le donne nere hanno saputo trasmettere ai propri figli l’importanza di dare un valore alla propria vita, scegliendo quotidianamente di sacrificarsi per la famiglia. Pertanto, la graduale trasformazione del sovversivo focolare in un sito di dominio patriarcale, con la conseguente svalutazione dell’esperienza delle donne, avrebbe avuto, secondo hooks, un impatto negativo sulla lotta di liberazione dei neri.
Sesso e razza convergono in un punto: il corpo delle donne. Quest’ultimo è l’elemento che consente al dominatore di esercitare ed esibire il proprio potere: i «maschi dominati vengono deprivati del loro potere (vale a dire ridotti all’impotenza) ogni volta che le donne che essi avrebbero il diritto di possedere […] vengono fottute e sottomesse dal gruppo maschile dominante e vittorioso» (p. 43). Allo stesso tempo, il corpo delle bianche diviene l’oggetto del desiderio incontenibile e vendicativo del cosiddetto stupratore nero («una storia» che, oggi, viene spesso calcata da chi sostiene, più o meno esplicitamente, che certa gente è meglio non accoglierla).
bell hooks è stata una delle prime a cogliere che «razzismo e sessismo sono sistemi interconnessi che si rafforzano e si sostengono a vicenda» (p. 46). A ben vedere, infatti, maschi bianchi e neri, grazie al sessismo, identificano entrambi la libertà con la virilità. In una società sessista fondata sulla supremazia bianca, bisogna tuttavia riconoscere che il corpo delle donne bianche ha un valore superiore rispetto a quello delle donne di colore. Questi temi, ben sviscerati all’interno del secondo saggio, Riflessioni su razza e sesso, sono ripresi all’interno del quarto. Qui, vengono connessi alla questione dello sguardo oppositivo delle spettatrici nere, le invisibili, che sarebbero riuscite a «valutare criticamente il fatto che il cinema abbia costruito la femminilità bianca come oggetto dello sguardo fallocentrico e a scegliere di non identificarsi né con la vittima né con il persecutore» (p. 89). Il discorso sul cinema e sui limiti della critica cinematografica femminista, fondata su un’astorica struttura psicoanalitica, che privilegia la differenza sessuale senza considerare le politiche di razza e il razzismo (si veda Valdivia 2002, p. 439), rientra in un discorso più ampio sul valore dell’estetica. Tema questo che viene sviluppato nel terzo saggio, in cui l’estetica è innanzitutto inquadrata come «un modo di abitare lo spazio, una posizione particolare, un modo di guardare e trasformarsi» (pp. 58-59). Anche questa volta, hooks parte dalla propria esperienza, situando cioè il suo punto di vista e la sua pretesa di conoscenza. Con ciò conferma i propri scritti come «un corpo di lavoro», in cui «l’arazzo delle parole è davvero la vita in crescita e mutevole del testo» (Bränström Öhman 2010, p. 286).
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L’ideologia suprematista bianca – ricorda bell hooks – non ammetteva che i neri avessero le capacità per misurarsi con l’arte. Per reazione, questi hanno enfatizzato l’importanza dell’arte e incentivato la produzione culturale, considerandole addirittura «il modo più efficace per opporsi» (p. 60). Tutto ciò ha condotto all’articolazione cosciente di un’estetica nera, messa a punto da critici e artisti afroamericani e rispondente all’esigenza di stabilire un nesso tra produzione artistica e politica rivoluzionaria. Tale tentativo è tuttavia sfociato in una sorta di “nazionalismo culturale”, che ha avuto l’effetto di ridurre «a zero quasi in tutti i campi, tranne che nella musica, la produzione artistica degli afroamericani» (p. 68). Il discorso sull’arte nera viene ulteriormente ampliato all’interno di Nerezza postmoderna, in cui è affrontata la questione del valore della critica all’essenzialismo per il riconoscimento delle molteplici esperienze da cui l’identità nera dipende. Inoltre, viene avanzata la proposta di concepire la cultura popolare come il vero luogo della lotta di resistenza per il futuro.
L’ultimo saggio, che dà il titolo all’intera raccolta, è il ponte attraverso cui siamo immessi nella seconda parte del volume, Scrivere al buio: l’intervista di Maria Nadotti a bell hooks. Il margine è il luogo da cui riflette la scrittrice afroamericana, uno «spazio di apertura radicale» dove «la profondità è assoluta», un luogo in cui si «è costantemente in pericolo» (pp. 126-127), perché favorisce prospettive diverse e in continuo cambiamento. Si tratta di uno spazio strategico «a cui restare attaccati e fedeli» (p. 128), che offre la possibilità di una prospettiva radicale e innovativa da cui guardare, creare e immaginare. È dal margine che bell hooks ci parla, e lo fa sempre in forma dialogica: l’indagine più strettamente teorica e la riflessione sull’esperienza personale sono tenute insieme, non aderendo perciò ai principi della cosiddetta prosa accademica convenzionale. Questo atteggiamento ha contribuito a farle assumere una posizione piuttosto ambivalente all’interno della teoria femminista contemporanea: malgrado il suo lavoro sia conosciuto e menzionato con rispetto a livello internazionale, è comunque considerato poco “teorico”, soprattutto se paragonato a quello di altre pensatrici femministe (Butler, Spivak, Haraway). Entriamo così in una questione che risulta ancora spinosa e che riguarda il femminismo, i suoi obiettivi e le sue articolazioni.
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Fuori dal nostro studiolo comodo e confortante, attraversando le strade o sostando nelle piazze (virtuali e non), potremmo essere costretti a vivere le conseguenze pratiche delle opinioni di certe persone, che, alla parola femminismo, si raffigurano un fenomeno unitario, opposto al maschilismo. Esse immaginano le femministe come una cricca di fanatiche, le cui azioni esprimono la volontà di fare a meno degli uomini e di prendere il loro posto nel mondo. Eppure, il femminismo, con le sue “ondate” e le sue “correnti”, è tutt’altro che un fenomeno unitario (si veda Missana 2014 e Ghigi 2018). C’è però chi, come Julia Kristeva, sostiene che le varie correnti, ambendo a «realizzare su questa terra la teologia paradisiaca» (Kristeva 2018, p. 20), si sono irrigidite in un militantismo senza futuro, che ignora la singolarità dei soggetti e che avrebbe reso la lotta delle donne «più individuale e solitaria» (p. 176). Di conseguenza, spesso si crede di essere delle femministe per il semplice fatto che si lotti per la parità sul posto di lavoro, o in favore dell’aborto o contro le molestie sessuali. Ma basta davvero questo? Secondo hooks, il «vero femminismo» sta nella capacità di misurare noi stesse nel rapporto con gli altri; nella capacità di fare i conti con il sessismo che ci trasciniamo dentro, trasformando continuamente la nostra prospettiva sul mondo. Ponendo al centro l’interazione con gli altri, hooks promuove la validità dei gruppi di autocoscienza femminile, ed esprime la necessità di spazi – le cosiddette cliniche femministe – dove fare rete per individuare strategie concrete che, associate all’analisi della propria particolare situazione, portino a un cambiamento radicale.
Occorre contrastare il fatto che, oggi, con l’istituzionalizzazione del pensiero femminista nell’accademia, molte femministe abbiano «smesso di uscire di casa e di cercare altre donne che la pensino come loro, donne con cui parlare, con cui discutere per ore» (p. 184). Il conservatorismo a cui spinge l’accademia spegne – secondo hooks – la forza radicale e rivoluzionaria del pensiero femminista.
In un Paese come l’Italia, in cui il movimento politico delle donne sembra tanto debole quanto la voce degli women’s studies, potremmo fare davvero tesoro delle riflessioni di bell hooks per costruire nuove prospettive e nuovi errori.
di Giulia Castagliuolo
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Bibliografia
A. Bränström Öhman, bell hooks and the Sustainability of Style, “NORA – Nordic Journal of Feminist and Gender Research”, vol. 18, n. 4, 2010, pp. 284-289.
R. Ghigi, Ritorno al corpo: epistemologie femministe e realtà sociali, in S. Besoli e L. Caronia (a cura di), Il senso della realtà. L’orizzonte della fenomenologia nello studio del mondo sociale, Quodlibet, Macerata 2018.
E. Missana, Donne si diventa. Antologia del pensiero femminista, Feltrinelli, Milano 2014.
J. Kristeva, Simone de Beauvoir. La rivoluzione del femminile, Donzelli, Roma 2018.
V. Woolf, Una stanza tutta per sé, Newton Compton, Roma 2013.
A.N. Valdivia, bell hooks: Ethics From the Margins, “Qualitative Inquiry”, vol. 8, n. 4, 2002, pp. 429-447.
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PK#9 \ Soggettivazioni. Segni, scarti, sintomi
Rivista / Settembre 2018L’intento di questa raccolta, che prende il titolo di “Soggettivazioni”, è stato quello di aprire una riflessione attorno alla teoria della soggettivazione lacaniana, così per come ce l’ha lasciata in eredità Lacan, a singhiozzi, nei testi stabiliti a partire dai suoi trent’anni di insegnamento orale. Cosa può dirci una psicoanalisi asistematica, distante dalle istituzioni universitarie rispetto a problemi di una concretezza innervata di realtà? Chi frequenta i dipartimenti di Psicologia e assieme l’insegnamento lacaniano sa che è incommensurabile la distanza che intercorre tra la specificità e la settorializzazione degli strumenti istituzionali a confronto con l’universalità dei concetti larghi e volontariamente mai definiti dello psicoanalista parigino. Tra l’estremamente particolare (l’ad hoc della psicologia contemporanea) e l’estremamente universale (il concetto, unità sintetica della filosofia) si rischia di incorrere in un deragliamento del punto focale, causato da uno scontro di metodi epistemologici che si sono stabilizzati ai bordi opposti l’uno rispetto all’altro. Nella scelta di prendere in considerazione un tema vasto e generale come la teoria della soggettivazione c’era l’interesse, da parte nostra, di porlo in dialogo con il campo altrettanto vasto e generale del presente. Speriamo che questa prima ricerca possa costituirsi come un’indagine (sebbene parziale) sullo statuto del soggetto in quanto campo epistemologico aperto: attingendo dalla teoria psicoanalitica e dal dibattito che ne è scaturito, il presente volume segue molteplici sentieri analitici e sottolinea di contributo in contributo la difficoltà di giungere a un’idea organica di soggetto, per la varietà di ipotesi spesso contrastanti in merito alla sua rappresentazione, formalizzazione e interpretazione. In questa raccolta crediamo che i punti maggiormente messi in rilievo da chi ha collaborato riguardino il problema della genesi, lo statuto della trasformazione, e infine un’attenzione specifica è stata rivolta al registro del Reale e ai suoi effetti.
A cura di Lorenzo Curti e Irene Ferialdi
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DOI: https://doi.org/10.13135/2385-1945/9.2018
Pubblicato: settembre 2018
Indice
Editoriale
L. Curti, I. Ferialdi, Soggettivazioni: tra vuoti e contiguità [PDF It]
I. Genesi
P. G. Curti, Estrarre il soggetto [PDF It]
C. Mola, Intrecci concettuali. Il soggetto tra Hegel, Kojève e Lacan [PDF It]
A. Lattuada, L’atto reale e la genesi del soggetto nella psicoanalisi di Jacques Lacan [PDF It]
D. Tolfo, Per un'analisi non significante della soggettività: la funzione del punto-segno ne l'Anti-Edipo [PDF It]
II. Trasformazioni
L. Melandri, La parola contaminata dei movimenti non autoritari degli anni Settanta [PDF It]
R. Chiafari, Drammaturgia e metamorfosi del genio maligno: soggetti e spettri tra follie e ragione [PDF It]
M. Di Bartolo, La psicoanalisi come estetica dell'esistenza [PDF It]
A. Soares De Moura Costa Matos, Streaming Subjectivation: Two Questions and One Thesis about Netflix [PDF En]
III. Reale
F. Cimatti, La lingua c'è. Saussure, Chomsky e Lacan [PDF It]
A. Pagliardini, Verso il reale: schizofrenia/psicoanalisi [PDF It]
F. Vergine, Le origini trascendentali del mondo. Per un'ontologia topologica del reale [PDF It]
Traduzioni
A. Zupančič, Differenza sessuale e ontologia [PDF It]
F. Rambeau, La fosforescenza delle cose [PDF It]
Interviste e recensioni
Intervista a Franco Lolli [PDF It]
F. Zambonini, Una quasi-recensione a "Lacan, oggi. Sette conversazioni per capire Lacan" di Sergio Benvenuto e Antonio Lucci. Considerazioni marginali sul rapporto filosofia-psicanalisi [PDF It]
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CRUDELTÀ, SOVRANITÀ, RESISTENZA NELLA PSICANALISI
Longform / Luglio 2015[…] gli Stati generali sono sempre convocati nei momenti critici, quando una crisi politica richiede una scelta, e prima una liberazione della parola in vista di una decisione d’eccezione che dovrà impegnare l’avvenire (Derrida, 2013, p. 56)
Stati d’animo della psicanalisi è il titolo della conferenza tenuta alla Sorbona da Jacques Derrida nel luglio 2000, in apertura degli Stati generali della psicoanalisi, occasione straordinaria di confronto tra psicoanalisti di tutto il mondo appartenenti alle diverse correnti del movimento psicoanalitico. La conferenza, uscita in Francia nel 2000 (Derrida 2000), è stata pubblicata in Italia alla fine del 2013 dalla casa editrice ETS, nella pregevole traduzione di Claudia Furlanetto, che ha curato il volume arricchendolo con un’agile e chiara introduzione e con un’ampia intervista a René Major, filosofo molto vicino alla psicanalisi di orientamento lacaniano e amico personale di Derrida. È proprio Major a ricostruire la lunga gestazione degli Stati generali, da lui stesso promossi e organizzati con tre anni di lavoro preparatorio, ma concepiti sin dalla fine degli anni Settanta, ai tempi delle dittature in Brasile e in Argentina. L’esigenza più urgente di Major era stata allora quella di denunciare le opacità dei rapporti tra la psicoanalisi e il potere, che andavano dalla complicità vera e propria di alcuni analisti nei crimini commessi dagli apparati di stato, alle azioni dissuasive messe in atto da una parte delle istituzioni psicanalitiche per insabbiare lo scandalo. In seguito lo spazio del confronto si sarebbe ampliato, fino a portare in primo piano la questione del senso politico della psicoanalisi. Alla caduta dei regimi sudamericani non fece infatti seguito un’epoca di pace e rispetto dei diritti umani nel mondo; d’altra parte i primi a violarli erano e restavano in molti casi i cosiddetti baluardi della democrazia, data la presenza della pena di morte in diversi stati americani. Anche in questo caso, le dichiarazioni di denuncia da parte delle istituzioni psicanalitiche rimanevano vaghe, come se, al di là dell’opportunismo, si volesse evitare di assumere una precisa posizione di condanna. Come se la psicanalisi, rispetto al potere – in particolare al potere di far soffrire – dovesse mantenersi a distanza.
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La psicoanalisi e le donne
Lacaniana, Serial / Febbraio 2015La psicoanalisi e le donne hanno sempre camminato insieme sin dalla nascita della prima. Diverse donne, nel tempo inaugurale della psicoanalisi, hanno aperto a Freud la via del transfert e gli hanno mostrato l’essenziale circa il nesso tra i sintomi di origine psichica e la sessualità. Cosa possiamo cogliere circa la specificità del rapporto tra la psicoanalisi e il femminile?
All’origine della psicoanalisi c’è l’incontro tra Freud e alcune isteriche. Isteria e femminile non coincidono in modo totale, ma vi è qualcosa nella logica dell’isteria che consente di connettersi col femminile. Freud constata che, nell’esperienza clinica, certi sintomi resistevano sia a trattamenti che avevano una presa diretta sul corpo (idroterapia, pranoterapia, ecc.), sia al trattamento che avrebbe avuto una presa diretta sullo psichismo: l’ipnosi. Così facendo, egli prende atto e nota del fatto che vi sia una discontinuità, qualcosa che esiste nella sua materialità e che, però, non si lascia trattare allo stesso modo delle altre sostanze materiali con cui la scienza medica è abituata ad aver a che fare. Freud incontra molto presto quel punto limite d’intrattabilità e ciò lo spinge a inventare la psicoanalisi e a proseguire, lungo tutta la vita, nella sua elaborazione, rilanciandola ogni volta che trova che quel punto insiste e chiama a una riformulazione della teoria. Nel testo sull’Interpretazione dei sogni lo chiama “l’ombelico del sogno”, mentre in Analisi terminabile e interminabile, scritto al termine della sua carriera, “la roccia della castrazione”. Per Lacan sarà il reale, l’impossibile.
È a partire da ciò che egli ipotizza l’esistenza dell’inconscio in quanto sessuale; giacché è con l’inconscio e con le sue elucubrazioni di lalingua, che il soggetto cerca di trattare questo impossibile strutturale. La sessualità umana, per la psicoanalisi, è una sessualità che non corrisponde a una sessuologia, poiché essa non è associata a una sorta di “manuale d’uso” che potrebbe spiegare al soggetto come utilizzarla. La sessualità non è nemmeno legata all’istinto. L’istinto e la biologia dettano agli animali quando, come e con quale simile soddisfare l’appetito legato alla necessità della specie di riprodursi. Per l’essere vivente che è preso dal e nel linguaggio, il parlessere, il modo in cui si situerà nella propria sessualità, come uomo o come donna, non è qualcosa di già dato sin dalla nascita. Ciascuno, a partire da certe condizioni– condizioni che non ha scelto, ma con le quali dovrà giocarsi la sua partita –, transitando attraverso un percorso fatto di identificazioni e di godimenti, arriverà a scegliere inconsciamente di posizionarsi dal lato maschile o dal lato femminile, in relazione alla propria sessualità.
Dal lato uomo troviamo una modalità di godimento legata alla logica fallica, logica del tutto, dell’universale. Grazie al significante fallico il soggetto può trovare un orientamento simbolico universalizzante che lo aiuta a raccapezzarsi con quella sessualità che nulla e nessuno gli può spiegare. L’organo sessuale maschile e il tipo di godimento che da esso il soggetto può trarre, rappresenta bene, sul piano del godimento, questa logica universale del tutto. La posizione maschile di godimento è identificata con la parvenza di avere il fallo e questo produce, nel soggetto così situato, una condizione tale per cui il proprio modo di godere è modulato secondo la logica del o tutto o niente, in concordanza con l’alternanza tumescenza-detumescenza propria dell’organo che viene identificato con il fallo (anche se non lo è). Da questo lato, l’immagine anatomica contribuisce a fissare in modo più assoluto il soggetto maschile al godimento fallico. Godimento che, nel Seminario Ancora, Lacan nomina come “godimento dell’idiota”. Dal lato donna, la logica fallica e il godimento che le è proprio è anche presente. In questa logica, il soggetto donna è nella posizione che l’identifica a essere il fallo, per sé e per l’altro. L’anatomia, che le rivela che non ce l’ha, non le impedisce di poter godere anche lei in modo fallico, a livello del corpo ma anche fuori dal corpo. Nulla vieta a una donna, per esempio, di godere del potere – sostituto fallico per eccellenza – allo stesso modo di un suo collega uomo, né di ottenere della soddisfazione sessuale attraverso un godimento fallico. Freud non ha mai smesso di interrogarsi sulla specificità delle donne, arrivando a concludere che la donna fosse caratterizzata dall’assumersi la castrazione, superando l’invidia del pene. Ciò però non basta per spiegare la specificità femminile, poiché l’assunzione della castrazione pertiene anche al mondo maschile, dal momento che il fallo simbolico – che manca all’uno e all’altra – non coincide con l’organo maschile. Jacques Lacan non è indietreggiato rispetto a questo impossibile nel quale l’opera freudiana si era arenata, interrogandosi ed elaborando qualcosa di più incisivo sulla specificità del godimento femminile. È questa specificità che fa dire a Lacan che La donna (come universale) non esiste, dal momento che non esiste Il godimento femminile unico e universale. Ciascuna donna può avere, se vi acconsente, un suo rapporto con un godimento al di là del fallo, al di là della castrazione e dell’Edipo, a condizione però di servirsi anche della logica fallica. Diversamente, si aprirebbe il campo al discorso sulla follia, ma questa è un’altra faccenda. Non si tratta, come possiamo vedere, di far coincidere il femminile con l’isteria. Vi è, però, qualcosa che le raccorda, senza sovrapporsi. A partire dei soggetti isterici, Freud scopre un al di là. L’inconscio, che cela un trauma in relazione alla sessualità, è un al di là. Un al di là degli enunciati, del sintomo, del lamento, i quali rivelano di essere dei messaggi da decifrare, solo a partire dal fatto che ci sia qualcuno che si metta nella posizione di volerlo cogliere e accogliere. L’isteria si difende dal sessuale insito nell’inconscio e perciò produce dei sintomi. L’isterica si difende dal godimento Altro, ma proprio perché si difende può trovarsi nella posizione opportuna per accedervi.
Il soggetto isterico è un soggetto diviso, che testimonia che vi è in lui un qualcosa da svelare, un al di là, appunto, anche quando spesso lui stesso oppone resistenza a questo svelamento. Le donne, a partire da una condizione che le caratterizza e rispetto alla quale sono in un certo modo privilegiate, oltre a essere iscritte nel godimento fallico, possono avere – se lo vogliono – accesso a un godimento Altro. L’inconscio non coincide con questo godimento Altro, il godimento femminile, come lo chiama Lacan; ma un modo per accedervi è quello di passare attraverso l’esperienza dell’inconscio, così come accade durante un’analisi. Quando un soggetto – uomo o donna – entra in analisi, ciò di cui fa esperienza è che i suoi sintomi, i suoi comportamenti, i suoi enunciati rivelano Altro da ciò che credeva; non solo un altro senso, ma addirittura un altro godimento. Cogliere questo, man mano, nell’analisi, conduce il soggetto ad acconsentire e accettare quell’altra logica, innanzitutto rispetto a sé, e di conseguenza anche rispetto agli altri. Accettare che vi sia un Altro godimento, forme di godere altre e diverse da quella sostenuta dall’Io, dal discorso cosiddetto comune, che è quello del padrone.
Passare attraverso l’esperienza di un’analisi e portarla a termine, può essere il modo, per una donna, di accedere al godimento specificamente femminile, il quale non si può afferrare, né dire, né localizzare da nessuna parte, ma, talvolta, lo si può provare.
di Maria Laura Tkach