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Ernesto De Martino: un’altra fine del mondo
Recensioni / Gennaio 2020“Qui dit crise te dit monde”
Paul Van HaverQuella proposta da Einaudi con la riedizione de La fine del mondo di Ernesto De Martino, è un’operazione editoriale coraggiosa e assolutamente singolare. Pubblicato inizialmente nel 1977, il volume ci consegna riflessioni che De Martino (1908-1965) fu costretto a interrompere da una morte prematura, e che andavano allora concentrandosi sul tema escatologico della fine del mondo, inteso tanto nella sua dimensione storico-culturale – le “apocalissi culturali” di cui fa menzione il sottotitolo – quanto nel suo angoscioso orizzonte individuale – proseguendo il tema, già lungamente indagato in precedenza dall’autore, della “crisi della presenza”. Più che un libro, quello edito già allora da Einaudi era un cantiere nel quale il lettore veniva invitato a intrufolarsi e rovistare, prezioso archivio a cielo aperto del confronto corpo a corpo tra De Martino e il tema angoscioso su cui egli era giunto a concentrare le proprie ricerche – corpo a corpo del quale Clara Gallini, sua allieva a Cagliari, si sarebbe sobbarcata il compito decennale di selezionare e raccogliere le carte sparse, dando alla luce nel 1977 la prima edizione del volume (riproposta poi nel 2002 corredata da una nuova introduzione). Oggi, la casa editrice torinese ci presenta, volta all’italiano, la traduzione francese del volume pubblicata nel 2016 dalle edizioni dell’EHESS. Sarebbe estremamente riduttivo, tuttavia, parlare di quella francese come di una mera traduzione del testo originale italiano – e a farlo si perderebbe di vista la menzionata unicità di questa nuova Fine del mondo. I curatori – Giordana Charuty, Daniel Fabre e Marcello Massenzio – ne hanno piuttosto disposto una riedizione, accompagnata passo a passo da una serie di seminari, che li ha visti reimmergersi nell’archivio demartiniano per ricomporre nuovamente questo libro impossibile, rivedendo il canone istituito dalla prima edizione, con l’obiettivo di farci tutti, così, “divenire suoi contemporanei” (Charuty 2019, 29).
Una consapevolezza ha accompagnato la cura de La fine del mondo sin dalla prima edizione: non sarebbe stato possibile ‘completare’ il progetto per cui De Martino aveva cominciato gli scavi, e portare a compimento le intenzioni dell’autore; si poteva solo presentarne gli appunti, invitando il lettore, per così dire, a navigarli. Ed è questa consapevolezza che si trova riproposta, e rivendicata, anche in questa nuova edizione, che fa tesoro della storia del volume e ne segna una nuova decisiva tappa. Il setaccio della traduzione, la lingua nuova a cui è stato proposto di ospitare l’intricato testo demartiniano, è colta quale occasione per rilavorare le struttura del volume, reinterrogando i criteri che avevano soprinteso alla prima selezione dei materiali, e rinnovando in tal modo l’attualità dell’opera. Non, come si diceva, al fine di chiudere il cantiere, presentarlo in forma finalmente definitiva, risolverne gli enigmi e le contraddizioni: quanto piuttosto per manifestarne nuovamente l’evento e proporci d’incontrarlo daccapo.
Gli scritti sparpagliati – appunti, note di lettura, piani di progetti futuri, che talvolta evolvono in paragrafi più consistenti di cui l’edizione curata da Gallini ci presentava le faticose riscritture successive – raccolti in questo volume trovano sistematicità nella radicalità del tema che li chiama a raduno: la fine del mondo. Mondo e crisi sono temi su cui De Martino aveva lavorato sin dagli anni Quaranta: dapprima su fonti etnologiche di seconda mano, nel Mondo magico (1948), nel quale la consistenza del mondo è indagata là dove essa è il prodotto del sortilegio; e poi etnograficamente, con la trilogia meridionalista (Morte e pianto rituale, del 1958; Sud e magia, del 1959; e La terra del rimorso, del 1961), per raccontare un mondo, al cuore del nostro – le “Indias de por acá” –, che recalcitrava ad arrendersi di fronte al progetto razionalizzante della modernità. A questo mondo, De Martino guardava non con la nostalgia di che innervava in quegli anni tanta antropologia, bensì con la ferma decisione di non sottrarsi al dramma – esistenziale e politico al tempo – di questo stentato finire. “Carmela balla. Venite” (De Martino 2013, 115) è il grido, impossibile da sopire, che aveva animato l’intrufolarsi di De Martino nei mondi agonizzanti, e che pur parevano resistere alla traiettoria lineare della modernizzazione, della magia del Mezzogiorno italiano; un grido che lo aveva investito dell’urgenza e della responsabilità del suo ruolo di ricercatore, e sulla scia del quale anche il progetto incompiuto de La fine del mondo è da comprendersi.
Questo progetto, cui sarebbe toccato agli eredi dell’etnologo napoletano dar forma, conduceva De Martino lontano da scene esotiche, vicine o lontane che fossero da un punto di vista strettamente geografico, per aprire invece una breccia al cuore della modernità occidentale stessa, al fine di mostrare come il dramma dell’apocalisse risieda anche lì. Esso vi risiede, anzi, in una condizione che, nel panorama etnologico scandagliato dall’autore, ha dell’eccezionale: credendo di assicurare il mondo, i moderni ne hanno invece, da un lato, moltiplicato le capacità distruttive (aprendo il campo, che da allora ha saputo solo ampliarsi, della “fine del mondo come gesto tecnico della mano” [De Martino 2002, 119]), mentre dall’altro deridevano – o alternativamente “tolleravano” (Stengers 2005) –, credendo di ‘spiegarli’, i molteplici dispositivi di cui le comunità umane non occidentali – e “nonmoderne” (Latour 1995) – si erano dotate per avervi a che fare. L’analisi conduceva De Martino a una conclusione: l’apocalisse dei moderni è apocalisse senza eschaton, priva di un orizzonte di reintegrazione possibile. Nelle parole dell’autore: “il momento dell'abbandonarsi senza compenso al vissuto del finire costituisce innegabilmente una disposizione elettiva della nostra epoca” (De Martino 2019, 355). Di fronte a questa constatazione, tuttavia, l’autore non cercava un posizionamento che della modernità tentasse di disfarsi. Anche i tratti che del pensiero demartiniano sono stati tacciati d’intrattenere un flirt con l’irrazionalismo, in questo senso, sono da apprezzarsi in realtà quali esperimenti – esistenziali e scientifici al tempo – realizzati lungo il percorso che doveva condurlo a elaborare la proposta di un nuovo umanesimo, “etnografico”, di cui l’etnologia veniva proposta quale animatrice fondamentale.
Insomma, davanti alla crisi che investiva il mondo moderno e occidentale, e che nel proprio nel presentarsi “nuda e disperata” trovava il suo carattere specificamente moderno, De Martino non si arrendeva alla contemplazione. Lo sforzo in cui l’autore si produceva nel progetto de La fine del mondo era piuttosto clinico, terapeutico: il compito che gli si parava dunque di fronte – e di cui gli scritti consegnatici rimangono, pur nella loro densità e ampiezza di respiro, esercizio preliminare – era quello di “individuare l’esatto significato dei sintomi, l’estensione del contagio, il condizionamento della malattia, le forze della guarigione” (De Martino 2019, 356). Nei preparativi a questo compito, freudianamente “impossibile”, de Martino convocava risorse molteplici: l’antropologia, certo, e con essa la filosofia e la storia delle religioni, al crocevia delle quali l’autore si era formato sin dagli inizi della propria carriera intellettuale; ma insieme a quelle anche la psichiatria fenomenologica di marca tedesca, la psicoanalisi, la storia, la riflessione marxista, cui gli appunti raccolti ne La fine del mondo sono costellati di rimandi puntualissimi. Così, il volume letteralmente emerge dalle letture dell’autore; commenti fugaci, note di lettura, osservazioni a caldo si sviluppano in paragrafi densi, che approcciano il tema escatologico nei contesti più disparati: nel fragile mondo sorretto dal celebre campanile di Marcellinara, in Calabria, per esempio; nella filosofia della storia marxista, di cui De Martino individua una vera e propria apocalittica; nei movimenti millenaristici in diffusione all’epoca nel Sud del mondo, di cui De Martino coglieva appieno la portata anticoloniale; oppure nelle “apocalissi psicopatologiche”, di cui il documento clinico, minuziosamente analizzato da De Martino, dischiudeva l’originalissimo campo d’analisi.
Come accennato, l’edizione curata da Gallini esponeva la fatica di quel labor limae, impossibile da ridurre a mero sforzo stilistico, tramite cui De Martino rinegoziava minuziosamente, nelle scritture successive, il proprio posizionamento di fronte ai problemi che di volta in volta lavorava. Questa nuova versione, invece, rinuncia all’apertura sinottica sugli strati successivi dello scavo, preferendo selezionare di volta in volta una singola versione di ciascun paragrafo. Il beneficio, da lettori, è evidente: abbiamo a che fare con un testo che ci si presenta come definito, ‘deciso’, e il suo procedere risoluto di fronte ai temi trattati si staglia con più nettezza rispetto al contesto di provvisorietà e parzialità da cui il progetto, bruscamente interrotto dalla morte di De Martino, rimane caratterizzato. Una scelta, questa, che va compresa all’interno della storia di questo volume; scelta, cioè, che non ‘corregge’ la precedente, producendo un’edizione finalmente definitiva di questo testo travagliato; ma che la supplementa, invece, predisponendosi per ereditarne nella maniera più proficua. Rimane infatti lungo l’insieme della sua storia – storia inevitabilmente aperta – più che in ciascuna delle sue singole versioni editoriali – nella vicenda, cioè, di una sintesi che, pur necessaria, non può mai compiersi per davvero – che la potenza speculativa de La fine del mondo può dispiegarsi appieno.
È sufficiente leggere qualche paragrafo de La fine del mondo per rendersi conto di come il corpo a corpo che De Martino vi intrattiene con l’apocalisse, il suo rischio e le sue lavorazioni esistenziali e culturali non rimanga confinato al solo piano intellettuale. De Martino – che sempre si muove, proprio come pretendeva di essere trattato dai suoi interlocutori, da “persona intera” – si pone di fronte al rischio della fine (al “rischio di non poterci essere in nessun mondo culturale possibile”, secondo una celebre formula che ricorre più volte nel libro) con tutto il suo corpo: lo avverte e lo combatte, lo analizza e vuole disinnescarlo. La lucidità dell’argomentazione non cede mai il passo ai vezzi di una prosa pure a tratti barocca e per il lettore odierno antiquata, e soprattutto non deriva all’autore dallo sforzo di allontanare da sé l’oggetto della propria ricerca, quanto piuttosto dal riconoscerne e accettarne l’intima prossimità – una prossimità di cui, si è ipotizzato, era forse complice l’epilessia di cui soffriva, che costante gli ricordava la fatica della presenza e il perenne rischio della sua crisi.
Crisi del mondo e crisi della presenza sono infatti una crisi sola: crisi di quella soglia, ogni volta rinegoziata, che presenza e mondo istituisce come realtà distinte, piano di consistenza – “magia” avrebbe detto De Martino (1948; cfr. Leoni 2012) – che si spezza. Ecco allora che l’intimità di questa crisi, la precarietà di questa soglia, forza l’autore a una prosa lontana da quelle “equivoche castità del sedicente discorso oggettivo” (De Martino 2002, 91) che pretendono il mondo sia là fuori, solido, risolvibile, garantito. Per la persona intera che De Martino è, insomma, il mondo è affare indistinguibilmente epistemologico ed esistenziale: ‘ontologico’, a voler trovare una parola sola, non priva, per gli antropologi, di un’eco contemporanea.
Sotto la scorza di un gergo evidentemente influenzato in maniera decisiva da Heidegger, e proprio perciò a lungo ritenuto obsoleto, allora, si celano in realtà, nelle pieghe del discorso demartiniano, intuizioni perfettamente contemporanee, e che nella loro contemporaneità ancora attendono di essere sviluppate appieno: il mondo è fatto, istituito, patchy – ha bisogno di cure. A seguire queste intuizioni, l’avventura intellettuale cominciata con Il mondo magico e che si compie, pur senza compiersi, con La fine del mondo sembra invocare, naturale, una messa in dialogo con studiose e studiosi che in anni recenti hanno eletto la questione ecologica a sfida politico-esistenziale-epistemologica decisiva del presente, e che proprio sotto il segno della sua essenziale precarietà hanno iniziato a interrogare la consistenza del mondo (per esempio Stengers 2009; Tsing 2015; Danowski e Viveiros de Castro 2017; Latour 2019).
Quelle che condurrebbero a questo dialogo, sono tracce che, dobbiamo constatare, rimangono inesplorate anche nei pur validissimi testi critici che corredano questa nuova edizione. La fine del mondo, però, l’abbiamo già detto, è un testo che non si lascia leggere passivamente; se questi nuovi testi introduttivi – insieme a quelli classici di Clara Gallini e Marcello Massenzio che avevano accompagnato le edizioni precedenti del volume – sono essenziali nel porgerci questo libro-archivio nella sua viva complessità, rendendoci possibile incontrarlo, essi ci ricordano anche che, con un calembour, un’altra Fine del mondo è possibile – e spetta a noi immaginarla.
Opere citate:
Charuty, G. (2019), “‘Tradurre’ La fine del mondo”, in De Martino (2019), 5-29.
Danowski, D. e Viveiros de Castro, E. (2017), Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine, Nottetempo, Milano.
De Martino, E. (1948), Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Einaudi, Torino.
De Martino, E. (2002), Furore Simbolo Valore, Feltrinelli, Milano.
De Martino, E. (2013), La terra del rimorso, il Saggiatore, Milano.
De Martino, E. (2019), La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di G. Charuty, D. Fabre e M. Massenzio, Einaudi, Torino.
Latour, B. (1995), Non siamo mai stati moderni. Saggio di antropologia simmetrica, elèuthera, Milano.
Latour, B. (2019), Essere di questa terra. Guerra e pace al tempo dei conflitti ecologici, a cura di N. Manghi, Rosenberg & Sellier, Torino.
Leoni, F. (2012), “La magia degli altri, e la nostra. Ernesto de Martino e le tecniche della presenza”, in Paradigmi. Rivista di critica filosofica, XXXI, 2, 67-78.
Stengers, I. (2005), Per farla finita con la tolleranza, in Id., Cosmopolitiche, Luca Sossella Editore, Roma, 599-729.
Stengers, I. (2009), Au temps des catastrophes. Résister à la barbarie qui vient, Les Empêcheurs de penser en rond/La Découverte, Paris.
Tsing, A. (2015), The Mushroom at the End of the World: On the Possibility of Life in Capitalist Ruins, Princeton University Press, Princeton (NJ).di Nicola Manghi
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Da qualche tempo alcuni autori italiani attivi nel campo disciplinare della filosofia stanno conoscendo una notevole fortuna all’estero, in special modo nell’area anglosassone. Si è così potuto parlare, addirittura, di una Italian Theory, da affiancare alla French Theory quale risorsa da mobilitare in vista della costruzione di un discorso critico sul presente. Per contro, risulta del tutto caduta nell’oblio, sia in patria che all’estero, una tradizione di pensiero legata al liberalismo la quale, in maniera forse ancor più marcata rispetto all’Italian Theory, ha sempre posto al centro del proprio discorso la necessità di riflettere sul senso della vita associata, sui fondamenti del buon governo, sulla legittimità del potere, sul nesso che lega libertà e giustizia, su ciò che funge da presupposto alla realizzazione di una vita democratica pienamente intesa.
In generale, si potrebbe dire che sin dalle proprie origini il discorso filosofico in Italia - potremmo, volendo, far cominciare questa storia con il De monarchia dantesco - ha legato le proprie sorti a una riflessione sul politico, e quasi sempre ciò è avvenuto a partire dalla necessità di indagare problemi concreti, strettamente intrecciati alla vita civile e politica della penisola o dei singoli stati che ne costellavano il territorio. Tuttavia, qui si vorrebbe porre l’accento su una peculiare linea di pensiero che, partendo dall’Ottocento, giunge sino alla prima metà del Novecento per poi in qualche modo insabbiarsi, lasciando il campo a dibattiti di tutt’altro genere, che sembrano non poter (o non voler) nemmeno comunicare con essa. Insomma, si tratta di una tradizione che pare non abbia lasciato eredi. I nomi di riferimento potrebbero essere i seguenti: Melchiorre Gioia, Gian Domenico Romagnosi, Carlo Cattaneo, Pietro Gobetti, i fratelli Rosselli, Gaetano Salvemini, Luigi Einaudi, Emilio Lussu, Ernesto Rossi, Bruno Leoni, Guido Calogero, arrivando fino a Norberto Bobbio. Dai nomi appena evocati, risulta chiaro che parlare qui di “tradizione” forse può apparire come una forzatura sul piano storiografico. Di fatto, però, è innegabile come sia riscontrabile la presenza di un legame che permette di accostare tra loro questi autori e di nominarli assieme - fino a formare una sorta di sequenza ideale. Qui di seguito, proviamo a formulare ciò che potrebbe costituire un provvisorio elenco degli elementi portanti del complesso di idee che li accomuna.
Impegno teorico a favore di una “civile filosofia” (l’espressione è del Romagnosi) che sappia interagire con i problemi concreti posti dall’arte di governo. Necessità di partire da un’antropologia di tipo realistico, svincolata dall’eccessivo ottimismo di matrice illuminista, ma nel contempo erede di esso. Tutto ciò vuol dire sia fiducia nell’educabilità degli umani, che si spera possano diventare cittadini responsabili e partecipi, sia consapevolezza del peso che hanno i pregiudizi, l’ignoranza, le conseguenze del malgoverno, assieme a quelle forme di propaganda che diffondono atteggiamenti e concezioni populiste, reazionarie, antidemocratiche. A questo aspetto si collega il tratto che forse davvero accomuna tutti gli autori sopra menzionati: la volontà, cioè, di articolare un discorso teorico mai astratto, mai votato all’edificazione di sistemi di pensiero, ma sempre aderente alla contingenza della fase storica in cui si trova a operare il soggetto chiamato a dar conto degli effetti che la propria teoria può eventualmente produrre. Ed è, questo tratto, ciò che nel contempo permette di convocare sulla scena il termine liberalismo. Si tratta di un liberalismo che potremmo definire “eretico”, se si considera il fatto che esso ha potuto, a un certo punto, dar vita a quello strano ossimoro che è il “liberalsocialismo”; ma è liberalismo autentico in virtù dell’insistenza sulla libertà individuale quale valore fondante della vita associata, una libertà che si riconosce indissolubile dalla giustizia e dalla necessità di porre al centro sia dell’agenda politica, sia dell’agenda teorica che su quella riflette, il problema dell’ineguaglianza sociale e della disparità nell’accesso alle risorse.
In relazione a tale peculiarità della tradizione liberale italiana che vorremmo individuare - e, forse, contribuire a “costruire” più che ricostruire storiograficamente, in un modo che non intende essere troppo artificioso - resta infine da chiedersi in che misura il pensiero di questi autori può essere considerato attuale. Certo, a prima vista questa sembra una domanda del tutto illegittima: legato alla contingenza di lotte politiche che non sono più le nostre, il pensiero degli autori sopra menzionati sembra offrirsi al nostro sguardo solo più come oggetto di studio rilevante in sede di storia della filosofia – o di storia del pensiero politico. Tuttavia, se consideriamo il dibattito filosofico contemporaneo, il quale sembra oscillare da un lato in direzione di questioni rilevanti solo sul piano gnoseologico e ontologico, dall’altro in direzione di una mescolanza di temi foucaultiani e temi di ascendenza marxista al fine di produrre un discorso critico la cui radicalità, a volte, è però solo retorica ed è inficiata da una notevole mancanza di rigore teoretico, ecco che dalla tradizione del liberalismo italiano ricaviamo forse delle lezioni ancora utili per definire la cornice critica entro la quale ripensare gli snodi problematici del presente.
A cura di Giovanni Leghissa e Alberto Giustiniano
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DOI: https://doi.org/10.13135/2385-1945/8.2018
Pubblicato: marzo 2018
Indice
Editoriale
G. Leghissa, A. Giustiniano - Introduzione [PDF It]
I. La via italiana al liberalismo
S. Veca - Sul liberalismo politico e la giustizia come equità [PDF It]
P. P. Portinaro - Italian Style. La cifra del realismo politico [PDF It]
II. Storia della rivoluzione liberale
M. Lasala - Nel nome della rivoluzione liberale. Da Gobetti a Bobbio [PDF It]
M. Ferrari - Etica, politica, socialismo. Un capitolo del caso italiano [PDF It]
R. Cubeddu - I liberisti della cultura politica italiana [PDF It]
III. Liberali ed eretici
G. Panizza - Giuseppe Ferrari. Un pensatore eterodosso del nostro risorgimento [PDF It]
A. Zarlenga - Ernesto Buonaiuti tra liberalismo modernista e socialismo cristiano [PDF It]
G. Becchio - Luigi Einaudi. Un economista e un liberale a Torino [PDF It]
G. Giorgini - Nicola Matteucci. Un liberale eretico [PDF It]
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Maurizio Ferraris – Emergenza
Recensioni / Maggio 2017Sul problema del realismo in filosofia tanto si è detto negli ultimi anni da renderlo un tema inflazionato. Non di meno, è innegabile che la svolta realista sia uno degli eventi più importanti per la filosofia contemporanea dell’ultimo decennio, ed è quindi doveroso porre attenzione a quelle pubblicazioni che affrontano il tema del realismo in modo serio e ponderato. Emergenza di Maurizio Ferraris (Einaudi 2016) appartiene certamente a tale categoria. Il concetto di emergenza è per Ferraris l’asse portante di tutto il lavoro ed egli lo racconta a partire da una premessa ontologica: la realtà che emerge è qualcosa che prima non c’era, mentre la verità è la scoperta di qualcosa che già esisteva. Ciò per Ferraris equivale a dire che l’essere viene prima del conoscere. Tale premessa è necessaria in qualsiasi realismo che voglia davvero definirsi tale. Una volta messa in chiaro questa premessa l’Autore fa un altro passo nell’approfondimento del proprio realismo, definendolo attraverso due aspetti tra loro strettamente connessi. Si tratta innanzitutto di un realismo “negativo”, nel senso che la realtà “resiste” al pensiero, ci colpisce con una forza che a volte non è controllabile, che si impone in modo talvolta anche violento. La realtà possiede, insomma, una inemendabilità difficile da smentire, a cui dobbiamo sottometterci. Ma questa inemendabilità costituisce anche il primo “invito” del reale, la sua disponibilità per noi, lo stimolo a conoscerlo e a trasformarlo. Oltre a queste due accezioni del realismo – negativa la prima, positiva la seconda – ve ne è poi una terza, di carattere trascendentale. Resistenza e invito costituiscono infatti un movimento circolare che nel suo ripetersi, nel suo “iterarsi” direbbe Ferraris, produce accumulo, “registrazione”, e quindi, disponendo di abbastanza informazioni e di abbastanza tempo, produce “senso”. La documentalità è quindi secondo l’Autore il vero trascendentale, intendendo con questo termine una sorta di memoria sempre presente e operante – come aveva sostenuto già Bergson – nella materia ogni qualvolta un nuovo senso emerge da quello precedente. Essendo la memoria la materia stessa. Questo vale sia per le dinamiche che regolano l’evoluzione del vivente che per quelle sociali, non essendoci tra le due soluzione di continuità, ma anzi volendo questa prospettiva superare nettamente il dualismo tra biologico e culturale, tra materia e spirito, tra naturale e artificiale, in favore di una visione documentale, appunto, del regno naturale. In una simile prospettiva, dunque, abbiamo un solo tipo di significato, quello che l’Autore definisce “emergenziale”, il quale nasce dall’iterazione e dall’iscrizione, dall’accumulo di “tracce” prima e di “segni” poi. Questi ultimi sono allora la fonte del significato emergenziale, che di spirituale ha solo l’aspetto ma non la sostanza. Prima viene la documentalità, la traccia “cieca”, i rituali delle api e la costruzione dei formicai, l’accumulo di tecniche, di pratiche, ma anche il casuale sedimentarsi di riti e modi di affrontare problemi pratici, e poi viene il senso, la riflessione e la coscienza di cosa si è sedimentato. L’epistemologia perfetta è quindi la storia in quanto accumulo, registrazione e iscrizione da parte dei singoli. Ecco allora esplicato il senso della premessa ontologica di cui dicevamo: l’essere/accumulo/documentalità viene prima del conoscere/traccia/senso. Una radicale pre-esistenza dell’essere al pensiero che però sancisce anche una radicale ri-unificazione tra essere e pensiero nella categoria portante di “mobilitazione”. Cos’è la natura in questo sistema se non una sorta di infinito dispositivo tecnologico che produce emergenza attraverso la dinamica che abbiamo brevemente illustrato? E la mobilitazione è la nozione che Ferraris utilizza per provare a illustrare questa dinamica che percorre l’inerte e il vivente conferendogli una innata competenza tecnica che è sempre avanti rispetto alla sua comprensione (una sorta di neo-finalismo sul modello di quello proposto da Raymond Ruyer all’inizio degli anni 50 del secolo scorso).
Il libro di Ferraris ha il grande merito di presentare in modo chiaro e conciso la posizione critica comune a gran parte dei realismi contemporanei, ovvero l’attacco frontale e senza compromessi all’idealismo trascendentale e ai suoi molti eredi. Tale critica si può riassumere nel modo seguente: l’intenzionalità non è il cominciamento dell’essere. La correlazione coscienza-mondo non è la condizione di esistenza del reale. C’è qualcosa che viene prima e fonda la correlazione, qualcosa esisteva prima della correlazione e continuerà ad esistere dopo. L’idealismo trascendentale sbagliava quindi nel sostenere che la radice dell’esperienza si situasse nell’Io penso. Ed è così che persino in pensatori “emancipati” da una fenomenologia troppo kantiana, come Sartre ad esempio, l’esternalità rivendicata per la coscienza irriflessa, il suo essere “là fuori” insieme agli oggetti del mondo, non è altro che un’esternalità claustrale, claustrofobica, che rimanda immediatamente ad un dentro camuffato da esterno. Lo stesso dicasi per Heidegger e la sua angoscia, per Levinas e i suoi Altri. Tutti tentativi di demandare il problema del fondamento della correlazione ad un irrelato che però assume subito un carattere paradossale e ambiguo. Una sorta di circolo vizioso tra pre-riflessività e auto-riflessività che, come si diceva poc’anzi, non sfonda realmente verso nessun Grande Fuori. Tutti tentativi questi, come nota giustamente Ferraris, figli della rivoluzione kantiana prima e dell’idealismo trascendentale poi. Non sfuggono alla critica del realista nemmeno le versioni postmoderne del correlazionismo, come ad esempio la filosofia analitica e il costruttivismo. Anch’esse mosse dall’intenzione di individuare nel linguaggio o nel concetto un a-priori al quale ancorare l’esistenza del reale che conosciamo.
Detto questo, bisogna anche dire però che le argomentazioni di Ferraris corrono su di una linea sottile e sono sempre minacciate dal pericolo di finire nel baratro dell’eccessiva semplificazione. Semplificazione che spalanca poi le porte a facili fraintendimenti. Infatti, una cosa è dire che da Kant in avanti la filosofia dell’esperienza ha messo eccessiva enfasi sul soggetto, rischiando di diventare sempre di più una sorta di antropologia; cosa ben diversa è invece sostenere senza mezzi termini che per l’idealismo trascendentale «il mondo è il frutto della costruzione di un Io penso onnipresente e, almeno sulla carta, onnipotente» (p. 76). E quindi sostenere che per gli idealisti trascendentali il pensiero crea la realtà e dunque nulla esiste all’infuori di quello che penso, assimilando il trascendentalismo al solispsismo. Kant e i suoi successori avrebbero quindi sposato una posizione ontologicamente molto forte secondo la quale la materia non sarebbe pre-esistita allo spirito, identificando completamente ontologia ed epistemologia. Esempio sommo di questo slittamento verso il regno del puro pensiero sarebbe l’attualismo di Gentile. La stessa operazione Ferraris la compie nei confronti del postmodernismo, arrivando quindi a concludere: «l’idea è sempre che ci sia una qualche dipendenza della ontologia dalla epistemologia, ossia, in altre parole, che il Big Bang non abbia potuto aver luogo realmente perché noi non c’eravamo, o che il Big Bang abbia avuto luogo solo perchè noi sappiamo che ha avuto luogo» (pp. 83-84).
Attraverso una simile interpretazione dell’idealismo trascendentale si perde però l’aspetto utile della critica. Qual è infatti il senso di tale critica? Chi scrive ritiene che il senso sia quello di mostrare come da Kant in avanti la filosofia abbia progressivamente rinunciato alla sua vocazione originaria a occuparsi del Tutto. Quel Tutto che, per forza di cose, comprende il soggetto come un suo momento, ma non certo come suo fondamento. Un altro aspetto di questa faccenda che la critica mette in evidenza è il paradosso generato da una soggettività così scettica da mettere in discussione persino la propria stessa capacità di far filosofia, ripiegandosi su se stessa e accettando solo se stessa come metro di tutte le cose. Scetticismo che poi, inevitabilmente, ricade su tutto ciò che non è soggetto, compreso il tanto problematico “mondo esterno”. Ma il problema è così serio proprio perché in questione è il diritto della filosofia a spingersi tanto avanti nel dubbio sul mondo, non perché tale dubbio abbia realmente una valenza ontologica. Che poi la vulgata abbia interpretato la domanda come una domanda ontologica vera e propria fa parte della dispersione intrinseca ad ogni teoria che non possiede una vera e propria pars construens, ma questo Ferraris lo sa certamente molto meglio di chi scrive...
Giacomo Foglietta