Nel dibattito filosofico contemporaneo, l’utopia viene spesso presentata come un progetto politico che ha l’ambizione di fare tabula rasa del passato, per instaurare – in un futuro più o meno imminente – un modello di società radicalmente contrapposto allo status quo del presente storico. In questo senso l’utopia si configura come un’ipotesi rivoluzionaria, ma anche potenzialmente totalitaria, nella misura in cui prevede un capovolgimento totale della realtà che non ammette alcun compromesso o riforma parziale (Tower Sargent 2010; Altini 2013). Motivo per cui è opportuno mantenere uno sguardo critico verso l’utopia, nella consapevolezza che la strada verso un mondo ideale può talvolta condurre nel vicolo cieco di un mondo impossibile.
Alla base di questo approccio c’è la tendenza a sottovalutare il fatto che il termine utopia non nasce per indicare un progetto politico, ma un genere letterario nato in epoca rinascimentale (Fortunati 2001; Vieira 2010; Yoran 2010). In quanto tale, l’utopia sfrutta la dimensione della finzione narrativa non per fare tabula rasa del passato, bensì per praticare un gesto di epoché nei confronti della realtà attuale. Il Nuovo Mondo immaginato e raccontato dagli utopisti, prima ancora di essere un luogo ideale, rappresenta un modello alternativoal mondo esistente: un mondo fondato su principi logici, etici, politici e religiosi diversi da quelli che regolano i meccanismi della società a cui apparteniamo (Ruyer 1988). È precisamente in questo frangente che emerge la dimensione scettica del pensiero utopico: per immaginare una società che obbedisce a norme e valori diversi dai nostri, è innanzitutto necessario sospendere il giudizio sull’effettiva validità di questi valori e queste norme. L’utopia è al contempo una finzione e un’ipotesi teorica, che consente al lettore di osservare la realtà da una prospettiva inusuale e paradossale, perché l’utopia si configura come un mondo al contrario che gioca con le contraddizioni del mondo reale per suggerire che tali contraddizioni non costituiscono l’unica realtà possibile (Ginzburg 2002; Piaia 2018).
A partire da queste premesse, il presente numero di Philosophy Kitchen intende indagare il rapporto tra utopia e scetticismo attraverso un approccio interdisciplinare, con lo scopo di mostrare come l’immaginazione utopica abbia permesso di destabilizzare i confini che – all’interno di una determinata tradizione o disciplina – regolamentano e giustificano la distinzione tra possibile e impossibile, così come tra legittimo e illegittimo o giusto e sbagliato. Quando tali confini vengono superati, l’utopista-scettico (poco importa che sia uno scrittore, un intellettuale o un artista) non genera materialmente un “nuovo mondo”, ma crea le condizioni per agire, pensare e comporre in modi diversi rispetto a quelli cristallizzati dalla tradizione. L’abitudine a guardare e interpretare il mondo in ottemperanza a certi valori tradizionali innesca l’erronea e inconsapevole convinzione che questi criteri siano indiscutibili e immodificabili (Montaleone 2011). Al contrario, l’utopista-scettico rivendica il bisogno di dubitare di questi criteri, per emancipare il proprio sguardo dalla forza coercitiva dell’abitudine e rivelare la possibilità di nuovi orizzonti.
Al riguardo, questo numero di PK muove da tre domande tra loro complementari:
1) In che modo lo scetticismo utopico ha contribuito alla creazione di nuovi linguaggi e forme di espressione in ambito sia filosofico che artistico?
2) In che modo questi linguaggi e forme di espressione hanno rappresentato un momento di discontinuità rispetto alla tradizione precedente, attraverso un dialogo più o meno conflittuale con il passato?
3) In che senso, infine, questi momenti di discontinuità utopica possono essere interpretati come forme di “ingegneria concettuale”, capaci di accelerare quel processo che permette a una visione teorica di radicarsi nel mondo reale e nel senso comune?
Le proposte possono esplorare questi interrogativi focalizzandosi su diversi momenti o tematiche della tradizione utopica, come, a titolo esemplificativo e non esaustivo:
- l’utopia e il simbolismo carnevalesco tra Medioevo e Rinascimento;
- l’utopia come trompe-l'œil narrativo;
- l’utopia tra pensiero laico e simbolismo religioso;
- lo stato di natura e l’utopia come finzione giuridica;
- l’incontro con l’Altro: identità e alterità nei mondi utopici;
- natura e cultura nel pensiero utopico;
- il rapporto tra umorismo e scetticismo nelle utopie satiriche;
- utopie e distopie nell’immaginario moderno e contemporaneo;
- utopia e architettura;
- musica, tempo e utopia: la musica come forma di espressione utopica.
Bibliografia:
Altini, C. (2013). Utopia. Storia e teoria di un'esperienza filosofica e politica, Bologna: il Mulino.
Fortunati V. (2000). “Utopia as a Literary Genre”, in Dictionary of Literary Utopias, ed. by V. Fortunati and R. Trousson, Paris: Champion, p. 634-643.
Ginzburg, C. (2002). No Island Is an Island: Four Glances at English Literature in a World Perspective, Columbia: Columbia U.P.
Montaleone, C. (2011). Oro, cannibali, carrozze. Il Nuovo Mondo nei Saggi di Montaigne, Torino: Bollati Boringhieri.
Piaia, G. (2018). “L’Utopia di Thomas More tra iocus serio e messaggio universale”, Rinascimento, 58, p. 371-381.
Ruyer, R. (1988), L’Utopie et les Utopies, Brionne: Montfort.
Tower Sargent, L. (2019). Utopianism. A Very Short Introduction, Oxford: Oxford University Press.
Vieira, F. (2010). “The Concept of Utopia”, in The Cambridge Companion to Utopian Literature, ed. by G. Clayes, Cambridge: Cambridge University Press. Yoran, H. (2010). Between Utopia and Dystopia, New York: Lexington.
Procedura:
Per partecipare alla call, inviare all'indirizzo redazione@philosophykitchen.com e a quello del curatore in cc. paolo.vanini@unitn.it entro il 30 settembre 2024, un abstract di massimo 4.000 caratteri, indicando il titolo della proposta, illustrando la strutturazione del contributo e i suoi contributi significativi, e inserendo una bibliografia nonché una breve biografia dell’autore o dell’autrice.
L'abstract dovrà essere redatto secondo i criteri scaricabili qui [Template Abstract], pena esclusione.
Le proposte verranno valutate dai curatori e dalla redazione. I contributi selezionati, che saranno sottoposti a double-blind peer review.
Da qualche tempo alcuni autori italiani attivi nel campo disciplinare della filosofia stanno conoscendo una notevole fortuna all’estero, in special modo nell’area anglosassone. Si è così potuto parlare, addirittura, di una Italian Theory, da affiancare alla French Theory quale risorsa da mobilitare in vista della costruzione di un discorso critico sul presente. Per contro, risulta del tutto caduta nell’oblio, sia in patria che all’estero, una tradizione di pensiero legata al liberalismo la quale, in maniera forse ancor più marcata rispetto all’Italian Theory, ha sempre posto al centro del proprio discorso la necessità di riflettere sul senso della vita associata, sui fondamenti del buon governo, sulla legittimità del potere, sul nesso che lega libertà e giustizia, su ciò che funge da presupposto alla realizzazione di una vita democratica pienamente intesa.
In generale, si potrebbe dire che sin dalle proprie origini il discorso filosofico in Italia - potremmo, volendo, far cominciare questa storia con il De monarchia dantesco - ha legato le proprie sorti a una riflessione sul politico, e quasi sempre ciò è avvenuto a partire dalla necessità di indagare problemi concreti, strettamente intrecciati alla vita civile e politica della penisola o dei singoli stati che ne costellavano il territorio. Tuttavia, qui si vorrebbe porre l’accento su una peculiare linea di pensiero che, partendo dall’Ottocento, giunge sino alla prima metà del Novecento per poi in qualche modo insabbiarsi, lasciando il campo a dibattiti di tutt’altro genere, che sembrano non poter (o non voler) nemmeno comunicare con essa. Insomma, si tratta di una tradizione che pare non abbia lasciato eredi. I nomi di riferimento potrebbero essere i seguenti: Melchiorre Gioia, Gian Domenico Romagnosi, Carlo Cattaneo, Pietro Gobetti, i fratelli Rosselli, Gaetano Salvemini, Luigi Einaudi, Emilio Lussu, Ernesto Rossi, Bruno Leoni, Guido Calogero, arrivando fino a Norberto Bobbio. Dai nomi appena evocati, risulta chiaro che parlare qui di “tradizione” forse può apparire come una forzatura sul piano storiografico. Di fatto, però, è innegabile come sia riscontrabile la presenza di un legame che permette di accostare tra loro questi autori e di nominarli assieme - fino a formare una sorta di sequenza ideale. Qui di seguito, proviamo a formulare ciò che potrebbe costituire un provvisorio elenco degli elementi portanti del complesso di idee che li accomuna.
Impegno teorico a favore di una “civile filosofia” (l’espressione è del Romagnosi) che sappia interagire con i problemi concreti posti dall’arte di governo. Necessità di partire da un’antropologia di tipo realistico, svincolata dall’eccessivo ottimismo di matrice illuminista, ma nel contempo erede di esso. Tutto ciò vuol dire sia fiducia nell’educabilità degli umani, che si spera possano diventare cittadini responsabili e partecipi, sia consapevolezza del peso che hanno i pregiudizi, l’ignoranza, le conseguenze del malgoverno, assieme a quelle forme di propaganda che diffondono atteggiamenti e concezioni populiste, reazionarie, antidemocratiche. A questo aspetto si collega il tratto che forse davvero accomuna tutti gli autori sopra menzionati: la volontà, cioè, di articolare un discorso teorico mai astratto, mai votato all’edificazione di sistemi di pensiero, ma sempre aderente alla contingenza della fase storica in cui si trova a operare il soggetto chiamato a dar conto degli effetti che la propria teoria può eventualmente produrre. Ed è, questo tratto, ciò che nel contempo permette di convocare sulla scena il termine liberalismo. Si tratta di un liberalismo che potremmo definire “eretico”, se si considera il fatto che esso ha potuto, a un certo punto, dar vita a quello strano ossimoro che è il “liberalsocialismo”; ma è liberalismo autentico in virtù dell’insistenza sulla libertà individuale quale valore fondante della vita associata, una libertà che si riconosce indissolubile dalla giustizia e dalla necessità di porre al centro sia dell’agenda politica, sia dell’agenda teorica che su quella riflette, il problema dell’ineguaglianza sociale e della disparità nell’accesso alle risorse.
In relazione a tale peculiarità della tradizione liberale italiana che vorremmo individuare - e, forse, contribuire a “costruire” più che ricostruire storiograficamente, in un modo che non intende essere troppo artificioso - resta infine da chiedersi in che misura il pensiero di questi autori può essere considerato attuale. Certo, a prima vista questa sembra una domanda del tutto illegittima: legato alla contingenza di lotte politiche che non sono più le nostre, il pensiero degli autori sopra menzionati sembra offrirsi al nostro sguardo solo più come oggetto di studio rilevante in sede di storia della filosofia – o di storia del pensiero politico. Tuttavia, se consideriamo il dibattito filosofico contemporaneo, il quale sembra oscillare da un lato in direzione di questioni rilevanti solo sul piano gnoseologico e ontologico, dall’altro in direzione di una mescolanza di temi foucaultiani e temi di ascendenza marxista al fine di produrre un discorso critico la cui radicalità, a volte, è però solo retorica ed è inficiata da una notevole mancanza di rigore teoretico, ecco che dalla tradizione del liberalismo italiano ricaviamo forse delle lezioni ancora utili per definire la cornice critica entro la quale ripensare gli snodi problematici del presente.