L’opposizione tra le filosofie della sostanza e quelle del processo si può far risalire ai tempi di Parmenide ed Eraclito. Mentre tra le prime sono comunemente annoverate quelle filosofie che si basano sui concetti di sostanza ed essere, le seconde partono dal riconoscimento del divenire come fondamentale. Sono state considerate processuali delle filosofie molto eterogenee tra loro, quali quelle di Leibniz, Schelling, Hegel e Nietzsche. Tuttavia, è solo dall’inizio del secolo scorso, tra Inghilterra, Francia e Stati Uniti, che si può cominciare più propriamente a parlare di “pensiero processuale” (Process Thought), in riferimento specialmente alla filosofia di Alfred North Whitehead, nonché a quella di pensatori a lui coevi quali Henri Bergson e William James e anche di Charles Sanders Peirce, John Dewey, Samuel Alexander e C. Lloyd Morgan. Al cuore di questa concezione vi è la centralità della temporalità e delle relazioni, intese come elementi primi e imprescindibili per comprendere tanto le strutture della realtà quanto quelle del pensiero, su un piano sia ontologico che epistemologico. Il pensiero processuale cerca infatti di cogliere e descrivere i fenomeni nella loro intrinseca temporalità e relazionalità, superando e abbandonando le dicotomie concettuali che, come quelle di soggetto-oggetto e sostanza-qualità, hanno segnato la storia della metafisica.
Benché resti una linea minoritaria nella storia della filosofia antica e moderna (si veda Ronchi 2017), nel corso del Novecento l’approccio processuale ha esercitato una significativa influenza (più o meno diretta) su diversi autori, da Maurice Merleau-Ponty a Gilbert Simondon, da Gilles Deleuze a Isabelle Stengers e Bruno Latour, ma non solo. È nel nesso con altri campi del sapere che il pensiero processuale ha mostrato la sua peculiare fecondità: si consideri su tutti il caso della biologia, in particolare le ricerche di Joseph Needham, Joseph Woodger e Conrad Waddington (e poi, in filosofia della biologia, Nicholson e Dupré 2018). La filosofia del processo non si esaurisce però nel porre le basi per una nuova “filosofia della natura”. Al centro dell’interesse rinnovato verso la filosofia processuale vi è primariamente la ricerca di categorie e strumenti concettuali che permettano di comprendere nella loro irriducibile complessità fenomeni vecchi e nuovi, in relazione tanto alle scienze umane quanto a quelle naturali: oltre alla filosofia dell’ecologia (Latour 2020, Stengers 2021), si pensi alla filosofia della fisica (Epperson 2004, McHenry 2015), alla filosofia della tecnologia (Hui 2019, Coeckelbergh 2021), alla filosofia dell’educazione (Petrov 2020), ma anche alla psicologia (Stenner 2018) e non solo.
La sfida di questo numero di Philosophy Kitchen è quella di chiarire quali sono i capisaldi dell’approccio processuale, ossia di mettere in luce i punti di forza teoretici di questa impostazione, che risulta oggigiorno così promettente. Sviluppare gli strumenti concettuali, logici, epistemologici e ontologici per pensare il processo è un compito urgente, se si vuole evitare che la dicitura “filosofia del processo” si riduca a un vacuo ritornello indicante una generica e sommaria opposizione alla presunta staticità della metafisica tradizionale.
Come indicato dal sottotitolo, le vie suggerite per giungere a un tale chiarimento sono tre. La prima via (“Storia”) si incentra su un’analisi teorica delle proposte già avanzate da alcuni pensatori del secolo scorso (e non solo). Ad esempio, la possibilità di spingere il pensiero al di là della forma soggetto-predicato e della correlata metafisica della sostanza caratterizza molte delle filosofie sopra menzionate, si veda a tal proposito la logica dei relativi di Peirce (Brioschi 2023). La seconda (“Categorie”) si concentra sull’elaborazione di una logica, epistemologia e teoria delle categorie propriamente processuale, mettendola a confronto con altri indirizzi e orientamenti filosofici. Infine, la terza (“Applicazioni”) mostra la forza di un approccio processuale in atto considerandolo in riferimento a singoli case studies o temi specifici.
I contributi possono essere rivolti alle seguenti questioni, nonché ad altre affini:
- Come collocare dal punto di vista della storia della filosofia i vari tentativi di cogliere la realtà come processo, anziché come sostanza o insieme di sostanze? Quali pensatori o correnti di pensiero non possono essere trascurati a questo fine? Quale il loro apporto teorico specifico?
- Spesso la filosofia del processo è presentata come una filosofia dell’esperienza: come si può definire la sua peculiarità, a confronto con altre tradizioni?
- È possibile comprendere il processo? Se sì, quali sono le “categorie” che meglio permettono di concettualizzarlo? Quale rapporto istituire tra il processo e quegli aspetti dell’esperienza che, almeno apparentemente, si sottraggono ad esso (come le leggi di natura)?
- Quali strumenti formali (ad esempio, la logica delle relazioni) possono sostenere una filosofia di tipo processuale? Quale rapporto intrattengono con il pensiero speculativo?
- Quali sono le possibili applicazioni del processo, da un punto di vista sia epistemologico che ontologico, nei vari ambiti del sapere: dalla biologia all’economia, dalla tecnologia all’educazione?
- Uno dei temi caratteristici della filosofia del processo è quello della creatività. A fronte degli avanzamenti delle ricerche interdisciplinari sul tema, qual è il contributo che un approccio di tipo processuale può avere oggi?
A partire dalle domande sollevate, ecco un elenco non esaustivo dei temi che invitiamo a considerare nelle proposte:
- la filosofia del processo come alternativa a quella della sostanza nella tradizione del pensiero occidentale (e non solo): autori e peculiarità
- i concetti propri della filosofia del processo: categorie e paradigmi
- filosofia del processo e filosofia analitica: quali punti di intersezione?
- relazione possibile tra la filosofia del processo e la centralità della temporalità quale orizzonte ultimo della costituzione tanto delle oggettualità quanto del soggetto conoscente in seno alla tradizione fenomenologica, con particolare riferimento a Husserl e Merleau-Ponty
- approcci formali e logiche del processo
- logica e metafisica delle relazioni
- l’evento come categoria processuale
- creatività e novità
- orientamenti processuali in filosofia della scienza (fisica, biologia, matematica, medicina)
- il pensiero processuale in letteratura e arte, psicologia ed educazione
- il tema del processo in architettura (teorie del progetto, sociologia e teoria dell’architettura, ecc.)
- applicazioni della filosofia processuale (case studies)
Bibliografia:
Brioschi, M.R. (2020). Creativity between Experience and Cosmos: C.S. Peirce and A.N. Whitehead on Novelty. Freiburg/München: Verlag Karl Alber.
Brioschi, M.R. (2023). “The Dismissal of ‘Substance’ and ‘Being’ in Peirce’s Regenerated Logic”, Logic and Logical Philosophy 32, pp. 217-242.
Coeckelbergh, M. (2021). “Time Machines: Artificial Intelligence, Process, and Narrative”, Philosophy & Technology 34, pp. 1623–28.
Epperson, M. (2004). Quantum Mechanics and The Philosophy of Alfred North Whitehead. Fordham: Fordham University Press.
Frigerio, C. (2023). Ricomporre un cosmo in frammenti: Il dibattito sulle relazioni interne ed esterne. Milano: Mimesis.
Hui, Y. (2019). Recursivity and Contingency. London & New York: Rowman & Littlefield.
Latour, B. (2020). La sfida di Gaia: il nuovo regime climatico. Tr. D. Caristina, Milano: Meltemi.
McHenry, L. (2015). The Event Universe: the Revisionary Metaphysics of Alfred North Whitehead. Edinburgh: Edinburgh University Press.
Nicholson, D. & Dupré, J. (2018). Everything Flows: Towards a Processual Philosophy of Biology. Oxford: Oxford University Press.
Petrov, V. (2020). Elements Of Contemporary Process Philosophical Theory of Education and Learning. Louvain-la-Neuve: Les Editions Chromatika.
Rescher, N. (2000). Process Philosophy: A Survey of Basic Issues. Pittsburgh: University of Pittsburgh Press.
Ronchi, R. Il canone minore: verso una filosofia della natura. Milano: Feltrinelli.
Stengers, I. (2021). Nel tempo delle catastrofi: resistere alla barbarie a venire. Tr. N. Manghi, Torino: Rosenberg & Sellier.
Stenner, P. (2018). Liminality and Experience: a Transdisciplinary Approach to the Psychosocial. London: Palgrave Macmillan.
Vanzago, L. (2021). Concrescence and Transition. Whitehead and the process of subjectivation. Milano: Mimesis International.
Whitehead, A.N. (1929). Process and Reality. Corrected Edition. a cura di D.R. Griffin and D.W. Sherburne. New York: Free Press, 1978. Whitehead, A.N. (1938). Modes of Thought. New York: Free Press, 1968.
Procedura:
Per partecipare alla call, inviare all'indirizzo redazione@philosophykitchen.com e a quello dei curatori in cc. mariaregina.brioschi@unimi.it e christian.frigerio1@unimi.it entro il 28 febbraio 2025, un abstract di massimo 4.000 caratteri, indicando il titolo della proposta, illustrando la strutturazione del contributo e i suoi contributi significativi, e inserendo una bibliografia nonché una breve biografia dell’autore o dell’autrice.
L'abstract dovrà essere redatto secondo i criteri scaricabili qui [Template Abstract], pena esclusione.
Le proposte verranno valutate dai curatori e dalla redazione. I contributi selezionati, che saranno sottoposti a double-blind peer review.
Lingue accettate: italiano, inglese.
Calendario:
- 28 febbraio 2025: invio abstract
- 31 marzo 2025: notifica accettazione/rifiuto della proposta
- 30 settembre 2025: invio dell'articolo
- 31 gennaio 2026: comunicazione degli esiti della double-blind peer review
I Flauti del cielo. Quattro divagazioni sul tema della filosofia comparata – pubblicato nel 2020 da Mimesis per la collana Pensieri d’Oriente – non definisce semplicemente, come annuncia il sottotitolo, forma e funzione della filosofia comparata, ma fa molto di più: piuttosto che limitarsi a meditare il senso della pratica comparativa o a circoscriverne le modalità d’azione, così collocandosi su di un piano preliminare e introduttivo, esibisce la fecondità del meccanismo comparativo impiegandolo in modo intensivo in ogni piega del discorso che pagina dopo pagina si articola e assume consistenza. In altri termini, la comparazione non è soltanto il contenuto del libro, ma anche la forma mediante la quale esso si struttura. Il ritmo complessivo è scandito da «quattro divagazioni», ciascuna delle quali applica la forma comparativa nell’ottica di un tema specifico, a sua volta connesso agli altri e quindi alla composizione nella sua totalità, come un movimento in una sinfonia. La metafora musicale fa da sottofondo a tutto l’ordito: il titolo stesso – tratto da un’antica parabola taoista – allude all’armonia invisibile che pervade l’universo visibile, a quella musica senza suono che è matrice silenziosa di tutti i suoni senza per questo perderne la tonalità specifica.
L’esito dell’operazione di Rudi Capra, che in ogni pagina intreccia fili di colori dissimili, è in tal senso tutt’altro che dissonante: la continua oscillazione tra il registro metafisico occidentale e quello proprio alle tradizioni taoista, ruista, buddhista, zen – sebbene orientata ad esibire delle differenze piuttosto che a sottolineare delle affinità – non si sbilancia mai su di un polo a scapito dell’altro, ma si mantiene in equilibrio tra i due. Le quattro sezioni nelle quali il testo si suddivide – Identità, Sé, Volontà, Natura – sconfinano incessantemente le une nelle altre: in ciascuna riverberano le riflessioni che la precedono e sono anticipate quelle che seguono, così da conferire all’incedere argomentativo una continuità cogente senza appesantire la lettura. La scrittura è infatti arricchita da numerosi riferimenti letterari, cinematografici, mitici tutt’altro che estrinseci e meramente decorativi, a testimonianza della molteplicità irriducibile delle risorse che alimentano il pensiero filosofico da un lato, e sulle quali quest’ultimo agisce in quanto catalizzatore di senso dall’altro. L’incessante confronto con le filosofie orientali non assume mai la forma di un esercizio fine a se stesso, bensì retroagisce sulla tradizione occidentale rendendone manifesti i presupposti. Sebbene il testo non abbia l’ampiezza necessaria a consentire una ricostruzione minuziosa della storia della metafisica, l’autore coglie ed espone in modo efficace le linee di coerenza che la attraversano senza appiattirle le une sulle altre, saggiandone al contempo la consistenza mediante l’accostamento a vie del pensiero tracciate fuori dai suoi confini. Ciò non significa affatto che non vi siano, nella storia del pensiero occidentale, alcune linee di fuga eccentriche rispetto alla tradizione dominante e che consentirebbero un accostamento tutt’altro che improbabile con le filosofie orientali; significa però che l’Occidente ha infine scelto Parmenide e non Eraclito, ritenendo quell’intuizione più promettente, più feconda per il pensiero: «per effetto congiunto dell’influenza platonico-aristotelica da un lato, giudaico-cristiana dall’altro, la tradizione occidentale rispetto al fuoco eracliteo – differenza, dinamicità, evanescenza, inafferrabilità – ha preferito l’essere parmenideo – identità, staticità, permanenza, tersità» (p. 18). La storia della metafisica coincide in larga parte in un’esplorazione approfondita e molteplice delle implicazioni di questo presupposto di fondo.
L’obiettivo fondamentale del libro di Rudi Capra è quello, impiegando le parole dell’autore, di «ascoltare le note nascoste che espongono i limiti inerenti del canone occiduo ed esortano allo sviluppo di un contrappunto interculturale» (p. 15): l’intonazione complessiva assume quindi, sin dalle prime righe dell’Introduzione, un andamento decostruttivo, animato dalla persuasione che il confronto con la tradizione sino-giapponese e buddhista indiana, nella sua differenza costitutiva da quella occidentale, sia fondamentale per aiutare quest’ultima a cogliere la parzialità della visione del mondo e dell’uomo che in essa ha assunto forma nel corso dei secoli. La metafisica si è infatti sviluppata sulla scorta di un pensiero antitetico – che si struttura mediante polarità conflittuali e irriducibili –, di una concezione profondamente unitaria dell’identità personale, di un soggetto dominato dalla volontà nel suo rapporto tragico al fato o al destino che la sopravanza, di una natura ridotta, antropocentricamente, ad essere una risorsa preposta al soddisfacimento dei bisogni umani. Completamente diverso è il modello adottato, scrive l’autore, dall’antichità cinese, che si avvale di un pensiero correlativo – nel quale le polarità sono inserite in una circolarità processuale, in un equilibrio dinamico ma non oppositivo – e che mostra la valenza relativa, circostanziale e quindi non assoluta delle leggi fondamentali del pensiero occidentale – quella d’identità, quella di non contraddizione e quella del terzo escluso.
Al modello di un’identitàforte, cioè di un nucleo inscalfibile e monolitico che «ha costituito il pregiudizio supremo della metafisica occidentale» (p. 18), le filosofie orientali preferiscono l’intuizione di un’identitàdebole: ogni cosa, essere, concetto non è che un nodo in una rete, il termine di una relazionalità cosmica che lo precede e lo decentra incessantemente, differendolo in un gioco di specchi infinito. Conseguentemente, il sé – cioè l’identità personale – può essere inteso come un fondamento «unitario, permanente e inalterabile, che ha i connotati storici della psyche greca, dell’anima cristiana e dell’ego cartesiano» (p. 47) oppure «come una proiezione delle nostre funzioni cognitive» (ivi) che infine poggia su di un vuoto: una costruzione impermanente e non sostanziale, fluida e non statica, provvisoria e non assoluta. La correlazione di tutto con tutto impedisce di pensare nei termini del fondamento, della coincidenza pura e senza scarti di ciascun ente con se stesso, di un rapporto univoco e irreversibile tra una causa e il suo effetto – grandi tentazioni della metafisica – ma apre piuttosto ciascuna cosa sulla sua stessa vacuità (śūnyatā), la spalanca al vuoto che già da sempre la abita. Śūnyatānon è, infatti, una «cosa», un possesso stabile e definitivo che si ottiene al compiersi di un processo di svuotamento, bensì un gesto inesauribile che coincide con la capacità di non legarsi ad alcuna forma determinata, nemmeno a quella che nomina e definisce l’indeterminato.
Tadao Andō - The Hill of Buddha
Come sostiene la scuola buddhista cinese Tiantai, se l’assenza di una natura intrinseca (svabhāva) che sia fondamento puro e indivisibile dei fenomeni è la conseguenza implicita e necessaria della loro genesi co-dipendente (pratītyasamutpāda), allora «ogni fenomeno nell’universo è il risultato locale e condizionato di tutte le azioni e condizioni e fenomeni nell’universo, laddove una differenza tra i fenomeni può essere tracciata soltanto sulla base di una coerenza locale e condizionata» (p. 121). Misurarsi con la concezione buddista di vacuità è quindi un esercizio fecondo per il pensiero occidentale, perché costringe ad abbandonare gli schemi oppositivi e fa collassare i termini dei dualismi gli uni sugli altri: essere e nulla, fondante e fondato, causa ed effetto non sono nozioni adeguate a rendere conto di un’intuizione che esige di essere compresa mediante uno sforzo ulteriore, che vada cioè al di là della lingua metafisica – dominata dalla copula e pertanto predisposta alla reificazione, all’identificazione, alla presentificazione di ciò che in essa viene nominato – e dei concetti che la strutturano. La śūnyatā si svuota anche di se stessa, si libera della propria forma particolare, è un nome che svolge la funzione di esprimere l’insostanzialità ultima di tutte le cose, azioni, parole, quindi anche di se stesso: il vuoto non può che svuotarsi, “è” nient’altro che svuotamento.
La scommessa della filosofia comparata si gioca in tal senso all’altezza dell’esigenza di pensare altrimenti dall’ideologia antropocentrica e tecnocentrica all’interno della quale l’uomo contemporaneo concepisce se stesso e il suo rapporto con il mondo: non si tratta di criticare i successi della scienza, bensì di comprendere la problematicità «dell’uso impostole dall’antropocentrismo radicale, ideologia che presuppone una netta separazione tra soggetto e oggetto, tra umanità e natura, e subordina la totalità degli elementi e dei processi naturali a uno strumentalismo bruto» (p. 111). Porsi in ascolto di una voce differente, che non parli cioè il linguaggio metafisico dell’essere e dell’identità, è cruciale per coglierne i limiti. Se il pensiero antitetico tende a separare uomo e natura e ad affermare il predominio del primo sulla seconda – così riducendola ad essere, con le parole di Heidegger, un “fondo disponibile” all’azione manipolante della tecnica – il pensiero correlativo è ecologico per definizione: l’uomo è parte integrante dei processi naturali, ed è quindi chiamato ad assecondarli, a risuonare con essi, non a controllarli o addirittura a deviarli a suo piacimento. Un unico soffio vitale (qi) pervade i molteplici stati del reale, innerva le cose visibili e la dimensione dell’invisibile, assumendo gradi di rarefazione o concentrazione differenti ma provvisori, sempre in procinto di trasformarsi, di mutare forma: una sola è la musica cosmica, sebbene ogni essere, cosa, pensiero sia una nota irriducibile di un’armonia che si rinnova e si esprime ad ogni suono.
Il libro di Rudi Capra ha il pregio di esibire con chiarezza e perentorietà l’esigenza, ormai innegabile quanto urgente, di una contaminazione feconda tra i pensieri, i linguaggi, le culture: la filosofia comparata come chance per la filosofia tout court.
In un film di qualche anno fa, Predestination (Australia 2014), i registi e fratelli gemelli Michael e Peter Spierig mettono in scena un vecchio racconto di fantascienza di Robert A. Heinlein, …All You Zombies… (1959), il cui protagonista è, al contempo, maschio e femmina, genitore e figlio/a, amante e amato/a. È la linearità (presunta) delle azioni che si susseguono nel tempo omogeneo a essere così, innanzitutto, radicalmente sovvertita. Una escogitazione narrativa originale, quella di un organismo nato all’interno della possibilità stessa di viaggiare nel tempo, autorizza un gesto che la metafisica si è sempre trattenuta dal compiere fino in fondo: elevare l’esperienza, con la sua radicale imprevedibilità, ad assoluto. Lo spettatore del film, come il suo protagonista (Jane/John), scoprono progressivamente un destino che nessuno ha scritto e che anzi si scrive, in maniera per forza di cose impersonale, attraverso il suo continuo accadere. Se si dovesse perciò trovare un’esemplificazione di quel che Federico Leoni affronta nel suo nuovo libro, L’automa. Leibniz, Bergson (Mimesis 2019), si dovrebbe, con ogni probabilità, fare ricorso a una figura analoga a quella al centro del film degli Spierig.
Anche l’automa, come la vicenda di Jane/John, è l’emblema di un divenire che si sottrae per definizione a ogni prevedibilità, come a qualsiasi pretesa di sovrana padronanza: che sfugge, in breve, alla calcolabilità dell’algoritmo. In fondo, il tema principale di questo piccolo ma importante libro, risiede nella differenza di natura che l’automa (spirituale o incorporeo, come lo definisce Leibniz) deve poter affermare rispetto alle macchine, e in particolare, in relazione alle molte macchine ‘pensanti’ con le quali oggi si tenta di strappare il divenire delle nostre vite alla sua radicale imprevedibilità. L’automa, insomma, è la figura di un organismo senza confini, di un essere che esiste tutto nel suo trasportarsi attraverso di sé, nel suo raggiungersi alla fine del proprio futuro come al principio del proprio passato, facendo così saltare per aria le paratie con le quali siamo soliti proteggerci dalla fatalità a cui ogni vita dovrebbe accordarsi. Imprevedibilità, in effetti, non significa né contingenza, né necessità, ma, piuttosto, continua ridefinizione del necessario come del possibile. Significa, in una parola, alterazione progressiva e cangiante delle stesse categorie con cui il pensiero tenta – tenta solamente – di irreggimentare l’automa.
L’argomentazione di Leoni prende due strade che, intrecciandosi l’una nell’altra come le due anime di una stessa corda, diventano progressivamente un'unica via. Il saggio, partendo dalla vicenda di Joë Bousquet, il poeta ferito di guerra paraplegico che già Gilles Deleuze eleggeva a simbolo della sua etica dell’evento (etica consistente per intero nel saper essere “all’altezza di ciò che ci accade”), mescola registro soggettivo e registro ontologico, determinando così quella indiscernibilità tra tempi distinti che fa appunto dell’automa la messa fuori gioco reiterata di tutte le opposizioni del pensiero metafisico. Una vita si scrive sempre in uno spazio che sfugge a ogni qualificazione nei termini della logica modale, vera e propria superficie di trascrizione ritmica e dialettica del divenire, allo stesso modo in cui il reale del mondo non si lascia acciuffare dalla scansione metafisica di sostanza e accidente, sostrato e accadere, soggetto e predicato. E viceversa, una vita non è un supporto al quale si aggiungono eventi, come il mondo non risponde alla distinzione di possibile e impossibile, contingenza e necessità. L’automa consiste tutto in questa ritrosia fondamentale, in tale riottosità del reale nei confronti dei nostri, umani troppo umani, schemi concettuali. La macchina, insomma, non è l’automa, perché l’automa è piuttosto la matrice informale e illocalizzabile di ogni macchina. Quel che l’automa, correttamente inteso, rivela è quindi l’impossibilità definitiva di calcolare e padroneggiare tecnicamente il divenire. Attraverso il suo situarsi sempre un passo al di là, o al di qua, di ogni concettualizzazione, come di tutte le prassi di adattamento tecnico del reale ai nostri bisogni, nel mentre che tutte le circoscrive e le include, l’automa offre la manifestazione di un’assoluta e crescente indisponibilità del reale. Reale è qui ciò che, come appunto l’automa, si muove da sé e non tollera quindi alcun genere di ingerenza, senza prima averla riassorbita.
Fritz Lang - Metropolis (1927)
Il paradosso di fronte al quale ci mette Leoni è infatti il seguente: il destino esiste solo fin quando vi si acconsente. Ogni manovra diversiva apre per ciò stesso una deviazione, istituisce “nuovo” destino, a sua volta imprevedibile. Leoni propone una sorta di psicoanalisi della metafisica, in cui la struttura nevrotica degli schemi concettuali tràditi diventa l’occasione di un lavoro decostruttivo che non può non essere, altresì, lavoro ricostruttivo. Emerge così qualcosa come una ontologia senza metafisica – un’ontologia della non invarianza dell’ontologia. Un’ontologia della perversione che dà luogo a un’ontologia che si perverte senza sosta. L’utopia, nel senso letterale della parola, è quindi costituire i prodromi di una «scienza del divenire» (p. 13), ovvero di ciò di cui, a detta di Aristotele (e con lui, di tutta l’episteme occidentale), non si dà scienza. Che il divenire sia isomorfo all’individuale è infatti fuor di dubbio: «Non esiste il movimento in generale» (p. 26). Il divenire è sempre singolare – e anzi, il divenire è il singolare. «Se si assume questo schema, scrive Leoni, la filosofia è possibile solo nella forma dell’esplorazione della propria impossibilità, è possibile solo come infinita rivisitazione della propria aporia» (p. 13). Ma la filosofia consiste proprio in questa sfida: occorre saper tramutare una impossibilità, quella della filosofia come scienza del non qualsiasi o del non generico, in effettività. Come fa, d’altronde, ogni creatore. Ogni creatore che si rispetti deve fronteggiarsi infatti con un compito impossibile – trasformare un fraintendimento in una risorsa. Harold Bloom, nel suo celebre L’angoscia dell’influenza, lo ha mostrato in relazione all’emergere di quanto definisce un «poeta forte». Ma il discorso vale vieppiù a proposito della vicenda filosofica. Anche in questo caso ne va della conversione di un travisamento inevitabile in un altrettanto inevitabile progresso, che si legittima à rebours quale correzione di quanto in passato era rimasto disatteso o, soltanto, era stato equivocato. La storia dell’automa coincide quindi con la storia della filosofia, come serie continua di tentativi riusciti proprio perché falliti. L’ontologia che Leoni lascia balenare nella sua istruttoria sull’automa registra questo fatto, elevandolo a cifra stessa del reale – di ciò che nel reale si presenta come l’essere qualsiasi. Paradosso ulteriore, quindi: il modo d’esistenza del singolare, ovvero del non-qualunque, è di essere, appunto, affatto qualsiasi. Di non avere scelta, per dir così.
Ecco allora che, nell’ultimo capitolo, L’inconscio, una storia di fantasmi, l’autore tira le fila del suo discorso con una mossa apparentemente inattesa: l’automa diventa un avatar, a sua volta, del fantasma. Lo scenario è vertiginoso e la batteria di concetti evocati vorticosa. Tutto non è altro che immagine, immagine in sé. Sono le celebri e difficili tesi del primo capitolo del bergsoniano Materia e memoria (1896), portate però qui al loro sviluppo più radicale. L’automa non è una macchina, dicevamo, ma ogni macchina è una forma, o un organo, dell’automatismo dell’automa. Pensare l’automa non significa considerare le connessioni di parti in esteriorità con cui ci si presenta il mondo notomizzato dall’intelligenza pragmatica; non è questione di funzionamenti di oggetti, ricavati dalla giustapposizione di realtà accomodate l’una all’altra secondo il loro profilo materiale. Pensare l’automa è pensare l’intramatura con la quale ogni lacerto di mondo, anche il più insignificante e infinitesimale, si installa e fugge al contempo in e da ogni altro. È vedere il mondo quale ribollio incessante di proliferazioni, di frattali in reciproca e diveniente ristrutturazione. Lo statuto dell’automa è lo statuto dell’esempio, di ciò che, senza scarti di alcun genere – senza la mediazione di una generalità interposta –, è il proprio stesso dover-essere. Di ciò che appunto è singolare: unico nel suo genere. «Ogni cosa è una ragione […] Ogni monade è insieme di un solo elemento, ma quel solo elemento non è un elemento solo, è sempre anche il proprio insieme» (pp. 44 e 74). Nell’atto di leggere Bergson e Leibniz, Leoni si precipita perciò al di là di loro – si spinge oltre il dualismo di tendenze che ancora caratterizza il dettato bergsoniano, come già Deleuze aveva notato, e il contingentismo che Leibniz fatica, malgrado tutto, a ricusare come a giustificare (significativo è che Leoni decida di non tematizzare direttamente la teodicea leibniziana). L’automa si presenta quindi come una meditazione sulla necessità di ontologizzare quanto si sottrae, in apparenza, a questa stessa eventualità: l’immaginazione – quella «funzione senza organo» (Georges Canguilhem) che, secondo il Kant della Critica del giudizio, può guadagnare in alcuni casi le prerogative di un «libero gioco» in cui non è più l’intelletto, con il suo quadro presupposto di categorie, a dettare le condizioni. Ecco che cosa vuol dire pensare una ontologia rescissa dai suoi vincoli metafisici: «E in questo senso ci sono solo nature al plurale, e ogni divisione produce una natura differente, ovvero la natura si divide producendosi in ogni divisione come un altro modo di essere natura, come un altro modo di naturare, un’altra genesi continua di discontinuità. In altre parole, tutto è artificiale, non c’è che artificio» (p. 17).
Il lavoro di Leoni, e non solo in questa occasione, ha come esito, dunque, una definitiva messa in mora della tentazione meccanicista che pure da sempre caratterizza una certa filosofia, intenta a cercare una clavis universalis con cui risolvere una volta per tutte i problemi della conoscenza e della vita. Speranza, d’altronde, dello stesso Leibniz che, con la sua characteristca universalis, immaginava di ridurre ogni controversia a un puro esercizio di calcolo. Fa notare l’Autore: «Ogni macchina contiene un appello alla trascendenza» (p. 51). Si tratta invece di lavorare a un concetto e una prassi conseguente di immanenza integrale. La suddetta chiave, sembra dirci infatti Leoni, semplicemente non esiste, perché deriva, al contrario, da un effetto interno a una potente tecnologia, che fa tutt’uno con quella alfabetica – la grammatica indoeuropea di soggetto e predicato, che struttura notoriamente gran parte della tradizione filosofica occidentale, almeno sino alla soglia del Novecento. Se pensiamo di poter ricostruire l’evento con i risultati della sua analisi (ricostruzione in atto già nella distinzione del flusso linguistico in parti del discorso), finiamo per cadere in una serie di perniciose aporie – tra le quali, e non per ultima, l’idea di un divenire che si aggiunge dall’esterno all’essere senza potersi mai davvero comporre con esso, di una molteplicità che si fa uno o di un’unità che si fa, non si capisce come, molteplice. Quel che va pensato, allora, è qualcosa che è «più di uno e meno di due» (p. 52), che resiste in questo bilico. Occorre solcare il paradosso senza cadere nell’aporia.
Fare filosofia ha sempre significato volersi cimentare con un compito inattuabile: trasformare la vita in un processo automatico. Perché si tratti di alcunché d’irrealizzabile, è presto detto: l’automa è la figura che rende impraticabile questa strada, nella stessa misura in cui la impone come inaggirabile. «Ogni automa è la macchina di ogni altro» (p. 59). La filosofia si identifica alla memoria, perenne perché ogni volta da rinnovare, di questa eccedenza o di questa sottrazione originaria, le quali rimandano entrambe, però, alla totale immanenza con cui l’automa prende forma, aderendo perfettamente solo a se medesimo. Perché di questo si tratta, di un prendere forma che resta tale – che resta in progress. L’automa, insomma, non è calcolabile. Tutto si può fare, tranne divenire-automi, se “divenire” significa passare dalla potenza all’atto. Semmai, si dovrà tornare a esserlo – tornare a essere quel che non si è mai cessato di diventare. L’unico vero automa, in altre parole, non è digitale, ma analogico. Nessun dio ci può salvare, va infine detto. Nemmeno quel dio minore che è il filosofo. Per fortuna.
Quale alleanza sono chiamate a stringere la filosofia e il sapere antropologico nel contemporaneo clima apocalittico dell'Antropocene? Il libro Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine dell’antropologo brasiliano Eduardo Viveiros De Castro e della filosofa Déborah Danowski (Nottempo 2017) può essere considerato un tentativo di rispondere a questa domanda. Per Danowski e De Castro, tuttavia, non si tratta solo di porre in correlazione antropologia e filosofia, sebbene sia indubbio che uno scambio reciproco arricchisca lo sguardo di entrambe le discipline. Affini alla postura intellettuale di uno dei numi tutelari del libro, Gilles Deleuze, gli autori aprono la filosofia e l'antropologia ai rispettivi spazi di alterità moltiplicando le filiazioni teoriche, talvolta a scapito, va detto, dell'omogeneità argomentativa e del nitore dell'esposizione: nel paragrafo Metafisica e mitofisica sono numerosi i riferimenti a film come Melancholia di Lars Von Trier o Il cavallo di Torino di Béla Tarr, e non mancano all'appello neppure santi patroni della fantascienza – o come preferiscono chiamarla gli autori, della mitofisica – come Philip K. Dick e Howard Philips Lovecraft, scrittori sempre intenti a percorrere un immaginario innervato da una vera e propria passione per la fine, da un irriducibile Todestrieb fabulatorio. Per la speculative fiction contemporanea è più facile immaginare cupi scenari apocalittici che le magnifiche sorti progressive della specie umana.
Già dalle prime righe del capitolo d'apertura, E quale rozza bestia..., gli autori dichiarano che l'Antropocene – l'epoca geologica nella quale la specie umana si trasmuta da agente biologico in forza geofisica –costituisce, per dirla con Foucault, «l'ontologia della nostra attualità» e ci conficca tutti, senza resti, nel campo della politica. Se è pur vero che l'obiettivo dichiarato del volume è l'elaborazione di «un bilancio preliminare di alcune delle principali varianti del tema della ‘fine del mondo’, così come si presentano oggi nell'immaginario della cultura mondializzata» (p. 32), in ultima istanza gli autori sono costretti dalla forza stessa dell'argomento a disegnare i contorni possibili di una politica del katéchon, il tempo della fine.
Se il concetto di mondo ci rimanda alla dimensione dello spazio, l'evocazione della sua fine ci proietta nel campo semantico del tempo. Ciò che distingue la crisi climatica da tutti i cataclismi della storia umana si può riassumere in uno scambio di preposizioni: nel paragrafo Gaia e Anthropos gli autori sottolineano che, se le catastrofi precedenti si manifestavano neltempo e nello spazio, l'Antropocene si presenta ora come la possibilità concreta e minacciosa di una tragica corrosione del tempo e dello spazio nel futuro prossimo. Dopo che l'assassinio delle Idee kantiane di Anima e Dio aveva già macchiato le mani alla modernità, ora è la seconda Idea, quella di Mondo, a portare una spada di Damocle sul proprio capo. Seguendo la lezione dello storico indiano Dipesh Chakrabarty – membro fondamentale della trinità di alleati selezionati dagli autori, insieme a Isabelle Stengers e Bruno Latour – sappiamo che l'Antropocene travalica i confini di ogni storiografia classica per scagliare la specie umana e molti viventi non-umani in un orizzonte temporale nel quale le condizioni materiali della loro esistenza sono a rischio reale di cancellazione.
Nel loro bilancio gli autori presentano le due vie principali imboccate dal pensiero contemporaneo sul tema: il presagio di un mondo-senza-noi e l'accelerazione verso un noi-senza-mondo. Da una parte l'approssimarsi dell'estinzione umana dovrebbe essere assecondato con gioia, dato che a essa viene assegnata ab origine una vocazione ecocida. È il caso del Voluntary Human Extincion Movement di Alan Weisman, descritto nel paragrafo Il mondo prima di noi, che mira, dopo l'estinzione volontaria del genere umano, alla restaurazione della rigogliosa wilderness originaria da parte della natura naturans planetaria, ora soffocata da un'immensa infrastruttura tecnica. La versione più radicale di questo orizzonte di pensiero è presentata da Ray Brassier –fra i protagonisti del paragrafo La tesi tanatologica e figura di spicco del realismo speculativo – nell'opera Nihil Unbound. Il cupo ritornello che Brassier non fa che scandire è «everything is dead already», tutto è già morto. Nel tempo profondo del cosmo la vita stessa non sarebbe che un evento assurdo e incompatibile con la grandezza colossale della materia inorganica e morta sulla quale essa è cresciuta, e la coscienza che dal vivente emerge non sarebbe nulla più che un banale accidente, un insignificante attimo all'interno di una storia universale inumana e abiotica.
Sull’altro versante – affrontato nel paragrafo Dopo il futuro: la fine come inizio – troviamo radunati sotto un unico stendardo i singolaristi del Breakthrough Institute e gli accelerazionisti marxisti dell'Accelerationist Manifesto. Secondo i singolaristi la potenza dei calcolatori elettronici andrà progressivamente incrementando fino a formare una nuova coscienza macchinica, un hardware immateriale, rendendo possibile la liberazione dal corpo, il wetware organico della specie; una misura, ovviamente, riservata a pochi. La minaccia presentata dall'Antropocene sarebbe così sventata grazie alle nuove, abbondanti risorse naturali rese disponibili dai progressi tecno-scientifici. Gli accelerazionisti invece intendono aumentare la potenza tecnica del capitalismo finanziario globale fino a un punto di crisi irreversibile, superato il quale l'irruzione messianica della rivoluzione risulti inevitabile. Il mondo, in entrambi i casi, è visto esclusivamente come un deposito inerte di risorse, verso il quale non c'è alcuna necessità di assumere particolari attenzioni, poiché sarà sempre possibile fare a meno del nostro wetware per incarnarci nell'immateriale, come vogliono i Transumanisti.
De Castro e Danowski si rifiutano di scegliere fra queste opzioni: per loro l'estinzionismo militante di Brassier così come la «tecnofilia della cornucopia» dei singolaristi e l'angelologia materialista degli accelerazionisti si rifanno ancora a un pensiero eurocentrico traboccante di metafisica, «la fons et origo di ogni colonialismo», come afferma De Castro in Metafisiche Cannibali. Tutte fanno capo – in positivo o in negativo, poco importa – a quello stato d'eccezione ontologico costituito dall'Uomo, al duplicato antropologico empirico-trascendentale dell'episteme moderna, al Dasein come «configuratore di mondi», «pastore dell'essere» e, felice fardello, «luogotenente del nulla». Non è quindi un caso che la ricognizione operata dagli autori fra gli immaginari della fine si concluda fuori dal continente europeo, in Amazzonia. Nel capitolo intitolato Un mondo di persone gli Amerindi, veri e propri «specialisti della fine», vengono identificati come coloro che hanno testimoniato l'avvento dell'apocalisse da almeno cinque secoli con lo sbarco del colonialismo europeo. Il pensiero di questi popoli, il «prospettivismo amerindio», che costituisce il tema principale degli studi di De Castro, viene presentato come il farmaco necessario ai Moderni per espellere dal proprio pensiero ciò che ha consentito la catastrofe in atto. Per esempio, attraverso un mito cosmogonico Yawanawa, una popolazione di lingua Pano dell'Amazzonia occidentale, viene introdotta una variante rispetto alle categorie descritte in precedenza, ovvero un noi-prima-del-mondo, un universo in cui «non c'era niente, ma le persone c'erano già». Singolare inversione del salmo di Brassier: non «tutto è già morto», ma «tutto è già vivo». L'argomento non risulta però del tutto convincente: potremmo infatti domandarci perché nella miriade di ontologie e cosmovisioni indigene si dovrebbe recuperare in senso strategico proprio l'ontologia amerindia, dandole un'illusoria priorità? Gli autori sembrano assegnare agli Amerindi il compito quasi metonimico di rappresentare la totalità dei 370 milioni di indigeni che dimorano sul pianeta. Resta però da determinare se gli amerindi e le altre società preindustriali concordino con gli autori. De Castro sembra tanto propenso a ritornare alla propria rassicurante esperienza etnografica da omettere interi continenti, un gesto teorico piuttosto incauto quando è la totalità del pianeta la posta in gioco.
L'Antropocene è dunque un'epoca di guerra, ma non una guerra di tutti contro tutti, quanto piuttosto una guerra dei mondi, dato che i combattenti in campo lottano per realizzare due cosmovisioni del tutto differenti. Si tratta di un conflitto che, per utilizzare le categorie espresse da Bruno Latour, opporrà gli Umani – coloro che fra i Moderni pensano di poter ancora vivere in un prolungamento dell'Olocene senza dover pagare il prezzo del progresso – e i Terreni – coloro i quali affrontano le sfide dell'Antropocene alla tarda modernità, consci che nulla sarà più come prima e che il futuro richiederà nuove strategie di composizione del mondo comune. Tuttavia, se i nemici Umani sono facilmente identificabili – De Castro e Danowski riportano una lunga lista di “colpevoli”, principalmente grandi multinazionali, nel paragrafo La fine del mondo come evento frattale – non è affatto chiaro dove trovare gli alleati Terreni, gli esponenti del popolo a venire che dovrà intraprendere la guerra per poter essere, in futuro, l'artigiano della pace. Il conflitto fra Latour e gli autori si mostra proprio a partire da questa problematica: da una parte Latour non crede che le popolazioni indigene possano assumere un ruolo decisivo nella politica planetaria che viene, preferendo piuttosto investire in un'adesione militante degli scienziati, rappresentanti della Natura nella lotta; dall'altra, Danowski e De Castro affermano invece che le risorse presentate dai «saperi minori» e dalle etnotecnologie indigene saranno essenziali in un futuro caratterizzato dalla scarsità, e che richiederà uno stile di vita improntato a ciò che gli autori chiamano sufficienza intensiva.
Una cosa sola è certa e viene asserita con forza più volte nel corso dell'ultimo capitolo, Il mondo in sospeso: siamo gettati in un conflitto che coinvolge una pluralità incommensurabile di esistenti in una guerra planetaria e, sebbene il “chi” dei Terreni sia indecidibile, questo popolo a venire è più necessario che mai per la possibilità stessa di un futuro per la specie. Si tratta, con Deleuze e Guattari, di «volere la guerra contro le guerre future e passate, l'agonia contro tutte le morti, e la ferita contro tutte le cicatrici, in nome del divenire e non dell'eterno» (p. 233, in esergo).
Che questo bel libro di Federico Leoni si ponga al crocevia di discussioni vitali nel moderno dibattito filosofico lo si intuisce già dal titolo, Jacques Lacan. L’economia dell’assoluto(Orthotes, 2016); e nondimeno si rimane sorpresi alla conclusione della lettura dalla quantità di spunti che esso offre. Se ci si aspetta d’altronde un’opera lineare e saggistica nel senso classico della parola, si rimarrà delusi. Ma proprio qui sta l’interesse di questo libro, difficile, che tratta questioni difficili. Anche perché la filosofia contemporanea ci ha dimostrato, attivamente o passivamente, come la semplicità e la linearità corrano spesso il pericolo di risultare noiose e poco produttive, oltre che fuorvianti. Da buon ed esperto interprete Leoni non ci trascina infatti, né trascina se stesso, nel tentativo di ricostruire ciò che Lacan avesse intenzione di dire con precisione filologica; l’autore si chiede piuttosto cosa abbia Lacan da dire, a noi odierni, che forse non hanno fatto tesoro della lezione dello psicanalista-filosofo. Il motivo è che non vi abbiamo prestato orecchio; o forse, sembra suggerire Leoni, che ve ne abbiamo prestato troppo. Ma vediamo di chiarire cosa ciò voglia dire.
Già dall’introduzione l’autore dichiara il fine di rintracciare in Lacan la fase del «pensiero dell’Uno». La riflessione del nostro, spiega difatti Leoni, ha conosciuto uno sviluppo da una fase centrale «dialettica e riflessiva», fino all’approdo finale ad una “riflessione dell’immanenza”, che Leoni tenterà di descrivere più come un approdo piuttosto che una ripresa. In che senso intendere tale ripresa, e l’Uno stesso intorno a cui ruota, è il fil rouge dell’intero libro. Leoni rintraccia in Lacan il ripresentarsi di una scissione del pensiero che risale già a Platone. Ma per presentarci tale scissione, l’autore ricorre inizialmente all’analisi dell’opera aristotelica e alle distinzioni introdotte dallo stagirita tra potenza e atto. La distinzione non passa tuttavia tra pensiero in divenire e pensiero divenuto. Piuttosto il pensiero cosiddetto divenuto, cioè quell’atto in atto che sembrerebbe essere immobile nella propria impassibilità, sembrerebbe essere la sovrascrizione di una scissione più profonda che già nel Parmenide Platone aveva messo in luce. Se infatti si pensa il pensiero, non lo si può che immobilizzare nella sua rappresentazione, poiché è appunto illogico il pensiero dell’istante, del divenire. Lo è, certo, secondo la logica tradizionale delle proprietà e dei predicati. Ma, ci chiede Leoni sulla scorta di Lacan, è produttiva questa maniera si pensare? Anche la terribilità che Platone riconosceva al divenire, andrebbe quindi ad essere riletta come abissalità di quest’atto di pensiero che non può essere che praticato, sfuggendo costitutivamente al dirsi.
L’abbondanza di temi che nel corso dell’opera vengono affrontati o anche solo sfiorati non permette naturalmente una loro elencazione esaustiva. Né questa è l’intenzione o la sede. Piuttosto, il dualismo cui si è accennato, e che ha per Leoni i propri capisaldi in Platone e Aristotele, autore che verrà visto da Leoni stesso come lo sfondo teorico costante del Seminario XX, percorre costantemente le analisi del libro e ne costituisce il ritornante, sotto, potremmo dire, diverse e mentite spoglie. Filosofia e psicanalisi, soggetto e oggetto, immanenza e trascendenza, pensiero dell’uno e pensiero del tutto, vita e morte, interno ed esterno: tutti questi termini che si avvicendano nei vari capitoli costituiscono i molteplici scenari in cui si gioca una dualità più profonda, che l’autore evidenzia nelle primissime pagine, cioè quella tra un’etica del desiderio e un’etica del godimento. Se quest’ultimo si svolge nell’istante, nel momento, cioè, in cui il pensiero è immediatamente e semplicemente già sempre presso se stesso, il desiderio ha per contro bisogno di una distanza, di una separazione; si potrebbe dire di una differenza. Ma non è la differenza pura, libera, quella di cui necessita per mettere in moto la propria macchina: è piuttosto la differenza subordinata all’identico, la differenza tra parti, quella differenza che è la declinazione stessa della negatività, del non-essere. Chi in queste righe abbia sentito l’eco dei discorsi strutturalisti o post-strutturalisti non si è di certo ingannato. Sono molteplici i punti in cui Leoni vi si confronta. Ed è anche per questo che nel libro si sente risuonare l’Hegel kojeviano sotto le molteplici declinazioni del pensiero del rispecchiamento e della relazione.
Del resto è la stessa struttura del libro, oltre all’argomentazione condotta, a mettere in luce un sottofondo psicotico-ossessivo della relazione e del relativo, racchiuso com’è, il libro, tra due soglie – come le definisce l’autore – ediviso in due parti, all’interno delle quali il ritornare dell’uno, due e tre, ripetuti nella prima e nella seconda parte, ricordano sia le nenie di certi giochi infantili, sia il triangolo edipico, che il pensiero contemporaneo così fortemente cerca di esorcizzare, ma anche quello stesso gioco a tre che si è venuto abbozzando tra Lacan, Aristotele e Platone, in cui lo stesso Leoni sarebbe il quarto incomodo. Gioco che, per la sua costitutiva dissimmetria, non si può appagare di se stesso. Ma appunto è anche da questo che si evince come Leoni scacci qualsiasi ermeneuticità.
Si cadrebbe in inganno, però, se si leggesse tale struttura alla luce di quella «nuova grammatica della matematica» che inscriverebbe l’intero parcellizzato tra due limiti; o all’interno di un ripresentarsi di un unico limite. La terzità va letta, come si evince dalle argomentazioni del libro, sicuramente non come alterità, non come incommensurabilità (che nuovamente implicherebbe una misura, un nomos), ma come assolutezza. È il pensiero nel suo farsi cui tende Leoni – sulla scorta di Lacan. Ed esso non può essere che divenire. Divenire come pratica. Ecco anche il punto di innesto tra filosofia e psicanalisi. Ecco la vera obiezione che Leoni si sente di muovere all’economia finanziarizzata, come si vedrà. È anche, dunque, una immagine di Lacan molto meno conservatrice di quanto vorrebbe la vulgata, quella che si ottiene dalla lettura di quest’opera. Se è vero che Lacan ebbe a dichiarare che non vi è fuori, Leoni ci suggerisce che non è appunto nel fuori che si cela il problema. Il pensiero dell’Uno alla cui luce, o ombra che dir si voglia, si svolge tutta l’ultima riflessione di Lacan, è testimonianza del suo cruccio, anche doloroso – come dimostrano le testimonianze riportate – riguardo all’insistenza di un tema così cruciale come quello della topologia e della ricerca di una via al di là del tutto, in direzione dell’immanenza. Anche questo è ben trattato nel libro di Leoni, dal momento che egli non si occupa solo della riflessione metafisica di Platone e Aristotele, ma anche della loro, conseguente, politica.
Vi è, quindi, un paradosso, che giace nelle viscere stesse di tutta questa operazione. Leoni ritorna più volte, e sembra che ciò costituisca appunto l’impalcatura profonda dell’opera, sulla questione del dire e del linguaggio. Egli pone infatti, a ragione, alla base di tutta la metafisica occidentale, quella scissione tra soggetto e oggetto che rende possibile la stessa metafisica in quanto dire sul dire, e prima ancora, dire ciò che non può essere più detto una volta scisso, cioè l’Uno. Scissione che si opera nel e col linguaggio. La questione del poter dire ciò che si dice, e del dire financo se stessi, è legata a doppio filo con tutto ciò. Ma allora si potrebbe chiedere: quale operazione sta compiendo Leoni? Non una ermeneutica in senso classico, come si è già scritto. Ma quale è il suo ruolo? Non sta egli facendo di Lacan lettera morta? Non sta forse compiendo un altro passo su quella linea di regresso all’infinito che si origina dal pensiero riflessivo?
Innanzitutto, è bene dire che Leoni non tenta maldestramente di sciogliere questo nodo, e dunque non cade nel tranello stesso che le possibilità del linguaggio tendono. Non si parla, insomma, come di tanto in tanto si vede accadere, addosso. In secondo luogo è lui stesso a suggerirci, beninteso nella forma del non-detto, una via. A proposito dei nodi, luogo topologico eccellente, in cui Lacan stesso si immerse nei suoi ultimi seminari, intento com’era a farne e disfarne, Leoni descrive il nastro di Moebius, «genesi adialettica dei contrari» come lo chiama (p. 67). E così, quasi gli sfugga dalla penna, scrive come il nastro non vada osservato, ma piuttosto percorso. E neanche va percorso, ma, aggiunge, bisogna fabbricarlo. Ora, a parte la pregnanza di questa dichiarazione, è significativo proprio come a una dialettica della materia e della forma come quella aristotelica, si contrapponga qualcosa che «è dell’ordine del dispiegamento» (p. 68). Di fronte ad esso il linguaggio non può che fare silenzio, proprio perché è al di là di esso che tale dispiegamento avviene. Possiamo allora accostare il libro di Leoni alla famosa scala di cui parlava Wittgenstein?
Come egli stesso descrive l’operazione wittgensteiniana è un tradimento. Ma Leoni, a differenza di Wittgenstein, non tenta di dire il vero sul vero, si tira fuori da questa sfida, poiché, come argomenta esaurientemente, essa non può essere che persa.
È proprio al vero sul vero che sono dedicate alcune bellissime pagine di questo saggio. Si viene introdotti nel vivo del tema da un resoconto che fa lo stesso Lacan di un sogno di qualcuno che desiderava ardentemente, anche nella dimensione onirica, udire dallo psicanalista il vero sul vero, appunto. La riflessione su tale tema porta Leoni ad accostare l’operazione introduttiva svolta dalle cornici dei dialoghi platonici alle cornici di opere quali il Decameron e Le Mille e una notte. In questi tre casi assistiamo, ci dice, alla spinta del linguaggio fino alle proprie ultime possibilità, alla messa in atto di uno stratagemma teatrale che, invece di introdurre nel vivo della narrazione, sembra piuttosto sortire l’effetto di distrarci ulteriormente da essa, di alienarci. «Non c’è metalinguaggio», scrive Leoni sulla scorta di Lacan (p. 83). È per questo che il rimando alle dottrine non scritte platoniche non è casuale. Esse, avanza l’ipotesi l’autore, non sono tali poiché tramandate oralmente. Esse sono non scritte poiché non si tratta più di atti linguistici, ma propriamente di esercizio. Ciò che la cornice mette in moto è lo spirito di separatezza del lettore dall’opera, e l’incolmabilità di tale spazio, poiché colmarlo significherebbe tradirlo. I metafisici, infatti, che vogliono dire il vero sul vero, di quest’ultimo mantengono ben poco. La cornice è la messa in luce di quell’occhio sempre celato al campo visivo e che Wittgenstein, ecco dove sta il passo falso, ha cercato di mostrare, chiudendo il cerchio. «Dire la verità sulla verità non significa sigillare il cerchio, ma mostrare il punto in cui il cerchio non tiene, o non tiene proprio perché tiene o vorrebbe tenere» (p. 90). E ancora, scrive risolutivamente Leoni, poiché non ha senso voler dire il vero sulla cornice del vero, in quanto esso si pone al di là delle determinazioni di verità e falsità, «si tratta di abitare il paradosso sul piano della sua enunciazione» (p. 94). Il limite, la soglia, la morte, come la si voglia chiamare, è il temporeggiare all’interno di tale cornice, che coincide con il temporeggiare stesso del linguaggio che taglia un dentro e un fuori, un vuoto e un pieno, una traccia, una brocca, in seno all’Uno. E si è già detto troppo.
Tornando perciò a ciò che si scriveva sulla topologia e il nastro, è questo il punto nodale, nel senso letterale del termine, quello in cui si vede come l’insufficienza della metafisica aristotelica si esponga pienamente. Non è tuttavia una mancanza, ci dice Leoni attraverso Platone. Se infatti Aristotele cade vittima, egli sì, delle insidie del linguaggio, è forse per eccessivo ottimismo. È perché egli, tramite la sua categorizzazione, aspira all’esaustività, quando invece il residuale, il rimosso, sono la controparte necessaria e non rimuovibile di tale operazione. È di nuovo Platone, colui che nel Parmenide si fermava inorridito, immobilizzato, nel momento stesso in cui gettava lo sguardo nell’abisso, a dimostrare come l’irrazionale non sia in alcun modo rapportabile alla grammaticalità dell’ente o dello stesso essere, non parmenideo, beninteso. Perciò Lacan partorirà alla fine un mostro linguistico come «yad’lun». Non si può significare l’Uno, non si può dire. Ma non perché il linguaggio vede limitate le proprie possibilità; la questione non è la possibilità, come ribadisce Leoni a più riprese. Il linguaggio si consuma nella e con la rinuncia all’Uno. Con la sua rimozione. Con la sua Urverdrängung.
E tutto ciò viene ricondotto da Leoni nel solco di quella distinzione che già in apertura egli aveva tracciato tra etica del desiderio ed etica del godimento. Distinzione che si gioca in seno allo stesso itinerario lacaniano, e che vede i suoi estremi indicati, rispettivamente, nei seminari settimo e ventesimo. Nella comparazione di questi si assiste infatti al delinearsi di due etiche, una cristiana, del differimento e dell’infinitezza di un debito non saldabile (e naturalmente si riconosce a Nietzsche il merito di aver posto in essere tale problema, con e prima di Freud); dall’altro lato sta invece l’etica antica della divinizzazione, del dio aristotelico, dell’atto in atto. Antichità che, come si è visto, viene trattata con la dovuta problematicità.
Ma se noi oggi possiamo mettere in opera tale problematicità è perché nel frattempo abbiamo assistito all’entrata in campo di nuovi dispositivi e strumenti. In primo luogo naturalmente quello del soggetto, perno di una certa riflessione contemporanea, che si riflette anche negli scritti di Lacan, come mostra bene Leoni, nell’analizzare le implicazioni che i passi su linguaggio, vita ed economia hanno su di esso. Dall’altra la nascita di nuove scienze, quali biologia ed ecologia che, loro malgrado, ci mostrano la separatezza della vita da se stessa e in che senso la nascita della vita (o del linguaggio, potremmo dire) sia parimenti nascita della morte. Sono anche questi, temi su cui l’autore si sofferma a più riprese nel corso della trattazione. Se da un lato Leoni rintraccia in Lacan il persistere, in un primo tempo, di una visione ancora “cristianizzata” della soggettività, che vedrebbe in Shylock il proprio antesignano, in cui l’essere soggetto sarebbe legato a doppio filo a una legge che sancisce e garantisce la scambiabilità, la relazione, in subordinazione alla quale il soggetto stesso si costituirebbe (come mancanza, poiché in dipendenza dall’Altro); tuttavia il discorso sull’Uno porta con sé il tentativo di scavalcare il ricorso a tale mancanza costitutiva, e rintracciare l’attualità del pensiero nella forma del taglio. È così che Leoni scrive come il discorso di Lacan che confluisce nel Seminario VII, «Della creatione ex nihilo», sia in diretto contrasto, ancora una volta, con la metafisica aristotelica: «la materia è l’après coup della forma, e la forma è l’après coup del taglio» (p. 43).
Come si accennato, Leoni si confronta anche con le implicazioni politiche dei discorsi che porta avanti, e forse la distinzione tra politica e psicanalisi non ha più neanche senso di essere mantenuta, alla luce della lettura del libro, che tratta della dimensione istituzionale della psicanalisi stessa prendendo ad esempio una pratica tanto controversa quale quella della passe.
Basti dire, e ciò serva a stimolare la curiosità verso un libro che merita la lettura, come la politica che Leoni abbozza, in contrapposizione ad un restaurazionismo sempre in agguato, così come ad un progressismo vuoto di ogni significato, venga da questi caratterizzata come «politica dei divenire». Non resta che seguire l’autore nel suo itinerario.