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PK#19 \ Fuori Tema I
Rivista / Gennaio 2024Mai nella storia si è scritto tanto. Romanzi, racconti, persino poesie, stanno conoscendo una fioritura insospettata e forse insperata: ma è anche e forse soprattutto nel campo della conoscenza che la crescita è incredibile. In tutti i variegati e sempre più frammentati campi del sapere, che si tratti delle cosiddette STEMM (Science, Technology, Engineering, Mathematics, Medicine) o delle HASS (Humanities, Arts, Social Sciences), il tratto più evidente della produzione accademica è infatti ormai il suo costante, esponenziale, inarrestabile incremento quantitativo. La produzione della ricerca si è trasformata, diventando sempre più polverizzata, misurabile, neoliberale, surfabile ed iterativa: ma anche originale?
Never in history has so much been written. Novels, short stories, even poetry, are experiencing an unsuspected and perhaps unhoped-for flowering: but it is also and perhaps above all in the field of knowledge that the growth is incredible. In all the variegated and increasingly fragmented fields of knowledge, be it the so-called STEMM (Science, Technology, Engineering, Mathematics, Medicine) or HASS (Humanities, Arts, Social Sciences), the most evident feature of academic production is in fact now its constant, exponential, unstoppable quantitative increase. Research production has transformed, becoming increasingly atomised, measurable, neo-liberal, surfable and iterative: but also original?
A cura di Philosophy Kitchen
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DOI: https://doi.org/10.13135/2385-1945/19.2023
Pubblicato: ottobre 2023
Indice
EDITORIALE
Carlo Deregibus (per Philosophy Kitchen) - Il crepuscolo dei raminghi. Fenomenologia della ricerca contemporanea [PDF It]
I
Filippo Batisti, Francesco Montesi - L'extraterrestre: l'alterità aliena negli esperimenti mentali in filosofia [PDF It]
Federica Buongiorno - La questione della tecnica in Stiegler. Un confronto con Husserl e con la postfenomenologia [PDF It]
Fiammetta Maria Campana - Un'analisi semantica di alcune traduzioni di "democrazia" in Africa e Asia [PDF It]
Caterina Del Sordo - Classifiers. Doing Philosophy with Chinese Grammar [PDF En]
Felix Leonhart Esch - Zukunftswechsel. Überlegungen zu den Krisenbegriffen Reinhart Kosellecks und Giovanni Arrighis [PDF De]
Marcello Ghilardi - L’interferenza. Culture, alterità, traduzioni [PDF It]
Alessandra Antonella Rita Maglie - Suzanne La Follette (1893-1983). Tra femminismo e pensiero libertarian [PDF It]
Giacomo Pezzano - Giochi mentali. Si può filosofare tramite i videogame? [Filosofia
deimedia (livelli 1 e 3 – game demo)] [PDF It]Ilaria Santoemma - Thinking-with Physalias. Toward a Relational Account of Agency [PDF En]
Davide Sili - Marciano, il giurista dell’eruditio [PDF It]
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PK#21 \ settembre 2024
a cura di Carlo Deregibus e Aurosa Alison
Siamo abituati a guardare alle forme dell’architettura come portatrici di significati. Quello tra forma e significato era un nesso così ovvio, così connaturato alla costruzione e alla realtà sociale, da rimanere perlopiù implicito, premessa a qualsiasi discorso e trattato. Valeva nell’architettura classica come in quella medievale, in quella egizia come in quella barocca, in quella moderna come, persino, in quella propriamente detta postmoderna. Solo in tempi relativamente recenti, quando il postmodernismo fa vacillare non tanto quel legame, quanto la la sua univocità, il significato diventa un problema per l’architettura. Da un lato, perché la missione del Moderno, così assoluta da polarizzare qualsiasi dibattito, si rivela alla prova del tempo quantomeno aleatoria. Dall’altro, perché si avvertono i primi sentori di quel cambiamento, fatto di globalizzazione e moltiplicazione del pensiero che diverrà travolgente nel nuovo millennio. Nasce cioè l’idea che la forma sia parte di un sistema di comunicazione di significati, più che la latrice di un univoco messaggio.
In questo contesto usciva in Italia, ormai 50 anni fa, Il significato in architettura, curato da Charles Jencks e Georges Baird e pubblicato a Londra cinque anni prima. Raccoglieva una quindicina di testi tra loro spesso in contrasto, editati e commentati, che indagavano il significato da vari punti di vista: secondo approcci semiotici o fenomenologici, con accenti teoretici od operativi, con critiche o proposte, i testi tracciano una storia del significato possibile. Tanto che proprio il contrasto, a volte violento ed esplicitamente sobillato dai curatori, diventa il tratto più distintivo del volume: un contrasto reso possibile dalla convinzione, vana, che fosse ancora possibile definire il rapporto tra significato e forme.
Cosa resta, cinquant’anni dopo, di quel dibattito? Poco, in effetti. Lungi dall’essere sparito dai radar degli architetti, in questi decenni il significato si è moltiplicato in rivoli talmente frammentati da non permettere più una geografia culturale precisa. Nuovi significati - la globalizzazione appunto, ma anche i temi dell’antropocene, della gentrification, delle ecologie, della resilienza, dei gender studies, e così via - offrono infinite possibilità di teorizzazione, sempre legate a pratiche tra loro distinte, separate e che non comunicano. Ma che si considerano tutte Architettura. È uno sfilacciamento riflesso anche dalle teorie sull’arte e dalla crescente distanza tra arte e mercato, tra significato e esperienza, tra percezione e comprensione. Eppure, continuiamo a progettare, a produrre e a criticare l’Architettura, continuamente attribuendo alle sue forme significati, e rivestendola di intenzioni e speranze.
Così, questo numero di PK esplora, una volta di più, questa sfuggente ma insieme ineludibile relazione tra significato e architettura. Lo fa secondo tre assunti metodologici. Il primo è che, lungi dall’essere scomparso, il significato oggi ecceda, e largamente, la forma, e dunque sia sempre e di nuovo possibile riscoprire e riprogettare la loro relazione: certo quel legame muta a velocità variabili, secondo sistemi diversi la cui reciproca irritazione produce cambiamenti spesso imprevedibili, ma tuttavia esiste. Il secondo è che le dimensioni teoretica e pratica dell’architettura non siano pensabili separatamente, se non come coppia oppositiva derridiana: il progetto dell’architettura deve essere sempre inteso nella sua dimensione performativa e secondo gli effetti che questo produce, e la distinzione tra progetto e progetto di architettura è ad essi strettamente quanto problematicamente legata. Il terzo è la dimensione sistemica dell’architettura, che deve essere intesa nelle sue condizioni socio-tecnico-economiche: questo vale sempre, storicamente, e oggi implica una relazione costitutiva con un pervasivo sistema neoliberale, un confronto con una dimensione produttiva che cancella le tensioni artigianali, e la modifica delle modalità di produzione del progetto che, circolarmente, ne stravolgono concezione e quindi significato. Le connessioni tra i tre assunti - ad esempio nella tensione tra agire individuale e dimensione sistemica, da cui emerge una valenza tattica e strategica del progetto - sono altrettanto decisive.
Le proposte possono affrontare il tema del significato in architettura da una prospettiva ontologica ed epistemologica, anche con una prospettiva storico-critica, oppure rientrare in uno dei quattro nuclei tematici qui enucleati, anche esplorandone connessioni e interrelazioni e trattandoli da diversi punti di vista - storico, teoretico, critico:
- Nuove forme del significato. I luoghi sono sempre stati collettori del senso di comunità, sia in senso simbolico sia in senso esperienziale. Come coordinare il continuo moltiplicarsi di forme di socializzazione reale e digitale (dal metaversale alla visual turn) con l'aspetto ontologico e reale della progettazione? Sulla scorta della retorica di una democratizzazione dei processi comunicativi, sociali e relazionali, è davvero possibile innestare un significato nello spazio pubblico, o questi progetti non fanno altro che illudere i partecipanti di farlo? È il processo, o il programma, a dare un significato a un’architettura in cui le forme non hanno rilevanza alcuna se non come trasposizione tecnica o, al contrario, l’architettura va considerata e trattata come un palinsesto che vive persino indifferentemente dagli usi, diventandone uno sfondo neutrale? Nel mezzo, un’infinita sfumatura di pratiche e approcci.
- Nuovi significati delle forme. Vorremmo riflettere su quei significati che più sembrano trasversali e sostanziali nell’impattare l’architettura. Il primo è ascrivibile al tema della sostenibilità: ad esempio, come superare pratiche estetizzanti e approcci puramente prestazionali e sviluppare una dimensione autenticamente ecologica del progettare? È un tema di norme, di cultura, di azioni, di tecniche, di approcci, di forme, di strategie, o ancora di altro tipo? Il secondo è il cosiddetto design for all, che raccoglie questioni pratiche - come l’accessibilità - e culturali - come l’urbanistica di genere - e che però, curiosamente, si sostanzia in limitazioni burocratiche variamente normate: quasi che il progetto non definisse, ontologicamente, i limiti di qualche libertà. Come superare questa visione, aggrappata a una logica di tutela dei gruppi di minoranza, per sviluppare il tema della libertà nel progetto e nelle forme?
- Resilienza dei significati. C’è Architettura e architettura. Gran parte dei progettisti nel mondo non si occupano di quelle rare opere “straordinarie” (auditorium, chiese, musei), cioè i tradizionali portatori di significati condivisi: bensì di ordinarie, comuni, quotidiane costruzioni. Non parliamo dell’ordinario sperimentale e d’élite esplorato dagli architetti di punta, ma proprio della pratica comune, di quel significato che nasce e si sostanzia in una continua variazione e ripetizione, nel real estate come negli slum. Spogliata dalle stratificazione semantiche dell’Architettura, resta cioè un’architettura: lontana dalle accademie e dalle pagine patinate, ma che traccia il nostro mondo. A livello ontologico e pratico, il progetto di questa architettura è diverso da quello di Architettura? E in che modo si evolve, ad esempio guardando all’ascesa impressionante dei software basati sull’Intelligenza Artificiale?
- Resilienza delle forme. Il costruito ha una immensa capacità resiliente. Certo, non sempre questa va d’accordo con gli usi, e i significati di quelle forme. Il caso italiano è emblematico, tra tensioni verso la rigenerazione e l’esigenza di tutela e conservazione del patrimonio. Casi come Palazzo dei Diamanti a Ferrara o lo stadio Meazza a Miano sono solo le evidenze mediatiche di un problema diffuso e in inevitabile crescita: lo scontro tra valori e significati diversi, che si sovrappongono nelle forme. La risposta è nella qualità del progetto? Oppure in quella del processo? È un problema di procedure e soggetti decisori, oppure di proposte e gestione? In che modo significati sempre più essenziali e inconciliabili - ad esempio la fruizione dei beni storici, la sicurezza in caso di sisma, il risparmio energetico, il costo degli interventi, vincoli antincendio, di accessibilità e così via - si intersecano nelle forme?
È nostra intenzione, in omaggio al tratto più distintivo de Il significato in architettura, promuovere una circolazione dei contributi tra gli autori prima della pubblicazione, in modo da raccogliere commenti specifici da parte di tutti gli autori e offrire una possibilità di controreplica ai commenti da parte degli autori stessi. Un dibattito interno al volume, unico quanto prezioso.
Bibliografia:
Ando, T., (1990), Complete Works, Taschen
Armando, A. & Durbiano, G. (2017). Teoria del progetto architettonico. Dai disegni agli effetti. Roma: Carocci.
Aureli P.V. (2008). The Project of Autonomy: Politics and Architecture Within and Against Capitalism. Hudson: Princeton Architectural Press.
Berlin, I. (1969). Four Essays on Liberty. Oxford: Oxford University Press
Booth C., Darke J. & Yeandle S. (edi) Changing Places: Women’s Lives in the City. London: Paul Chapman Publishing Ltd.
Boudon, R. (1984). La place du désordre. Critique des théories du changement sociale. Paris: Presses Universitaires de France.
Chia, R. & Holt, R. (2011). Strategy without Design: The Silent Efficacy of Indirect Action, Cambridge: Cambridge University Press.
Deregibus, C. (2016). Intention and Responsibility. Milano: IPOC.
Derrida, J. (2008). Adesso l’architettura. Milano: Scheiwiller, 2008.
Haraway, D. (1985). Manifesto for cyborgs: science, technology, and socialist feminism in the 1980s. Socialist Review, no. 80, 65-108.
Holl, S., Pallasmaa, J. & Perez-Gomez (2007). A. Questions of Perception: Phenomenology of Architecture. San Francisco: William K Stout Pub.
Jencks, C. & Baird, G. (ed) (1974). Il significato in architettura. Bari: Dedalo.
Jullien, F. (2004). A Treatise on Efficacy. Between Western and Chinese Thinking. Honolulu: University of Hawai Press.
Koolhaas, R. (1978). Delirious New York. A Retrospective Manifesto for Manhattan. New York: Oxford University Press.
Luhmann, N (2012). Introduction to Systems Theory. Cambridge: Polity Press.
Moneo, R. (1989). “The Solitude of Buildings”, A+U: architecture and urbanism, 227.
Norberg-Schulz, C. (1967). Intentions in Architecture. Cambridge & London: The MIT Press.
Norberg-Schulz, C. (1975). Meaning in Western Architecture. New York: Praeger Publisher.
Norberg-Schulz, C. (1979), Genius Loci. Paesaggio, Ambiente, Architettura. Milano: Electa.
Paci, E. (1961). Tempo e verità nella fenomenologia di Husserl. Roma-Bari: Laterza.
Paci, E. (1965). Relazioni e significati. Milano: Lampugnani Nigri.
Pallasmaa, J. (1996). The Eyes of the Skin. Architecture and the Senses. New York: John Wiley & Sons.
Pareyson, L. (1954). Estetica. Teoria della formatività. Torino: Edizioni di Filosofia.
Ponti, G. (1957). Amate l’architettura. Genova: Società Editrice Vitali e Ghianda (Quodlibet, 2022).
Preciado, P. B. (2020). Un appartamento su Urano. Cronache del transito. Roma: Fandango libri.
Preciado, P. B. (2022). Dysphoria Mundi, Paris: Grasset.
Rogers, E. N. (1958). Esperienza dell’architettura. Torino: Einaudi (Skira, 2002).
Rogers, E. N. (1961). Gli elementi del fenomeno architettonico. Roma-Bari: Laterza (Marinotti, 2006).
Rowe, C. (1994). The Architecture of Good Intentions. Towards a Possible Retrospect. London: Academy.
Vitali, W. (Ed.). Un'Agenda per le città. Nuove visioni per lo sviluppo urbano. Bologna: Il Mulino.
Ward, C. (1973). Anarchy in Action. London: Freedom Press.
Windhoff-Héritier, A. (1992). City of the Poor, City of the Rich: Politics and Policy in New York City. Berlin: de Gruyter.
Procedura:
Per partecipare alla call, inviare all'indirizzo redazione@philosophykitchen.com, entro il 16 luglio 2023, un abstract di massimo 4.000 caratteri, indicando il titolo della proposta, illustrando la strutturazione del contributo e i suoi contributi significativi, e inserendo una bibliografia nonché una breve biografia dell’autore o dell’autrice.
L'abstract dovrà essere redatto secondo i criteri scaricabili qui [Template Abstract], pena esclusione.
Le proposte verranno valutate dai curatori e dalla redazione. I contributi selezionati, che saranno sottoposti a double-blind peer review.
Lingue accettate: italiano, inglese, francese.
Calendario:
- 16 luglio 2023: consegna degli abstract
- 03 settembre 2023: comunicazione degli esiti
- 17 dicembre 2023: consegna dei contributi selezionati
- 03 luglio 2023: comunicazione degli esiti della selezione
- Primavera 2024: circolazione dei pezzi tra gli autori
- Settembre 2024: pubblicazione del volume
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Mariana Mazzucato – Lo stato innovatore
Recensioni / Aprile 2016Con il libro Lo Stato Innovatore (Laterza, 2014) Mariana Mazzucato ha rotto il silenzio che pervadeva nell’accademia e tra l’opinione pubblica europea circa il ruolo dello Stato in una moderna economia di libero mercato. Il libro ha avuto un’ampia diffusione, soprattutto in Italia e nel Regno Unito, dove Mazzucato insegna Economia dell’innovazione. Se ne è molto dibattuto, perché la tesi centrale dell’autrice è in radicale opposizione sia con le teorie economiche correnti sia con l’atteggiamento della politica europea degli ultimi trent’anni: secondo l’autrice lo Stato dovrebbe intervenire di più e meglio nel sistema economico. Esperta di innovazione tecnologica e del rapporto di quest’ultima con la crescita economica e il tessuto produttivo, Mazzucato sostiene due posizioni fondamentali: la prima è che il contributo attivo dello Stato nel creare innovazione tecnologica è largamente sottostimato e taciuto; la seconda è che il settore privato non è in grado di produrre da solo l’innovazione necessaria per garantire crescita economica e risposte ai più urgenti problemi globali (in primis la crisi ambientale).
Mazzucato ha un curriculum di eccezione da economista eterodossa. Ha ottenuto il dottorato alla New School for Social Research, prestigiosa università americana considerata fra le più progressiste d’oltreoceano. Effettivamente i riferimenti teorici del libro sono esplicitamente eterodossi: John Maynard Keynes, Joseph Schumpeter, Karl Paul Polanyi e Hyman Minsky sono tra i nomi che l’autrice evoca per fondare le argomentazioni di policy del libro su solide basi teoriche. L’argomento più convincente in favore del necessario intervento statale per promuovere e realizzare l’innovazione scientifica e tecnologica sarebbe la differenza tra i concetti di rischio e di incertezza, sottolineata dall’economista americano Frank Hyneman Knight negli anni Venti del secolo scorso. Il primo caratterizza la condizione di indeterminatezza rispetto a una serie di eventi che potrebbero verificarsi. Prendiamo per esempio il classico lancio della monetina. Non si può sapere prima del lancio quale sarà il risultato, ma si può calcolare con precisione la distribuzione probabilistica dei due eventi possibili. Da ciò risulta che il rischio è quantificabile e in effetti i moderni mercati finanziari si basano sostanzialmente sulla misurazione del rischio e della sua “commodificazione” sotto forma di assicurazioni, contratti derivati e altri tipi di strumenti economici. L’incertezza invece è la completa incapacità di prevedere un evento futuro, proprio come nel caso di uno scienziato che conduce un esperimento per scoprire una nuova tecnologia. Secondo Mazzucato l’innovazione si basa sul concetto di incertezza ed è per questo che il settore privato – aziende e venture capitalist, cioè quegli investitori specializzati nel finanziare progetti innovativi e altamente rischiosi – dimostra di non avere gli incentivi giusti e quel “capitale paziente” che permetterebbe all’innovazione di fiorire.
Secondo l’autrice le più grandi multinazionali rispondono alla deregolamentazione dei mercati finanziari reinvestendo i loro profitti nel riacquisto delle proprie azioni anziché promuovere il comparto di ricerca e sviluppo (R&S) o proporre progetti innovativi. I fondi di venture capital invece guadagnano dalla vendita di quote di società altamente innovative sui mercati azionari, il loro scopo non è certamente attendere di rientrare dell’investimento attraverso il normale flusso di ricavi che il nuovo prodotto garantirebbe. L’orizzonte temporale dei fondi di venture capital non supera i cinque anni, un problema fondamentale se si considera che possono essere necessari anche diversi decenni per commercializzare i risultati di ricerche scientifiche innovative. Per far entrare lo Stato sulla scena, Mazzucato sfata un mito resistente nella teoria economica: il concetto di fallimento del mercato. Questo non rappresenta né l’unica né la più importante ragione del perché lo Stato debba farsi protagonista attivo dei complessi processi dell’innovazione. La teoria sostiene che il mercato dovrebbe essere lasciato libero di autoregolarsi tranne in casi eccezionali, nei quali l’ammontare del bene fornito dal mercato è inferiore all’ammontare ottimale (da qui il fallimento). Per quanto riguarda l’innovazione, però, lo Stato è l’unica istituzione in grado di assumere l’incertezza e di guidare i processi innovativi con un mix di politiche e investimenti mirati. Quel che è chiaro è che lo Stato non dovrebbe semplicemente limitarsi a creare le condizioni migliori affinché siano i privati a condurre i processi di innovazione tecnologica e industriale, ma dovrebbe invece svolgere un attivo ruolo di coordinamento, di finanziamento e di promozione attraverso agenzie pubbliche, centri di ricerca e partnership con il settore privato.
Nei capitoli centrali del libro, Mazzucato passa in rassegna numerosi esempi storici che dimostrano il ruolo attivo dello Stato nei processi di innovazione. Il suo caso studio più eclatante sono gli Stati Uniti. Qui, molti dei programmi pubblici che finanziarono ricerca di base e applicata nei settori delle biotecnologie e dei farmaci furono approvati dall’amministrazione conservatrice di Ronald Reagan negli anni Ottanta. A tal proposito l’autrice ricorda l’apparente conflitto tra i sostenitori delle politiche interventiste di Alexander Hamilton (1755-1804) e quelli delle politiche del laissez-faire di Thomas Jefferson (1743-1826). Negli Stati Uniti, la posizione ufficiale è sempre stata jeffersoniana mentre la politica economica – adottata silenziosamente – decisamente hamiltoniana. Già nel 1958 il governo creò un ufficio governativo all’avanguardia nella promozione dello sviluppo tecnologico per la difesa nazionale (Darpa). Le caratteristiche del Darpa erano: autonomia dal governo, ingenti finanziamenti e capacità di attrarre le menti più brillanti del paese. Senza il Darpa alcune tra le più importanti innovazioni in campo informatico (per esempio internet) non sarebbero state possibili.
Per spiegare il ruolo decisivo avuto dallo Stato nel potenziare innovazione tecnologica e permettere lo sviluppo di nuovi prodotti, Mazzucato dedica un intero capitolo ad Apple, l’azienda del popolarissimo Steve Jobs. Creata in un garage con pochissimi mezzi e tanto spirito imprenditoriale, Apple rappresenta nell’immaginario comune l’impresa di successo che ha rivoluzionato i mercati con prodotti tecnologicamente all’avanguardia. Peccato che, secondo Mazzucato, Jobs e compagni non sarebbero andati da nessuna parte senza le invenzioni finanziate dal governo americano. Internet, GPS, schermi tattili e le più moderne tecnologie di comunicazione sono state tutte inventate grazie allo Stato e poi utilizzate da Apple. Il segreto del successo dell’azienda di Cupertino starebbe nella capacità di integrare innovazione preesistenti e nella cura del rapporto utente-supporto informatico.
In sostanza la tesi di Mazzucato è che lo Stato debba essere considerato un partner del settore privato nei processi di innovazione tecnologica e non un semplice facilitatore. Al contrario del privato, lo Stato può assumere l’incertezza e coordinare i processi virtuosi che portano le economie capitaliste a crescere. L’autrice condanna le recenti tendenze delle grandi imprese farmaceutiche e high-tech alla socializzazione del rischio – cioè lo sfruttamento della ricerca finanziata dallo Stato – per poi privatizzare i profitti, non remunerando adeguatamente i lavoratori o cercando di eludere il fisco. La ricetta di Mazzucato è riassumibile in un concetto espresso nella parte finale del libro: «quando la distribuzione dei proventi finanziari del processo di innovazione riflette la distribuzione dei contributi al processo stesso, allora l’innovazione tende a ridurre la diseguaglianza». Questa è però anche la debolezza della tesi esposta nel libro: manca un’analisi approfondita delle complesse dinamiche economiche che caratterizzano le moderne economie globali. Un ruolo diverso dello Stato nei processi di innovazione sarebbe il grimaldello per invertire la tendenziale stagnazione delle economie occidentali e per risolvere il problema della riconversione industriale. Troppi elementi vengono ricondotti all’interno del discorso dell’economia dell’innovazione; per esempio il problema delle diseguaglianze crescenti difficilmente può essere affrontato entro tale cornice teorica.
Infine sembra mancare un’indagine dei processi politici che guidano lo Stato. Chi è lo Stato innovatore e come si forma? Quali sono gli incentivi necessari per mettere in moto i virtuosi meccanismi dell’innovazione coordinati dallo Stato? Su questo punto il testo di Mazzucato è deficitario, cosa che, tra l’altro, rende il suo punto di vista facilmente attaccabile: chiedere più Stato affidandosi vagamente a una leadership più forte o a una capacità di visione maggiore rischia di produrre solamente corruzione e sprechi.
di Alberto Fierro
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#philosophers
#philosophers, Serial / Settembre 2015
Philosophy Kitchen incontra i filosofi: pensieri, ricerche, racconti, aneddoti, curiosità#philosophers è la prima videorubrica di Philosophy Kitchen, ideata da Carlo Molinar Min e Giulio Piatti, con il contributo di Francesco Della Noce. Gli ingredienti sono semplici: linguaggio fresco, domande inedite, per raccontare alcuni dei principali protagonisti dell'attuale dibattito filosofico, da un'angolatura inedita.