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Il riconoscimento naturalizzato di Lucio Cortella
Recensioni / Settembre 2023Pochi concetti nel pensiero sociale e politico contemporaneo hanno suscitato un interesse così diffuso come il concetto di riconoscimento. Gran parte del suo fascino sembra derivare dal fatto che si basa su un'esperienza famigliare a tutti, vale a dire l'esperienza di dipendere dagli altri nella propria relazione con sé stessi, nel bene e nel male. Questa esperienza può assumere molte forme. Essere ignorati ad una festa da chi ci ha visto ci mette a disagio, ricevere elogi da un collega per un lavoro ci fa sentire orgogliosi, essere sottoposti a controlli approfonditi ad una frontiera ci fa dubitare di quanto siamo benvenuti nel paese dove andiamo. Esempi come questi illustrano che gli altri sono coinvolti nel plasmare le nostre vite e le nostre percezioni attraverso il modo in cui ci vedono e ci trattano. È proprio su questa connessione tra sé e altro che si è aperta una profonda riflessione. L'attuale interesse per il riconoscimento - un concetto che può essere trovato nelle opere di una varietà di pensatori, ma che è, almeno nella tradizione della filosofia europea, più comunemente associato a Hegel è in gran parte dovuto agli interventi teorici di Charles Taylor e Axel Honneth all'inizio degli anni '90. Taylor coniò l'espressione “la politica del riconoscimento” nel contesto dei dibattiti sul multiculturalismo come strumento per affrontare il tema della valorizzazione della differenza culturale, ma fu soprattutto Honneth che con Lotta per il riconoscimento (1992) fece un lavoro di recuperò dell'idea della lotta per il riconoscimento come concetto centrale per una rinnovata teoria critica post-adorniana che fosse in grado di dare un senso alle motivazioni morali della lotta sociale. Il concetto di riconoscimento rapidamente acquisì importanza nella filosofia sociale e politica, lo testimonia un corpus letterario in continua crescita.
La grande sfida affidata a quelle riflessioni consisteva nel tentativo di uscire dalle secche della dissoluzione del soggetto che il linguistic turn, in tutte le varianti novecentesche, aveva imposto e che conducevano a forme di decostruzione e a teorie del potere che avevano trasformato il soggetto nella marionetta eterodiretta da discorsi o poteri impersonali. Axel Honneth senza ricadere nel monismo soggettivista che da Cartesio a Kant aveva caratterizzato la modernità, si mantiene fedele al paradigma intersoggettivo postmetafisico riportando i temi della costituzione del soggetto al centro della filosofia contemporanea. Non trascurando, anzi assumendo le critiche al soggetto che si sono sviluppate da molteplici tradizioni filosofiche contemporanee, Honneth ritiene si possa ripensare l’autonomia stessa del soggetto a partire dalla sua costituzione intersoggettiva. A differenza del tema del “dono” che nei medesimi anni veniva utilizzato per svolgere lo stesso ruolo anti-liquidatorio del soggetto, il riconoscimento è stato un principio assolutamente più efficace e longevo che ha avuto varianti ed applicazioni differenti. In questa prospettiva va letto l’ultimo testo di Lucio Cortella Ethos del riconoscimento (Laterza, 2023): certamente non, semplicemente, la ricostruzione di un dibattito che dalla pubblicazione del testo di Honneth ha preso il via, quanto il rilancio e l’oltrepassamento di quella prospettiva in una chiave più radicale. Il passo oltre Honneth parte dal confronto con lo stesso Hegel che è l’ispiratore della teoria del riconoscimento honnethiano. Cortella, come Honneth, considera il merito filosofico principale di Hegel nell’aver compreso che il rapporto con sè stessi che si esprime nell’autocoscienza è possibile solo in quanto si costituisce come rapporto ad altri, rapporto che va inteso come un’interazione mediata da un processo di reciproco riconoscimento. Questo recupero di Hegel è in sintonia con una serie di riflessioni che, a partire dagli anni ’70, hanno consentito l’abbandono definitivo delle tesi riflessiviste dell’autocoscienza che da Cartesio a venire in avanti hanno rappresentato l’identità come il prodotto di un soggetto che si identifica come oggetto del proprio pensiero. Che il soggetto che si pone davanti a sé stesso in una sorta di auto-endoscopia possa costituire il significato dell’autocoscienza era già stato profondamente contestato per esempio da pensatori come Ernst Tugendath o Dieter Henrich i quali mostravano la contraddizione di un io che rivolgendosi a se stesso in un atto di autoriflessione deve presupporre ciò che costituisce il risultato di quest’atto.
Secondo Cortella, Hegel pensa il riconoscimento come condizione inaggirabile dell’autocoscienza e quindi dell’identità individuale, ma forzando Hegel stesso, Cortella definisce il riconoscimento come condizione trascendentale – in senso kantiano – dell’autocoscienza. “Originario non è dunque il soggetto, ma la relazione. Ora essendo tale relazione condizione di possibilità della nostra autocoscienza e della nostra conoscenza degli oggetti in esso si ripresenta il senso e la funzione del trascendentale” (Ethos del riconoscimento p.56). Si tratta di un trascendentale depurato dal carattere soggettivistico di Kant, per cui tale presupposto non risulta più interno al soggetto, ma fuori di esso. Come noto l’assolutizzazione che ne farà Hegel, comprometterà fino alla seconda metà del ‘900 la nozione di trascendentale che sarà recuperato sul piano del linguaggio e della sua dimensione pragmatica in modo decisivo da Karl-Otto Apel e da Jurgen Habermas. Se Honneth, nella propria teoria del riconoscimento si tiene lontano da questa soluzione, Lucio Cortella si colloca decisamente su questo terreno, un terreno in cui la caratterizzazione dei soggetti empirici costituiti naturalmente e posti in contesti storici ne impedisce la definizione nel senso di un apriori trascendente l’empirico. È una impostazione di trascendentale che Cortella definisce “minimale” e che indica l’impossibilità di aggiramento. Risuona in questa argomentazione del filosofo veneziano la lezione di un suo maestro, Emanuele Severino, che si rifaceva all’elenchos aristotelico per chiarire la forma dell’inaggirabilità del principio di non contraddizione. Tuttavia la radicalità di Cortella pare andare oltre nel senso che nonostante il fastidio e il fatto che Lucio Cortella si premuri di non menzionarlo, quello che si delinea in Ethos del riconoscimento è una sorta di definizione ontologica del riconoscimento: quando sostiene che la relazione di riconoscimento precede i soggetti e di fatto li costituisce è facile dire che si tratta di questo tipo di argomentazione. Di fatto Cortella cercando di smarcarsi da questo tipo di vocabolario sostiene che è presente all’origine una logica del riconoscimento la quale analogamente alla fenomenologia del dialogo illustrata da Gadamer “gioca” i partner della relazione conducendoli nel rapporto reciproco. Il riconoscimento non è dunque un prodotto che si forma tra un io e un altro io, ma si impone tra i due dall’esterno come un terzo che conduce alla relazione, è una struttura oggettiva che si palesa nel logos che determina il funzionamento del rapporto tra soggetti. Le pagine che illustrano questa dinamica sono di assoluto spessore e in fondo sebbene mai esplicitate nei testi hegeliani, quando Cortella mostra che si tratta di una sorta di “medio” che si impone tra le parti che le conduce al riconoscimento reciproco, esse ben si confanno all’autore della Fenomenologia dello spirito. Questa logica che ha un carattere trascendentale tuttavia per Cortella possiede – ecco un'altra variante decisiva rispetto alla versione honnethiana di riconoscimento – una base naturale. C’è già stato, in tempi recenti, un altro filosofo italiano che ha accostato la logica del riconoscimento alle basi naturali dell’individuo: Paolo Virno. In Saggio sulla negazione (2013) Virno mette alla prova la figura del riconoscimento hegeliano con la scoperta dei cosiddetti “neuroni-specchio” avvenuta anni dopo la pubblicazione del testo di Honneth. Virno si pone la domanda di come si possa parlare di attribuzione o negazione di riconoscimento fra soggetti se esiste, come dimostra la scoperta dei neuroni-specchio, un riconoscimento fra umani che precede qualsiasi processo di consapevole riconoscimento. La soluzione di Virno non compromette la dinamica hegeliana, ma la rimette in gioco ad un secondo livello. Secondo Virno esiste un “livello base” della socialità ancorato alla neurofisiologia. Egli afferma che il linguaggio può retroagire distruttivamente sullo “spazio noi-centrico” minandone la compattezza. Cosa significa non riconoscere il proprio simile? L’esempio è quello del vecchio ebreo consumato dalla fame e dell’ufficiale nazista che pur sapendo cosa prova il suo simile grazie alla “simulazione incarnata”, è in grado di disattivare quell’empatia generata dai neuroni-specchio. L’ufficiale può arrivare a trattare il vecchio ebreo come un non-uomo. Imputare il mancato riconoscimento tra umani a ragioni storiche, culturali, politiche appare troppo comodo e deresponsabilizzante, la situazione è più tragica. Nessuno nega il peso della dimensione politico-culturale: è importante però mettere a fuoco le basi biologiche di questa dimensione. L’ufficiale nazista può non riconoscere il vecchio ebreo perché la socialità dei sapiens non è fornita soltanto dai neuroni a specchio, ma anche dal linguaggio che ammette la negazione degli stati di fatto. “Se i neuroni-specchio agiscono nel suddetto modo, gli atteggiamenti proposizionali autorizzano invece a mettere da parte e a contraddire la rappresentazione dell’altro come persona simile a noi. La sospensione del consentire neurale è legata alla più rilavante prerogativa del linguaggio”. A questo punto vale la pena chiedersi se questa urgenza di verificare la tenuta del riconoscimento alle sollecitazioni provenienti dalle scienze naturali in qualche modo non costituisca uno dei tratti di una ipotetica variante italiana della teoria del riconoscimento. Cortella fa riferimento agli studi di George Herbert Mead e a quelli più recenti dello psicologo e neuroscienziato americano Michael Tomasello i quali, in maniera diversa, condividono lo sforzo di mostrare la genesi e la filogenesi intrecciata di comportamento comunicativo e comportamento cooperativo in direzione di un apprendimento reciproco delle altre persone e della posizione altrui. Il tentativo inedito di coniugare il quadro trascendentale ad una base naturale è la vera scommessa messa in campo da Cortella per gettare le basi di un recupero della soggettività in un quadro di intersoggettività originaria salvandola dalla deriva decostruzionista.
La costitutiva originarietà dell’Annerkennung non si ferma alla dimensione della soggettività, ma significa l’anteriorità dello stesso anche all’Erkennen. Così come non è immaginabile una soggettività che preceda il riconoscimento, allo stesso modo l’oggettività del mondo è irraggiungibile al di fuori di un rapporto tra soggetti che si riconoscono e che si riferiscono collettivamente a quel mondo. Questa ipotesi assolutamente fuori dalla teoria del riconoscimento di Honneth è dovuta, a detta di Cortella, al fatto che l’impostazione del successore di Habermas alla direzione della Scuola di Francoforte rimane troppo concentrata sulle opere jenesi di Hegel non approfondendo sufficientemente la logica del riconoscimento che si evolve lungo tutta la Fenomenologia dello Spirito a partire dalla dialettica servitore/padrone nel capitolo IV dell’opera del 1807. Le pagine della dialettica servitore/padrone delineano in modo “aurorale” la dinamica che percorrerà il testo, ma trovano in quella figura il loro fallimento che invece raggiungerà un esito positivo soltanto a partire dal capitolo VI. Come scrive Cortella, in quel confronto i due soggetti non pervengono ad un riconoscimento reciproco, per raggiungere quello stadio si dovrà passare attraverso una serie di esperienze che metterà la coscienza a confronto con il mondo esterno e con altri soggetti e che gli permetterà di uscire dal particolarismo in cui è collocata. È la nuova forma di oggettività che si raggiunge a partire dalla fine del V capitolo della Fenomenologia e che si espliciterà nella prima parte del VI capitolo. “L’oggettività delle nostre conoscenze è il risultato di un processo di riconoscimento nel quale una prospettiva soggettiva – passata attraverso il vaglio degli altri soggetti coinvolti e completata dal contributo di tutti – è stata riconosciuta come oggettiva”— (Ethos del riconoscimento pag 41). Il valore trascendentale del riconoscimento intersoggettivo assume la valenza delle categorie dell’analitica trascendentale della Critica della Ragion Pura per la conoscenza oggettiva che nella proposta kantiana consentivano l’upgrading delle sensazioni soggettive.
La principale differenza rispetto alla proposta honnethiana è che quest’ultima rimane collocata su di un piano genetico-descrittivo nella misura in cui pur mostrando come si vadano a formare le aspettative morali e il senso morale attraverso il riconoscimento e le sfere del riconoscimento storicamente determinate, manca, a detta di Cortella, il fondamento della normatività del riconoscimento ovvero perché il mancato riconoscimento costituisca un atto immorale. Per Cortella il merito di Honneth di mostrare la ricca articolazione delle forme del riconoscimento gli consente di uscire dalle secche del formalismo astratto di tanta etica contemporanea, tuttavia esplicitarne il funzionamento nei termini di una piena costituzione soggettiva non risolve la necessità – che è evidentemente estraneo ad Honneth – di una argomentazione giustificativa. Il tentativo di Cortella è di muoversi tra la Scilla della deriva assolutizzante del riconoscimento che compie Hegel nel corso della Fenomenologia dello Spirito e la Cariddi del proceduralismo di Habermas costituito da un ipotetico confronto di argomentanti il cui esito è una morale separata da qualsiasi dimensione etica relegata a collezione di “vite buone” e concetti di bene. Se per quanto riguarda Hegel si tratta di fare salva la figura del riconoscimento prima della sua assolutizzazione nello Spirito Assoluto, per quanto riguarda Habermas significa mostrare che in realtà l’autore dell’Etica del discorso nell’ipotizzare “la situazione discorsiva ideale” ha bisogno di fare implicitamente riferimento ad una normatività pre-morale fatta di rapporti vitali, “entro i quali ha la sua fissa dimora” (Etica del Discorso pag 111). Cortella intende Ethos al di là degli usi e costumi, la intende come “dimora”, dimensione originaria in cui gli umani vivono e in cui sono collocati. È il terreno in cui crescono le nostre relazioni che come tali precedono qualsiasi “dover essere”. Il riferimento ad Aristotele è chiaro, così come è chiara la presenza di Aristotele in tutta la riflessione di Cortella. Il suo testo si apre citando la celebre definizione dell’uomo come animale politico, Zoon Politikon ed in fondo si può dire che tutto il lavoro è percorso dall’ aspirazioni di ridefinire quel concetto aristotelico nel quadro della contemporaneità. Il tentativo di coniugare la naturalità del legame fra gli umani e l’inaggirabilità del carattere normativo di quel legame va in quella direzione. Detto in altri termini si tratta per Cortella di superare la necessità kantiana di postulare due regni distinti per stabilire da una parte la verità delle proposizioni oggettive e dall’altra la giustezza delle norme morali. Ciò è possibile mostrando la compatibilità della nostra esperienza morale e della nostra natura biologica. Se ha ragione Kant nel mostrare che non è rinvenibile la libertà nel campo della necessità oggettiva, si tratta allora, anziché rivendicare un regno sovrasensibile della libertà, mostrare come essa sia il “risultato di un processo intersoggettivo e sociale che muove da basi e facoltà naturali. La soggettività non è qualcosa di innato, ma il risultato di un processo costitutivo. Allo stesso modo dobbiamo trattare il problema della libertà”. Sono fatte fuori, in questo modo, tutte le teorie della liberta originaria ovvero quelle impostazioni che ritengono che l’essere umana nasca dotato di libertà e che il rapporto con gli altri, nelle forme politiche che le società si danno, significa quanta libertà venga ceduta, quanta tutelata, quanta negoziata. È l’altro che mi mette in condizione di essere libero. La logica del riconoscimento è quello di una reciproca dipendenza che consente ad un io di essere autonomo nella misura in cui l’altro soggetto che lo riconosce come autonomo conferisce ad esso il medesimo statuto di autonomia. Riconoscimento e riconoscenza si richiamano vicendevolmente perché io sono in debito con l’altro per ciò che egli mi attribuisce nello stesso modo in cui questo altro è in debito con me perché lo riconosco. Quest’economia di riconoscimento/riconoscenza è la base su cui nasce un senso morale, ma anche un principio di “vulnerabilità normativa” perché qualora non si realizzi questo scambio ovvero non venga attribuito un riconoscimento, si genera verso chi è misconosciuto un sentimento di sofferenza, umiliazione e disistima verso sé stessi. Il riconoscimento ovvero la condizione di reciproca attribuzione di autonomia vale per gli individui, ma anche per i gruppi sociali; spesso sono il frutto di conflitto e lotta per raggiungere una parità di posizione al di là delle forme di sopruso o paternalismo. La novità di Ethos del riconoscimento di Cortella, che lo rende un testo che spicca tra quelli della vasta produzione filosofica sul tema del riconoscimento, è il tentativo, riuscito, di mostrare come i contenuti morali di libertà e responsabilità abbiano una base naturale senza bisogno di far ricorso a nessun ordine sovrasensibile, ma anche di mostrare come questa naturalità produca un ordine più che naturale, perché in grado di superare gli impulsi di mera conservazione ed utilità, fino a prodursi in cultura. Da questo punto di vista, Cortella, come altri studiosi della scuola veneziana, pensiamo ad Italo Testa, ipotizzano una sorta di ‘riconoscimento naturale’ che diventa elemento chiave dell’epistemologia e dell’ontologia sociale. Ciò in forte sintonia con quella Koiné contemporanea delle scienze umane e sociali che da fronti disciplinari molto diversi guarda oltre la stretta separazione naturale/culturale. La peculiarità del testo di Lucio Cortella è quello di mostrare il superamento di questa dicotomia utilizzando gli strumenti concettuali della tradizione filosofica e tratteggiando un modello teorico che può offrire soluzioni ai problemi in cui incorrono altri pensatori del riconoscimento da Honneth a Ricoeur, da Taylor a Brandom.
Massimo Fiorio
Bibliografia
L. Cortella Ethos del riconoscimento, Laterza, Bari-Roma, 2023
J. Habermas Etica del Discorso Laterza, Bari-Roma 1985
G.W. F. Hegel La Fenomenologia dello spirito, Bompiani, Milano, 2000
A. Honneth Lotta per il riconoscimento Il Saggiatore, Milano, 2002
C. Taylor Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento. Feltrinelli, Milano, 1998
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Il libro di Silvia Caprioglio Panizza The Ethics of Attention. Engaging the Real with Iris Murdoch and Simone Weil (2022) ci fa innanzitutto interrogare sulle nostre modalità di interazione col mondo. Secondo l'autrice, esiste un modo di relazionarsi "bene" con la realtà, e questo modo passa inevitabilmente attraverso l'attenzione, un concetto a cui sia Simone Weil che Iris Murdoch hanno dedicato un posto d’onore all’interno delle loro riflessioni sulla morale. Il libro ha molti meriti: in primo luogo, rilancia la centralità dell'attenzione in campo morale entrando in un dialogo dinamico e affascinante con Murdoch e Weil, il quale viene arricchito ulteriormente da rimandi alla letteratura psicologica contemporanea, nonché a concetti appartenenti alla tradizione del Buddismo zen. In secondo luogo, offre un'esplorazione avvincente e scrupolosa del ruolo che l'attenzione può svolgere quando si tratta di destreggiarsi tra questioni etiche attuali e oltremodo scomode, come la maniera in cui trattiamo gli animali e i venditori ambulanti. Il fil rouge che connette i capitoli è una sorta di magnetismo della verità, della realtà così com'è indipendentemente da noi e dalle nostre preoccupazioni; nel prendere sul serio questo magnetismo, il libro di Caprioglio Panizza è allo stesso tempo stimolante dal punto di vista teorico ed estremamente pratico. Iris Murdoch e Simone Weil.
Il capitolo 1 fornisce una definizione generale di attenzione e introduce, attraverso le concezioni divergenti di Weil e Murdoch, il fatto che per partecipare alla realtà, dobbiamo in qualche modo uscire di scena e lasciare che essa si riveli da sola. I capitoli 2 e 3 affrontano le tensioni che sorgono quando ci si concentra sul ruolo del sé nell'attenzione e le considerano attraverso due possibili percorsi: la visione addomesticata (“The Tame View”, capitolo 2), secondo cui l'attenzione risulta incompatibile solo con alcune parti del sé, e la visione radicale (“The Radical View”, capitolo 3), secondo cui l'attenzione è incompatibile con il sé tout court. Il capitolo 4 affronta ancora un'altra tensione, quella della conoscenza di sé: sembra che sia necessario concentrarsi su noi stessi per capire se stiamo partecipando correttamente, ma, allo stesso tempo, il "guardarsi dentro" risulta incompatibile con l'attenzione. Infine, i capitoli 5 e 6 difendono la seguente tesi: l'attenzione è necessaria per la percezione morale e sufficiente per la motivazione e per l'azione.
Innanzitutto, che cos'è l'attenzione? L'autrice la presenta come una sorta di impegno nei confronti della realtà che si assume l’individuo nel momento in cui percepisce, o in qualche modo accetta il magnetismo della verità (24). L'elemento di "ricerca della verità" è ciò che rende l'attenzione una capacità morale, in quanto ci permette di vedere la verità e di agire su di essa; dunque, se vogliamo essere "buoni" agenti morali, dobbiamo essere agenti morali attenti. Questo requisito normativo si presenta in due dimensioni, le quali vengono esplorate da Caprioglio Panizza seguendo una distinzione su due "assi": l'asse verticale riguarda la presenza o l'assenza di attenzione, dove il requisito normativo è quello di prestare attenzione invece di mantenere un atteggiamento distratto o di fantasticheria nei confronti della realtà. L'asse orizzontale riguarda, dall’altra parte, gli oggetti dell'attenzione e il requisito normativo è quello di prestare attenzione a quelli "giusti" (le altre persone, particolari oggetti del mondo, la natura), poiché ciò a cui prestiamo attenzione dà forma ai nostri pensieri e alle nostre azioni (alla nostra "coscienza", Murdoch MGM 167). Nel capitolo 1 ci vengono presentati, inoltre, punti in comune e divergenze tra Murdoch e Weil. La ricerca della verità è un elemento cruciale per entrambe le filosofe, che pongono il Bene/Dio come ciò che in ultima analisi guida l'attenzione verso l'eros, ma ci si rende presto conto che esse hanno idee alquanto diverse in merito a ciò che è richiesto all'agente per partecipare correttamente alla realtà; la presenza o l'assenza di attenzione assume due forme distinte, con le quali l'autrice si confronta esaustivamente nei capitoli successivi.
Nel famoso esempio di M&D, in cui lo sguardo ri-orientato di M è proprio ciò che le permette di vedere realmente D, vi è un momento in cui M mette da parte se stessa per concentrarsi su D. I capitoli 2 e 3 esplorano la relazione tra attenzione e sé; in particolare, tra l'attenzione e, rispettivamente, le idee del sé di Murdoch (cap. 2) e di Weil (cap. 3). Iris Murdoch, pur essendo attratta dalla presa di posizione radicale di Weil, lavora con una concezione del sé che è sostanziale – per cui esiste una cosa, il sé, che può essere migliorata – e che trova un certo grado di unità nel sé morale. Dato l’elemento di ricerca della verità, l'attenzione diventa quindi ciò che permette all'agente morale di progredire moralmente; punto cruciale, diventa ciò che permette all’agente morale di progredire attraverso il proprio sé, non nonostante il proprio sé. Il capitolo 2 esplora il percorso di Murdoch attraverso quella che Caprioglio Panizza chiama "la visione addomesticata", poiché non cerca di eliminare il sé, ma piuttosto di sopprimere (o addomesticare) alcune parti di esso. Secondo questa visione, vi è solo una parte del sé che risulta problematica, quella dell'ego, ovverosia la parte che spinge a concentrarsi sulle proprie preoccupazioni e che impedisce di guardare il mondo con uno sguardo che sia indipendente da esse. In questo senso, il mettersi da parte di M è inteso come un ri-orientare lo sguardo; un distoglierlo dalle preoccupazioni del proprio sé (l’ego) per andarlo a posare esclusivamente su D, per amare D vedendo D come una realtà indipendente da M. L'autrice ci guida nel notare come in entrambe le concezioni del sé di Murdoch e di Weil sia più o meno implicita la presenza di un'illusione; nel caso di Murdoch, si tratta dell’illusione dell'egocentrismo, nel caso di Weil, dell’illusione del sé in quanto entità separata dal mondo. Essere buoni agenti morali, in entrambi i casi, richiede di superare tali illusioni.
Il capitolo 3 inizia con tre preoccupazioni che l'autrice solleva riguardo alla visione addomesticata: la prima è che, secondo questa visione, l'attenzione non è pienamente raggiunta, poiché nel momento in cui il sé è ancora presente, allora l'oggetto non può essere del tutto presente. La seconda è che, pensando a una parte del sé come "cattiva", si potrebbe andare a scatenare una battaglia interiore che finirebbe solo per rafforzare la parte egocentrica del sé, rivolgendo la direzione dell’attenzione verso l'interno (il sé) anziché verso l'esterno (ciò che è indipendente dal sé). La terza preoccupazione è che, in modo analogo, assumendo che l'attenzione sia ciò che ci permette di migliorare noi stessi, potremmo finire per rendere il nostro sé ancora una volta oggetto di attenzione. A questo punto è difficile resistere davanti alla possibilità che vede, nell’attenzione, un sé del tutto assente. Caprioglio Panizza chiama questa possibilità la "visione radicale", rifacendosi alla concezione di Weil che vede il sé come un'interferenza con la realtà che non fa che alimentare la nostra separazione da essa, qualcosa di cui sbarazzarsi tout court se vogliamo essere fedeli alla spinta verso la verità propria dell’attenzione. "Vedere un paesaggio così com'è quando io non ci sono" (GG 42, in Caprioglio Panizza 91) afferma Weil, citata dall'autrice, per descrivere l'azione di partecipare al mondo con una concezione vuota di sé. L’azione richiesta non si configura come una "soppressione", né come una "rimozione", quanto piuttosto come un atto di "de-creazione" (93). Ma come possiamo metterlo in atto? Come possiamo vedere il paesaggio come se non fossimo noi a vederlo? Come possiamo toglierci di mezzo per permetterci di vedere la realtà così com'è? Queste domande, per quanto legittime, sono figlie dell’illusione della separazione, ovverosia dell’illusione di credere che nel momento in cui concentro la mia attenzione sul paesaggio, vi siano due entità distinte: me stessa (da sopprimere) e il paesaggio. In realtà non vi è alcuna separazione; io e il paesaggio non siamo due entità distinte. In questo senso, la "de-creazione" implica prendere coscienza del fatto che il sé non è mai veramente esistito (92). Alla fine del capitolo, Caprioglio Panizza introduce il Buddhismo Zen come un possibile modo per comprendere che cosa implica il partecipare al mondo senza sé, e la risposta è sorprendente, diametralmente opposta a quella che si potrebbe aspettare. La filosofia Zen non richiede che, prima di tutto, si debba sopprimere il proprio io per poi, improvvisamente, vedere la realtà così com’è; piuttosto, afferma che è attraverso l'esperienza della non-dualità che possiamo sperimentare l'assenza dell'io. Quando siamo finalmente in questo stato di unità, quando possiamo finalmente vedere che, in realtà, non vi è proprio nulla da sopprimere perché la linea di demarcazione tra noi e il mondo era del tutto fittizia in primo luogo, solo allora staremo sperimentando l'attenzione. Questo parallelo con il Buddhismo Zen risulta estremamente utile poiché, seppur le metafisiche di Weil e dello Zen non coincidano, vi è significativa sovrapposizione fenomenologica tra le due concezioni di attenzione; nelle parole dell’autrice, "non sono soppressa, ma unita" (99), e questa è un'esperienza che è propria di entrambe le letture.
Sebbene Caprioglio Panizza sia esplicita nel manifestare sintonia con la soluzione radicale di Weil, il resto del libro si concentra principalmente sull’opzione moderata di Murdoch, la quale dà origine alla seguente tensione: come vi può essere compatibilità tra attenzione e consapevolezza di sé (capitolo 4)? M si rende conto che la sua percezione di D era sbagliata; ergo, vi è un momento in cui M deve per forza aver raggiunto una certa consapevolezza riguardo questa percezione distorta ("fammi guardare di nuovo"). Dunque, in un certo senso, sembra che la consapevolezza di sé, o la conoscenza del sé illusorio, sia in qualche modo necessaria per l'attenzione, poiché, altrimenti, non potremmo renderci conto di eventuali errori percettivi. Tuttavia, se l'attenzione si configura come l'atto di lasciare che la realtà si manifesti indipendentemente da noi, allora che spazio vi può essere per un tipo di conoscenza che inevitabilmente mette di nuovo il sé al centro di tutto? Potremmo dire che M si rende conto che la sua visione di D è distorta in quanto, dopo aver orientato l'attenzione su se stessa attraverso un atto di introspezione, si accorge di essere una persona con un certo tipo di schemi mentali, possibilmente da mitigare; tutto ciò riguarderebbe nuovamente M. La soluzione sembra essere quella di guardare i propri accadimenti interiori sia nel loro contesto (non solo ciò che sta accadendo, ma anche da dove potrebbe provenire) sia "dall'esterno", cioè attraverso le lenti degli altri. L'obiettivo di un'autoconoscenza non egocentrica non ha, dunque, a che fare con il tipo di io morale che sono ("sto agendo bene?"), ma piuttosto con ciò che potrebbe ostacolare l'attenzione. Questo, tuttavia, solleva un'altra tensione: alcuni degli stati mentali che hanno un impatto sulla nostra visione morale sono "privati", non accessibili "dall'esterno", quindi o siamo gli unici ad avere accesso esclusivo a questi stati mentali moralmente rilevanti, oppure, seguendo la lettura Murdochiana di Wittgenstein, dobbiamo lasciare le cose come stanno, poiché non vi sono categorie logiche attraverso le quali possiamo renderle pubbliche; il loro significato si perde se cerchiamo di metterle in parole. Caprioglio Panizza si confronta sia con Murdoch che con Wittgenstein, e difende un resoconto della vita interiore che è logicamente indipendente da quella esterna (alla Murdoch), ma che è anche trasparente al di là delle credenze/bias (alla Wittgenstein). Tornando all'esempio di M e D, vi è un aspetto privato moralmente rilevante della vita interiore di M che solo M può capire (comprensione “dall’interno”); ma vi è anche un elemento di trasparenza che permette a M di capire cosa le sta succedendo al di là delle sue credenze su D (comprensione “dall’esterno”). L'attenzione di M è concentrata su D e questo le permette di vedere quali forme ha assunto il suo concentrarsi su D. Questo è ciò che Caprioglio Panizza definisce "conoscenza di sé impegnata" (engaged self-knowledge, 125), ossia l'elemento dell'attenzione che ci permette di percepire come stiamo percependo, in virtù del fatto che ci preoccupiamo di percepire correttamente la realtà di un altro. L'elemento non egocentrico è preservato dal fatto che quando guardo come sto percependo, la conoscenza che ottengo dipende dall'oggetto della percezione, non da me. Io voglio vedere bene l’altro; non, io voglio vedere bene l’altro. L’enfasi è essenziale.
Infine, i capitoli 5 e 6 si concentrano sull'attenzione in quanto modellatrice della percezione (cap. 5), della motivazione e delle possibilità di azione (cap. 6). Per esplorare i nostri atteggiamenti errati nei confronti della realtà e come l'attenzione possa ri-orientarli al meglio, Caprioglio Panizza si concentra sull'esempio della sofferenza animale: "l'attenzione alla sofferenza degli [...] animali consente la percezione morale, che a sua volta ci motiva ad agire" (131). Quando assistiamo alla sofferenza proviamo disagio e distogliamo lo sguardo; ma se siamo veramente attenti, allora percepiamo che ciò che vediamo ci chiede qualcosa a cui sentiamo di dover rispondere. A questo punto ci si potrebbe domandare se l'attenzione non possa essere semplicemente un altro modo per indicare istanze di "empatia". L'autrice individua due modalità di partecipazione alla realtà che sono moralmente problematiche e che esemplificano la distinzione tra attenzione ed empatia: "spesso, quando vediamo la sofferenza, distogliamo lo sguardo proprio perché proviamo empatia: ci sentiamo male e vogliamo che questa sensazione cessi, quindi smettiamo di guardare" (155, enfasi mia). Tornando a Murdoch, nei casi in cui si distoglie lo sguardo, è l'ego che prende il sopravvento: stiamo soffrendo, quindi smettiamo di guardare. Inoltre, "percepire la sofferenza può dare origine non all'empatia, ma al godimento" (155; istanze di “sadismo quotidiano”, 158, o di “attenzione sadica”, 159). In questi casi, l'ego prende ancora una volta il sopravvento: noi stiamo godendo. L'empatia, quindi, è legata al modo in cui percepiamo l'altro, è vero, ma non tutti i casi di percezione dell’altro sono anche casi di attenzione. Se la percezione parziale o errata della sofferenza può generare il distogliere dello sguardo o atti di sadismo, la percezione attenta, invece, genera atti che intendono fermare quella sofferenza. Alla fine, Caprioglio Panizza suggerisce che questo è possibile perché l'attenzione "ci permette di vedere alcune possibilità che altrimenti non vedremmo" (161); nel momento in cui guardiamo l'animale sofferente non come se fosse carne, ma come se fosse la creatura vivente che è, vediamo la possibilità per quella creatura di non soffrire. L'animale che soffre appare, ora, soccorribile; la sofferenza stessa, eliminabile. Il suffisso "-abile" indica una affordance, una sorta di chiamata all’azione presente nella situazione. Una sofferenza posso vederla come "ferm-abile" o “evit-abile” solo nel momento in cui mi sto veramente concentrando sulla creatura che soffre. Nel pratico, nel momento in cui vedo l'animale come "carne", allora l'affordance a cui rispondo è "mangiabile"; si tratterebbe di un’istanza di cecità nei confronti della sofferenza e, dunque, di una percezione errata. Sebbene l'autrice sia tornata alla visione addomesticata nel suggerire come l'attenzione plasmi la nostra visione e le nostre azioni, il libro si conclude con una nota Weiliana: la realtà ci pone delle richieste (affordances) e, se siamo agenti morali attenti in modo corretto, non possiamo che obbedire ad esse.
Come abbiamo visto, nell'affrontare questioni e tensioni che emergono nel corso del libro, l'autrice si concentra su quello che identifica come l'approccio meno radicale, quello Murdochiano, che vede l'attenzione come compatibile con alcune parti del sé e, in generale, che configura le azioni moralmente buone come derivanti dall'attenzione sviluppata attraverso l'agente - cioè attraverso la formazione della sua visione morale - e non nonostante l'agente. Tuttavia, Caprioglio Panizza è chiara nell'affermare la sua vicinanza filosofica alla visione radicale, sebbene la consideri come una possibilità solo nel capitolo 3. Credo che questa scelta abbia a che fare con il messaggio generale del libro: l'attenzione è cruciale per la morale, ma è anche difficile da sostenere. Ci chiede di guardare veramente situazioni che ci possono mettere a disagio e di starci dentro, senza distogliere lo sguardo. La visione addomesticata rende tutto questo digeribile, mettendoci davanti al fatto che nonostante sia indubbiamente difficile, possiamo farlo senza dover rinunciare a ciò che è a noi tanto caro: il nostro sé. D'altra parte, l’autrice sembra suggerire che la storia potrebbe non finire qui. Vi è molto altro da scoprire se, come lei, ci sentiamo attratte dall’approccio radicale di Weil; forse, in particolare, attratte dall'intuizione che partecipare alla realtà è, sì, difficile, ma se smettessimo di pensarci come entità separate tra loro e orbitanti intorno a loro stesse, guardare il paesaggio morale in quanto paesaggio indipendente da noi potrebbe, in realtà, riuscire molto più naturale di quanto crediamo.
Matilde Liberti
Bibliografia
Caprioglio Panizza, S. (2022) The Ethics of Attention: Engaging the Real with Iris Murdoch and Simone Weil, London and New York, Routledge.
Murdoch, I. (1992) Metaphysics as a Guide to Morals [MGM], London, Penguin.
Weil, S. (2002) Gravity and Grace [GG], trans. Emma Crawford and Mario von der Ruhr. London and New York, Routledge.