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La scrittura sensibile. Proust e Merleau-Ponty
Recensioni / Febbraio 2023Nel film Magnifica presenza (Fandango, Faros Film) del regista turco Ferzan Özpetek, il giovane Pietro (Elio Giordano), vive un’esperienza singolare. Egli si accorge infatti, col tempo, di soggiornare in un appartamento infestato da fantasmi. Le misteriose entità, dapprima sfuggenti e timorose, trovano in Pietro un confidente, una figura amica, un tenero protettore. Lo stesso Pietro, che tra gli spiriti incontra Luca, vede in quest’uomo l’espressione più genuina ed autentica del sentimento amoroso, il candore delle prime volte. Sia Pietro che i membri della ‘compagnia Apollonio’ scoprono così un altro modo di vivere, di abitare il tempo, insieme, un tempo ‘ritrovato’, ben distante dalla mera cronologia, dal riepilogo del record quotidiano. I fantasmi che popolano la casa di Pietro non sono infatti ‘invenzioni’, per dirla con Bioy Casares. Non sono nemmeno il frutto di proiezioni sinistre, di spaventose allucinazioni. Lo svolgimento del film mostra che anche Pietro, come i suoi coinquilini, deve perdersi per poi ritrovarsi, per rivedersi, in senso autentico. Rivedere opinioni, correggere i propri giudizi su cose e persone: anche Pietro è un fantasma. Proprio di questa rettifica, di questa rilettura consta l’essenza più segreta della Ricerca.
Di Proust filosofo e della sua relazione con la fenomenologia merleau-pontyana si è scritto molto, nel corso negli anni passati. All’interno del vasto panorama offerto da questi studi, la recente pubblicazione del testo di Franck Robert va ad occupare una posizione di sicuro rilievo, e questo per più di una ragione. In primissimo luogo a colpire è l’ampiezza e la profondità, fisica e tematica, del volume in questione: composto da tredici capitoli (Proust philosophe; Percevoir, le rapport sensible au monde; De l’art; Modernité de Proust; Littérature et réalité; L’homme et l’œuvre; Art et vie; Le style; Vérité et institution; Approche phénoménologique. Temps et subjectivité; Le temps sensible; Écriture et vérité ed Ouvertures)che si dispongono su oltre quattrocentocinquanta pagine di testo, il lavoro di Robert rappresenta, a mia personale conoscenza, lo studio ad oggi più completo dedicato specificamente al confronto tra l’opera di Proust ed il pensiero di Merleau-Ponty, quest’ultimo da sempre affascinato, per confessione del filosofo stesso, dalla prosa dello scrittore e dalla sua ricchissima eredità concettuale. Un ulteriore e pregevole aspetto formale che mi preme rimarcare, in apertura, è la presenza constante, nell’argomentazione di Robert, di richiami teorici e testuali al corso merleau-pontyano Le problème de la parole, tenutosi al Collège de France tra gli anni 1953 e 1954, recentissimamente edito in lingua francese (Métis Presses, 2020, di questo testo mi permetto di segnalare una mia recensione pubblicata in «Studi di Estetica. Italian Journal of Aesthetics», vol. 19, 2021, pp. 237-242). Questa peculiarità, questa scelta speculativa, rappresenta senza dubbio un elemento meritorio e di originalità del già di per sé ricco lavoro di Robert.
La tesi fondamentale del libro è l’affermazione della centralità del ruolo della scrittura al cuore dell’esperienza sensibile. La scrittura non è slegata dalla pratica percettiva, anzi: ne è elemento costitutivo, compimento essenziale, sublimazione. Grazie alla scrittura l’uomo può ritrovare il senso autentico del tempo e dello spazio: tornando sui suoi passi, ripercorrendo a ritroso il cammino della conoscenza, ritrovandosi. Si tratta di un’opinione sostenuta sia da Proust che da Merleau-Ponty, sebbene sia stata comprovata in campi e discipline affatto diverse. Sia lo scrittore che il filosofo, però, hanno fatto della scrittura una vocazione, un mestiere, un modo di vivere ed interpretare il mondo e la propria epoca. Per entrambi la scrittura si spinge, si inoltra dove la percezione sensibile, la nostra prima e fondamentale porta d’accesso al mondo percepito, non può arrivare. Ma perché quest’insufficienza? Cosa serve a giustificare la sua comparsa della ‘grafia’, il suo richiamo, la sua fantasmagoria? Quale logica comanda la dimenticanza, e quale ancoraggio impone, in senso contrario, il percorso, la rotta del ricordo? Robert tenta di rispondere in questo testo a tali domande.
La scrittura, lungi dall’essere banale, sterile, ripetizione del senso, ne sancisce invece la ‘raccolta’, la ‘fissazione’, l’istituzione che non è, però, da intendersi quale esercizio di una qualsivoglia facoltà intellettuale, superiore, di ‘sorvolo’. La scrittura, dice Robert, «apre su di un’universalità che non presuppone, ma che, viceversa, inaugura» (p. 16). Tale affermazione prescrive la primarietà dell’espressione sull’espresso, della comunicazione sul contenuto della comunicazione stessa, facendo allusione ad un’universalità che non può – più – essere quella del concetto (p. 433). La parola non deve essere compresa come «esercizio del concetto, ma rivolta verso l’intersezione dei mezzi espressivi di una pienezza che essi delimitano [qu’ils jalonnent] ma che non contengono», recita Il problema della parola (p. 420; Merleau-Ponty 2020, 143).
Per mezzo dell’espediente letterario proustiano, «la verità che si rivela al narratore nelle reminiscenze della sensazione e nella scrittura – dice Robert – non è un accesso ritrovato a un mondo di idee che l'esperienza sensibile avrebbe coperto, poiché le arti che aprono la strada a questa verità, che abbozzano ciò che la letteratura realizzerà in altro modo, attraverso la scrittura, sono proprio le arti meno concettuali, più vicine al sensibile» (ibid.). Non è la filosofia che conduce alla filosofia, dice Robert, il sapere non si nutre di sapere, autenticamente, in modo univoco, ma è la ‘non-filosofia’, l’esperienza concreta, vissuta, ad indicare la via per il suo superamento non concettuale, laterale. L’intera opera di Proust, sostiene Robert facendo parlare le pagine Merleau-Ponty, può essere intesa allora come un tentativo di rovesciamento del platonismo, dell’idealismo cartesiano e delle sue derive teoreticamente più pericolose. Citando nuovamente Il problema della parola, in questo caso, «l’idea non precede l’espressione, ma è l’espressione ad essere responsabile dell’avvento dell’idea» (p. 108; Merleau-Ponty 2020, 160).
L’ambizioso compito della scrittura, e con essa del linguaggio letterario, è quello di restituire «la modalità di apparizione del mondo sensibile» (p. 221). E proprio «restituendo questo mondo vissuto, pre-nozionale, è possibile effettuare il passaggio all’idea: ovvero, è possibile costruire un ‘equivalente spirituale’ dell’esistenza» (Merleau-Ponty 2020, 178-179). Dunque, ‘spirituale’ ed ‘ intellettuale’ non sono termini coincidenti. Soprattutto, scrive Merleau-Ponty, «le essenze vere – e non quelle intellettuali – si trovano esclusivamente attraverso il chiaroscuro del vissuto, che noi provvediamo a costruire attraverso la nostra vita» (ibid.). La ‘modernità’ proustiana, la sua ‘ricerca’e la sua successiva realizzazione, sta, per Merleau-Ponty, nella sua capacità di rompere con la complicità idealistica con la conoscenza di ‘sorvolo’, la quale «sostituirebbe alle cose allo stato nascente l’idea delle cose», approdando alla dimensione più propria di ricerca dell’«idea sensibile» (p. 419). Quest’indagine si alimenta della proliferazione di «significati nascenti» (p. 435), designati dal criterio della «denominazione» (Merleau-Ponty 2020, pp. 153, 181-182; cfr. Merleau-Ponty 1996, pp. 106-108) e del suo eventuale capovolgimento ‘algoritmico’, – del quale il pittore Elstir è daimon proustiano né A l’ombre des jeunes filles en fleurs, così come, a ben vedere, lo è della reversibilità carnale merleau-pontyana – ovvero di quella logica del rinvio che, nella letteratura latu sensu, consentirebbe alla verità di raggiungere quell’universalità dettata da una progressiva ed inesauribile crescita «laterale» (Merleau-Ponty 2013), contributiva ed intersoggettiva.
Di questo consta la sintesi, passiva, delle ‘cose’ che la prosa di Proust sarebbe in grado di raccogliere, di riunire: la sintesi «risiede – allora – nel modo in cui il corpo riceve il mondo, nella capacità di tracciarvi delle linee che costituiscono un senso, degli assi che il soggetto segue, e che accompagna nel suo modo di abitare il mondo» (p. 435). Menzionando indirettamente il lavoro di Jacques Garelli, la ‘ricerca’ si occupa della raccolta del «logos del mondo estetico (…) delle idee prime che sono sensibili perché, all’interno del sensibile stesso, ne tracciano il senso pur senza apparirvi esteriormente» (ibid.).
Già, ma perché – come anticipato – si continua a parlare insistentemente, nelle pagine di Robert, di raccolta, di recupero del senso? Cosa è andato perduto nella delicata transizione tra percezione ed espressione, seguendo questa volta l’itinerario storico e teorico dell’opera merleau-pontyana? Cosa è andato ‘storto’? La replica a queste domande, sebbene ponderata e testualmente fondata, non può che risultare ambigua. A pagina 255, Robert sostiene che « [m]entre nell'opera di Proust la scrittura ha origine nella perdita, è una ricerca di un significato sepolto nell'esperienza del narratore, una raccolta e uno svelamento del passato, una ricerca di un senso della vita perduta, una vita superiore a qualsiasi vita vissuta, nell'opera di Stendhal la scrittura è identica alla vita stessa, un progetto di esistenza sempre già superato da questa stessa esistenza, un eccesso, un'apertura su un futuro che si inventa mentre si realizza, un'avventura». È una prima risposta, di primo acchito soddisfacente: vi sono molti modi di vivere, di interpretare, e quindi di scrivere il mondo circostante.
Ciò che, a mio parere, Merleau-Ponty individua ed apprezza nell’opera proustiana, ed è un aspetto che Robert coglie appieno, è il ruolo positivo della dimenticanza, dell’oblio, della capacità di allontanarsi dal mondo senza perderlo mai dal personale ‘orizzonte ermeneutico’, direbbe Collot, senza perderlo mai del tutto di vista. Per Proust ogni opera, ogni sforzo, mira ad «accogliere e a raccogliere l’esperienza», attraverso una «conquista differita e sospesa del senso dei fenomeni», la quale si attua per mezzo del «ritorno incessante al concreto, al sensibile» (p. 36). Secondo Proust, e a parere di Merleau-Ponty, l’esperienza, l’erranza avventurosa e, segnatamente, l’errore, la maldestrezza, è necessaria al fine di raggiungere la verità (p. 39). Questo punto è cruciale: il narratore non sarebbe tale senza la distanza, senza la contrarietà, senza la trascendenza che lo allontana da persone e cose, come l’istituzione del sentimento amoroso e la gelosia provata per Albertine nel corso su Istituzione e passività attestano con chiarezza. È come dire che sbagliando si impara o che il viaggio conta almeno quanto la destinazione, il che è condivisibile, detto anche in modo triviale.
La posta in gioco è altissima. Non si tratta più solo, a ben vedere, di riconoscere il proprio favore ad un modo di raccontare le cose, ad un determinato tipo di restituzione degli eventi: ciò che si ridiscute, in queste pagine, è nientemeno che lo statuto dell’idealità, della razionalità, dell’epistemologia platonico-aristotelica che tradizionalmente sostiene l’architettura del pensiero occidentale.
Cercando di riassumere, queste sono le domande che ci si pongono, nuovamente: che tipo di relazione c'è tra l'eternità e la temporalità? La temporalità è un fatto primitivo o derivato? Può qualcosa essere ‘eterno’ e ‘temporale’ allo stesso tempo? Può qualcosa di originariamente ‘temporale’ assurgere al rango di essere ‘eterno’? Intuitivamente, ciò che è temporale può durare ‘per sempre’. Ciò che dura può essere ‘sempiterno’, ma è ancora situato ‘nel tempo’, in quanto radicato in una cornice strettamente temporale, chiariranno le lezioni di Merleau-Ponty su L’origine della geometria husserliano. Ciononostante, a quanto pare, per conferire all'azione temporale un valore autentico, positivo, abbiamo bisogno di una nuova definizione di memoria e di oblio, superando la lezione dello schiavo del Menone.
Nell’ontologia di Merleau-Ponty, «l'oblio ha la priorità» sul ricordo, perché «senza oblio non sarebbe possibile alcun ricordo» (Waldenfels, Calandrella 2000, 114). Dimenticare significa in un certo senso lasciare andare qualcosa, rinunciare al pieno possesso intellettuale del mondo, per conservarlo in altro modo. Il mondo sfugge perché il flusso del tempo influisce sulle capacità del soggetto vivente di trattenere tutte le possibili esperienze che passano, che scorrono, che si confondono l’una nell’altra. Il soggetto a cui pensa Merleau-Ponty non detiene più le prerogative di una coscienza assoluta poiché rivela un'apertura naturale, una disposizione ad accogliere il divenire del tempo e quindi a concedere «una sorta di passività» (Morris 2018, 86). Contestando il concetto di «ritenzione» di Husserl, Merleau-Ponty rimprovera a questi di non aver ammesso con sufficiente chiarezza che la memoria «implica l'oblio», afferma Gallagher (2005, 107).
Questo è un punto essenziale, poiché Merleau-Ponty non può sostenere il fatto che l'oblio possa essere concepito come «un passaggio nel nulla, – come ha fatto il tedesco – (...) ma – al contrario, – un modo di essere a... nell'allontanarsi da...» (Merleau-Ponty 1964, 250). Riprendendo le parole di Gallagher, «l'oblio permette la possibilità dell'intenzionalità; è il necessario rovescio dell'intenzionalità. Se l'intenzionalità è intesa come differenziazione, uno scarto, l'oblio è indifferenziazione» (2005, 107). Nell'ontologia di Merleau-Ponty, nulla è completamente perso, dal momento che nulla è assolutamente guadagnato, acquisito una volta per tutte. La presenza o l'assenza effettiva dell'uomo in questo mondo, la sua presa su di esso è, a ben vedere, solo una questione di variazione tra un modo di agire consapevole, intenzionale, e una modalità involontaria e inconsapevole di indifferenza vitale, un abbassamento, una regressione in qualche modo controllata.
La ritenzione è l'inarrestabile «affondamento graduale» della percezione presente, come hanno sottolineato Waldenfels e Giuliani (2019, 50), ma essa non comporta un eventuale, sciagurato naufragio della memoria. Conservare qualcosa significa invero non lasciar andare, trattenere ciò che l'oblio disperderebbe. Il processo di dimenticanza, proseguono i due studiosi, è «l'inverso dell'attenzione e, in quanto impercettibile, appartiene alla percezione stessa» (ibid.). La ritenzione entra in gioco in qualsiasi momento, poiché l'oblio vero e proprio «inizia ora» (ibid.), nel ‘tutto’ che è ‘ogni’, corrisponde cioè all'ineliminabile lato oscuro della percezione, di ogni atto percettivo. Ma come funziona questo processo di allontanamento? Come può Merleau-Ponty sostenere che la dimenticanza non porta alla completa, diciamo, cancellazione del ricordo, della presenza? Infine, come può il filosofo francese salvare l’essere dal nulla, dall’irrecuperabile?
Ecco che allora l’erranza proustiana insegna propriamente a Merleau-Ponty che è il corpo a custodire i segreti della memoria, ad esserne lo scrigno del tempo il cui sigillo può essere divelto solo a determinate condizioni, che non sono quelle dettate dalle logiche dell’intelletto. L’esperienza principe che testimonia la sussistenza, sotterranea, silenziosa, di questa memoria di permanenza, è offerta già dalle primissime pagine proustiane della Ricerca, dedicate alla descrizione del processo di addormentamento e di risveglio dal sonno del narratore. È la «descrizione del risveglio – dice Robert – e la scoperta della continuità tra il mio essere ed il mondo, che consentono di pensare la memoria del corpo» (p. 372). Questo lungo passo della Ricerca è commentato da Robert all’interno del capitolo Le temps sensible, collocato verso la conclusione del libro, e che ne rappresenta, a parere dello scrivente, uno degli estratti più vividi e riusciti circa l’analisi della comunanza tra i due intellettuali.
Nelle pagine proustiane, Merleau-Ponty coglie infatti quell’onirismo, quell’elemento immaginario, simbolico, proiettivo e retrospettivo, quella poesia o ‘poetica’ della coscienza, quell’affaiblissement dello spirito che stava cercando, quell’«indice» (Merleau-Ponty 1945, 479) che segnala un problema, che, filologicamente, lo interessava già dal 1945: mi riferisco all’attività nella passività, ai movimenti avversi e pur inerenti alla vita stessa, il chiaroscuro che, come detto, costruiamo giorno per giorno (e notte per notte). Quella peculiare azione-passione che è l’addomentarsi, l’‘endormissement’ è la migliore prova, illustra Robert, che una coscienza può perdersi e ritrovarsi «rimanendo se stessa», che essa non è mai pienamente presenza à sé, e che il sogno non incarna l’assenza di ogni coscienza» (p. 366). Al contrario, il sonno, come la veglia, incarna «un modo in cui il corpo dispone per incontrare il mondo» (ibid.).
Assodata la virtualità del sonno, quella cavità che è una possibilità interna all’essere, perché la coscienza «scivola, senza una transizione chiara, nel sonno» (p. 367), altrettanto importante appare il risveglio, nel quale il corpo effettivamente si ‘ritrova’. In Proust, «il tempo ritrovato (…) si delinea innanzitutto nel modo in cui il corpo conserva la memoria del passato (...) il corpo – prosegue Robert – è innanzitutto ciò che riceve, che raccoglie il mondo, ciò che è sensibile al mondo; in esso, nel sonno, come nella vita percettiva, si radica un senso che non proviene dall'attività della coscienza di veglia» (p. 366). Il corpo è un qualcuno, è colui che mantiene e salvaguarda il legame con il cosmo, il tempo e lo spazio. Proprio come Merleau-Ponty, anche Sartre si è cimentato nell’analisi del sonno proustiano, insistendo però grandemente – e colpevolmente, rimarca Robert – «sull’immobilità del corpo, sull’annullamento di ogni motricità e l’abbandono di ogni fascinazione dei pensieri» (p. 370).
È un versante interpretativo che Merleau-Ponty non condivide, e che si impegna a confutare proprio sulla base della lettera proustiana. L’immobilità ipnotica cui pensa Proust, dice Robert leggendo Merleau-Ponty, ricalca infatti di una soppressione diversa, che non è concepita come degradazione, diminuzione della vita della veglia. Nel sonno, si vive in un altro modo, secondo rinnovate coordinate etologiche: l’immobilità è infatti «una possibilità del corpo che si relaziona a delle possibilità altre rispetto alla motricità» (ibid.) e che non è affare di coscienza. Nel sonno, il corpo si ritrova: nel riassorbimento letargico, il dormiente ri-scopre, potremmo dire, la ‘religione’ ed il culto primitivo di un passato carnale dal carattere enigmatico, una liturgia per la quale l’ancoraggio alla profondità, alla stasi del riposo personifica già, forse curiosamente, le virtualità di un progetto, una specifica «iniziazione cinetica» (p. 67), l’attributo di un «movimento imminente» (Merleau-Ponty 2020, 139).
L’esperienza di Pietro perciò si ‘scrive’, si ‘raccoglie’. Nel sonno, nel sogno, in questa dimensione non meglio precisata dell’immaginario, la ‘compagnia Apollonio’ rivive, e Pietro con lei: le sue vicende riecheggiano per i muri dell’appartamento, le voci dei suoi protagonisti lo accompagnano nelle vicissitudini quotidiane, ed il recupero, la raccolta del senso, ‘ritrovato’, la sera, ha il sapore dolce dell’intimità, dell’appuntamento. L’auspicio è che la ricerca possa, in futuro, concentrarsi su quest’ambiguità teorica, quest’anfibolia interna alla vita cosciente, rappresentata dalla dualità sonno-veglia, un aspetto che il libro di Robert ha messo in mostra con singolare fulgore.
di Riccardo Valenti
Bibliografia
Opere merleau-pontyane
M. Merleau-Ponty (1945). Phénoménologie de la perception, Paris, PUF
M. Merleau-Ponty (1964). Le visible et l’invisible. Suivi de Notes de travail, Paris, Gallimard
M. Merleau-Ponty (1996). Sens et non-sens, Paris, Gallimard
M. Merleau-Ponty (2013). Recherches sur l’usage littéraire du langage. Cours au Collège de France. Notes 1953, Genève, Métis Presses,
M. Merleau-Ponty (2020), Le problème de la parole. Cours au Collège de France. Notes, 1953-1954, Genève, Métis Presses
Bibliografia secondaria
S. Gallagher (2005) «Disrupting Seriality. Merleau-Ponty, Lyotard, and Post-Husserlean Temporality», in L. Hass; D. Olkowski (ed.), Rereading Merleau-Ponty. Essays Beyond the Continental-Analytic Divide, New York, Humanity Books
D. Morris (2018). Merleau-Ponty’s Developmental Ontology, Evanston, Northwestern University Press
B. Waldenfels; D. Calandrella (2000), Time Lag: Motifs for a Phenomenology of Time, in «Research on Phenomenology», vol. 30, Leiden, Brill
B. Waldenfels; R. Giuliani (2019) «Vortex of Time: Merleau-Ponty on Temporality», in E. Alloa; F. Chouraqui; R. Kaushik (ed.), Merleau-Ponty and Contemporary Philosophy, Albany, Suny
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Il danzatore performer nell’epoca contemporanea
Filosofia e danza / Febbraio 2023...Da loro impara il saggio Allora lo zoppo salterà come un cervo
che deve a questo mondo aver paura (Isaia, 35:6)
del tumulto e del moto;
d'un ombra che passa ebbro, poi per sempre
sconta l'uomo il castigo
d'aver voluto muoversi
(Charles Baudelaire, I Gufi)
Dovevano disporre di una tavolozza di colori, di gesti e di emozioni ancora in costruzione, i primi membri della comunità che corsero a imprimere la sensazione di un salto. E poi, era stata una prima volta o già la ripetizione di una ripetizione di quel gesto che li portò a trascriverlo sulla parete? Forse il bisogno (psico) fisico di addomesticarlo guardandolo in faccia, di rilasciare quell'energia furente che dava l'uscita per la caccia? Il tentativo di fermare quel momento, l'attimo in cui la corsa diventava uno slancio, una sospensione, un salto, e trasferirlo poi da un corpo a una superficie. Ma che sensazione provarono in quel momento? Il cuore doveva battere all'impazzata, il respiro pulsante, i muscoli eccitati nell'atto di sentire il proprio corpo che “imparava” le distanze infilandosi tra altri corpi animali, lungo corridoi di tronchi d'albero, gettandolo poi in una rincorsa dentro spazi aperti. Forse era a quel punto che arrivava il salto. Un momento privilegiato di sospensione, che staccava per un attimo i piedi da terra. Ci sono voluti millenni e vari cambi di tecnologie, fino alla poetica cronofotografia di Étienne-Jules Marey (non a caso fisiologo e cardiologo, prima di tutto), e Eadweard Muybridge, per raccontare fino in fondo quale meravigliosa complessità esista dentro quel movimento. Ma ciò che mi interessa di più è immaginare cosa provarono in quel momento quei primi saltatori/cacciatori: era già un esercizio estetico? Un intermezzo tra un passo e l'altro, in cui la testa percepì l'ebbrezza di sentirsi ancora più in alto, le gambe il desiderio di distendersi ancor di più per raggiungere un punto lontano, mentre il soggetto stesso si osservava agendo?
La danza classica riuscirà a tradurre quel momento, millenni dopo, in uno dei suoi passi più sublimi, il grand jeté. Puro slancio nello spazio, privo ormai di ogni azione di caccia se non il mantenere la forza e la grazia del corpo del danzatore/danzatrice in aria per attraversarlo.
C'è un momento magico dentro ogni salto che facciamo. I bambini lo sanno bene, così come i danzatori, gli atleti, le persone felici. Ognuno prepara quel momento a modo suo. Perché quando siamo felici viene quasi spontaneo saltellare, lanciare il proprio corpo in aria, godersi quel momento di sospensione che assomiglia alla traccia che rilascia una stella cometa. Coda di cometa, così la chiamava Husserl: continuo presente che si porta dietro una coda di cometa di ritenzioni che gli aderiscono strettamente. Come un vestito.
Quando siamo rimasti chiusi nelle nostre case durante i mesi più complessi del Covid, nel 2020, è avvenuto qualcosa di inaspettato. Danzatori, performer, filosofi si sono collegati on line per condividere le proprie pratiche. Si trattava di allenare una resistenza. Di re-imparare a vivere il nostro quotidiano all'interno di quelle che erano le nostre abitudini più prossime, ovvero le mura di casa nostra. Per alcuni, erano mura quasi sconosciute, per altri mura soffocanti. E così ci siamo collegati, in tanti, tra luoghi e mondi vicini e lontani.
Durante una pratica online di Dance Well, progetto di danza che coinvolge anche persone con il Parkinson, ho chiesto a tutti i partecipanti di saltare. Di fare o immaginare un salto. Quasi tutti ci trovavamo davanti a una finestra. O davanti a un muro. Attorniati da una piantina. Era una richiesta che avevamo fatto insieme a Gaia Giovine, un'ape operaia della filosofia, come ama definirsi, Elena Cavallo e Lucia Guarino, danzatrici.
Ha preso così forma questa restituzione, letta dalla voce di Stefania Ressico.
Per raccontare quali siano i tratti del pittore della vita contemporanea, Charles Baudelaire evoca una figura singolare, che si firma solo con le iniziali, C.G. Ciò che interessa al signor G, è la pura osservazione di quel che gli accade intorno. Il modo di muoversi delle persone, i loro tratti, abitudini, quei piccoli cambiamenti che intercorrono tra uno spazio e l'altro, tra un luogo e l'altro. (Nel linguaggio della danza è ciò che ha a che fare con la coreografia: ovvero, un certo modo di muoversi nello spazio e nel tempo).
Per questo, per definirlo, Baudelaire usa la parola cosmopolita, uomo di mondo, anziché artista. Perché tutto il mondo gli appartiene, lo incuriosisce. Ma ha bisogno di un'altra immagine ancora, e questa gli viene dal celebre racconto di E. A. Poe, L'uomo della folla.
E' la storia di una convalescenza. Dietro il vetro di un caffè, troviamo un convalescente che, riprendendo le proprie energie, osserva curioso e avido di vita il muoversi della folla. Tutto attira la sua attenzione, ed è come se si accorgesse per la prima volta di ogni dettaglio. A tal punto che, a un certo punto, si getta fuori dal caffè per inseguire uno sconosciuto. All'interno di questo profilo che Baudelaire va disegnando compaiono parole prettamente fisiologiche e poetiche: la convalescenza è come un ritorno all'infanzia. Il convalescente possiede in sommo grado, come il bambino, la facoltà di interessarsi alle cose. Vede tutto in forma di novità. Di più. Ciò che lo rende così contemporaneo è quella scossa nervosa, più o meno intensa, che si ripercuote sin nel cervelletto. Possiede una sorta di infanzia ritrovata per un atto di volontà. Con quell'occhio fisso e animalmente estatico dei bambini di fronte al nuovo.
Per definirlo ancor di più Baudelaire azzarda altre due parole. E' dunque un dandy? Non proprio. Un filosofo? Forse, se riesce a fare i conti con l'istinto metafisico della categoria. E' certamente un flâneur, ma non lo dice. Quasi due secoli dopo, potremmo aggiungere anche un'altra possibilità. E' forse un danzatore? Un performer? Un coreografo?
Così come potremmo aggiungere altre parole e sensazioni, “digerite” dai Situazionisti dal 1957: psicogeografia, spirito di scoperta, disorientamento dei riflessi abituali. Cartografia rinnovata. Détournement. Deriva.
Quando il sociologo Chombart d Lauwe nel suo studio su: Paris et l'agglomération parisienne, metteva in luce la quasi immutabilità del percorso quotidiano di un cittadino medio, a cominciare dalla vita di uno studente, il cui percorso si riduceva a un triangolo di dimensioni ridotte, senza fughe, i cui tre vertici erano: l'Ecole des Sciences Politiques, il domicilio della ragazza e quello del suo professore di pianoforte, non dava drammaticamente ragione a Baudelaire, ai Situazionisti, circa il bisogno di rinnovare i sensi? Di re-interrogarli dentro le loro abitudini quotidiane?
Forse non tutti sanno che è proprio quello che da decenni la danza e la performance stanno provando a fare.
Immaginate di prendere 8 danzatori, diceva il grande coreografo Merce Cunningham, per spiegare che cosa era la complessità che la danza moderna stava portando dentro il Novecento. Dunque, prendete 8 danzatori e incominciate a creare una situazione in cui ciascuno si comporta come un solista. Immediatamente, rispetto al tradizionale corpo di ballo che si muove insieme, vi accorgerete che state già creando un tipo diverso di complessità. Ora, ritornate per un attimo al tradizionale corpo di ballo con 16 danzatori che si muovono insieme e simmetricamente a destra e a sinistra della scena. E vi accorgerete con che facilità e letizia il vostro sguardo li seguirà da un lato all'altro. Ora, provate a introdurre una piccola modifica: una serie di 8 danzatori andrà a destra e un'altra serie di 8 a sinistra; ciascuno dei due gruppi inizierà poi a eseguire dei movimenti diversi dall'altro gruppo. Vedete che la situazione incomincia a farsi più imprevedibile. Aggiungiamo un'ulteriore complessità. Degli 8 danzatori a destra, 4 inizieranno a fare certi movimenti, e i rimanenti 4 altri. E così di seguito anche sul lato destro. Potete intuire fin dove ci si può spingere: ognuno dei 16 danzatori inizia a sviluppare una propria serie di movimenti. State entrando in un grado di complessità differente. Ma, sopratutto, sottolinea, state aprendo il campo a una gamma di possibilità tutte da esplorare. Non finisce qui, insiste Cunningham. Perché il meraviglioso balletto classico ragiona in termini di prospettiva di scena, orientata frontalmente davanti allo spettatore. Cosa succede, invece, domanda Cunningham, se ogni punto dello spazio diventa egualmente interessante? Che si rompe quel codice secondo cui il centro, la piazza potremmo dire in termini architettonici, ma anche politici e sociali, è il punto più importante. Pensiamoci bene, a che cosa tutto ciò comporta: ancora adesso, dopo un'elezione politica, all'interno dello sviluppo economico di una città, osserviamo il centro e la periferia. Ma cosa succede se tutti i punti, se tutte le parti diventano egualmente importanti da esplorare? Benvenuti dentro la grande complessità con cui si interfaccia la danza contemporanea.
Guardavamo fuori dalla finestra per cercare continuamente idee. Osservavamo le persone muoversi, camminare. Chi sono questi flâneurs, che parlano ancora così nel 1960? Un gruppo di coreografi, artisti visuali, danzatori, compositori, filmakers, riunitisi negli spazi della Judson Memorial Church, una congregazione Protestante presente a New York nel Greenwich Village, per una serie di workshops in cui indagano cosa sia la danza. E lo fanno a partire dai movimenti della vita di tutti i giorni: camminare, cadere, correre, alzarsi, rotolare, saltare. Eseguire delle piccole sequenze. Giocare. Sembrano i requisiti immaginati da Baudelaire per il pittore della vita contemporanea. Molti dei loro nomi costituiscono la storia della danza fino ai giorni nostri: Trisha Brown, John Cage, Lucinda Childs (leone d'oro a Venezia nel 2017), Merce Cunningham, Simone Forti, Steve Paxton (leone d'oro alla carriera a Venezia nel 2014), Yvonne Rainer, Robert Rauschenberg.
Passando davanti a una scuola elementare, per esempio la Tommaseo di piazza Cavour a Torino, può capitare di imbattersi in un pavimento disegnato dagli stessi bambini, in cui compare una sorta di scacchiera composta da palline allineate dello stesso colore disposte su 4 file: ogni fila ha un colore, giallo, verde, rosso, blu. Ogni fila è composta di 6 palline allineate dello stesso colore. Si tratta di un gioco in cui le regole sono dettate da una voce che “comanda” degli atteggiamenti: appoggia la mano destra su tale pallina, quella sinistra su un'altra, il piede destro su quella di quel colore. E così via. Dentro la scacchiera ci stanno almeno due persone che eseguono i comandi. Gradualmente i loro corpi si trovano a esplorare le posizioni più contorte e impossibili. E, allo stesso tempo, a trovarsi attorcigliati, intrecciati tra di loro.
Il gioco si chiama Twister ed è stato inventato e brevettato nel 1966 negli Stati Uniti, all'interno di uno di quei tanti cosiddetti brainstorming aziendali che da una cosa ne generano un'altra. Reyn Guyer, stava infatti cercando un'idea per promuovere una scatola di lucido da scarpe quando ebbe un'altra idea: un nuovo gioco di gruppo, da giocarsi non sul tavolo ma direttamente sul pavimento. Una sorta di scacchiera in cui le pedine sono i corpi stessi delle persone. Da quel che ne sapeva, non esisteva alcun gioco brevettato in cui i corpi delle persone agissero direttamente da pedine.
Ne fece dunque il prototipo e lo sperimentò con i suoi collaboratori. Ma, mancando di esperienza in quel settore, fece chiamare due esperti del settore: Charles Foley e l'artista Neil Rabens. Rabens propose di aggiungere nelle regole del gioco il fatto di appoggiare anche le mani, e non solo i piedi; mentre Foley propose di inserire 6 cerchi dello stesso colore per ogni fila distribuite su 4 file, in modo che gradualmente i giocatori finissero intrecciati tra loro per muoversi. Il gioco all'inizio prese il nome di Pretzel. Alcuni membri dello staff avevano però dei dubbi: il gioco, su degli adulti, poteva risultare un po' troppo compromettente, specialmente se a giocare erano un uomo e una donna, che si sarebbero trovati attorcigliati tra di loro. E, nel caso la donna avesse una gonna, addirittura con l'uomo che rischiava di finire sotto la sua gonna! Ma vinse la fiducia nell'idea e fu messa in produzione. Ma con un altro nome, Twister. E una frase che lo promuoveva: The Game That Ties You Up in Knots. Il gioco che ti intreccia in nodi.
I timori espressi da alcuni sembrarono all'inizio dargli ragione. I rivenditori, infatti, mostravano un certo imbarazzo nel promuovere, sopratutto sotto le Festività, un gioco che creava una forte promiscuità tra i corpi. E così si valutò l'ipotesi di toglierlo dal mercato.
Ma, prima di farlo, tentarono l'ultima chance. La possibilità di presentare il gioco all'interno della celebre trasmissione americana della NBC's“Tonight Show. La puntata andò in onda il 3 maggio del 1966 e il conduttore Johhny Carson si trovò a giocare a Twister con l'attrice Eva Gabor, famosissima all'epoca.
Il risultato fu un'esplosione di gioia e sensualità, i loro corpi si trovarono intrecciati e in posizioni atipiche esattamente come prevedevano le “regole” del gioco. Che, in realtà, non facevano altro che stimolare delle posizioni e posture diverse dall'ordinario. Facile prevedere il seguito. Da quel giorno la richiesta di Twister invase tutti i negozi.
Se osserviamo il tutto con decenni di distanza, ci accorgiamo subito di un fatto. Che ancora una volta hanno vinto i bambini. Il gioco è presente, per loro, davanti alle scuole, negli spazi adepti al gioco dei parchi. Talvolta è addirittura improvvisato. Come un piccolo détournement. Ma mai, vediamo un adulto giocarvi. Troppo scomode e diverse dall'abituale sono le posizioni da esplorare. Quel finire sotto, strisciare, aggrapparsi, provare ad articolare le gambe e le braccia su 4 direzioni diverse, come farebbero certi personaggi di Beckett, è troppo insensato, troppo buffo.
Nei parchi, negli spazi aperti, che sono il grande teatro della vita contemporanea, gli adulti sono quasi sempre seri e misurano tutto: la corsa, i passi percorsi, saltano solo per allenare i muscoli delle loro gambe, salgono e scendono da una panchina ripetendo il copione di un esercizio da fare. La coda della cometa è scomparsa. Ha vinto il ticchettio impeccabile della lancetta dell'orologio. La misurazione. Non esiste gioco, esplorazione, camminate inusuali, cadute, girare su se stessi. E se gli si dicesse che anche questi sono gli ingredienti di una pratica di danza con cui si costruisce una ricerca, una coreografia, forse sarebbe l'unico momento in cui li vedremmo sorridere.
Traducendo il De Rerum Natura di Lucrezio, il poeta Milo De Angelis osservava come uno scrittore, e un poeta in particolare, non scrive ciò che sa, ma comincia a saperlo scrivendo. E lo stesso avviene con una traduzione. Non traduciamo ciò che sappiamo, ma cominciamo a saperlo traducendo.
Quale è la legge “segreta” che sta dietro le nostre abitudini, comportamenti, azioni? E' all'interno di questi spazi, di queste griglie “invisibili” che si sono rifatte le pratiche di danza spuntate in mille modi dal nostro presente per interrogare quel che il corpo fa ogni giorno: ovvero, mettersi in movimento, anche quando sta fermo, come milioni di persone fanno quotidianamente nelle ore lavorative. Che coreografia sta abitando il nostro presente? Ce lo chiedeva già la grande Trisha Brown decenni fa. Ecco il tipo di domanda che proveremo continuamente a porci. Lanciando quasi una sfida e uno stimolo. Un'ulteriore domanda, in realtà. E se dentro quell'albero di genealogie così necessarie per interrogare il nostro presente che filosofi come Giovanni Leghissa ci propongono, fosse necessario provare a rispondere ogni volta attraverso una pratica? Attraverso l'esplorazione di una coreografia, che altro non è se non il rapporto che avviene tra i corpi all'interno dello spazio e del tempo che abitano?
I piedi, i nostri piedi, tornano così a cercare. Prima erano punte, sublime spazio metafisico di distanza tra cielo e terra. Finché, riaffondando dentro il selciato, hanno accettato anche il dialogo con l'orizzontalità, con le cadute, i rotolamenti. Da li, stanno re-imparando a saltare. Al danzatore, al flaneur, al filosofo, al poeta, ai botanici, agli scienziati, agli agricoltori è richiesto questo aspetto mutante di peso, di pressione, di tocco. Questo esercizio di spazio che, tra le persone, prende la forma di una comunità. Tra alberi e piante, e noi, la forma di un nuovo tempo, nuovo perché così antico, un tempo vegetale.
In questo la danza, il movimento tornano ad essere un esercizio filosofico che parte da dove tutto era cominciato: da una domanda.
Ed è quello che proverò a fare, insieme a Gaia Giovine, nelle prossime puntate.
di Emanuele Enria
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Aut aut 383 – L’Inland Empire di Niklas Luhmann
Recensioni / Novembre 2019Il numero 383 di aut aut, Niklas Luhmann. Istruzioni per l'uso, apparso questo settembre e curato da Giovanni Leghissa, esce a distanza di un ventennio dalla morte del sociologo di Lunemburgo; un numero che, come recita il titolo, ambisce a fornire le “istruzioni per l’uso” per chi voglia addentrarsi nel corpus di un autore oramai ai margini di qualsiasi dibattito, estraneo a qualsivoglia wave attualmente in voga e vivo solo dentro gli angusti confini di un risicato manipolo di ricercatori che, a discapito di tutto, prosegue il suo lavoro. L’obiettivo del volume è chiarito nella premessa: «non si è voluto tentare un’operazione monumentalizzante-storicizzante – del tipo: ciò che è vivo e ciò che è morto della teoria di Luhmann. Più modestamente, si sono volute indicare alcune piste di ricerca che mostrino a cosa può servire, oggi, la teoria dei sistemi se usata in un certo modo» (pp. 3-4). Cosa farsene di Luhmann? A cosa (e a chi) potrebbe servire? Perché dovrebbe valere la pena sottoporsi a un vero e proprio tour de force per addentrarsi in un edificio teorico ostico, totalmente arroccato su se stesso e per giunta poggiante su fondamenta instabili, sui cirri del paradosso e sui nembi dell’autoreferenza? Come scrive Andronico nel suo contributo, «leggere Luhmann non è facile, si sa, e per molti è persino noioso. Ma è necessario. Oggi più che mai, verrebbe da dire» (p.111).
A rendere poco agevole la lettura di Luhmann, oltre a una scrittura contratta che richiede di essere districata pazientemente, è l’assenza di punti fissi all’interno della sua teoria dei sistemi: con facilità ci si perde nei suoi meandri e non di rado si è soggetti a spaesamento e vertigine. Si prenda, come esempio, la distinzione tra sistema e ambiente, chiave di volta del suo edificio. I due termini, lungi dal rimandare a referenti stabili, assumono un valore meramente posizionale e funzionale: il sistema S1 è nettamente distinto dal suo ambiente (tutto ciò che non è S1); al contempo, nell’ambiente è possibile selezionare altri sistemi S2, S3,…, Sn, rispetto ai quali S1 costituirà parte dell’ambiente. La distinzione tra sistema e ambiente è dunque in funzione della peculiare selezione operata da un osservatore che circoscrive un sistema intorno al quale permarrà un non-circoscritto (l’ambiente) che costituisce il residuo di un’operazione di selezione, ciò che non è stato (ancora) selezionato.
Un secondo motivo di inciampo risiede nel carattere ricorsivo della teoria dei sistemi: la distinzione tra sistema e ambiente può applicarsi al sistema stesso, nel quale può essere distinto uno spazio circoscritto da uno non-circoscritto. Come per il triangolo di Sierpiński, che può essere diviso in quattro triangoli ognuno dei quali può essere diviso in quattro triangoli e così all’infinito, la teoria dei sistemi produce un frattale in cui una stessa operazione si ripete su di un’infinità di livelli. Ma ogni distinzione prodotta sarà posizionale e funzionale, e in tal modo il sopra e il sotto, l’inizio e la fine, il dentro e il fuori, il centro e la periferia, ecc., non rimanderanno a referenti fissi, ma a una precisa e contingenziale operazione di osservazione.
Come se non bastasse, allo spaesamento va aggiunta una sensazione di claustrofobia, perché se è vero che entrare nella “fortezza” di Luhmann non è facile, ancora meno facile è uscirne una volta dentro. L’auto-referenza che caratterizza la teoria dei sistemi istituisce uno spazio paradossale che ricorda alcune litografie di Escher, come Cascata o Salita e discesa: più si sale e più ci si ritrova in basso, più ci si approssima alla fine e più ci si ritrova in prossimità dell’inizio. In tal modo, più tentiamo di avvicinarci al fuori di quest’inland empire e più ci scopriamo vicini al suo cuore pulsante.
Detto ciò, diventa lecito chiedersi perché mai la teoria dei sistemi dovrebbe essere, oggi più che mai, necessaria. Cosa farsene di una mappa della società così complessa da richiedere di essere mappata da altre mappe? In che maniera la teoria dei sistemi può aiutare a orientarsi nel presente se essa stessa, al suo interno, non garantisce punti di orientamento stabili? Leggendo Luhmann si può provare uno sconforto simile a quello suscitato dalla scena di Stanlio e Ollio nel labirinto, quando Stanlio si imbatte nel cartello segnaletico che indirizza verso l’uscita e ha la bella idea di sradicarlo dal suolo e di muoversi nel labirinto portandoselo appresso: come ritrovare l’uscita se ogni punto di riferimento è andato perduto?
Date queste premesse, il numero di aut-aut non può che presentarsi come una vera e propria sfida: si tratta di rimettere in circolo la teoria dei sistemi e di testare la sua portata rispetto a questioni percepite dagli autori come urgenze (teoriche, politiche ed etiche). Il numero si compone di nove contributi, tra cui la prima traduzione italiana dell’articolo di Luhmann dal titolo Deconstruction as Second-Order Observing (1993), nel quale l’autore mostra le affinità tra l’operazione decostruttiva derridiana e la funzione svolta nella teoria dei sistemi dall’osservazione di second’ordine. Gli altri contributi vertono su: la relazione tra senso e paradosso nella teoria dei sistemi (Alberto Giustiniano) e la messa a fuoco di tale relazione nella produzione poetica (Cary Wolfe); la possibilità di utilizzare la teoria dei sistemi come cornice operativa per una teoria post-umanista della società (Maria Cristina Iuli); la funzione attribuita da Luhmann ai diritti umani e il loro rapporto con la modernità (Edoardo Greblo); le implicazioni politiche della teoria dei sistemi, in special modo rispetto al codice del potere e alla produzione di legittimità (Alberto Andronico); la tensione tra sguardo assoluto e sguardo situato condotta mettendo in risonanza Luhmann con Cusano (Gianluca Cuozzo); la ridefinizione (o meglio, la ricollocazione) del soggetto trascendentale alla luce della teoria dei sistemi (Giovanni Leghissa).
Non potendo, per ragioni di spazio, rendere conto di ogni singolo contributo, ci limiteremo a rapide incursioni con l’obiettivo di sondare alcuni dei tanti sentieri percorribili all’interno del volume. Ci concentreremo essenzialmente sulle implicazioni epistemologiche della teoria dei sistemi messe in luce in alcuni dei contributi, che ci sembrano costituire il nocciolo duro del volume, e proveremo a ricavarne alcune implicazioni etico/politiche.
Prima di iniziare la nostra ricognizione potrebbe essere opportuno fornire un quadro di alcuni postulati fondamentali della teoria dei sistemi, enucleati da Cary Wolfe nella maniera seguente (pp. 52-53): (1) la sostituzione delle dicotomie ontologiche proprie dell’umanesimo (natura/cultura, spirito/materia, mente/corpo, ecc.), le quali rimandano a referenti fissi, con la distinzione funzionale tra sistema e ambiente, i cui referenti sono instabili e contingenti; (2) l’asimmetria tra sistema e ambiente in termini di complessità, data dal fatto che qualsiasi sistema opera in un ambiente che gli è infinitamente più complesso; (3) la conseguente mancanza di varietà necessaria da parte del sistema per potersi rappresentare il mondo punto per punto, che lo costringe a filtrare la complessità dell’ambiente attraverso i propri codici autoreferenziali, cioè tramite operazioni di riduzione selettiva; (4) la coincidenza tra la riduzione della complessità esterna e l’aumento della complessità interna; in altri termini, la riduzione, per opera dell’autoreferenza del codice sistemico, della complessità ambientale è in grado di aumentare la varietà delle irritazioni tollerate dal sistema, dunque di renderlo maggiormente robusto rispetto a perturbazioni ambientali inedite.
Con questo bagaglio di assunzioni possiamo iniziare a tracciare un sentiero attraverso il volume. Pocanzi abbiamo accennato alla topologia paradossale cui i concetti chiave della teoria dei sistemi rimandano, ed è proprio dal paradosso che vogliamo cominciare. Per Luhmann si ha un paradosso quando un’osservazione si rivolge a se stessa. Un sistema che osserva, come abbiamo già accennato, circoscrive uno spazio di osservazione (chiamiamolo A) che in tal modo sarà distinto da uno spazio non-osservato (chiamiamolo non-A). L’osservatore può continuare a operare o sullo spazio di osservazione (applicando ricorsivamente la stessa distinzione) o sullo spazio non ancora osservato (inaugurando una distinzione inedita, dunque circoscrivendo un nuovo spazio di osservazione), ma non potrà operare sui due spazi contemporaneamente. Cosa accade nel momento in cui l’osservazione prova ad applicarsi a se stessa? Cosa succede, in altri termini, se l’osservatore cerca di osservare A e non-A nello stesso momento? Si genererà un cortocircuito paradossale, dato che l’osservatore applicherà la propria distinzione alla distinzione stessa, rendendo problematica un’allocazione di valori: la distinzione tra A e non-A è A o è non-A? Tale questione è per l’osservatore indecidibile: qualsiasi risposta dia i due valori saranno inclusi, in quanto la scelta di A implicherà non-A e la scelta di non-A implicherà A. A questo punto l’osservazione si blocca. Come si esce da questa impasse? Da una parte si può sbarrare completamente la via all’autoreferenza, dall’altra si può introdurre un’asimmetria – aggiungendo un livello di osservazione – capace di rendere l’autoreferenza non paradossale. Ma in questo secondo caso, come scrive Giustiniano nel suo contributo, il paradosso non diventa «un’eventualità da evitare ma indica un salto di livello, l’aggiunta di un osservatore che sarà in grado di osservare la distinzione, la ‘macchia cieca’ dell’osservatore sottostante e che a sua volta potrà essere osservato in quanto operazione a un altro livello» (p. 52).
Delineare il profilo dell’osservatore di second’ordine è forse il centro focale del presente numero di aut-aut. L’osservatore potrebbe essere definito, in maniera minimale, come qualunque sistema (umano, animale, macchinico, sociale) in grado di ridurre l’incertezza del suo ambiente tramite operazioni di selezione e di distinzione. Ogni osservatore può vedere solo ciò che le sue distinzioni gli permettono di vedere. Riprendendo un’espressione di Heinz von Foerster, un osservatore «non vede che non si vede ciò che non si vede» (cit. da Giustiniano, p. 53). In ogni osservazione vi è un punto cieco, che è dato dal non poter vedere, nello stesso momento, ciò che cade dentro e ciò che cade fuori il proprio spazio di osservazione. Il paradosso che risulta dal provarci può essere svolto solo da un osservatore di second’ordine, il quale osserva l’osservatore di prim’ordine (e le operazioni da questi compiute). Tuttavia, lo stesso osservatore di second’ordine non può vedere contemporaneamente i due lati della distinzione che la sua osservazione produce, i quali potranno essere visti solo da un altro osservatore, e così via all’infinito. Per quanto si moltiplichino gli “ordini di osservazione”, non si perverrà mai a una osservazione senza una propria macchia cieca, cioè a un’osservazione in grado di essere fondamento stabile per ogni altra osservazione. È su questa base che Leghissa, nel suo contributo, ricolloca nel mondo il soggetto trascendentale husserliano trasformandolo in un osservatore di second’ordine; ed è sulla stessa base che Cuozzo, mettendo in risonanza Luhmann con Cusano (l’unico riferimento filosofico costante del sociologo), mostra le implicazioni dell’incolmabile asimmetria tra l’absoluta visio di Dio – che può cogliere la verità semplice – e la parzialità, dovuta all’isolamento prospettico, di ogni conoscenza umana. Riprendendo un’efficace immagine di Cusano, quella del poligono tracciato nel circolo (dove il circolo è simbolo della conoscenza divina e il pentagono della conoscenza umana), Cuozzo mostra come tanto per Cusano quanto per Luhmann la possibilità di osservare tutte le osservazioni (quindi la capacità di vedere la propria macchia cieca) pertiene alla sfera teologica: ogni angolo del poligono è un punto di vista sull’assoluto, ma per quanto i punti di vista vengano moltiplicati all’infinito essi non potranno mai essere trasformati in absoluta visio, il poligono non potrà mai diventare circolo.
La teoria dei sistemi, dunque, conduce all’idea che il fondamento del sapere si trovi disperso in una molteplicità di osservatori, i quali possono vedere ciò che gli altri non vedono e possono essere visti da altri osservatori in ciò che essi non vedono. La conseguenza principale è che tutte le descrizioni del mondo diventano contingenti, in quanto qualsiasi descrizione prodotta da un osservatore potrà essere revocata da un altro osservatore. Per tale ragione Luhmann considera isomorfe l’osservazione di second’ordine e l’operazione di decostruzione. All’origine vi è una differenza: l’osservatore risulta da una differenza (quella tra sistema e ambiente) e produce differenze (le varie distinzioni che costruirà a partire da un unmarked space). Ma qualsiasi distinzione prodotta da qualsivoglia sistema che osserva (e ogni sistema in grado di operare una distinzione è, per Luhmann, un sistema che osserva) potrà essere revocata (cioè decostruita) da un altro sistema che osserva, il quale può essere in grado di vedere i due lati della distinzione prodotta dal primo sistema: in tal modo esso potrà scegliere di accettarla o dismetterla (in questo caso Luhmann fa riferimento alle operazioni transgiuntive di Gotthard Günther, vedi p. 17) ; non potrà però esimersi dal produrre ulteriori distinzioni (come osservatore non può far altro), le quali potranno essere accettate o dismesse da altri osservatori.
Questa rete di osservatori non produce gerarchie lineari e fisse ma eterarchie o “gerarchie ingarbugliate” (si veda il contributo di Andronico, pp. 124-126). Sebbene le espressioni “osservatore di prim’ordine” e “osservatore di second’ordine” rimandino a un’asimmetria di livelli, la distinzione tra un primo e un secondo ordine è sempre posizionale e funzionale, rimanda a un ruolo che è possibile occupare solo in maniera transitoria. Può infatti darsi il caso che l’osservatore A sia di second’ordine rispetto all’osservatore B, che l’osservatore B sia di second’ordine rispetto all’osservatore C, e che l’osservatore C sia di second’ordine rispetto all’osservatore A. Nessuno dei tre osservatori potrebbe occupare la cima di una scala gerarchica.
A questo numero di aut-aut bisogna dare il merito di mettere a fuoco tali questioni (non è cosa da poco, specie in una stagione filosofica segnata dalle waves realiste, nella quale prendere sul serio il più radicale tra tutti i costruttivisti radicali espone al rischio di attirare su di sé risate di scherno). La teoria dei sistemi ci costringe a pensarci come sistemi che osservano tra sistemi che osservano, ognuno dei quali ha uno spettro di osservazione limitato e può operare su una ristretta porzione di mondo. Sul piano sociale essa ci invita a intendere la società, venuta a profilarsi con la modernità, come una rete eterarchica, dove ogni organizzazione o sottosistema sociale, essendo operativamente chiuso, riproduce le sue operazioni in maniera autopoietica e autoreferenziale, istituendo partizioni d’ordine funzionali alla propria sopravvivenza. In quest’ottica nessun sistema sociale gode di un privilegio sugli altri: la società non si compone di un livello strutturale e di uno sovrastrutturale e in essa diventa impossibile ravvisare un unico centro di integrazione tra sottosistemi.
Ciò, da una parte, può gettarci nello sconforto, producendo un senso di impotenza e schiacciamento rispetto a sistemi sociali che, portando avanti la loro autopoiesi, fanno il loro corso indifferenti alla volontà degli individui: dinnanzi alle crisi che il presente ci pone (in primis la crisi ecologica) l’individuo non può che sentirsi impotente e per giunta sbigottito dal fatto che chi dovrebbe occuparsene non se ne occupa, provando l’amara sensazione, sempre tanto lesiva del nostro narcisismo, di non avere il controllo su niente. D’altronde, chi dovrebbe occuparsene? Quale sottosistema sociale dovrebbe farsi carico della crisi ecologica? Il sistema politico, naturalmente. Ma il sistema politico, che per Luhmann è un sottosistema sociale tra tanti e non gode di nessun privilegio, ha i suoi problemi, dati dall’esigenza di riprodurre le proprie operazioni specifiche, e la crisi ecologica solo adesso si affaccia in maniera seria nella sua agenda. In ogni caso, il sistema politico, pur auspicando al suo interno una green turn, non potrebbe imporre le sue operazioni agli altri sistemi sociali, potrebbe solamente “irritarli”: ma il modo in cui qualsiasi sistema sociale reagisce a un’irritazione ambientale non può essere previsto e dunque controllato.
Dall’altra parte, l’individuo alle prese con la tossicità del contesto in cui vive, potrebbe volgere in positivo questa impossibilità di controllare le cose e di poterle rivoluzionare. Accettare che non esiste un osservatore in grado di esercitare un controllo assoluto, dischiude un vero e proprio spazio etico. Si potrebbe allora imparare dalle strategie adottate da chi vuole assolutamente liberarsi dalla tossicità vissuta sulla propria pelle per continuare a vivere (la pletora degli addicted di ogni tipo – rispetto a questo tema, non si smetterà mai di imparare dallo scritto di Gregory Bateson La cibernetica dell’“io”: per una teoria dell’alcolismo). Non ci possiamo liberare da una dipendenza senza prendere coscienza che la “sostanza” di cui siamo dipendenti è più forte di noi. In tal senso l’auto-controllo serve a poco (in quale sottosistema di quel sistema che chiamiamo “persona” risiederebbe il centro di controllo?). Accettare di non avere il controllo assoluto, che il corso delle cose non dipende da noi, può permettere di spostare l’attenzione su ciò che veramente possiamo fare, qui e ora, nei nostri angusti limiti. La teoria dei sistemi invita a questo, e in essa ci sembra riecheggiare la Preghiera della Felicità che i membri degli Alcolisti Anonimi recitano quotidianamente: “Mio dio, concedici la serenità per poter accettare le cose che non possiamo cambiare, il coraggio di cambiare le cose che possiamo cambiare, e la saggezza per riconoscere la differenza”.
di Luca Fabbris