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Estesie #3 – Sul binario della deformazione
Estesie, Serial / Maggio 2016Nel senso più generico del termine, la deformazione consiste nell’alterazione, temporanea o definitiva, della configurazione originaria di un oggetto, e in pittura indica quel processo di alterazione delle forme naturali che porta a risultati spesso considerati mostruosi o aberranti. Attraverso le diverse riflessioni di artisti e filosofi, nel corso del Novecento la deformazione ha però subito una notevole evoluzione concettuale, passando dall’essere concepita come specifico fattore stilistico a processo genetico dello stile in quanto tale, fino a darsi addirittura come mediazione di più larghe operazioni estetiche o extra-pittoriche.
A inizio Novecento, il simbolista francese Maurice Denis proponeva un’acuta distinzione tra deformazione “oggettiva” e deformazione “soggettiva”: la prima, accostabile alla coeva nozione worringeriana di abstraktion, si costituiva come principio regolatore delle tensioni formali interne all’immagine secondo quelle che Denis definisce le “leggi eterne della decorazione”; la seconda scaturiva dalla necessità di mediare la natura attraverso il proprio “temperamento” psichico. La nuova teoria della pittura di Denis si basa sull’espressione per “equivalenze” e non più per “mimesi”, individuando così le basi di quella che sarà la più valida e genuina pittura contemporanea. Alla luce di quanto si è visto nei decenni a venire, potremmo infatti intravedere in questa coppia polare il seme di due linee stilistiche dominanti nella cultura novecentesca: dalla prima la dipartenza dello sviluppo di tutti i decorativismi geometrici e delle ricerche di arte concreta, mentre dall’altra le contratture segniche e materiche degli espressionismi, manifestatisi nel corso del secolo a più riprese, fino agli esiti figurativi dell’Informale.
Il futurista Carlo Carrà, in un breve e puntuale scritto intitolato proprio La deformazione in pittura e pubblicato sulla rivista «Lacerba» del 15 marzo 1914, afferma che ormai non possa più sussistere opera senza l’intervento della deformazione, considerando questa soluzione non solo come “fattore predominante” nella costruzione del quadro, ma addirittura come un “altimetro” per misurare i vari gradi di espressione plastica di un’opera. Naturalmente, in piena fede futurista, Carrà vede la deformazione come conseguenza del movimento, della necessità di resa dinamistica della realtà e rivanga quel concetto riportato nel Manifesto tecnico della pittura futurista del 1910 secondo cui “per la persistenza dell’immagine nella retina, le cose si moltiplicano”, ma soprattutto “si deformano, susseguendosi, come vibrazioni, nello spazio che percorrono”. Le affermazioni di Carrà riguardano problematiche stilistiche ben precise e circoscritte al loro tempo, ma l’intuizione per cui la deformazione sia alla base di qualunque opera d’arte contemporanea è di una lungimiranza che solo anni dopo e in sede di riflessione estetica avrebbe trovato un più ampio sviluppo. Dovremo perciò aspettare la soglia degli anni Cinquanta perché il concetto di deformazione venga esteso da Maurice Merleau-Ponty fino ad assurgere a sinonimo di stile. Per il fenomenologo francese lo stile è un modo di ricreare i fenomeni e trovare per essi nuove modalità di essere nel mondo, perché solo il pittore riesce a percepire “le norme e le deviazioni dell’inaccessibile pienezza delle cose”. La sua dissertazione sullo stile muove dall’assorbimento sul piano fenomenologico del concetto di “deformazione coerente” formulato da André Malraux (autore esplicitamente richiamato nel titolo con le voci del silenzio), secondo il quale ogni pittore ha un proprio modo consapevole di deformare i dati visibili per risemantizzarli, investirli di nuovi significati. Quasi come in un lontano dialogo con Maurice Denis, anche Merleau-Ponty concepisce lo stile-deformazione come “sistema di equivalenze”, ma aggiunge che solo attraverso “l’indice universale della deformazione coerente” un artista “concentra il senso ancora sparso nella sua percezione e lo fa esistere espressamente”. Qui l’oggettivo e il soggettivo teorizzati da Denis sono come stati fusi in un unico canale di accesso alla realtà attraverso cui il pittore rielabora le qualità dei dati visivi nella più generale prospettiva di una propria definizione stilistica. A proposito di questa assimilazione del concetto di deformazione a quello di stile, andrebbe forse considerato il fatto che gli anni in cui scrive Merleau-Ponty sono anche i graffianti anni dell’Informale, rappresentato in Francia da maestri quali Jean Dubuffet e Jean Fautrier. Corrente pittorica di larga e capillare diffusione, incentrata su problematiche esistenziali affatto estranee al pensiero fenomenologico, essa ha, com’è noto, fervidamente applicato indici di deformazione estrema alle proprie figure, aspetto che può avere giocato un qualche ruolo nelle riflessioni del nostro filosofo.
Il contributo più articolato sul concetto di deformazione arriva però da un filosofo italiano, sempre di scuola fenomenologica, Miro Martini, allievo di Antonio Banfi e autore di un ampio e complesso saggio intitolato La deformazione estetica, frutto di profonde riflessioni sull’atto estetico come atto deformante. Si tratta di un sistema che ingloba e sostiene la corrispondenza cara a Merleau-Ponty tra deformazione e stile, ma che va ben oltre i comuni processi di formalizzazione artistica per aprirsi al più generale piano dell’estetica. Martini estende tale concetto “all’intero mondo estetico nella varietà dei suoi piani fondamentali”, quasi intuendo che l’orizzonte mediale dell’arte si sarebbe a breve espanso enormemente fino a coincidere con quello della quotidianità; secondo Dino Formaggio, con questa “legge dell’esistere artistico in concreta esperienza” Martini intendeva sostenere che “l’arte compie un’opera di trans-valutazione dei momenti della vita, del vivere di ogni giorno”, una traslazione del mondano nell’artistico attraverso quella che oggi con Arthur Danto diremmo una trasfigurazione del banale. Si tratta di sottrarre quindi elementi concreti e dinamiche del quotidiano alla loro comune funzione pratico-utilitaristica per riscattarli esteticamente o, come rimarca Formaggio, “a dar forma compiuta e nobiltà di stile ad ogni esperienza del vivere”. Conferme pratiche alle idee di Martini sarebbero arrivate solo anni e anni dopo la sua scomparsa con fenomeni quali lo happening, la performance, l’Antiform o le poetiche del Concettuale; ma mi pare piuttosto significativo che nella Milano di metà anni Cinquanta, e poco dopo l’uscita (purtroppo postuma) del testo di Miro Martini, artisti spazialisti come Agostino Bonalumi o Enrico Castellani cominciassero a intervenire su delle tele monocrome per dilatarle, estrofletterle, alterandone la configurazione di base e sperimentando così la deformazione non più sul piano virtuale della figurazione, bensì su quello della piena materialità (pur rimanendo ancora legati a un supporto artistico tradizionale), producendo in definitiva una sorta di sinergia tra teorie e poetiche contemporanee, e riuscendo anzi a dare alle idee martiniane un’indiretta e probabilmente inconsapevole convalida.
Ecco dunque emerso lo status “bipolare” del concetto di deformazione nella cultura del Novecento, dove al primo polo, quello originario o dell’uso comune del termine e relativo a questioni plastico-formali (deformazione come alterazione di configurazione), se ne affianca un altro relativo a ridefinizioni artistiche dell’esperienza tramite mezzi, elementi e modalità dell’esperienza stessa (deformazione come stile e, solo dopo, come riformulazione estetica del quotidiano), ampliando così ad libitum le possibilità pratiche di stilizzazione. Quello tra deformazione plastica e deformazione estetica non è tuttavia un conflitto insolubile o un eterno scontro tra nemici giurati, ma al contrario una quieta e fruttuosa convivenza, spesso di reciproco supporto: le due istanze si incrociano e dialogano sempre più di frequente, e soprattutto oggi, nell’uso di mezzi come la fotografia o il video ormai divenuti imprescindibili per la ricerca contemporanea. La deformazione plastica, infatti, ha trovato in questi strumenti vie di aggiornamento oggi battutissime come l’uso delle distorsioni, delle alterazioni di segnale, e manipolazioni di ogni sorta, per le quali è proprio la deformazione estetica, lanciata nella prospettiva di una potenziale pan-artisticità dell’esperienza, a garantirne il valore espressivo. Da qui in poi, il concetto di deformazione in ambito artistico non potrà che vivere dunque di alternanze e distinzioni, ma questo suo bipolarismo lo manterrà, senza dubbio, fiamma di ogni dibattito sullo stile, sulle poetiche, sull’esistenza dell’arte. Attuale per sempre.
di Pasquale Fameli
Bibliografia
Carrà, C. (1978). La deformazione in pittura (1914). In M. Carrà (a cura di), Carlo Carrà. Tutti gli scritti (pp. 30-33). Milano: Feltrinelli.
Danto, A. (2008). La trasfigurazione del banale. Una filosofia dell’arte (1981). Bari: Laterza.
Denis, M. (1920). Théories 1890-1910. Du symbolisme et de Gauguin vers un nouvel ordre classique (1913). Paris: L. Rouart et J. Watelin Éditeurs; in particolare pp. 23, 268.
Martini, M. (2002). La deformazione estetica (1955). Milano: Unicopli; in particolare: pp. 55-57. Si veda inoltre la prefazione alla seconda edizione di Dino Formaggio, in particolare pp. 2-3.
Merleau-Ponty, M. (1967). “Il linguaggio indiretto e le voci del silenzio” (1952). In Id., Segni. Milano: Saggiatore; in particolare p. 81.
Worringer, W. (1976). Astrazione e empatia (1907). Torino: Einaudi.
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Fare l’immagine. Deleuze su Beckett
Sconfinamenti, Serial / Febbraio 2016Uno degli scrittori più presenti nel lavoro di Gilles Deleuze è senz’altro Samuel Beckett. È vero che il filosofo non gli ha dedicato un volume monografico – cosa che ha fatto invece per altri due grandi della letteratura, Proust e Kafka –, ma all’interno dei suoi libri troviamo un elevato numero di riferimenti all’autore irlandese, che mostrano quale importanza particolare egli gli attribuisca. Esistono inoltre due testi (uno breve, l’altro più ampio) esplicitamente destinati a commentare opere beckettiane, e proprio a essi rivolgeremo l’attenzione... Scarica il PDF
A cura di:
Giuseppe Zuccarino è critico e traduttore. Ha pubblicato vari saggi: La scrittura impossibile, Genova, Graphos, 1995; L’immagine e l’enigma, ivi, 1998; Critica e commento. Benjamin, Foucault, Derrida, ivi, 2000; Percorsi anomali, Udine, Campanotto, 2002; Il desiderio, la follia, la morte, ivi, 2005; Il dialogo e il silenzio, ivi, 2008; Da un’arte all’altra, Novi Ligure, Joker, 2009; Note al palinsesto, ivi, 2012; Il farsi della scrittura, Milano-Udine, Mimesis, 2012. Tra i libri da lui tradotti figurano opere di Mallarmé, Bataille, Klossowski, Blanchot, Caillois e Barthes.
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Take away #7 – Enhancement
Serial / Giugno 2015“Vedo il riflesso di qualcosa negli occhiali da sole di quel passante. Puoi ingrandire?”
In questa istanza di Take Away, vorremmo attirare la vostra attenzione su un minuscolo quanto eloquente meccanismo narrativo, impiegato generosamente e in modo trasversale dal popolo degli autori televisivi americani. Si tratta di quel momento, che sicuramente avete presente, in cui i protagonisti del telefilm si trovano alle prese con una traccia fondamentale: una fotografia, un filmato o documento apparentemente inutile, fino a che...
Secondo una interpretazione deflativa, si tratta semplicemente di un trucco, un modo per far procedere la trama. Una sorta di Deus ex Machina, al massimo da additare come soluzione non particolarmente elegante, anzi piuttosto banale, che tuttavia tutti finiscono per usare quando un periodo di scarsa creatività interferisce con termini di consegna settimanali per nuovi episodi di questo o quel telefilm.
A nostro parere, tuttavia, proprio come nel caso del Deus ex Machina del teatro greco, il ruolo di questo topos narrativo nella coscienza contemporanea riflette alcune convinzioni profonde, tanto da essere tematizzate solo raramente. In questo caso, quello che chiameremo “il topos dell'enhancement” serve da segnale di qualcosa di importante.
Innanzitutto, per i meno esperti di cose tecnologiche, bisogna ricordare un dato fondamentale: il “miglioramento dell'immagine” è, per come viene usato in gran parte dei frammenti del video, impossibile. Un'immagine, infatti, per quanto suscettibile di ogni genere di manipolazione informatica, ha sempre una definizione, vale a dire contiene una certa quantità di pixel – o di informazione. Tale limitatezza, si può dire, è la caratteristica che più radicalmente distingue la realtà dai modelli che possiamo costruire di essa, come ad esempio la mappa dal territorio. In termini operativi, la differenza è ancor più evidente: indagando più da vicino un fenomeno reale siamo in grado di distinguere sempre più dettagli, mentre indagando più da vicino una rappresentazione di quel fenomeno - un disegno o una mappa o un grafico - potremo scoprire solo dettagli relativi al modo e ai materiali della rappresentazione (come il numero di pixel o la grana della carta), non della realtà descritta.
I personaggi dei nostri telefilm trascurano questa distinzione. Li autorizza a farlo una qualche formuletta: un fantomatico “programma di miglioramento”, oppure l'osservazione che “si può fare, con la giusta apparecchiatura”, o il nome di qualche scienziato il cui “lavoro sulla rifrazione” ha avuto straordinarie conseguenze sui software di manipolazione di immagini. Per spiegare questo fraintendimento fondamentale della natura dei dati forniti dalla tecnologia, dobbiamo ricordarci che in fondo ciò che si interpreta in questi film e telefilm non è tanto lo stato delle cose, della tecnologia, della società, della cultura, quanto le tensioni e soprattutto le esigenze ideologiche che coinvolgono tali spazi.
Nei film e telefilm – soprattutto quelli legati ai corpi di polizia – il topos dell'enhancement sottolinea la necessaria congiunzione di due aspetti della realtà: la crescente esigenza di sicurezza e controllo, all'interno di spazi metropolitani percepiti come porosi, caotici e criminogeni, e il raggiungimento di una onnipotenza tecnologica nel campo dell'informazione. Per far fronte all'insorgere sempre più imprevedibile e capillare della violenza – si pensi all'inesauribile creatività degli autori televisivi nel trovare sempre nuovi ambiti nei quali ambientare il misfatto che muove la trama, alla cura manierista che il colpevole sia sempre in qualche modo l'insospettabile – è necessario che le risorse tecnologiche di registrazione e analisi dei dati siano sviluppate fino a fornire non solo una rappresentazione, ma una replica esatta della realtà.
Il fatto che ad usare tali strumenti orwelliani siano solo e sempre eroi volitivi e morali, mossi da buoni sentimenti ed umanizzati da sottotrame sdolcinate, incornicia la nostra percezione del processo di crescente informatizzazione del controllo e incremento dei dispositivi biopolitici nel frame di una lotta fra l'ordine e la disciplina da un lato, e la devianza imprevedibile e mostruosa dall'altro.
Si occulta così una caratteristica fondamentale del funzionamento dei dispositivi contemporanei di controllo biopolitico: la loro applicazione capillare e generalizzata. Là dove il processo dell'enhancement si riassume nella formula di un magico zoom in che aumenta la definizione, le trasformazioni reali dell'apparato di controllo si muovono nella direzione opposta: accumulando dati dalle più svariate banche dati e incrociandole per costruire un profilo preventivo – e un gradiente di pericolosità sociale – per ciascun individuo. La divisione fra criminale e non-criminale è sfumata – l'esatto opposto di quanto suggerisce la narrativa poliziesca di prodotti come Criminal minds – e soprattutto è un prodotto, non un presupposto della applicazione di strumenti di controllo. Come si afferma in un recente e fondamentale saggio sulla militarizzazione dello spazio urbano: sta ormai al cittadino dimostrare a ogni checkpoint di non essere un criminale, secondo un modello di sicurezza urbana apertamente ispirato all'apartheid.[1]
Forse, si dirà, abbiamo voluto leggere troppo in un semplice tic narrativo: eppure siamo convinti che, a un livello di consapevolezza più o meno alto, il racconto rassicurante della tecnologia e l'esorcismo delle sue potenzialità distruttive e totalitarie sia una funzione fondamentale della corrente cultura pop.
P.S. Per chi è familiare col già citato Criminal Minds, l'esercizio per casa è riflettere su questo personaggio:
Un hacker che ha accesso a una serie infinita di banche dati, e mettendole a confronto compie sistematiche violazioni della privacy di ognuno, per conto di un'unità esclusiva di profiler dell'FBI. Si trova in una posizione di potere tale – non solo nei confronti dei criminali che indaga, ma potenzialmente di chiunque – che la sua stessa esistenza rappresenta una minaccia alla privacy e alla sicurezza di un qualunque cittadino, americano e non: è praticamente l'incarnazione del Grande Fratello.
Risulta comunque un personaggio positivo. Come? È buona fino allo sdolcinato, leggermente sovrappeso, autoironicamente vanitosa e un po' buffa. Si chiama Penelope Garcia – un cognome latino che la colloca all'intersezione di due minorities – e è praticamente l'unico modo di far sembrare inoffensivo l'individuo al comando del più sofisticato apparato di controllo e repressione della storia.
[1]Stephen Graham, Cities under Siege: The new military urbanism, Verso, New York 2011, p. 47
di Lorenzo Palombini
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La psicoanalisi e le donne
Lacaniana, Serial / Febbraio 2015La psicoanalisi e le donne hanno sempre camminato insieme sin dalla nascita della prima. Diverse donne, nel tempo inaugurale della psicoanalisi, hanno aperto a Freud la via del transfert e gli hanno mostrato l’essenziale circa il nesso tra i sintomi di origine psichica e la sessualità. Cosa possiamo cogliere circa la specificità del rapporto tra la psicoanalisi e il femminile?
All’origine della psicoanalisi c’è l’incontro tra Freud e alcune isteriche. Isteria e femminile non coincidono in modo totale, ma vi è qualcosa nella logica dell’isteria che consente di connettersi col femminile. Freud constata che, nell’esperienza clinica, certi sintomi resistevano sia a trattamenti che avevano una presa diretta sul corpo (idroterapia, pranoterapia, ecc.), sia al trattamento che avrebbe avuto una presa diretta sullo psichismo: l’ipnosi. Così facendo, egli prende atto e nota del fatto che vi sia una discontinuità, qualcosa che esiste nella sua materialità e che, però, non si lascia trattare allo stesso modo delle altre sostanze materiali con cui la scienza medica è abituata ad aver a che fare. Freud incontra molto presto quel punto limite d’intrattabilità e ciò lo spinge a inventare la psicoanalisi e a proseguire, lungo tutta la vita, nella sua elaborazione, rilanciandola ogni volta che trova che quel punto insiste e chiama a una riformulazione della teoria. Nel testo sull’Interpretazione dei sogni lo chiama “l’ombelico del sogno”, mentre in Analisi terminabile e interminabile, scritto al termine della sua carriera, “la roccia della castrazione”. Per Lacan sarà il reale, l’impossibile.
È a partire da ciò che egli ipotizza l’esistenza dell’inconscio in quanto sessuale; giacché è con l’inconscio e con le sue elucubrazioni di lalingua, che il soggetto cerca di trattare questo impossibile strutturale. La sessualità umana, per la psicoanalisi, è una sessualità che non corrisponde a una sessuologia, poiché essa non è associata a una sorta di “manuale d’uso” che potrebbe spiegare al soggetto come utilizzarla. La sessualità non è nemmeno legata all’istinto. L’istinto e la biologia dettano agli animali quando, come e con quale simile soddisfare l’appetito legato alla necessità della specie di riprodursi. Per l’essere vivente che è preso dal e nel linguaggio, il parlessere, il modo in cui si situerà nella propria sessualità, come uomo o come donna, non è qualcosa di già dato sin dalla nascita. Ciascuno, a partire da certe condizioni– condizioni che non ha scelto, ma con le quali dovrà giocarsi la sua partita –, transitando attraverso un percorso fatto di identificazioni e di godimenti, arriverà a scegliere inconsciamente di posizionarsi dal lato maschile o dal lato femminile, in relazione alla propria sessualità.
Dal lato uomo troviamo una modalità di godimento legata alla logica fallica, logica del tutto, dell’universale. Grazie al significante fallico il soggetto può trovare un orientamento simbolico universalizzante che lo aiuta a raccapezzarsi con quella sessualità che nulla e nessuno gli può spiegare. L’organo sessuale maschile e il tipo di godimento che da esso il soggetto può trarre, rappresenta bene, sul piano del godimento, questa logica universale del tutto. La posizione maschile di godimento è identificata con la parvenza di avere il fallo e questo produce, nel soggetto così situato, una condizione tale per cui il proprio modo di godere è modulato secondo la logica del o tutto o niente, in concordanza con l’alternanza tumescenza-detumescenza propria dell’organo che viene identificato con il fallo (anche se non lo è). Da questo lato, l’immagine anatomica contribuisce a fissare in modo più assoluto il soggetto maschile al godimento fallico. Godimento che, nel Seminario Ancora, Lacan nomina come “godimento dell’idiota”. Dal lato donna, la logica fallica e il godimento che le è proprio è anche presente. In questa logica, il soggetto donna è nella posizione che l’identifica a essere il fallo, per sé e per l’altro. L’anatomia, che le rivela che non ce l’ha, non le impedisce di poter godere anche lei in modo fallico, a livello del corpo ma anche fuori dal corpo. Nulla vieta a una donna, per esempio, di godere del potere – sostituto fallico per eccellenza – allo stesso modo di un suo collega uomo, né di ottenere della soddisfazione sessuale attraverso un godimento fallico. Freud non ha mai smesso di interrogarsi sulla specificità delle donne, arrivando a concludere che la donna fosse caratterizzata dall’assumersi la castrazione, superando l’invidia del pene. Ciò però non basta per spiegare la specificità femminile, poiché l’assunzione della castrazione pertiene anche al mondo maschile, dal momento che il fallo simbolico – che manca all’uno e all’altra – non coincide con l’organo maschile. Jacques Lacan non è indietreggiato rispetto a questo impossibile nel quale l’opera freudiana si era arenata, interrogandosi ed elaborando qualcosa di più incisivo sulla specificità del godimento femminile. È questa specificità che fa dire a Lacan che La donna (come universale) non esiste, dal momento che non esiste Il godimento femminile unico e universale. Ciascuna donna può avere, se vi acconsente, un suo rapporto con un godimento al di là del fallo, al di là della castrazione e dell’Edipo, a condizione però di servirsi anche della logica fallica. Diversamente, si aprirebbe il campo al discorso sulla follia, ma questa è un’altra faccenda. Non si tratta, come possiamo vedere, di far coincidere il femminile con l’isteria. Vi è, però, qualcosa che le raccorda, senza sovrapporsi. A partire dei soggetti isterici, Freud scopre un al di là. L’inconscio, che cela un trauma in relazione alla sessualità, è un al di là. Un al di là degli enunciati, del sintomo, del lamento, i quali rivelano di essere dei messaggi da decifrare, solo a partire dal fatto che ci sia qualcuno che si metta nella posizione di volerlo cogliere e accogliere. L’isteria si difende dal sessuale insito nell’inconscio e perciò produce dei sintomi. L’isterica si difende dal godimento Altro, ma proprio perché si difende può trovarsi nella posizione opportuna per accedervi.
Il soggetto isterico è un soggetto diviso, che testimonia che vi è in lui un qualcosa da svelare, un al di là, appunto, anche quando spesso lui stesso oppone resistenza a questo svelamento. Le donne, a partire da una condizione che le caratterizza e rispetto alla quale sono in un certo modo privilegiate, oltre a essere iscritte nel godimento fallico, possono avere – se lo vogliono – accesso a un godimento Altro. L’inconscio non coincide con questo godimento Altro, il godimento femminile, come lo chiama Lacan; ma un modo per accedervi è quello di passare attraverso l’esperienza dell’inconscio, così come accade durante un’analisi. Quando un soggetto – uomo o donna – entra in analisi, ciò di cui fa esperienza è che i suoi sintomi, i suoi comportamenti, i suoi enunciati rivelano Altro da ciò che credeva; non solo un altro senso, ma addirittura un altro godimento. Cogliere questo, man mano, nell’analisi, conduce il soggetto ad acconsentire e accettare quell’altra logica, innanzitutto rispetto a sé, e di conseguenza anche rispetto agli altri. Accettare che vi sia un Altro godimento, forme di godere altre e diverse da quella sostenuta dall’Io, dal discorso cosiddetto comune, che è quello del padrone.
Passare attraverso l’esperienza di un’analisi e portarla a termine, può essere il modo, per una donna, di accedere al godimento specificamente femminile, il quale non si può afferrare, né dire, né localizzare da nessuna parte, ma, talvolta, lo si può provare.
di Maria Laura Tkach
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Corpo e linguaggio
Lacaniana, Serial / Gennaio 2015Jacques-Alain Miller (2006a), nel commento al Seminario XXIII – Il sinthomo di Lacan (2006a), sottolinea che, da un punto di vista psicoanalitico, «il corpo è paragonabile a un ammasso di pezzi staccati. Non ce ne rendiamo conto tanto che restiamo catturati dalla sua forma, tanto che la pregnanza della sua forma impone l’ideale della sua unità» (p. 13). Lo statuto primitivo del corpo, contrariamente all’evidenza del visibile, è infatti di essere in pezzi staccati e, affinché il bambino possa percepire il proprio corpo come una unità, occorre che sia passato attraverso quello che Lacan (2002a) considera un vero e proprio «crocevia strutturale» (p. 107) nello sviluppo. Nel 1936, riprendendo le ricerche sperimentali sulla percezione compiute da Henri Wallon, Lacan indica con il nome di stadio dello specchio quella fase in cui il lattante, tra i sei e i diciotto mesi, ancora immerso in uno stato di frammentazione, impotenza e di prematurazione fisiologica, risponde in modo giubilatorio alla vista della propria immagine riflessa nello specchio. L’immagine speculare permette al bambino un primo riconoscimento, una prima identificazione e, contemporaneamente, segna uno iato incolmabile poiché egli non potrà mai ricongiungersi all’immagine che lo specchio gli rimanda. Scrive Lacan (2002b): «questa Gestalt […] simbolizza la permanenza mentale dell’io e al tempo stesso ne prefigura la destinazione alienante» (p. 89). In questo passo, possiamo già trovare l’idea del soggetto lacaniano come strutturalmente diviso ed è per questa via che Lacan (2002a) sottolinea la dimensione tragica dello stadio dello specchio, la cui essenza è quella di essere una «lacerazione originale» (p. 110) in cui l’essere del soggetto è per sempre separato dalla sua proiezione ideale.
Da una parte, dunque, lo stadio dello specchio permette quell’operazione simbolica che offre al soggetto la possibilità di individuarsi come un “io” mentre, dall’altra, è ciò che lo divide irrimediabilmente dalla sua immagine. È a questo livello che si pone la «Spaltung tra il moi che viene a costituirsi e il soggetto dell’inconscio je, che non si lascia reperire nell’immagine speculare, e che troverà modo di presentarsi nei punti di vacillamento dell’io» (Cosenza, 2003, p. 23-24). Nell’analisi di questo momento così importante nella costituzione dell’immagine del corpo Lacan evidenzia il ruolo fondamentale e preliminare svolto dalla madre: ella è colei che tenendo in braccio l’infans gli indica che l’immagine che lo specchio rimanda è la sua. È quindi attraverso l’azione operata da un elemento terzo – in questo caso la madre – eterogeneo alla dimensione della similarità, che «il soggetto si pone come operante, come umano, come io (je), a partire dal momento in cui appare il sistema del simbolico» (Lacan, 2006b, p. 66).
Quanto detto mette in rilievo come il corpo si strutturi a partire dall’apporto dell’immagine e l’esperienza del corpo in frammenti, di cui testimoniano i soggetti schizofrenici, si pone come caso paradigmatico degli effetti provocati dal non accesso alla funzione unificante dell’immagine speculare. Per Eva, una ragazza schizofrenica, per esempio il corpo è piuttosto il luogo di un ritorno nel reale della libido: Eva in certi momenti di vacillazione deve cingere la testa con una fascia perché possa avere la tranquillità «che tutto ciò che è all’interno della testa resti dentro». Quando il bambino viene al mondo, viene già al mondo nel campo dell’Altro simbolico ed è il simbolico che per Lacan costituisce uno dei tre registri, oltre all’immaginario e al reale, che presiede alla nascita e alla formazione del soggetto. Il simbolico, in particolare, è ciò che umanizza il soggetto sottraendolo alla condizione di puro vivente per immetterlo nel legame sociale.
Nelle Due note sul bambino, Lacan (1987) ci dice che il bambino diventa soggetto solo tramite il desiderio dell’Altro, cioè a partire dal modo in cui la madre, il suo Altro primordiale, ne ha fatto causa del proprio desiderio. Da ciò si coglie che il corpo per l’essere parlante non è più solo un organismo, prodotto di puri bisogni biologici, ma è la risultante della relazione che intercorre tra l’organismo di un vivente e l’Altro del linguaggio. È quindi il simbolico a trasformare l’organismo in corpo e il parlare di corpo implica una trilogia che comporta, oltre al corpo, la parola e l’essere. Per un verso, l’entrata nel campo del linguaggio fa pertanto perdere all’umano lo statuto di essere naturale ma, contemporaneamente, fa guadagnare al corpo uno statuto inedito perché diviene tempio della pulsione: «Come tempio della pulsione il corpo è libidicamente erotizzato, sublimato, sessualmente portatore di una differenza che fa problema, sede di un desiderio che ha fonte in quella perdita di godimento che è correlativa alla iscrizione stessa del simbolico. Ma il corpo è anche ciò che patisce di “quello che non va” e che Lacan chiama “il reale”. È questo reale che si manifesta nel sintomo e che insiste rendendo sofferente il corpo come un impossibile da sopportare ma di cui però non si riesce a fare a meno: “godimento”, lo chiama Lacan» (Miller, 2006b, p. 8).
Bibliografia:
Cosenza, D. (2003). Jacques Lacan e il problema della tecnica. Roma: Astrolabio.
Lacan, J. (1987). Due note sul bambino. La Psicoanalisi, 1, 22-23.
Id. (2006a). Il seminario. Libro XXIII. Il sinthomo (1975-1976). Roma: Astrolabio.
Id. (2006b). Il seminario. Libro II. L’io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi (1954-1955). Torino: Einaudi.
Id. (2002a). Aggressività in psicoanalisi (1948). In Id., Scritti. Vol. 1. Torino: Einaudi.
Id. (2002a). Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io In Id., Scritti. Vol. 1. Torino: Einaudi.
Miller, J.-A (2006a). Pezzi staccati. Introduzione al seminario XXIII “Il sintomo”. Roma: Astrolabio.
Id. (Ed.) (2006b). Gli imbrogli del corpo. Roma: Borla.
di Monica Buemi
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Freud e il femminile
Lacaniana, Serial / Gennaio 2015La vulgata dice che Freud era maschilista: di questo fu accusato più o meno velatamente, anche nell’ambito della psicoanalisi, e questa accusa ancora oggi ha i suoi echi. Ma che cosa ha apportato Freud intorno alla questione del femminile? Potremmo dire che il lascito maggiore su questo tema è stato aver aperto delle interrogazioni su punti per lui oscuri, e di averle lasciate aperte. Non poco come insegnamento in un mondo dove non c’è più posto per il fallimento, per il dubbio, per la ricerca, ma solo per il risultato e la riuscita performativa. Aveva lasciato queste domande aperte chiedendo esplicitamente alle donne psicoanaliste di provare a trovare delle risposte, perché forse, essendo donne, avrebbero avuto maggiore facilità. Non sono state invece le donne psicoanaliste a far avanzare la faccenda, ma è stato uno psicoanalista francese, Jacques Lacan, colui che ha apportato del nuovo in questo campo.
Tutti sappiamo, dalla nostra stessa esperienza e da quello che ci circonda nel mondo, che l’assunzione dell’identità sessuale non corrisponde all'appartenenza anatomica a un sesso o a un altro. Dunque, Freud si domanda innanzi tutto come si introduce la differenza sessuale. E rileva che questa prende avvio primariamente a partire dall’immagine, dato che è a partire dall’immagine del corpo che un nuovo nato, fin da subito, è inscritto simbolicamente come maschio o femmina. Due corpi differenti, quello maschile e quello femminile, la cui differenza appunto, data da un pezzo di carne presente o assente a livello dell’immagine, si traspone immediatamente su un piano simbolico: maschio o femmina, ce l’ha o non ce l’ha, + o -. E per sottolineare la separazione di ciò di cui si tratta dalla realtà fattuale, cioè dal livello puramente organico, Freud gli ha dato il nome degli antichi misteri: il fallo.
La bambina, dice Freud, manca di qualcosa: manca del fallo. Sarà Lacan, introducendo le categorie di Simbolico, Immaginario e Reale, a permetterci di situare questa mancanza al livello che le è proprio. Infatti, una simile mancanza è tale a livello immaginario e simbolico, ma dato che il nostro mondo è essenzialmente un mondo organizzato dal simbolico, ovvero dal linguaggio, questa mancanza ha la sua incidenza, e la bambina dovrà, volente o nolente, farci i conti. Freud immaginava che la bambina potesse recuperare quella stessa mancanza attraverso un sostituto del fallo (il termine stesso di sostituzione ci dice che siamo in un campo simbolico), ovvero con il bambino che, un giorno, avrebbe potuto avere al posto del fallo. Ne deduceva così che la migliore via d'uscita per la sessualità, dal lato femminile, fosse la maternità. Ma alla fine della sua vita, si è accorto che questa soluzione, la soluzione della sostituzione fallica, non era sufficiente per spiegare completamente la questione del femminile, che per lui resterà “il continente nero”.
Dunque Freud scopre che a livello della rappresentazione simbolica non c’è che un solo simbolo: il fallo. Lacan ci dirà, utilizzando i termini della linguistica, che mentre c’è un significante per rappresentare l’uomo, non ce n’è analogamente uno per la donna. Se c’è l’universale maschile non c’è quello femminile. E non si tratta solo di rappresentazione, ma anche di godimento. La donna può trovare la propria rappresentazione attraverso il fallo, ma non tutta. La donna può godere del fallo (cioè di ciò che ha: il bambino, diceva Freud, ma in quel posto di sostituto si può trovare qualsiasi altro oggetto), ma non tutta. Non tutto del femminile è preso dal versante fallico.
Freud aveva presentito questo, e si domandava infatti: che cosa vuole una donna? Sarà con Lacan che la questione potrà avanzare: se non c’è un universale femminile, le donne si contano solo una per una. Se la donna non gode solo del fallo, c’è un godimento femminile che eccede, che non è dicibile proprio in quanto non rappresentabile e non universalizzabile. Questioni accademiche? Non tanto, se pensiamo alle difficoltà della relazione fra i sessi, che toccano tutti gli esseri parlanti ma che oggi, forse più che un tempo, sfociano nella violenza: violenza che mira ad annientare quella differenza, a rigettarla, di cui non si vuole sapere nulla.
Bibliografia:
S. Freud (1978). Alcune conseguenze psichiche della differenza anatomica fra i sessi. In Id., Opere. Vol. 10. Torino: Bollati Boringhieri.
Id. (1979). Sessualità femminile. In Id., Opere. Vol. 11. Torino: Bollati Boringhieri
J. Lacan (1974). Appunti direttivi per un congresso sulla sessualità femminile. In Id., Scritti. Torino: Einaudi
Id. (2011). Il seminario, Libro XX, Ancora. Torino: Einaudi
di Paola Bolgiani
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Ne Il suono e l’immagine Ramaglia si propone di analizzare in modo esauriente il rapporto tra immagine e suono nel film sonoro narrativo, ponendo particolare attenzione al contributo di questa seconda componente nei confronti della prima e seguendone l’evoluzione per arrivare fino alle sperimentazioni moderne e contemporanee.
Il sottotitolo espone già chiaramente ciò che si intende per suono in ambito cinematografico: gli elementi che compongono la colonna sonora di un film, infatti, non sono solo la musica e la voce, ma anche e con altrettanta importanza il rumore e l'assenza di suono, vale a dire il silenzio. È a partire da questa suddivisione che il testo di Ramaglia si sviluppa, in modo conciso, ben strutturato e tramite l'analisi di numerose sequenze filmiche.
I primi due capitoli illustrano i diversi approcci che si possono avere nell'analisi audiovisiva: quello diegetico (dal greco diéghesis, racconto), relativo all'insieme di suoni che appartengono all'universo narrativo del film; quello sincronico e quello diacronico, che analizzano il rapporto tra suono ed immagine rispettivamente all'interno di una singola sequenza o dell'intero film.
Se nei film muti l'aspetto visivo aveva sempre prevalso su quello uditivo (che consisteva, al massimo, nell'accompagnamento musicale dal vivo di quello che poi diventerà il “golfo mistico invisibile” (p. 9)), con l'avvento del sonoro le dinamiche variano notevolmente e si sviluppano tra le due componenti diversi tipi di legame: il parallelismo, più convenzionale, spontaneo ed affine all'anima umana; il contrappunto, che «suggerisce elementi di senso» (p. 31) nuovi rispetto all'immagine; l'indifferenza, in cui immagine e suono si sviluppano in modo indipendente.
I primi due stili usano principalmente i suoni over, extradiegetici, generando empatia nello spettatore, mentre il terzo tende ad usare i suoni diegetici in ed off, a seconda che la sorgente sonora sia o meno individuata, provocando nello spettatore un “effetto anempatico”, a cui è dedicato l'intero terzo capitolo. Esso sta alla base dell'idea di “rumore”: la maggiore ambizione del cinema è ed è sempre stata quella dell'illusione di realtà, di far sembrare vero ciò che si vede sullo schermo; per realizzare ciò, soprattutto nelle sequenze in cui i suoni non sono unicamente extradiegetici, il cinema ha bisogno di poter ricreare la realtà così come la si vive nel concreto, a partire dal costante sottofondo sonoro che sempre la caratterizza. Una realtà aleatoria e polifonica che, passando spesso inosservata perfino a chi la vive, è molto difficile da riprodurre fedelmente.
L'importanza di questo capitolo centrale deriva dal fatto che solo in questo terzo caso il suono è in grado di rendersi autonomo dall'immagine, di esprimersi nella sua natura e comunicare anch'esso qualcosa, senza però distaccarsi mai del tutto dalla componente visiva: le due dimensioni, secondo una felice definizione deleuziana, sono “eautonome”, indipendenti ma necessariamente sempre legate. Tale caratteristica non intacca, ma, anzi, rafforza la natura audiovisiva dell'immagine, permettendo al cinema moderno di sperimentare ulteriormente anche sulla dimensione sonora. È il caso della “poliarmonia anempatica” quotidiana (p. 52-53) presente nel capolavoro hitchcockiano Rear Window (1952), o ancora della confusione sonora in La femme du Gange (1973) di Marguerite Duras o, infine, del rapporto simboleggiato dalle coppie aria/suono e terra/immagine in Moses und Aron (1975) di Straub e Huillet, entrambi citati da Deleuze ne L’immagine-tempo.
Il quarto capitolo è invece incentrato su film e sequenze che dedicano particolare attenzione alla componente musicale dell'audiovisivo, sviluppata in forma narrativa oppure in grado di dare spazio ad un genere di protagonismo musicale non-narrativo che Ramaglia definisce “ludico”, in riferimento al concetto di gioco già presente in Gadamer (p. 68).
Quello del gioco è un tema direttamente collegato alle idee di movimento e danza, nonché al modo d'essere dell'auto-rappresentazione; ed è proprio in questi termini che va inteso il gioco musicale nel cinema, inseribile come ritardo ludico del racconto, come sospensione ludica nel corso del film o, infine, come conclusione ludica (si pensi rispettivamente all'ouverture di Apocalypse Now (1979) di Coppola, alle particolari sospensioni di 2001: A space Odyssey (1968) di Kubrick, e al finale di 8½ (1963) di Fellini, film adeguatamente analizzati nel corso del capitolo).
Nel quinto ed ultimo capitolo l’analisi verte sul silenzio, posto alla fine del testo non perché meno importante delle altre componenti del sonoro cinematografico, ma perché meno immediato da comprendere; di silenzio al cinema, infatti, si può iniziare a parlare solo con l'avvento del sonoro, come sua consapevole “negazione”.
Analogamente a ciò che accade con l'elemento sonoro, il silenzio può mimetizzarsi con la realtà cinematografica quando è giustificato dagli eventi e non sommerge totalmente la dimensione sonora (diegetico/relativo), oppure può invadere arbitrariamente l'intera gamma sonora della sequenza, che diventa così irrealistica (extradiegetico/assoluto). Nel primo caso sono i suoni in/off ad essere sospesi, pur lasciando spazio ad altri meno significativi, mentre nel secondo caso il silenzio è generato dall'improvvisa assenza del suono over del golfo mistico invisibile.
Caso estremo ed eccezionale su cui si chiude l'intero testo è, infine, quello del “silenzio diegetico assoluto” di 2001 odissea nello spazio di Kubrick, già citato in precedenza per le numerose sospensioni ludiche. Tale definizione apparentemente aporetica sta ad indicare un silenzio totale che però, allo stesso tempo, è anche giustificato dalla narrazione in cui ben si mimetizza: è il silenzio dello spazio, anempatico e raggelante, soprattutto nel momento in cui viene legato alla morte con la maestria di Kubrick, regista che «rimane uno dei più profondi indagatori delle possibilità del linguaggio audiovisivo» (p. 107).
Nell'analizzare lo sviluppo del sonoro in rapporto all'immagine, Deleuze sottolinea più volte come esso si renda sempre più indipendente dal monopolio del visivo, per cercare non solo di comunicare qualcosa in modo autonomo ma, anche e soprattutto, per riuscire a far vedere nell'immagine cui viene associato qualcosa che altrimenti non si sarebbe potuto vedere. L'atto udito, in altre parole, vede, «è visto, come se si tracciasse un percorso nell'immagine visiva»; scava lo spazio visivo e vi si inserisce, riempiendolo e arricchendolo. Non è un caso se anche Chion, e con lui Deleuze ne L'immagine-tempo, riporti tra gli esempi di “voci che vedono” quella del computer di 2001: A space Odyssey, confermando così l'importante rilevanza assegnata da Ramaglia alle componenti sonore del film.
Dalle analisi dell’autore e dalle riflessioni di Deleuze non si può che concludere, d'accordo con entrambi, che il suono è in grado di creare nell'immagine una dimensione nuova, diventandone così componente imprescindibile e permettendo al cinema di esplorare orizzonti di regia e montaggio innovativi. In questo modo il cinema può abbandonare progressivamente i retaggi di un ingenuo realismo, ancora imperniato sui “legami senso-motori”, per concentrarsi maggiormente sull'astratto dell'ottico-visivo, sui décadrages, sugli interstizi tra le inquadrature, sui falsi raccordi.
La musica rende l'immagine cinematografica interamente ed immediatamente leggibile, «un po' come una partitura», afferma Deleuze: l'immagine vede l'indicibile e il suono dice l'invisibile, in un'eautonomia che ha già raggiunto elevatissimi livelli di comunicazione e sperimentazione audiovisiva (si vedano, oltre ai già citati, anche Godard, Ozu, Rossellini, Resnais), nonostante questo resti un campo dalle risorse ampie, forse inesauribili.
Oltre che sperimentare ed analizzare, infine, del cinema bisogna fruire: «Perché il suono chiede di essere ascoltato. Mentre le immagini scorrono veloci davanti ai nostri occhi. Nel buio di una sala» (p. 108), conclude Ramaglia.
di Maria Adorno