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L’impensato. Intervista a N. Katherine Hayles
Longform / Aprile 2022La seguente intervista a N. Katherine Hayles è stata organizzata in occasione della pubblicazione dell'edizione italiana di Unthought The Power of the Cognitive Nonconscious per l'editore Effequ. Studiosa di fama internazionale, direttrice e docente del programma di letteratura presso la Duke University ha fornito un contributo fondamentale al rapporto tra letteratura, scienza e tecnologia. Nel suo ultimo saggio l’autrice pone al centro della riflessione un ripensamento radicale della nozione di cognizione, soprattutto attraverso l’elaborazione dei concetti di cognizione non conscia e assemblaggi cognitivi. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo How We Became Posthuman: Virtual Bodies in Cybernetics, Literature and Informatics, uscito nel 1999 ma ancora oggi riferimento imprescindibile per chi si occupa di postumanesimo e di posthumanities.
Intervista di Ambra Lulli
Traduzione di Alice Iacobone
Ambra Lulli: Vorrei cominciare facendo un confronto tra il tuo nuovo libro L’impensato e i tuoi lavori meno recenti. In particolare, ho notato che nel L’impensato non viene mai utilizzata la nozione di postumano. Che rapporto c’è tra la riflessione che sviluppi in questo nuovo testo sulla cognizione non conscia e sugli assemblaggi cognitivi e quella sull’interazione tra esseri umani e tecnologia che avevi portato avanti in How We Became Posthuman? Ritieni che le nozioni di postumano e postumanesimo possano essere ancora delle categorie d’analisi critica interessanti o la loro assenza nel tuo nuovo testo indica piuttosto la necessità di un loro superamento?
N. Katherine Hayles: Come sapete, i Posthuman studies sono oggi in una fase molto avanzata e contano dozzine di libri, riviste e raccolte sul tema. Insieme a molti altri autori, considero le categorie di postumanesimo e postumano come d’importanza vitale per l’analisi critica. Al centro del mio interesse per il postumano, iniziato ormai più di vent’anni fa, c’era l’idea che tecnologie computazionali come la realtà virtuale stessero decostruendo il soggetto umanista liberale. Questo processo oggi è in uno stadio ancor più avanzato. Per come lo avevo concepito allora, il postumano non implicava necessariamente un ripensamento delle forme di vita non umane. Gli importanti lavori di Donna Haraway, Cary Wolfe, Timothy Morton e altri hanno reso chiaro che il postumano, come movimento, dovrebbe incidere (e di fatto incide) anche sulle nostre relazioni con altre specie. Se ne L’impensato non menziono il postumano in maniera esplicita è perché il concetto è semplicemente assunto come precursore di nozioni centrali quali l’idea della cognizione nonconscia, dell’emergenza di media computazionali come nostri simbionti contemporanei, dell’importanza degli assemblaggi cognitivi per la vita attuale nelle società sviluppate.
AL: Partiamo dall’inizio del tuo nuovo libro. In particolare, vorrei soffermarmi sul modo in cui inviti a ripensare la cognizione, come sostanzialmente distinta dal pensiero, e in un modo che porta ad estendere questa facoltà a tutte le forme di vita biologiche e a molti sistemi tecnici. In che modo, il ripensamento da te proposto, se da un lato intende avvicinare cognizione umana e tecnica, dall’altro vuole prendere le distanze dal modello cognitivista che interpreta la cognizione come computazione? Inoltre, vorrei soffermarmi sulla nozione di informazione a cui fai riferimento quando proponi questa ridefinizione della cognizione: un “processo che interpreta l’informazione in contesti che la connettono con il significato” (p.45). Mi sembra importante notare che la nozione di informazione a cui fai riferimento si distanzia da quella puramente quantitativa e probabilistica proposta da Shannon e Weaver, per rimanere invece legata a nozioni quali quelle di significato e di interpretazione. Potresti soffermarti anche su questo punto e approfondire la nozione di informazione a cui fai riferimento? Nel testo vengono citati autori come Friedkin e Simondon.
NKH: Fondamentalmente, il paradigma cognitivista affermava che il cervello umano opera come un computer. Io penso invece che questo sia altamente improbabile, considerate le profonde differenze tra media computazionali e cervelli umani dal punto di vista dell’incarnazione [embodiment]. La mia preferenza personale va ai modelli di cognizione incarnata o incorporata, come quelli elaborati da Maturana e Varela in Autopoiesis and Cognition, da Thompson, Varela e Rosch in The Embodied Mind, da Edwin Hutchins in Cognition in the Wild, da Lawrence Barsalou nel suo lavoro sulla “grounded cognition”, per menzionarne solo alcuni. Se certamente sostengo che sia umani che computer abbiano capacità cognitive, d’altra parte però insisto anche sull’importanza della loro diversa incarnazione, che implica maniere differenti di realizzare tali funzioni cognitive. È anche per questo che ho deciso di concentrare la mia ricerca sulla cognizione invece che su, ad esempio, pensiero o intelligenza, nozioni dotate di una lunga storia che le associa esclusivamente all’essere umano. La definizione di cognizione che citate la connette a interpretazione e significato. Sono termini forti nelle discipline umanistiche, e li ho scelti in parte per questa ragione; tuttavia, li uso in una maniera che supera radicalmente le concezioni tradizionali, che storicamente hanno attribuito solo agli esseri umani il diritto di performare l’attività interpretativa e l’attività di significazione. Prendendo le mosse dalla biosemiotica, sostengo che tutti gli esseri biologici, incluse piante e organismi unicellulari, interpretano informazione dai propri ambienti in maniere che sono significative per le loro vite. Come notate, questo uso del termine “informazione” non è lo stesso di quello del concetto promosso da Shannon e Weaver; piuttosto, si avvicina alla “differenza che fa una differenza” di Gregory Bateson e alla nozione di individuazione elaborata da Simondon.
AL: I nuovi materialismi sembrano utilizzare un lessico “deleuziano” (i concetti di forze, affetti, intensità e assemblaggi contingenti) per sottolineare soprattutto il carattere dinamico e profondamente trasformativo della materialità. In questo quadro il soggetto e la cognizione, di cui queste proposte teoriche vorrebbero fare a meno, si configurano come elementi unicamente “conservativi”. Nel quadro teorico da te proposto, e attraverso l’introduzione della nozione di cognizione non-conscia, quale potenziale trasformativo viene affidato invece alla cognizione? Si può sostenere che, attraverso il ripensamento della nozione di cognizione che proponi, è possibile considerare la complessità come il prodotto di azioni/ dinamiche cognitive?
NKH: Dal mio punto di vista, il carattere trasformativo della materialità ha indubbiamente agency, basti pensare a fenomeni che vanno dalla lenta erosione delle rocce fino alle violente eruzioni dei vulcani. Per questo parlo delle forze materiali nei termini di agenti. Ciò che le forze materiali non possono fare, tuttavia, è interpretare l’informazione che viene dai loro ambienti e basare le loro azioni su tali interpretazioni. L’eruzione di un vulcano, le roboanti fratture di una valanga, la violenta formazione di un uragano si possono comprendere come la somma totale delle forze rilevanti che agiscono in quel momento. Queste forze non possono decidere di seguire un percorso differente – di aspettare che gli sciatori abbiano abbandonato le piste, ad esempio, o di investire un campo deserto invece che una città affollata. Manca loro la capacità di selezione e scelta, funzioni che tutte le forme di vita hanno, persino le più umili. In breve, le forze materiali sono agenti ma non attori, precisamente perché mancano di capacità cognitive. Gli organismi certamente hanno una propensione per l’aspetto “conservativo” nella misura in cui mirano a perpetuare la propria esistenza. Tutto lo studio dell’omeostasi è un tributo a questa idea, un’indagine dei modi in cui i corpi viventi si stabilizzano in ambienti in mutamento. Senza dubbio è per questo che Deleuze e Guattari dichiararono che i loro scritti erano contro l’organismo, il segno, il soggetto. Allo stesso tempo, però, gli organismi possono essere infinitamente creativi, come la storia dell’evoluzione ci mostra. Le rocce possono essere compresse o frantumate, traslate o fratturate, ma non possono essere altro che rocce. Gli esseri viventi, al contrario, costantemente divengono altro da ciò che sono, creando nuove cellule mentre quelle vecchie muoiono, producendo nuovi anticorpi per combattere le malattie, inventando nuovi comportamenti al mutare delle condizioni. Più un organismo è dotato di capacità cognitive, più sarà capace di invenzioni radicali. Gli esseri umani sono ovviamente il massimo emblema di questa affermazione, ma anche altre specie esibiscono notevoli capacità di trasformare sé stesse e i propri ambienti, basti pensare ai casi in cui un albero sviluppa una tossina specifica contro un parassita mai incontrato prima. Quando molteplici attori interagiscono gli uni con gli altri nel proprio ambiente, invariabilmente si ottengono delle dinamiche complesse. Questi attori non sono necessariamente dotati di coscienza, possono anche fare uso di cognizione nonconscia. Inoltre, anche per gli esseri umani, la cognizione nonconscia svolge funzioni cruciali affinché la coscienza possa operare. Dal mio punto di vista, la cognizione nonconscia rende conto della maggior parte della cognizione umana, incluse quelle funzioni spesso date per scontate come mantenere una rappresentazione corporea coerente, adattare postura e respiro alle condizioni presenti, rispondere a segni e segnali sotto la soglia della coscienza, coordinare stati emotivi e attenzione.
AL: Quali sono le implicazioni del decidere di utilizzare la nozione di “assemblaggio cognitivo” piuttosto che di rete? Mi sembra che parlare di assemblaggio ci consenta di evitare la reificazione delle interconnessioni tra agenti, considerando gli assemblaggi sempre appunto come “provvisori”, ma al tempo stesso la differenza sta nel tipo di “materialità” coinvolta. Gli assemblaggi, a differenza delle reti, sembrano fare riferimento a una materialità “carnale”, tridimensionale, che oppone resistenza e che ha a che fare con il “toccare, il respingere e il mutare” (p. 209). Potresti approfondire questo punto?
NKH: Come suggerite, un assemblaggio è più flessibile e transitorio di una rete, il che lo rende una scelta migliore dal mio punto di vista. Gli assemblaggi cognitivi sono collettività che includono umani, non umani e media computazionali, che interagiscono tutti grazie alle loro capacità cognitive. Un esempio potrebbe essere quello di quando parli al cellulare, ad esempio al tuo cane quando sei via da casa: qui si uniscono la tua cognizione, le capacità computazionali del telefono e ovviamente il tuo cane, quando inclina la testa in quel suo modo grazioso. Quando chiudi la chiamata e vai al computer, entri in un altro assemblaggio che coinvolge la macchina, le connessioni di rete, un server remoto e così via. Entrando in automobile sei in un altro assemblaggio ancora, che comprende le capacità computazionali dell’auto, i sensori della strada, i tempi dei semafori, eccetera. Come Giano, gli assemblaggi cognitivi hanno due facce. Una faccia è rivolta verso il flusso dell’informazione, l’altra verso la materialità degli enti dell’assemblaggio, ovvero le loro qualità “carnali” (per ciò che riguarda gli enti biologici) e le loro istanziazioni in metallo e silicone (nel caso dei media computazionali). L’incarnazione determina il modo in cui si dà il flusso d’informazione, per questo non possiamo comprendere l’aspetto astratto senza prendere in considerazione il lato materico.
AL: Con la nozione di assemblaggi cognitivi, sembri soprattutto voler sottolineare la situazione di densa embricazione e simbiosi, di interazione e comunicazione ormai pervasive tra cognizione umana e sistemi tecnici. La cognizione tecnica sembra avere un ruolo cruciale nelle nostre forme di vita (si pensi, ad esempio, alle cognizioni tecniche a cui è interamente affidata la gestione del traffico in una città come Los Angeles) e conseguenze enormi sulle società e le culture umane. La prospettiva sembra quindi essere quella di una coevoluzione, di una relazione simbiotica in cui per ognuno dei simbionti coinvolti risulta impossibile pensare di prosperare senza l’altro. A quali differenti visioni politiche ed etiche portano una concezione, come la tua, che sottolinea la stretta interdipendenza tra cognizioni umane e tecniche, rispetto a una concezione che considera plausibile per il soggetto umano la possibilità di “svincolarsi” dalla fitta rete di cognizioni tecniche che costituiscono la sua ecologia cognitiva? La pervasività della cognizione tecnica e la sempre maggiore autonomia dei media computazionali si associa a forme di controllo sempre più efficaci, con i problemi e i costi che queste implicano. Di fronte a questa prospettiva, non si dovrebbe forse poter pensare alla possibilità di “interrompere” o “disturbare” il flusso continuo di informazioni e di comunicazione? Non si dovrebbe, cioè, pensare il rapporto tra esseri umani e sistemi tecnici anche in termini di conflitto oltre che di simbiosi?
NKH: Tecnicamente, la definizione biologica di simbiosi comprende anche il parassitismo e altre forme di associazione distruttiva. I sistemi tecnici possono indubbiamente essere causa sia di conflitto che di simbiosi. Pensiamo all’operaio lasciato a casa perché un robot industriale ha preso il suo posto in fabbrica, o all’accusato che viene incarcerato ingiustamente invece di essere messo in libertà vigilata perché un algoritmo responsabile delle condanne reputa probabile che sarebbe un recidivo. Dal mio punto di vista, ci sono molti casi in cui dovrebbero essere gli umani, e non gli algoritmi, a prendere le decisioni. Ma dobbiamo anche tenere a mente che pure gli umani sono lungi dall’essere infallibili e sono portatori di pregiudizi espliciti ed impliciti. Per me, la maggiore differenza tra decisioni algoritmiche e giudizio umano rimane quella evidenziata da Hubert Dreyfus quasi cinquant’anni fa: gli esseri umani hanno una più ampia e comprensiva visione del mondo. In realtà, si potrebbe dire con Dreyfus che noi abbiamo un mondo, mentre gli algoritmi hanno solo dati immessi al loro interno. Nei dibattiti contemporanei c’è un gran numero di voci che esortano all’interruzione e all’alterazione, a volte mostrando una scarsa comprensione di cosa i computer realmente fanno. Sono d’accordo sul fatto che questa sia spesso una tattica necessaria, ma penso anche che sia ugualmente importante mettere in atto tattiche e strategie di decostruzione dell’antropocentrismo, compresa la convinzione che gli umani siano superiori ed abbiano il diritto di dominare su tutto il resto, anche sulle altre specie e sulle intelligenze artificiali. Data l’urgenza della crisi ambientale attuale, ci occorrono diversi modi di concepire il mondo e la nostra relazione con esso. Abbandonare l’antropocentrismo è un modo per conseguire questo obiettivo. Lo sostituirei con ciò che chiamo “reciprocità ecologica”, evidenziando le relazioni tra gli esseri umani, i viventi non umani e i media computazionali.
AL: Parlando degli algoritmi di trading automatizzato, metti in luce come l’operare della cognizione tecnica in questo caso avvenga sfruttando temporalità inaccessibili alla cognizione cosciente, e come ciò costituisca un’ “ecologia cognitiva algoritmica di sole macchine”. I modi in cui gli umani possono interagire con queste ecologie di sole macchine, in modo da correggerle secondo criteri etici (penso, ad esempio, all’andamento dei mercati finanziari) hanno più a che fare con l’intervento in quelli che definisci “punti di flesso”, piuttosto che con la regolamentazione. Si tratta di un’opzione di controllo “debole” su processi che rimangono fondamentalmente ingovernabili, contrapposta all’idea di un controllo “forte”? In che modo tutto ciò ci porta a un necessario ripensamento del paradigma cibernetico, che vedeva nei cicli di feedback la chiave per il controllo e l’autocontrollo delle tecnologie cognitive? Sembra che i cicli di feedback di cui parlava la cibernetica abbiano assunto le sembianze di cicli ricorsivi in grado di generare grande complessità e impredicibilità, trasformando gli ambienti in cui queste tecnologie cognitive operano in ambienti fortemente instabili, potenzialmente soggetti a rapide rotture e crisi improvvise.
NKH: Non sono contraria alla regolamentazione, ma tutto dipende dal tipo di regolamentazione proposta e da quali conseguenze, desiderate e indesiderate, essa potrebbe avere. Nel capitolo sugli algoritmi di trading discuto alcune proposte di riforma del processo di trading automatizzato che operano non attraverso la regolamentazione governativa, che si è dimostrata inefficace o addirittura controproducente, ma attraverso il cambiamento delle condizioni in cui si effettuano le transazioni, ad esempio rallentandole intenzionalmente. Immagino che questo si possa chiamare “controllo debole”, ma non sono sicura di come potrebbe configurarsi un “controllo forte” – forse nel modo in cui la Cina gestisce i propri mercati azionari? Come sapete, i cicli di retroazione [feedback loop] del paradigma cibernetico possono essere sia negativi, tendendo ad attenuare e bilanciare le oscillazioni nel sistema, o positivi, accentuando le fluttuazioni fino al punto di rottura. Nei sistemi biologici, si danno entrambi i tipi di feedback loop. Probabilmente un qualche tipo di equilibrio tra i due è necessario per qualsiasi sistema complesso, sia esso biologico o tecnico. La troppa stasi e creatività è repressa; un’eccessiva fluttuazione e l’intero sistema potrebbe collassare. Il trucco è trovare la giusta combinazione che possa portare a trasformazioni positive.
AL: La contingenza e l’imprevedibilità sembrano avere, nel tuo libro, anche un potenziale liberatorio: ciò emerge soprattutto nei capitoli 7 e 8, quando esplori il potenziale utopico degli assemblaggi cognitivi. Come “inconoscibile”, la contingenza al cuore degli assemblaggi cognitivi è al centro della tua interessante analisi del romanzo L’intuizionista di Colson Whitehead. Scegliendo come chiavi di lettura per interpretare il romanzo il problema dell’arresto di Turing e i problemi di incompletezza di Godel, l’ “inconoscibile” e il “non computabile” sembrano investiti della speranza in un futuro più giusto. Potresti soffermarti su questo punto e spiegarci meglio in che modo intendi questo potenziale utopico e liberatorio degli assemblaggi cognitivi?
NKH: Il mondo reale è costellato di contingenze e eventi imprevedibili, che possono essere sia liberatori che devastanti – un vento può permettere al navigante di entrare in porto o può essere così violento da strappare via le case. Nei mondi artificiali dei media computazionali la contingenza e l’imprevedibilità devono invece essere integrate, con un’importante eccezione. Come M. Beatrice Fazi evidenzia, l’impossibilità dimostrata da Turing di trovare una soluzione generale al problema dell’arresto – ovvero, il fatto che non si possa prevedere in anticipo se un determinato algoritmo si fermerà o se verrà eseguito per sempre – apre uno spazio per la contingenza persino entro le operazioni apparentemente deterministiche di un computer. Fazi mette questa contingenza computazionale in relazione con il virtuale di Deleuze e le occasioni reali di Whitehead. Persino le reti neurali non sfuggono al problema dell’arresto, perché ancora lavorano attraverso astrazioni computazionali che cercano di sistematizzare gli aspetti della realtà. È stato mostrato che il teorema di Gödel e il problema dell’arresto sono interconvertibili (cioè, partendo da uno qualunque dei due, l’altro può essere inferito da esso). Lo stesso Gödel ha sottolineato che le limitazioni articolate nei due teoremi si riferiscono solo ai sistemi formali (ad esempio, ai sistemi aritmetici) e non al pensiero umano in sé, che secondo lui potrebbe spaziare liberamente in regioni in cui la computazione non arriva (per come la mette Turing, i numeri incommensurabili). È interessante notare come nel suo articolo del 1936 sul problema dell’arresto, Turing abbia provato che l’insieme dei numeri computabili ha la stessa dimensione dell’insieme dei numeri naturali o contabili. Entrambi sono molto più piccoli dell’insieme dei numeri reali, che è più ampio di vari ordini di grandezza. Da questo punto di vista, il campo del computabile è molto più piccolo del campo del pensabile (per gli umani). Gli esseri umani possono inventare i computer, ma i computer non possono inventare gli esseri umani.
AL: Sembra che il potenziale utopico del non-conscio cognitivo abbia il significato, per te, anche di una “speranza” che riguarda il futuro degli studi umanistici. In particolare, sembri auspicare la possibilità per gli studi umanistici, grazie all’introduzione del non-conscio cognitivo, di uscire dall’isolamento che li caratterizza, e di poter invece cominciare ad apportare decisivi contributi a discipline scientifiche quali ad esempio l’informatica, l’ingegneria elettrica, l’architettura o perfino l’economia. Quali sono esattamente, secondo te, le poste in gioco etiche e politiche di questa ibridazione disciplinare e di questa riarticolazione dei rapporti tra saperi all’insegna della profonda interazione e necessaria interdipendenza? Ciò richiederebbe agli studi umanistici una conversione dei propri paradigmi talmente profonda da poter essere considerata una vera e propria “rottura epistemica”, come tu stessa sostieni. C’è anche qualcosa che potrebbe andare perso per gli studi umanistici, in termini di capacità di incidere sul nostro presente e futuro, all’interno di questa nuova ecologia disciplinare?
NKH: Le scienze si interrogano sempre sul “cosa?” e spesso sul “come?”, ma solo molto raramente si domandano “perché?” o “che cosa significa questo?”. Tradizionalmente queste domande sono appannaggio degli studi umanistici, con lunghe e ricche tradizioni in filosofia, scienze delle religioni, letteratura, etica, e altre discipline. Con l’espansione costante della tecnosfera, le domande legate al “perché?” e al “dovremmo?” (distinte da quelle come “saremmo in grado?”) stanno diventando sempre più urgenti. Gli studiosi di discipline umanistiche hanno la competenza e la conoscenza necessarie per produrre importanti contributi su questi temi. Alcune aree degli studi umanistici che sono in rapida espansione, come gli Animal studies e le Environmental Humanities, hanno già offerto contributi importanti per l’avanzamento in ambito tecnico e scientifico, spaziando dalla gestione degli animali di laboratorio a una più profonda comprensione dell’importanza delle relazioni ecologiche in generale. Tuttavia, gli umanisti devono anche comprendere che intervenire in ambito tecnico e scientifico realizzando interazioni efficaci ha il suo prezzo. Come gli attivisti contro l’AIDS hanno presto capito, interventi riusciti con protocolli tecnici e scientifici richiedono di apprendere le basi del campo d’interesse. La comunicazione richiede un lessico comune, o almeno una zona d’intersezione linguistica. Sono convinta che l’interazione coi saperi tecnici e scientifici contribuirebbe anche a creare un atteggiamento di scetticismo da parte delle discipline umanistiche nei confronti dei loro stessi eccessi, il che dal mio punto di vista avrebbe effetti benefici. In questa prospettiva ci sono dunque vantaggi per le scienze e le tecnologie nel relazionarsi con le discipline umanistiche e vantaggi per le discipline umanistiche nel confrontarsi con le scienze e le tecnologie. Perché non dovremmo volerlo?
Intervista di Ambra Lulli
Traduzione di Alice Iacobone
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Game Over. Tecnologie, spazi, specchi, tramonti
Longform / Gennaio 2022
[Per la Parte 1/2, clicca qui]
Tecnologie d’assalto
La cultura cyberpunk esplicita il suo statuto essenzialmente nella rappresentazione della tecnologia e del rapporto che quest’ultima intrattiene con l’umano e il post-umano nei loro perimetri d’elezione.
Oggi, alla fine del ventesimo secolo, negli Stati Uniti esistono intere città in putrefazione, violente e dominate dalla criminalità. All’interno delle stesse megalopoli, abbiamo il fenomeno dei senzatetto in rapidissima espansione. […] Ci ritroviamo cosi periferie fiorenti di industria leggera e informatica intorno a nuclei di industria pesante e ferroviaria in putrefazione e abbandonati. […] Continuiamo a ingrandire le nostre città intorno ai margini in un complesso groviglio di centri commerciali, palazzoni e distese di monolocali (Sterling 2001, 50).
Tempo, spazio, tecnica. Secondo gli arguti esponenti del cyberpunk, dal futuro suonano le sirene d’allarme. Quel territorio metropolitano, una macchia di compatte concentrazioni di vetro e cemento è un’emergenza, non una possibilità. Un enorme campo di battaglia in cui si combatte l’incessante guerra tra macchine e umanità inverando la distopia di Frankenstein che rende le persone altro da sé stesse modificandone la composizione organica e l’essenza. La funzione eterotopica di questo esperimento discorsivo, enunciati disgregati nella semantica di controdeduzioni della realtà, replica e esorcizza i fantasmi di un avvenire che occhieggia dalla faglia tremolante sui bordi della quale il giorno trascolora nella notte. Se di fantascienza si tratta, lo è per comodità espositiva, un attimo prima di far deflagrare il presente in migliaia di luci stroboscopiche che segnali elettrici affamati lumeggiano ovunque. Un’attività profetica, tutto sommato, in cui l’immaginazione funge da catalizzatore. La cibernetica ha incontrato il punk e lo ha sposato fondendo assieme bellicosità eterogenee: da una parte la scienza dei sistemi ricorsivi, che associamo solitamente all’Informatica, dall’altra l’estetica dei ribelli della tradizione letteraria canonica che traggono ispirazione da una tendenza musicale “deviante” con attitudini antisociali e antipolitiche. Scrive Lorenzo Palombini (2019):
La cibernetica, […] a partire dal lavoro di Ashby, Wiener, Bateson costituisce la base teorica di una rivoluzione tecnoscientifica che ha rivoluzionato negli ultimi decenni la nostra prospettiva sull’organizzazione e la sistemica. La storia filosofica della cibernetica non è priva di tensioni, né di incursioni, o di clandestine relazioni anonime. La riscoperta di autori come Simondon, l’individuazione di traiettorie che uniscono la filosofia francese post-strutturalista alle correnti cibernetiche ed ecologiche americane – per esempio l’ampio debito di Deleuze nei confronti dei concetti batesoniani, come quello di “piano di immanenza” e “doppio vincolo” – segnano la tendenza contemporanea a recepire anche in chiave filosofico-teoretica il portato della cibernetica. (98) [1]
La cibernetica non è identificabile con l’Informatica a tutto tondo. Per questo il fenomeno cyberpunk, e il “paesaggio culturale” che esso evoca, può essere descritto come narrazione dello spazio urbano, e della Rete, dilaniato da una crescita irresistibile e dal consolidarsi di scarti minimi, di equilibri instabili. Non esiste alienazione nel cosmo “programmato” delle mega-multinazionali, ma vita disumanizzata in un biosistema magmatico. I labirinti urbani cyberpunk non portano alla redenzione ma alla disperazione del reietto, che cerca di emanciparsi da un destino infelice.
Nella surdeterminazione in cui sprofonda il presente prefigurando un futuro tenebroso, il rizoma molecolare cyberpunk assomiglia sempre di più a una “iper-realtà”, proiezione fantasmatica di attese “virtuali” geneticamente collusive. L’apocalisse della tecnica e dell’economia, ultima epifania di un capitalismo giunto al termine della sua esiziale azione nel mondo, ha dissolto Stati, governanti e ceti borghesi. Le Corporazioni spadroneggiano incontrastate, come nel Blade Runner di Rick Deckard insidiato da Replicanti letali e vendicativi, macchine che cercano riscatto dalla morte consapevoli che non lo troveranno mai. Il potere, negli e sopra gli agglomerati urbani, non ha nemmeno bisogno di stabilire una linea di demarcazione tra legalità e illegalità se non per pura convenienza e vigila in concreto su una cibernetica formazione di vita meta-umana, un sistema para-biologico dotato di memoria e volontà che non dipende dalla durata dei propri componenti organici, rimpiazzabili in qualsiasi momento e per un numero imprecisato di volte.La cultura cyberpunk ci lascia in eredità una società a venire che rincorre in maniera ossessiva i suoi incubi peggiori. Eterotopia del nostro presente, essa è immaginazione simbolica estrema dell’“alterità” che si autoriproduce costantemente. Non ci sarà che “alterità”, infatti. La periferia ne è il laboratorio per eccellenza, nutrita da un Centro che non la teme, anzi la rinvigorisce favorendo spregiudicati esperimenti antropologici, culturali e, quel che maggiormente conta, tecnologici. Le città-Leviatano del canovaccio narrativo cyberpunk divorano corpi ed esistenze dopo averli attirati nel “parco giochi con pena di morte” (Gibson & Sterling, 2001). D’altronde, in tutte le periferie che sono state e in tutte quelle che verranno è andato, e andrà, in scena lo spettacolo dell’inevitabilità della sopraffazione e, parimenti, della liberazione.
Spazi virtuali e specchi utopici
L’eterotopia è anche spazio dei contrasti stridenti e delle diversità. E perciò consente ai nostri occhi di strappare il velo delle convenzioni sociali prescritte dal codice culturale con cui le interpretiamo. La modernità stessa rimbalza nella poliformia dello specchio che decostruisce la storia personale e collettiva e le disloca in geografie inusuali. I riflessi dello specchio, distorcenti spesso, rimandano echi visivi di eterotopie, e di utopie, che ci collocano lì dove non siamo perché il corpo reale sta al di qua della superficie riflettente. Nell’immaginario cyberpunk, ne abbiamo già parlato, gli specchi, interfaccia tra il soggetto e lo spazio, sono elemento ricorrente. Molly, la protagonista femminile di Neuromante, porta lenti impiantate sul volto che sostituiscono gli occhi con un effetto di potenziamento della vista e le consentono visuali impedite agli umani che non ne dispongono; un innesto bio-tecnologico ne acuisce lo sguardo. La metafora dello specchio, la stessa utilizzata da Pat Cadigan (1996) [2] per descrivere la vertigine di un’apparente assenza di limiti che prova la sua mindplayer, una sorta di “cyberpsicanalista” impegnata a frugare nella mente dei suoi pazienti, ha una lunga tradizione nel pensiero occidentale. A questo proposito bisogna osservare che alla duplicazione del mondo che lo specchio compie, va aggiunta la sua funzione primaria, e cioè quella di includere nel medesimo raggio visivo l’osservatore stesso: guardare e guardarsi avvengono in sincronia. L’enigma dell’identità e della differenza, della verità e dell’illusione riluce sulla lastra e rimanda al mistero della soggettività e dell’“altro da sé”, quando siamo noi l’esito di quella tensione riflettente.
Il “cyberspazio”, luce virtuale, misura la distanza fra il soggetto che abbandona la materialità del corpo e ciò che si lascia alle spalle espandendo il proprio Io nell’humus digitale; è eterotopia di un luogo senza luogo, per alcuni sacralmente accessibile e per altri interdetto. Esso sovrappone spazi incompatibili tra loro e rovescia il senso comune dilavandolo in una eternità che va molto al di là di quanto l’umano è in grado di registrare e di comprendere. È cifra del tessuto connettivo alimentato dall’informazione. La coscienza si fonde con la rete elettronica mentre quella neurale si abbandona al piacere di ricorrenze deflagranti. L’impensabile complessità di una rappresentazione grafica di dati ricavati dalle memorie di centinaia di computers si irradia nel non-spazio della mente.
The main thrust of micro-electronic seduction is actually neural, in that it foregrounds the fusion of human consciousness with the general electronic network. Contemporary information and communication technologies exteriorize and duplicate electronically the human nervous system. This has prompted a shift in our field of perception: the visual modes of representation have been replaced by sensorial-neuronal modes of simulation. As Patricia Clough puts it, we have become ‘biomediated’ bodies […]. (Braidotti 2013, 90)
Nella condizione meta-umana del “cyberspazio” tutto appare effetto di una ininterrotta mutazione. E il tecnologico, avverte ancora Rosi Braidotti (2013, 94), frutto di una autopoiesi “machinica” – e aggiungiamo noi misura di quel cambiamento inarrestabile – è il luogo del divenire post-antropocentrico, ovvero la soglia di molti mondi possibili. Si organizza attorno a chi veleggia nel virtuale una composizione di opportunità multiple. In Fisica il fenomeno diffrattivo si manifesta ogni volta che un’onda incontra un ostacolo e tutti i punti dell’ostacolo si trasformano a loro volta in sorgenti di altre onde. È così che si raggiungono le zone che resterebbero in ombra se la propagazione fosse semplicemente rettilinea. Nell’eterotopia “cyberspaziale” flussi di informazione investono il nocchiero schizzandolo di plasma digitale, concreto quanto la materia abbandonata nell’altro universo da cui si proviene e imbevuta di impressioni sensoriali perdute, tutto sommato imperfette rispetto a quelle che si è capaci di sintetizzare nel cammino verso un’altra consapevolezza e verso una nuova identità, non c’è dubbio, in uno scorrere ricomposto anche del tempo che ha perso ogni riferimento tradizionale. Nel “cyberspazio”l’avvicendarsi dei minuti e delle ore non ha più ragione di segnare alcun trascorrere periodizzato. Ogni cosa è istante, verrebbe da dire “presentificazione”, accadere simultaneo. L’avvento delle eterocronie, sequenze dell’“altrove” altrimenti spazializzate, è vicino.
Quel che resta del giorno
In quella che potremmo definire la nostra “memoria frattale” [3], ridotta in parti più piccole dell’insieme di partenza capaci ciascuna di riprodurne strutturalmente l’entità originaria, la cultura cyberpunk rappresenta la porzione di un “oggetto” più grande, probabilmente identificabile con il sistema di potere occidentale tout-court in ogni sua articolazione, sociale, politica, culturale, antropologica. Proviamo a tentarne una genealogia critica.
Suggerisce Salvatore Proietti, in un lucidissimo saggio:
[…] le metafore della SF, e del cyberpunk in particolare, si sono sviluppate in dialogo con le teorie letteraria, femminista e scientifica americana. Una specificità del cyberpunk è la sua diffusione (prima ancora di una vera canonizzazione) in tutti i campi del discorso sociale. (Proietti 1998, 63)
L’interfaccia corporea dell’essere biomeccanico e la topologia sempre più inclusiva della realtà virtuale stabiliscono un complesso rapporto fra umano e macchina. Nel 1985, a un anno dall’uscita di Neuromante, Donna Haraway pubblica A manifesto for Cyborgs. Discutendo specificamente di “metafore visive”, la filosofa di Denver ci conduce per mano nei viluppi dei luoghi “altri” dello sguardo. Anche questi, eterotopie.
[…] la metafora visiva ci permette di andare oltre apparenze fisse, che sono in realtà prodotti finiti. La metafora ci invita a investigare i vari apparati di produzione visiva, comprese le tecnologie prostetiche interfacciate con i nostri occhi e cervello biologici. E qui troviamo macchinari altamente selettivi per elaborare regioni dello spettro elettromagnetico nelle nostre immagini del mondo. È nei meandri della nostra appartenenza a queste tecnologie di visualizzazione che noi troveremo metafore e strumenti per capire e influenzare i modelli di reificazione del mondo, cioè le trame delle realtà per le quali dobbiamo rispondere. (Haraway 2018, 126)
Il cyborg è epifania di un’identità che ingloba in sé l’ambiente tecnologico affermando la propria autonomia. La membrana osmotica tra naturale e artificiale rimanda a una soggettività frammentata, a un’espressione identitaria priva di limiti e a una promessa, scrive Proietti (1998, 64), “di pratiche sociali adeguate alle ansie e alle speranze della contemporaneità”. Nel campo letterario della fantascienza americana, presenti sin dagli anni Venti del Novecento, le metafore del cyborg e dello spazio virtuale trovano forma compiuta soltanto nei primi anni Sessanta e poi poco dopo l’inizio degli Ottanta. La narrazione fantascientifica problematizza l’esistente molto più della divulgazione scientifica orientata a legittimare una filosofia della storia d’oltreoceano. Il “secolo americano” ha bisogno di sostenersi su solide basi culturali e, se vogliamo, epistemologiche.
Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, l’apparato industriale e militare degli Stati Uniti estende la pratica dell’integrazione bio-meccanica tipica del taylorismo con la sua catena di montaggio e agisce su un piano ideologico rimontando la china della retorica nazionale per amplificarne gli effetti. La ricerca scientifica si trasforma in nuova frontiera – gli americani sono specialisti in nuove frontiere, del resto, e basterà qui ricordare la mitopoiesi del Far West – e la speculazione sull’immaterialità si sostituisce all’esaurimento dell’orizzonte territoriale, giacché in patria la geografia interna risulta ormai completamente conquistata. Rimane purtuttavia il corpo nella sua liminarità dirimente a fornire un’ulteriore ragione per giustificare il bisogno incontrollabile di impossessamento e comando. La “cibernetica” di Wiener va in questa direzione; nelle correnti impetuose dell’informazione, tecnici e “calcolatori” – siamo attorno alla seconda metà degli anni Quaranta –, sono timonieri di battelli a vapore simili a quelli che transitavano sbuffando lungo il Mississippi. Ogni cosa procede verso un avvenire caratterizzato non più dalla tecnologia squisitamente bellica – il lavoro di Wiener era nato da uno studio commissionato per migliorare i sistemi di puntamento contraereo – ma da quella dell’informazione e della sua rapida trasmissione.
Nel 1960, il progetto della Difesa che produrrà Internet parte da un saggio-manifesto in cui lo psicologo John C. R. Licklider specula che, se la tecnologia ingegneristica ha finora dato luogo al “mechanically extended man”, la possibile associazione di operatore (“cervello”) e computer potrebbe dar luogo a una vera e propria “simbiosi”. (Proietti 1998, 65)
Ancora nel 1962, uno dei maggiori esperti dell’United States Naval Research Laboratory, il fisico Robert Morris Page, ricercatore di punta che si occupava dello sviluppo del radar, conia l’espressione “estensioni dell’uomo” in riferimento a queste nuove componenti meccaniche su cui si sta alacremente studiando. La stessa idea di cranial jack della quale troviamo riferimento nei testi cyberpunk arriva da quei decenni durante i quali l’elettronica comincia ad essere sperimentalmente applicata alla medicina. Il cyborg, aspirazione simbolica e quasi archetipica, nasce in quel panorama culturale. Con l’unica differenza, in quel momento, che le varianti dell’homo sapiens dotate di componenti esogene e migliorative consentiranno di affrontare le esplorazioni interplanetarie, lo spazio “esterno”, ennesima sfida per l’umanità intrappolata nella Guerra fredda. I processi di reificazione dell’essere umano si incistano nel corpo e lo rimodellano per consentirgli di adattarsi ad ambienti extra-terrestri inospitali e sconosciuti. Tutto sommato la materialità di quell’insieme biologico che rappresentiamo finirà per evolvere, mainstream di lustri che sembrano davvero gloriosi, in qualcosa di completamente rinnovato che consentirà di alleggerirsi dai problemi derivanti dalla sopravvivenza fisica.
L’ultimo spettacolo
In questa spettacolarizzazione della modernità tecnologica, l’identità è scelta infinita di opzioni e rifugge le complicazioni che possono derivare dalla concreta fenomenologia delle cose. Il cyborg è una metonimia che ripropone la dialettica servo-padrone e sembra quasi annunci un mondo nel quale la biologia si sta sostituendo in qualche misura alla politica. Il corpo manipolato da prodigiosi innesti proclama la comparsa di soggetti identitari che possono annullare conflitti e appartenenze sociali; la classificazione delle razze, cavallo di battaglia della peggior cultura occidentale, scompare nell’indifferenziato della macchina biologica modificata. Lo stesso Wiener (1964) in God & Golem, Inc. tenta di ridefinire il rapporto tra corpo personale e corpo politico. Tuttavia, l’arrivo della teoria delle comunicazioni di massa di Marshall McLuhan (1962; 1964), anticipata ampiamente dagli studi di Charles H. Cooley (1909) [4], riconfigura l’organismo sociale “super-individualizzando” il cyborg e rilegge le sue coordinate spaziali. Il medium è il messaggio e la società, di conseguenza, è in nuce un “cyberspazio”; il villaggio globale si distribuisce come un ordito di sensori umani che la tecnologia rende interdipendenti. Il computer, nella sua “traduzione” artificiale di vantaggi, origina un sistema nervoso planetario che annulla i limiti del linguaggio e del territorio, e perfino il significato dei ruoli nella società. Per questa ragione concetti quali potere o produzione appaiono irrilevanti, non più necessari; la politica si frammenta negli ingranaggi della macchina, le scelte individuali e gli afflati collettivi si disperdono nel campo unificato del simultaneo.
Negli anni Settanta e soprattutto negli Ottanta, quando questa infodemia si rinvigorisce ancor di più, il PC, la scatola magica dotata di schermo a pixel che sta facendo un’implacabile concorrenza alla televisione, stigmatizza una nuova figura di consumatore travolto da un immaginario che ha del miracoloso.
A chi lo saprà usare, il computer offre la promessa di una “democrazia diretta” e della “necessità evolutiva” di una “coscienza planetaria” della “psicosfera”. […] l’autoregolarsi del sistema cibernetico è il braccio invisibile del nuovo mercato che garantirà un destino umano deterministico e privo di conflitti. (Proietti 1998, 67)
La strada tracciata dalla rivoluzione informatica, lo ha ricordato Bill Gates, conduce a un benefico capitalismo privo di attriti e più il virtuale si dilata senza incappare in scomodi impedimenti, più una tale road ahead apparirà lastricata di buone intenzioni. Questo “iperoggetto” (Morton, 2018), all’opposto, assomiglia davvero agli intrichi reticolari, sconcertanti e fortuiti, delle città dei cyberpunks coartate dalla dominazione estensiva delle Corporazioni, i “non luoghi” di Marc Augé – la similitudine è azzardata rispetto al concetto espresso dall’antropologo francese ma ne rischieremo ugualmente l’impiego –, spazi altamente omologati nei quali si può vivere anche per lungo tempo, muovendosi all’interno di comunità capaci di favorire rapporti durevoli ma privi di radicamento alle tradizioni e alla storia, tipica esemplificazione di società globalizzata.
La frontiera del virtuale, riformulazione ancora una volta retorica di uno dei più noti refrains della dottrina americana, è centrale in questo dispositivo concettuale e viene, non casualmente, associata alle figure di contrasto che ne caratterizzano, all’apparenza, l’opposizione radicale: gli hackers sono i sacerdoti del rito visionario, per molti aspetti religioso quasi, che si consuma nelle terre del “post-umano”, il “cyberspazio” appunto, essenza esistenziale a-topica che trascende qualsiasi futuro perché ci parla, insistentemente, del “qui e ora”. E forse, la retorica cui si accennava:
[…] è quella di un ritorno a uno stadio prelinguistico, presociale e astorico: il cyberspazio è un sogno pastorale, che è […] il sogno imperialista di un’America espansa fino a coincidere col mondo. (Proietti 1998, 70)
Il mito nazionale è locuzione di senso che diventa presa, o meglio tentativo di presa, addirittura sul pianeta. Quel che resta del giorno sono tracce mnestiche, ricordi impiantati come per la Replicante Rachel in Bladerunner, che hanno sconfitto il passato; ogni passato pensabile.
Nel quadro storico-culturale che abbiamo cercato di delineare fino a qui, il congegno letterario cyberpunk va considerato non tanto un esperimento di rottura, quanto il rovello di chi, inconsapevolmente ma inevitabilmente, non poteva non esprimere, in morfologie narrative perturbanti, un disagio generazionale che colava ovunque. La cultura cyberpunk riafferma la modernità ipertecnologica, tagliente materia hi-tech di cui è fatta la società post-industriale; porta con sé la cadenza mai esausta della provocazione estetica e politica, e non di rado, basti pensare a Sterling, i clichés del liberalismo americano che ambiscono a rinascere, o continuare ad esistere, perfino nell’allucinazione virtuale. Le sue qualità e i suoi limiti sono stati quelli di una
[…] “struttura di sentimento dominante in alcune parti della cultura giovanile del ricco Nord del mondo” legata, materialmente o ideologicamente, al terziario avanzato: un gruppo significativo ma non omogeneo né maggioritario. (Proietti 1998, 76) [5]
Quel gruppo non esiste più da molti anni. Game over. Ma a noi, inguaribili romantici, piace pensare che, da qualche parte, i cow-boys del “cyberspazio” e le Amazzoni dalle lenti policrome stiano continuando a cavalcare l’impossibile.
di Mario Coglitore (UniVe)
Bibliografia annotata
La bibliografia sull’argomento oggetto di questo studio è comprensibilmente sterminata. Tuttavia possiamo cercare di proporre alcune tracce per un percorso di lettura, del tutto parziale, utile a un primo approccio con il movimento letterario cyberpunk, con alcuni dei suoi più perspicui studiosi e critici e con quanti hanno lavorato a vario titolo su nodi tematici che intersecano i temi sviluppati in queste pagine. Di seguito almeno tre diverse aree di “sguardi sostenibili”.
I testi “indispensabili” della letteratura cyberpunk sono: di Pat Cadigan, Mindplayers, edito per Shake Edizioni (1986); i testi di William Gibson Neuromante, per Editrice Nord (1986) e, editi da Mondadori, Giù nel ciberspazio (1990), Monna Lisa Cyberpunk (1991), Luce virtuale (1994), Aidoru (1997), American Acropolis (2000); quelli di Bruce Sterlin La matrice spezzata, edito da Editrice Nord (1986), Oceano, per Perseo Libri (1991) e, editi da Fanucci, Artificial Kid (1991) e Isole nella rete (1994). E I testi congiunti di Gibson e Sterling, editi da Mondadori, La macchina della realtà (1990) e Parco giochi con pena di morte (2001). Va inoltre citato Settore Giada, di Lucius Shepard, per Mondadori (1987).
Su temi “attorno al cyberpunk” sono da citare almeno Houdini e Faust. Breve storia del Cyberpunk, di Caronia e Gallo per Editrice Nord (1997); l’articolo di Palombini Note per una eterotopologia del punk cibernetico (in Philosophy Kitchen n. 10) e quello di Proietti Intorno al cyberpunk (in Ácoma. Rivista internazionale di Studi Nordamericani n. 5); Storming the Reality Studio. A Case of Cyberpunk and Postmodern Fiction, curato da Larry McCaffery perDuke University Press (1991); e molti altri testi curati da (e di) Bruce Sterling, in particolare, per Bompiani, Mirrorshades (1994) e la Prefazione a “Mirroshades” pubblicata in Cyberpunk. Antologia di testi politici, curato da Raf Scelsi per Shake Edizioni, oltre a La nuova fantascienza» (1992), per Telemaco, e Il cyberpunk negli anni Novanta (Isaac Asimov Science Fiction Magazine Edizione Italiana n. 2).
Andando “oltre” il cyberpunk, molte sono le possibili direzioni, partendo dal Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo di Donna Haraway (2018), per Feltrinelli, The posthuman, di Rosi Braidotti (Polity press, 2013), Il cyborg. Saggio sull’uomo artificiale di Antonio Caronia (2008), per Shake, e i libri di Norbert Wiener editi da MIT Press Cybernetics (1948) e God & Golem, Inc. (1964). Si possono inoltre citare lo storico Social Organization. A Study of the Larger Mind di Charles H. Cooley (1909), i classici di Marshall McLuhan: The Gutenberg Galaxy. The Making of Typographic Man (1962) e Understanding Media. The Extensions of Man (1964); il Dizionario degli esseri umani fantastici e artificiali di Vincenzo Tagliasco (1999), edito da Mondadori; Iperoggetti di Timothy Morton (Nero, 2018); Utopie Eterotopie di Michel Foucault per Cronopio (2006) e L'individuazione psichica e collettiva di Gilbert Simondon per DeriveApprodi (2001).
Bibliografia
Braidotti, R. (2013). The posthuman. Cambridge: Polity press.
Cadigan, P. (1996). Mindplayers (1987). Milano: Shake Edizioni.
Cooley, C. H. (1909). Social Organization. A Study of the Larger Mind. New York: Charles Scribner's Sons.
Gibson, W. & Sterling, B. (a cura di). (2001). Parco giochi con pena di morte. Milano: Mondadori.
Haraway,D. (2018). Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo. Milano: Fetrinelli.
McLuhan, M. (1962). The Gutenberg Galaxy. The Making of Typographic Man. London: Routledge and Kegan Paul Ltd.
McLuhan, M. (1964). Understanding Media. The Extensions of Man. Berkeley: Gingko Press.
Morton, T. (2018). Iperoggetti (2013). Roma: Nero.
Palombini, L. (2019). «Note per una eterotopologia del punk cibernetico», Philosophy Kitchen, 10(6), 89-105.
Proietti, S. (1998). Intorno al cyberpunk. Ácoma. Rivista internazionale di Studi Nordamericani, 5 (12), 93.
Sterling, B. (2001). La città virtuale. In W. Gibson & B. Sterling (a cura di), Parco giochi con pena di morte. Milano: Mondadori.
Wiener, N. (1964). God & Golem, Inc. A Comment on Certain Points where Cybernetics Impinges on Religion. Cambridge (MA): MIT Press.
Note
[1] Gilbert Simondon (1924-1989) è stato un filosofo francese il cui pregevole lavoro si situa tra gli anni ’50 e ’70 del Novecento. Partendo dal concetto di individuazione, Simondon si è a lungo interrogato sull’uomo come essere vivente in stretto rapporto con la tecnica, colta nella sua centralità filosofica e politica.
[2] Pat Cadigan è nata nel 1953 negli Stati Uniti. Poco dopo la fine degli studi universitari nel 1975 ha cominciato la sua attività di scrittrice. Nel 1986 il suo racconto A tutto rock (Rock On, 1984) viene inserito da Sterling in Mirroshades. Un anno più tardi pubblica il primo romanzo, Mindplayers, che ottiene un discreto successo. Ha vinto premi letterari prestigiosi come l’“Arthur C. Clarke”, e nel 2013 anche il “Nebula” e lo “Hugo”.
[3] Si propone qui la definizione di “frattale” fornita dall’Enciclopedia Treccani.
[4] L’orizzonte organicista si rinnova in quel principio di secolo e la società contemporanea assume, all’epoca, le caratteristiche di una larger mind grazie alla diffusione del telegrafo e del telefono.
[5] Tra virgolette alte una citazione tratta da Darko Suvin, On Gibson and Cyberpunk SF, in L. McCaffery (a cura di) (1991). Storming the Reality Studio. A Case of Cyberpunk and Postmodern Fiction. Durham-London; Duke University Press, 363.
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Niklas Luhmann. Comunicazione ecologica
Longform / Ottobre 2021[Pubblichiamo, su gentile concessione dell'editore Franco Angeli, l'Introduzione e la Nota del traduttore al saggio di Niklas Luhmann, Comunicazione ecologica. Può la società moderna affrontare le minacce ecologiche? recentemente ripubblicato con una nuova traduzione. Oltre all'editore ringraziamo Riccardo Prandini e Alberto Cevolini per aver messo a disposizione i loro testi.]
Non c’è davvero miglior tema di quello trattato da questo libro – che ritraduciamo per il lettore italiano – per dare il senso della Collana che lo contiene. Senza correre il rischio d’esagerare, lo indichiamo come l’iper-problema (un problema di problemi) che accompagnerà l’evoluzione socioculturale fino alla prossima catastrofe (qui intesa in termini neutrali come: insorgere subitaneo di un nuovo ordine). È il problema della società (dei suoi sottosistemi e organizzazioni) che, operando sull’ambiente (in specifico quello “esterno”: condizioni e processi fisici, chimici, biologici, ma anche psichici, etc.) mette in pericolo sé stessa, la sua autopoiesi. Questo iper-problema è ormai di moda e attira attenzione, dopo un ventennio abbondante d’incubazione intellettuale: le news ne parlano, i libri si vendono, nascono serie televisive, così come corsi di laurea e Ministeri. La tesi di Luhmann, in anticipo sui tempi (il libro è del 1986, sospinto dall’ondata dei movimenti politici “verdi” e dall’incidente nucleare di Chernobyl) è che attraverso la questione ecologica, la società non giunge tanto a conoscere meglio la “Natura” (magari per “preservarla” o per “migliorarla”: o in casi estremi “abolirla”), quanto a capire che non conosce sé stessa. La radicalità della tesi non è stata colta più di tanto (e certamente non dalla sociologia), mentre hanno guadagnato la ribalta due altri filoni di ricerca: il primo tende a spegnersi nei dibattiti scientifici specialistici e nei forum globali per élite politiche con idee generiche di bene comune e con soluzioni corrispondentemente inadeguate; il secondo, invece, tende ad accendersi nei dibattiti dell’opinione pubblica e nei “social”, per poi spegnersi senza portare a nulla.
Il primo va sotto il nome di “Sostenibilità”. L’Enciclopedia Treccani ne dà la seguente definizione: «Nelle scienze ambientali ed economiche, condizione di uno sviluppo in grado di assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri». Basterebbe chiedersi chi e come, oggi, possa conoscere quali saranno i “bisogni da non compromettere” delle generazioni future, per farsi venire qualche dubbio sul senso del tema. Per rispondere, però, basta sapere che esso è stato introdotto nel 1987 con la pubblicazione del cosiddetto rapporto Brundtland dove «venne definito con chiarezza l’obiettivo dello sviluppo sostenibile che, dopo la conferenza ONU su ambiente e sviluppo del 1992, è divenuto il nuovo paradigma dello sviluppo stesso». In pratica qui a parlare e ad auto-attribuirsi capacità prognostiche è (l’auto-descrizione de) il sistema politico globalizzato (e i tecnici che gli suggeriscono cosa deve sapere) che si proclama “Centro e vertice” del tutto. Ne consegue una bibliografia infinita di ricerche, Report, Linee guida, Libri Bianchi, etc. – specialmente a trazione economico-giuridica, ma ora anche con l’inserimento delle scienze “dure” e della AI – che scelgono obiettivi e indicatori di sostenibilità, operazionalizzati in variabili e schematizzati in modelli teorici “causa/effetto”, “input/output”. Da questo profluvio di dati (diventati nel frattempo “Big”) apprendiamo, infine, che ogni causa è causata da altro (ed ha concause); così come ogni effetto ha altri effetti (previsti e imprevisti); che gli effetti retroagiscono sulle cause e che queste diventano nuovi effetti; che ogni tentativo di creare la “grande Mappa dell’ecosistema” fallisce, non solo perché gli effetti emergenti delle relazioni tra fatti lo impediscono, ma soprattutto perché ogni ecosistema deve avere un ambiente e nessuna chiusura “totalizzante” è mai possibile: l’equilibrio è una Chimera. A questo punto subentra il mantra del supercalcolo, del machine learning e della tecnologia che curerà la natura (magari sostituendola del tutto, come piano definitivo: il gemello digitale della realtà).
Il secondo filone di ricerca, più recente, prende il nome molto catching di “Antropocene”. Sempre per citare la Treccani, qui si tratta «dell’epoca geologica attuale, in cui l’ambiente terrestre, nell’insieme delle sue caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche, viene fortemente condizionato su scala sia locale sia globale dagli effetti dell’azione umana, con particolare riferimento all’aumento delle concentrazioni di CO2 e CH4 nell’atmosfera». L’Antropocene è un tema a trazione filosofica, antropologica, climatologica, geopolitica, etc., insomma attira maggiormente gli spiriti forti perché dà la possibilità di fare prognosi sul futuro lontanissimo, previsioni che somigliano molto a visioni, finanche a proiezioni oniriche. Inoltre, permette con grande facilità di identificare il colpevole – l’uomo (in prevalenza maschio) – moralizzando la comunicazione e agevolando la richiesta di risarcimenti e/o compensazioni (in pochi, ma interessanti, casi anche di “scuse” al Creato, o a Gaia). Ma anche qui, a parte l’accordo sul colpevole, sembra che la festa sia finita. Siamo nell’Antropocene, baby! e dobbiamo o uscirne (ma come? e dopo così poco tempo? e dopo che solo alcuni ne hanno approfittato); oppure dobbiamo ridurre l’impatto delle attività (decrescendo? crescendo meglio? smettendo di pensare alla crescita?). Entrambi i filoni sono accumunati dal ridurre il rapporto tra sistema e ambiente a un grande sistema in equilibrio – il famoso eco-sistema – quindi elidendo paradossalmente un polo della distinzione. Un terzo filone sta prendendo ora piede, ed è senz’altro il più intrigante dal punto di vista dell’infotainment. Quello che vede la soluzione nel sostituire la natura con la tecnologia, così da togliere di mezzo il problema stesso: macchine che vivono tra macchine. Rimarrebbe però il duplice problema della produzione d’energia e della comunicazione sensata tra macchine (la famosa gerarchia cibernetica di Parsons!) a rovinare il sogno post-umano e quindi post-sociale. In alternativa rimane solo la retorica dell’homo viator: se siamo destinati dall’inizio a viaggiare sulla navicella “Pianeta Terra”, allora tanto vale proseguire il viaggio colonizzando altri ecosistemi marziani. Fine dell’ecologia terrestre.
Luhmann, per nostra fortuna, prende una direzione diversa. Il problema non è la “cura” del Pianeta Terra (o “della Natura” come la si voglia definire) in sé. Planet Earth sembra cavarsela bene, auto-sostenendosi da circa 4,5 miliardi di anni (gli ominidi, per termine di paragone, datano 21 milioni di anni, sembra) e potendo continuare a farlo anche senza uomini e società, in futuro. E neppure lo è che la società degli umani possa autodistruggersi per così dire dall’interno. L’unica vera possibilità è stata data dall’uso della bomba atomica, ma questo implicherebbe una condizione di guerra globale e perdite settoriali. Perciò il vero tema è che gli effetti del rapporto con la Natura (anche umana) generati dalla società, ri-entrano nella società, cambiando in modo decisivo le sue condizioni di (im)possibilità. La società si mette in pericolo da sé, agendo sul suo ambiente. La prestazione intellettuale del sociologo tedesco è qui duplice: 1) spiegare perché solo la società Moderna si mette in pericolo da sé stessa; 2) individuare un principio di razionalità adatto al problema. Alla base della sua riflessione sta una triplice consapevolezza: che noi “i Moderni” non conosciamo la società in cui viviamo; che dobbiamo abituarci a questa social condition che non prevede alcuna salvezza-soluzione definitiva; che dobbiamo porci domande più sensate alla luce di una teoria sociologica adeguata al questa società.
In estrema sintesi Luhmann mostra come il problema ecologico dipenda solo dalla modalità di “risonanza” della società e dei suoi sottosistemi: gli eventi ambientali (qualsiasi cosa siano) entrano in risonanza con il sistema solo in base alle sue strutture che, a loro volta, dipendono dalla forma di differenziazione sociale. Da questa tesi dipende tutto il resto. Prima conseguenza. Non esiste nessun “Ecosistema” che sintetizzi la società (sistema) e la natura (ambiente), bensì solo e sempre singoli sottosistemi sociali che ricostruiscono – uno alla volta e ognuno in modo diverso – l’ambiente come loro totalità specifica. Seconda conseguenza: la società e i suoi sottosistemi risuonano solo attraverso un filtro estremamente limitato e limitante: la comunicazione. Ciò che non può essere comunicato (o, in seconda battuta, che è comunicato male, genericamente, in modo del tutto inadeguato alla attenzione di audiences sempre più disattente) non diventa “sociale” e quindi non può allarmare la società. Come nel racconto Il silenzio di Don De Lillo, se un blackout colpisse il pianeta, ce ne accorgeremmo, ma non potremmo comunicarlo attraverso i mass-media rimanendo nel silenzio o nel chiacchiericcio dell’interazione casuale. Da questo limite, la assoluta e crescente necessità (oltre che a dover disporre sempre d’energia elettrica!) di poter disporre di “allarmi” in forma di movimenti di protesta (Friday for Future), news, ricerca scientifica, talk politici, Encicliche. Terza conseguenza. A fare la differenza è la forma moderna di differenziazione sociale, in specifico quella di tipo funzionale. Essa caratterizza le strutture e le funzioni dei sottosistemi sociali, generando una società a cui “non riusciamo ad abituarci”. Strutture e processi che non comprendendo, ci impediscono di identificare le condizioni (sempre più improbabili) della nostra vita sociale. Tra queste ne segnaliamo alcune: i) ogni sottosistema (diritto, politica, sanità, formazione, economia, arte, famiglia, mass-media, etc.) può leggere gli eventi ambientali solo mediante il suo codice (diritto/torto, governo/opposizione, salute/malattia, conoscenza/ignoranza, solvenza/insolvenza, bello/brutto, amore/non amore, informazione/non informazione, etc.) senza poterne utilizzare altri (nessun valore “terzo” può intervenire a modificare questa limitazione); ii) oltre ai codici vengono predisposti programmi che servono a decidere i comportamenti sistemici adeguati e che devono, a differenza dei codici, mutare molto velocemente senza poter attendere di coordinarsi con altri programmi (in altri sottosistemi); iii) ogni sottosistema è auto-sostitutivo e nessun altro può venirgli in aiuto dall’esterno: iv) questa autonomia sistemica crea, simultaneamente, maggiore interdipendenza e integrazione (come limitazione di libertà) tra sistemi senza però generare alcuna automatica capacità di coordinarsi per il “bene comune”; v) l’aumento di performance dei sottosistemi – specialmente quello scientifico ed economico – dovuta alla loro funzionalizzazione, è anche una delle maggiori cause degli effetti ecologici negativi; vi) la tecnologia rende possibile realizzare sempre più progetti di cui conosciamo già la pericolosità e che quindi dobbiamo impossibilitare; vii) non è più possibile che alcun “centro e vertice sociale” possa governare gli altri sottosistemi; viii) ogni evento ambientale che risuona in un sottosistema in modo lieve (o pesante), può avere ripercussioni pesanti (o lievi) in un altro sottosistema cosicché si danno simultaneamente troppa o troppo poca risonanza; ix) rispetto a tutte queste comunicazioni funzionalmente codificate, si generano comunicazioni di commento, critica, giudizio che quasi sempre portano a una atmosfera di profonda delusione e pessimismo o di esaltazione e ottimismo. Luhmann, sulla base di questa iper-problematicità, aveva ipotizzato la nascita di una specifica forma comunicativa, basata sulla “paura” che avrebbe sovrascritto le altre comunicazioni, come un tempo faceva la morale. Ma come la morale porta a conflitti d’attribuzione di colpe, così la paura genera il problema della spirale della paura (fear itself) da cui è poi molto difficile uscire. In realtà sembra che questa escalation di paura sia stata evitata dalla “lontananza” del problema, dalla sua scomposizione in sotto problemi e dalla fortissima tendenza che gli attori sociali hanno di attribuire in modo divergente e non allineabile rischi e pericoli.
L’unico sapere, alla fine, evidenzia che le società possono evolvere in modo altamente inadatto al loro ambiente, almeno finché sono in grado di proseguire la loro riproduzione. Non è una buona notizia, anche perché mancano del tutto “soglie” d’allarme: almeno però si guadagna tempo, ma poi non si sa cosa farsene. Con quale forma di razionalità si possa affrontare questo pastiche, se lo si può affrontare, lo lasciamo scoprire al lettore che, tra le righe, apprenderà anche cosa significa vivere in questa società.
di Riccardo Prandini
NOTA DEL TRADUTTORE
Tradurre Luhmann, com’è noto, è difficile. Ma non impossibile. Bisogna senz’altro conoscere bene la lingua tedesca, ma soprattutto bisogna conoscere bene la teoria sociologica che Luhmann ha sviluppato con il titolo programmatico “Teoria della società”, ovvero “Teoria dei sistemi sociali”.[1] Quella che qui si presenta al lettore italiano è la seconda traduzione del libro Ökologische Kommunikation. La prima era apparsa sempre per i tipi di Franco Angeli nel 1989 (2a ediz. 1990; 3a ediz. 1992). Una nuova traduzione si è resa indispensabile essenzialmente per due motivi.
Prima di tutto, perché i diritti d’autore stavano per scadere e già da qualche tempo si era manifestato nel contesto italiano un rinnovato interesse accademico nei confronti di una pubblicazione che era stata ormai dimenticata. Una certa sensibilità “di ritorno” sul piano dell’opinione pubblica per i temi dell’ecologia – penso per esempio ai Fridays for Future o alla così detta “green economy” – hanno senza dubbio contribuito a spostare di nuovo il tema dell’ambiente nelle posizioni più alte dell’agenda dei mass media. Si potrebbe osservare che tutto questo lo si era già visto più di quarant’anni fa, che non ci sia dopo tutto granché di nuovo, e che l’opinione pubblica si lasci facilmente sedurre da atti eclatanti senza vedere i paradossi che spesso si nascondono dietro, come succede quando per raggiungere New York anziché prendere l’aereo ci si imbarca su uno yacht di ultimissima generazione, a basso impatto ambientale e ovviamente estremamente costoso, per mostrare così come si dovrebbero comportare tutti gli amanti dell’ambiente facendo, allo stesso tempo, quello che nessuno può permettersi concretamente.[2] Ma questo è già un tema che richiede una certa preparazione sociologica, e l’idea era appunto quella di rendere di nuovo disponibile al pubblico italiano un testo che su questo ha ancora molto da dire.
Per fare in fretta, si sarebbe potuto semplicemente ristampare la versione precedente, ma un rapido esame ha reso subito evidente che la prima traduzione non poteva essere riproposta. Troppo spesso infatti il senso del testo tradotto era (non solo in confronto all’originale) un vero e proprio non senso. Qualche esempio solo per capirsi. La frase abbastanza semplice «[...] weshalb unserer Gesellschaft es trotz, und gerade wegen, ihrer zahlreichen Funktionssysteme so schwerfällt [...]» diventa in italiano «perché la nostra società lo sfidi [lo sfidi?!], e proprio a causa dei suoi molteplici sistemi funzionali, riesca così difficile [...]» anziché «perché per la nostra società sia così difficile [...] nonostante, anzi proprio a causa, dei suoi molteplici sistemi di funzione».[3] La frase «[...] wenn man den Teilnehmern Turing-Qualitäten à la “kein Bock” durchgehen lassen will» diventa in italiano «se non si vuole permettere ai partecipanti qualità di Turing», anziché «se si accetta che i partecipanti possiedano qualità previste dal test di Turing del tipo “Non ne ho voglia”». Qui, come altrove, non solo la frase viene amputata, ma il senso viene rovesciato: se si trattano gli studenti come “macchine non triviali”, bisogna ammettere come valide anche risposte del tipo: “Non mi va” (mentre da una macchina del caffè una risposta del genere sarebbe impossibile).[4]
Casi del genere si ritrovano pressoché in ogni paragrafo, quindi a dozzine in ogni capitolo, e questo in tutti i capitoli del libro. Non ci vuole molta immaginazione per capire quale effetto una tale traduzione possa aver fatto sul lettore italiano. Si potrebbe anche dire tranquillamente: un effetto contrario a quello che l’edizione originale del libro ha avuto sul pubblico tedesco. Se infatti la precedente versione di questo libro ha contribuito a diffondere in Italia l’immagine di Niklas Luhmann come di un sociologo criptico, ingarbugliato e proprio per questo piuttosto fastidioso, in Germania lo stesso libro riusciva a suscitare negli anni ’80 un ampio dibattito anche in virtù del fatto che di tutti i contributi del sociologo di Bielefeld quello presente è senza dubbio uno dei più immediatamente accessibili anche per chi non avesse molta familiarità con la teoria dei sistemi sociali.[5]
Peggio comunque di una pessima traduzione c’è solo il fatto che essa venga pubblicata. E qui bisogna ammettere che la traduttrice non ha colpe. Poiché la prima edizione italiana era introdotta da un lungo saggio di un noto (e influente) sociologo di Bologna, è plausibile ipotizzare che la traduzione fosse stata eseguita su commissione. Più che dedurre conclusioni sulle competenze della traduttrice, quindi, la traduzione consente di dedurre conclusioni su chi ha messo a disposizione del pubblico italiano una parte dell’opera di Luhmann alla fine degli anni ’80. Ciò potrebbe costituire il punto di partenza per una ricerca sulla ricezione del lavoro teorico di Luhmann in Italia che, per quanto ne so, manca ancora. Si tratterebbe, in un senso più ampio, di una ricerca sociologica sull’uso e la diffusione della teoria sociologica nella società.
L’auspicio di questa seconda traduzione – che non sarà perfetta poiché ogni traduzione è per definizione migliorabile – è che essa possa essere quanto meno più fedele al senso originario e più intelligibile per il lettore italiano. Seguire Luhmann nelle sue riflessioni, cioè osservare la società dal punto di vista di quel particolare sistema di osservazione che è la teoria dei sistemi sociali, resta un compito faticoso. Più che altro perché bisogna sforzarsi di assumere una prospettiva insolita che non asseconda il senso comune e tanto meno la morale. Mettendo a disposizione del pubblico italiano una nuova traduzione di Comunicazione ecologica, la speranza è che essa riesca a suscitare se non proprio entusiasmo, quanto meno un po’ di interesse nei confronti di quella che resta comunque una delle proposte più originali che la teoria sociologica abbia prodotto nell’ultimo secolo.
[1] Dico “programmatico” perché Luhmann ha sempre considerato il suo lavoro teorico come “provvisoriamente definitivo”. A dimostrazione di questo si veda anche solo la versione di una teoria generale della società pubblicata di recente con il titolo Systemtheorie der Gesellschaft, Berlin, 2017 che rappresenta soltanto uno dei quattro manoscritti poi maturati nell’opera monumentale Die Gesellschaft der Gesellschaft, Frankfurt a.M., 1997. Il manoscritto in questione risale ai primi anni ’70.
[2] Il riferimento è ovviamente alla traversata dimostrativa dell’Atlantico di Greta Thunberg nell’estate del 2019.
[3] Cito dalla 3a ediz. di Niklas Luhmann, Comunicazione ecologica. Può la società moderna adattarsi alle minacce ecologiche?, Milano, 1992, p. 94.
[4] Luhmann, Comunicazione ecologica, op. cit., p. 194.
[5] Non a caso Luhmann ha aggiunto in fondo al libro un glossario dei principali termini tecnici impiegati – un unicum nella vastissima produzione del sociologo tedesco.
di Alberto Cevolini
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GAME OVER. Occhiali a specchio, cibernetica e informazione
Longform / Settembre 2021.
Dietro le lenti
La narrativa cosiddetta cyberpunk nasce all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso. Si presenta da subito come una cesura abbastanza netta tra due epoche diverse della letteratura fantascientifica; una frattura quasi irrimediabile tra un “prima” e un “dopo” destinata non soltanto a lasciare ampia traccia di sé ma anche a contrassegnare una soglia osmotica tra una concezione della realtà – o meglio, della scrittura di quella realtà – e la sua rappresentazione, dischiusa su scenari molto suggestivi. Il cyberpunk – definito spesso in modi diversi nel corso di quegli anni: Radical Hard SF, Outlaw Technologists, Neuromantics – è premonizione di impensabili orizzonti dell’essere, di evoluzioni della società e della tecnologia che nemmeno il più ardito degli scrittori avrebbe mai osato immaginare.
Si possono individuare tre differenti date costitutive del Movimento cyberpunk: nel 1982 viene organizzata una storica tavola rotonda alla convention sulla fantascienza “ArmadilloCon” che si tiene a Austin nel Texas [1]; nel 1984 William Gibson [2] pubblica Neuromante (1986) e due anni più tardi esce l’antologia Mirroshades (1986), a cura di Bruce Sterling [3], un altro importante capofila dei ragazzi dagli “occhiali a specchio”.
Gli occhiali da sole a specchio sono stati un totem del movimento fin dai primi giorni del 1982. Le ragioni di ciò non sono difficili da capire. Attraverso il nascondere gli occhi, le lenti a specchio ostacolano le forze della normalità a comprendere che uno è impazzito e possibilmente pericoloso. Essi sono il simbolo del visionario che fissa lo sguardo al sole, il biker, il rocker, il poliziotto, e fuorilegge simili. Le lenti a specchio – preferibilmente in cromo e nero opaco, i colori del totem del movimento – apparvero in ogni novella, quasi fossero una specie di distintivo letterario. (Sterling 1990, 37)
Il cyberpunk è un prodotto schietto dell’ambiente culturale nord-americano di quel periodo e probabilmente ne è una penetrante rappresentazione. Le sue radici affondano nella tradizione della fantascienza popolare degli anni Sessanta. Ellison, Delany, Spinrad, Aldiss, Ballard, Anderson, Heinlein, senza dimenticare i “giochi di realtà” di Dick: sono questi i precursori e gli ispiratori dei nuovi romanzieri che si stanno misurando con una incipiente fine secolo superiore a tutte le aspettative, inverando senza dubbio molte delle anticipazioni che il Movimento delle lenti scure ha fatto proprie, intuendole nella filigrana della storia. Si è spesso detto dell’analogia tra punk e cyberpunk, entrambi processi di superamento e liberazione che non tagliano i ponti col passato, anzi ne assorbono gli insegnamenti e li manipolano mantenendo con esso accostamenti sonori e sintattici, riletti in chiave esplosiva e spiazzante. Insomma, come il punk scioglie il rock and roll dalle briglie sinfoniche del progressive rock, così il cyberpunk affranca la fantascienza da influenze decennali pur se i suoi rappresentanti sono cresciuti nella tradizione letteraria della Science Fiction. Il corpus narrativo classico sembra essere saturo e la realtà quotidiana sopravanza ogni fantasia possibile. Qualcosa, dunque, si libera in quel decennio e nonostante l’etichetta cyberpunk non sia stata mai scelta da nessuno dei componenti di quella geniale brigata, il termine entra in uso perché sintetizza un intero clima culturale, fatto di high-tech e di pop underground nei quali si mescolano video-rock, hacker clandestini, «tecnologia di strada dell’hip-hop e della musica scratch» (Sterling 1990, 38).
E proprio di quel milieu così particolare, fatto di visioni apocalittiche, esistenze ai margini, ibridazioni tecnologiche e oscure periferie urbane nella quali si muovono esseri umani “ai margini”, ci occuperemo nelle prossime pagine, rovistando tra “regimi discorsivi” e idiosincrasie al silicio per disegnare una cartografia, certamente imperfetta, del dispositivo culturale che la scrittura cyberpunk generò, prima di spegnersi alle soglie degli anni Novanta del Novecento, riecheggiando i motivi di una eterna rivolta contro un ordine sociale incrinato dal confondersi della macchina con la carne, mentre l’”analogico” veniva espropriato dal tumultuoso affacciarsi del “digitale”.
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Di cibernetiche e altri movimenti
Il prefisso cyber proviene dalla parola “cibernetica”, in lingua inglese cybernetics. La cibernetica governa quella parte della sperimentazione scientifica che studia le analogie funzionali tra i meccanismi biologici di controllo e regolazione degli esseri viventi e i meccanismi artificiali delle macchine. Cybernetics è lemma coniato dal matematico americano Norbert Wiener (1948). Wiener riprendeva il concetto espresso in greco antico dalla parola “kubernetes” [κυβερνήτης], pilota di navi, anche se gli attribuiva un significato diverso dopo qualche secolo di evoluzione etimologica, assecondando parzialmente la sua distorsione. Tuttavia, nella cultura greca di allora non si trattava soltanto di saper usare il timone, piuttosto di conoscere ogni singolo componente dell’imbarcazione e il criterio con cui era stato realizzato. In aggiunta, essere un buon pilota significava anche, o forse soprattutto, sapersi orientare, e per farlo bene era necessario possedere solide conoscenze di astronomia, geografia, cartografia ed essere capaci di “annusare il mare” attenti alle variazioni meteorologiche. Con l’arrivo della civiltà latina il pilota divenne gubernator, un individuo più adatto al comando che alla conduzione, secondo il prevalente principio del controllo centrale da esercitare su un vasto territorio quale sarebbe stato l’Impero. Il gubernator svolgeva il suo compito essenzialmente sottomettendo. Wiener, quindi, in maniera più o meno inconsapevole utilizzava il termine filtrandolo attraverso l’accezione romana. La cultura cyberpunk, al contrario, recupera l’etimo greco configurando una “possibilità sociale”, chiamiamola così, affatto diversa.
Almeno sino alla fine degli anni Venti del XX secolo era stato l’orecchio a farla da padrone. Le tecnologie sviluppate fino a quel momento, il telegrafo e il telefono, avevano fatto dell’ascolto il canale privilegiato per la comunicazione. Ascolto, e vocalizzazione quando il telegrafo divenne “parlante” e si scoprì che si poteva trasferire anche la voce oltre ai segnali ticchettanti dei vari codici di trasmissione tra cui primeggiava il Morse (Coglitore 2016). Con l’arrivo negli Stati Uniti della prima, embrionale televisione, intorno al 1927, sarebbe stato l’occhio ad assumere valenza primaria con tutto ciò che ne sarebbe conseguito.
La società occidentale avrebbe dovuto attendere ancora una quarantina d’anni prima che il Personal Computer (PC), televisore interattivo stupefacente all’epoca, facesse capolino nelle case e negli uffici, dopo che Internet si era affacciata alle soglie di quella modernità a lungo covata nei laboratori militari e universitari americani. L’introduzione del PC, a partire dagli anni Settanta, provocò una serie di sensibili cambiamenti, inequivocabili con la sua diffusione di massa dal principio degli anni Novanta. Il PC è un media elettrico, ovviamente. Rispetto ai suoi ascendenti altrettanto famosi, il computer innalza in generale l’indice di produttività e consente a ciascun individuo, lo vediamo benissimo ai nostri giorni, notevoli capacità di elaborazione, di condivisione e di ampliamento della conoscenza che fino a poco tempo prima erano appannaggio di grandi gruppi industriali o di agenzie governative. Scale gerarchiche e distanze sociali si riducono notevolmente e le competenze individuali percorrono la Rete in modo trasversale scavalcando barriere che sembravano invalicabili.
L’attrezzatura informatica consente libero scambio di informazioni e una sostanziale semplicità di utilizzo del medium, che implementa nuove aggregazioni sociali, aziendali e persino politiche. Lo spazio, infine, subisce una rinnovata “conquista” perché le distanze, come era accaduto per telegrafia e telefonia, perdono di significato. L’universo digitale cancella i confini e l’idea stessa di confine. I nostri sensi e le nostre azioni possono estendersi per migliaia di chilometri, ben oltre il nostro corpo come strumento naturale di acquisizione percettiva del mondo circostante; la tecnologia si sostituisce ad esso nella sua condizione di misura della realtà che rimodula proprio attraverso l’approntamento digitale della geografia umana e fisica. Il territorio non è più essenza e presenza delle cose ma sua immagine virtuale, ancorché saldamente radicata poiché lo riproduce nei dettagli; lo ombreggia in una assenza che il medium rende irrilevante, alterando il senso dello spazio materiale e sociale.
Interagire attraverso il computer, senza dimenticarci dello smart-phone, ci isola dall’ambiente circostante e ci lascia sperimentare inedite emozioni. Il “cyberspazio”, luogo della virtualità assoluta, è campo d’azione e non più semplicemente una simulazione dalle qualità sorprendenti: piuttosto, suggerimento per una socializzazione differente, originata nella e dalla relazione di reciprocità che la tecnologia suscita. L’abbandono della tradizionale tridimensionalità degli oggetti fisici, corpi compresi, comporta la sostituzione di una obsoleta “spazialità” con simbologie all’inizio meno rassicuranti ma d’appresso evocatrici di una dimensione della mente che introduce a rappresentazioni sceniche degne di un’allucinazione crudele e curiosa, radicalmente “altro” da tutto ciò che finora avevamo sperimentato. Di più, la morfologia del “cyberspazio” cancella una volta per tutte l’oggettività dell’interpretazione. Si presenta, cioè, come artefatto che sfugge alle regole consuetudinarie, si sottrae a qualsiasi classificazione, muta continuamente nella sua complessità diversificante.
La “cybercultura” (termine con il quale ci riferiremo, in forma contratta, alla cultura cyberpunk) consiste, quindi, quando la indaghiamo dal punto di vista della ricaduta nel sociale, nell’interiorizzazione di queste nuove “estensioni”, comprendendone il potenziale interattivo nella consapevolezza che non potremo che riadattare i sensi a questa modificata condizione. Nuovi fenomeni conoscitivi germogliano attorno a noi e ci riaggregano in un diverso “stato”, lasciandoci galleggiare negli oceani del digitale.
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Informazione/informazioni
La cultura cyberpunk, a questo punto, si definisce in quanto “agente” che si appropria dell’informazione, la trasforma, e per mezzo del suo rimaneggiamento interviene nel mondo cui ci siamo abituati sin dalla tenera età indicando seducenti alternative. La notazione punk, che fa da spalla quasi alla congerie cibernetica in questo gioco delle parti che continuamente si rimescolano, conferisce quella robusta aura di “non regolare” che rompe gli schemi tradizionali rigenerandoli in altro. E cos’era stato il Punk se non divorzio dalla musica “colta”, abbandono dello spartito del “rock progressivo”, involuzione estetica contro ogni dogma della buona società borghese che aveva persino tentato, in piccola parte, una pallida ribellione nei dintorni degli anni Sessanta del Novecento? Cos’era stato se non rivendicazione di una unicità individuale nella produzione artistica? Ben al di là della classica concezione di computer e di Rete in qualità di “arnesi” che facilitano l’attività lavorativa oppure di sistemi di controllo di fiacche volontà, la tecnologia vista nell’ottica cyberpunk diventa snodo del ricondizionamento della realtà. Gli hackers e i più abili esperti di Informatica altro non sono che esploratori di sconosciute lande digitali, apparati di comunicazione e insieme di tecniche d’uso oggetto di una sacralizzazione laica.
La “cybercultura”, in sostanza, non è che il venire in evidenza dell’evoluzione della tecnologia. È già successo altre volte nel dipanarsi discontinuo della storia occidentale degli ultimi duecento anni. La letteratura cyberpunk imprime una particolare connotazione all’idea di cibernetica, approntando nuove grammatiche per la fantascienza, e immagina una società non troppo distante nel futuro zeppa di bizzarri personaggi, a dire il vero molto punk, che lascia agire in canovacci narrativi degni di un viaggio lisergico alla Timothy Leary “prima maniera”. Questa celebrazione dello straordinario e del cupamente introspettivo, in una dolenza che pulsa costante come un battito di cuore artificiale, è un racconto del presente, l’interpretazione verosimile di cose che stanno accadendo o che stanno per accadere. Si tratta di un coacervo di stilemi linguistici e cognitivi che quasi per forza si imbeve di politica, utilizzando il termine in accezione ampia. Perché è davvero la pòlis ad essere oggetto di un’anatomia dissacrante, un frugare arroventato tra le innervature della società occidentale per richiamare l’attenzione su scenari del probabile: lo strapotere delle multinazionali, l’assenza praticamente totale delle istituzioni, l’ossessione per la tecnologia, i linguaggi volutamente oscuri, le “sculture sociali” decisamente pop. Tant’è che una caratteristica di questa letteratura d’arrembaggio è lo studio approfondito dei cambiamenti socio-tecnologici, delle loro cause e degli effetti che producono sugli umani o su ciò che di loro resta. Sui loro corpi “trasformati”.
I corpi. La cultura cyberpunk ne propone l’apologia. Elemento-chiave di questo appuntamento microfisico con la fantascienza è il cyborg. Vediamolo da vicino. Quanto di meccanico deve esserci perché si possa parlare di organismo cyborg invece che di essere umano? (Tagliasco 1999; Caronia 2008, 41-55). Tentiamo una “tassonomia”, e concentriamoci sulle corrispondenti tecnologie di sostituzione che possono essere: “re-integrative”, con il ripristino di funzionalità perdute o di sostituzioni di organi e arti; “normalizzanti”, che riportano ad uno stato originario, riparando anomalie organiche; “riconfiguranti” che danno origine a creature post-umane una volta concluso l’intervento di ricostruzione; e infine, “potenziatrici”, che a scopo militare o industriale generano esseri talmente forti da risultare invincibili.
Al rimodularsi della percezione della realtà con il rafforzamento delle capacità sensoriali, il “cyberorganico” ci proietta in un mondo alieno, diverso sotto ogni rispetto. Il cambiamento si radicalizza ancor più quando il mezzo diventa una nostra estensione, e parti del corpo ci inducono a “sentire” diversamente, a toccare diversamente, a ricevere stimolazioni che mai avremmo immaginato. Il corpo non è più “luogo” di relazioni sociali e mentali; è, semplicemente, “struttura” da modificare e collaudare. Le conseguenze non saranno banali: ciò che siamo individualmente si muoverà su una scala post-evolutiva con esiti scioccanti e inaspettati, segnando sentieri che portano all’inconoscibile. Per il momento in questa attuale, prosaica contemporaneità, ci accontenteremo di rimedi a “bassa intensità”: una correzione della curvatura della cornea per migliorare la vista, un bypass per cuori “ballerini” o un trapianto d’organi che ci permette di sopravvivere.
In verità, la constatazione che attualmente il cyborg è ancora di là da venire, non ci esime da un’altra riflessione, e cioè che potremmo almeno considerarci dei borgs. In una delle tante serie televisive sui viaggi di una celebre astronave, Star Trek-Next Generation, i borgs si spostano negli spazi interstellari in vascelli a forma di cubo e quando entrano in contatto con una specie sconosciuta tendono ad assimilarne componenti e conoscenze facendone dei droni, simulacri di cyborgs connessi al resto della collettività in una indissolubile unione. Ogni singolo individuo pensa a se stesso al plurale, l’Io si è fatto Noi imprescindibile per la stessa sopravvivenza della comunità. E non è questo che siamo diventati negli ultimi decenni utilizzando i media come facilitatori di un pensiero collettivo che si diffonde inarrestabile nella Rete? Molteplicità e unicità convergono assieme attraverso i mezzi di comunicazione con i quali contribuiamo giorno per giorno all’evoluzione di un general intellect che ci trascina fuori dal corpo dopo aver maturato le prime esperienze di spostamento cognitivo suggerite da radio e televisione, embrionali surfs per cavalcare le onde dell’informazione.
È pleonastico rammentare cosa rappresenta Internet oggigiorno con motori di ricerca che danno accesso a miliardi di dati sull’intero scibile umano. Così, ci siamo abituati a percepire il Web come luogo dell’intelligenza filogenetica dove si può sperimentare qualsiasi tipo di conoscenza e dove ciascun processo discende dall’attività comune di milioni di menti collegate in un densissimo tramaglio di modalità esistenziali.
I soggetti performanti non sono più definibili con esattezza. Le famose “agenzie di socializzazione” (Parsons 1956) sono scomparse; le organizzazioni istituzionali hanno perso centralità e valore, non sono più “camere di compensazione” delle istanze che interessano la cittadinanza virtuale, giacché essa è ormai governata dalla Rete. Software e hardware costituiscono il milieu “informativo” che plasma questo spazio sociale. La “cibercomunità”, l’occasione è propizia per sfatare uno dei miti di Internet, non è affatto una piazza: l’interazione cui siamo indotti in chat, o tramite un computer, facilita conversazioni che dipendono dall’uso simultaneo di unità al silicio custodite in bunker sotterranei a basse temperature. Il combinato-disposto di programmi e macchine assicura l’incontro in un luogo de-materializzato che esiste in tanto in quanto qualcuno lo occupa. La cultura, in questo reticolo digitale, è sostrato comune per chi frequenta quell’arena virtuale e ognuno porta con sé soltanto ciò che ritiene più opportuno della propria identità, potendola modificare a piacimento o addirittura falsare: il mio avatar sarà altro da me, se lo desidero. L’individuo “cybervirtuale” è di per sé assolutamente anti-istituzionale, e non perché si oppone all’istituzione, ma perché essa non esiste. A guardar bene, c’è una netta prevalenza dell’identità sul ruolo e l’identità si manifesta in un paesaggio astratto; il “cyberspazio” appartiene alla dimensione del vedere, non dimentichiamolo, che non è pura e semplice utopia.
Abbandonato il Sé fisico, perlomeno nel senso in cui noi concepiamo la materialità, il “cyber-Sé” si afferma come costruzione di una coscienza individuale consumata all’interno della rappresentazione virtuale ed è un prodotto schietto del cosmo macchinico inaugurato dalla tecnologia del computer. Il discorso della scienza è linguaggio computazionale che irrora la nostra vita di alimento nuovo propagandolo da una molteplicità di sorgenti negli sconfinati orizzonti dell’“altrove” digitale. Vengono sostituiti i fondali del palcoscenico; l’immanenza della tecnologia ce li rinnova come segno di una evidenza, del corpo e della mente, cui dobbiamo adattarci. Luoghi-non luoghi rimescolano il presente e spalancano una porta sull’infinito.
Cronache da Altroquando [4]
Nei mille universi dell’Elsewherre di Heinlein (conosciuto anche come Elsewhen), i cinque studenti protagonisti della storia si spostano a piacimento nel tempo grazie un trattamento ipnotico. Altroquando è una migrazione nel plausibile che si rifà ad alcune teorie in voga all’epoca anche nella Fisica sperimentale, una diffrazione che la mente può causare se adeguatamente stimolata. L’“altrove” che Gibson e sodali hanno immaginato, invece, pensando più alla lettura di un presente in atto che ad una anticipazione del futuro, è uno spazio-limite debitore alla nozione foucaultiana di eterotopia. Un “altro” rispetto all’organizzazione e alla regolazione di differenze tra gli spazi; ovverossia un “altro” rispetto a tutti gli altri spazi.
Ci sono dunque paesi senza luogo e storie senza cronologia; città, pianeti, continenti, universi, di cui sarebbe certo impossibile trovare traccia in qualche carta geografica o in qualche cielo, semplicemente perché non appartengono a nessuno spazio. […] Ora, fra tutti questi luoghi che si distinguono gli uni dagli altri, ce ne sono alcuni che sono in qualche modo assolutamente differenti. Si tratta in qualche modo di contro-spazi. I bambini conoscono benissimo questi contro-spazi, queste utopie localizzate. […]
La società adulta ha organizzato anch’essa, e ben prima dei bambini, i suoi contro-spazi, le sue utopie situate, i suoi luoghi reali fuori da tutti i luoghi. […] (Foucault 2006, 11-13) [5]
1966: alla radio Michel Foucault introduce il termine “eterotopia”. Tra i cinque principi che Foucault individua come elementi essenziali e costituenti di una eterotopia, il primo, e più importante probabilmente, ci avverte che non esiste società che non promuova la sua. L’“altrove” non è soltanto la geografia della conquista europea, dispiegata nel corso di alcuni secoli, che passa sotto il nome di colonialismo – territori e popolazioni da costringere alle volontà distruttive degli Imperi del Vecchio Continente –, ma anche la necessità impellente di collocarsi da un’altra parte, nei posti appartati del desiderio e del sogno. È evidente che Foucault sta pensando a dislocazioni materiali per quanto eterotopiche: il teatro, il giardino, le case di cura, le prigioni; non avrebbe potuto, per la sua stessa formazione e per il contesto socio-culturale nel quale visse, concepire uno spazio digitale e interrogarsi su di esso. Certamente, però, egli enuclea con la consueta precisione del cartografo avvezzo a disegnare mappe di senso alcune caratteristiche fondanti dell’eterotopia che interessano ai fini della nostra disamina. In generale, la regola aurea di una eterotopia sta nel giustapporre in un luogo reale più spazi che normalmente sarebbero incompatibili (Foucault 2006, 18). Quando Case, il pellegrino del “cyberspazio” protagonista di Neuromante, passa dalle mezze ombre di maleodoranti periferie alla fantasmagoria della Rete nella quale “digita” sé stesso, non fa altro che sovrapporre alla consistenza materica del suo mondo la brillantezza della “matrice”, a prescindere dal fatto che quest’ultima appartenga o meno all’ordine dell’esperibile per come ci è stato conculcato.
Quel che è importante sottolineare, ancora sulla scorta delle osservazioni del filosofo francese, è che le eterotopie “[…] hanno sempre un sistema di apertura e di chiusura che le isola nei confronti dello spazio circostante” (p. 23). In ciascuna di esse si accede sottomettendosi a dei riti di purificazione per acquisire la debita legittimità di ospiti. Il “cyberspazio” è proprio questo, a ben guardare, un affrancarsi dal mondo da cui si proviene, fatto di materialità corrotta, attraverso l’iniziazione che si compie collegandosi alla macchina e innescando nel proprio cervello una reazione chimica che consente di “entrare” nel regno del virtuale.
Si arriva così a ciò che c’è di più essenziale nelle eterotopie. Esse sono la contestazione di tutti gli altri spazi, e questa contestazione si può esercitare in due modi: o creando un’illusione che denuncia tutto il resto della realtà come un’illusione […] oppure creando realmente un altro spazio reale tanto perfetto, meticoloso e ordinato, quanto il nostro è disordinato, mal organizzato e caotico. (Foucault 2006, 25)
Si possono, a questo punto, individuare alcune analogie. Una fra le tante, prima di proseguire: abbiamo sollevato poc’anzi la questione della colonizzazione, illusione eterotopica a sentire Foucault. In quell’universo simbolico che è costruzione di senso, il viaggio fisicamente inteso verso i luoghi “altri” è compiuto perlopiù sovrapponendo gli spazi “vaganti” dei mezzi di trasporto, il più noto dei quali è stato la nave. La nave è per la nostra civiltà uno strumento economico di forte impatto e “insieme la maggiore riserva della nostra immaginazione. La nave è l’eterotopia per eccellenza” (Foucault 2006, 28). E in Rete, infatti, “navighiamo”, per ricordare qui l’espressione con cui indichiamo il movimento negli anfratti del non-analogico.
L’eterotopia sviluppa una differenza assoluta, un contro-spazio nel quale la società si riorganizza contraddicendo l’istanza stessa della sua produzione in un assimilarsi di rimandi reciproci. L’eterotopia è, perciò, prodotto degli insiemi sociali che vanno localizzandola in un assoluto “altrove” variamente configurato e spazializzato. L’apporto della tecnologia ha favorito l’insediarsi dell’ultimissima localizzazione esterna/interna a questa comunità sociale, la nostra, che insiste sulla contemporaneità con un addensamento spazio-temporale durante il quale i cicli degli eventi hanno una durata paradossalmente non storicizzabile, perché appartengono simultaneamente al passato, al presente e al futuro. Allora, l’eterotopia scandisce il ritmo di orologi senza regolarità cronografica, è un campo, una serie di campi, del possibile, anteriore e ulteriore insieme, origine e ugualmente fine del processo di composizione dell’alterità del luogo. E basterà ripensare per un istante a La macchina della realtà di Gibson e Sterling (1992), ucronia che descrive uno spazio dell’“altrove” a partire da una diversa evoluzione della tecnica non meno efficace di quella che abbiamo conosciuto nella nostra linea del tempo.
[continua nella Parte 2/2]
di Mario Coglitore (UniVe)
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Bibliografia
Caronia, A. (2008). Il cyborg. Saggio sull’uomo artificiale. Milano: Shake Edizioni.
Coglitore, M. (2016). ““Pandaemonium”. Il telegrafo elettrico come fonte per lo studio della storia contemporanea”, Storicamente, 12, 1-27.
Foucault, M. (2006). Utopie Eterotopie. A cura di A. Moscati. Napoli: Edizioni Cronopio.
Gibson, W. (1986). Neuromante. Milano: Editrice Nord.
Gibson, W. & Sterling, B. (1992). La macchina della realtà. Milano: Mondadori.
Parsons, T. & and Bales, R. F. (1956). Family Socialization and Interaction Process. London: Routledge and Kegan Paul Ltd.
Sterling, B. (a cura di). (1986). Mirroshades. A cyberpunk anthology. Arbor House: London.
Sterling, B. (1990). Prefazione a “Mirroshades”. In R. Scelsi (a cura di), Cyberpunk. Antologia di testi politici. Milano: Shake Edizioni.
Tagliasco, V. (1999). Dizionario degli esseri umani fantastici e artificiali. Milano: Mondadori.
Wiener, N. (1948). Cybernetics, or control and communication in the animal and the machine. Cambridge (MA): The MIT Press.
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Note
[1] Le “ArmadilloCon” sono state organizzate a Austin sin dal 1979 e sono da sempre un punto di riferimento per gli scrittori di fantascienza, non soltanto statunitensi. Quella del 1982 si svolse tra l’1 e il 3 ottobre. È ormai passata alla storia la burrascosa tavola rotonda sul cyberpunk (in quel momento ancora definito “fantascienza punk”), organizzata in quell’occasione e intitolata Behind the Mirroshades: A Look at Punk Sf. Su questo cfr. Mark Dery, Velocità di fuga. Cyberculture a fine millennio, Milano, Feltrinelli, 1997, pp. 106 e ss.
[2] Gibson è nato nel 1948 negli Stati Uniti e vive da molti anni in Canada. Autore acclamato della letteratura fantascientifica, è diventato famoso proprio con Neuromante, considerato il primo romanzo del filone cyberpunk. Vincitore del prestigioso premio Hugo nel 1985, Gibson si è imposto fin da subito come elemento di spicco del Movimento che ha rinnovato, o comunque cambiato profondamente, il modulo narrativo della fantascienza con le sue lucide, quasi oniriche, descrizioni di un futuro dominato dall’informatica e da spietate multinazionali che governano un mondo post-industriale, preda di una sofisticata tecnologia, invaso da droghe, computers, spietati traffici e trapianti di organi umani, mentre tutt’attorno dilaga una sfrenata ricchezza in mano a pochi privilegiati. Numerosi i romanzi al suo attivo dopo Neuromante, da Giù nel cyberspazio (Mondadori, 1990; ed. or. 1986), il suo secondo successo editoriale, a Inverso (Mondadori, 2017; ed. or. 2014), fino al recentissimo Agency (Mondadori, 2021; ed. or. 2020).
[3] Sterling è nato nel 1954 negli Stati Uniti, dove ha vissuto fino a quando nel 2007 si è trasferito in Italia, a Torino. Ha curato nel 1986 l’antologia Mirroshades, nella quale venne definito il filone cyberpunk. Tra le sue produzioni più famose ispirate al genere cyberpunk, ricordiamo La matrice spezzata (Editrice Nord, 1986; ed. or. 1985), Isole nella rete (Fanucci, 1994; ed. or. 1988), La macchina della realtà (con William Gibson e appartenente al genere steampunk, Mondadori, 1992; ed. or. 1990).
[4] Altroquando (Elsewhen) è un racconto lungo di Robert Heinlein scritto in origine nel 1939 e pubblicato con alcune modifiche nel 1941 nella rivista “Astounding Science-Fiction” con il titolo Elsewhere. Nel corso della narrazione si ipotizza che la mente umana, sciolta dalla sua appartenenza alla periferia spaziotemporale del nostro “qui e ora”, riesca a muoversi liberamente nel cosiddetto “multiverso”.
[5] Si tratta del testo di una conferenza radiofonica tenuta da Foucault su “France Culture” il 7 dicembre 1966 in un programma dedicato a utopia e letteratura.
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Manifesto Cyborg. Ieri e oggi
Recensioni / Dicembre 2018La nuova edizione di Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo (Feltrinelli, 2018) raccoglie tre saggi di Donna Haraway, teorica femminista e storica della scienza allieva di Georges Canguilhem. I saggi in questione sono stati pubblicati la prima volta nel 1991, in Italia nel 1994, all’interno di una raccolta dal titolo Simians, Cyborgs and Women. The Reinvention of Nature (Routledge). L’importanza della riedizione di un testo considerato ormai un classico può ricercarsi nella necessità di rivalutare la portata teorica e filosofica della riflessione di Haraway, portata che fino ad ora sembra essere stata scarsamente considerata. Ciò che andrebbe messo in discussione è un inquadramento “specialistico” del testo, che lo vorrebbe di interesse unicamente per chi si occupa di “questioni legate al genere” e, ancora più nello specifico, per chi nella cornice degli studi di genere riflette sui problemi della scienza e della tecnologia. Nella rivalutazione delle implicazioni teoretiche di Manifesto Cyborg è in gioco, più in generale, la riconsiderazione dell’importanza filosofica dei cosiddetti studi di genere e postcoloniali, che normalmente trovano legittimazione solo se inseriti nella cornice dei cultural studies. Il testo di Haraway eccede queste cornici disciplinari, e con le sue incursioni “spregiudicate” nel terreno delle scienze biologiche, biomediche e delle teorie dei sistemi, può essere considerato un’argomentazione a favore della contaminazione come importante strumento di produzione e creatività teorica.
Fin dalle prime pagine di Manifesto Cyborg è chiara l’urgenza teorica e politica che muove la riflessione dell’autrice: la necessità per il femminismo socialista e in generale per gli allora nuovi movimenti di sinistra di ripensarsi, alla luce del confronto con le profonde trasformazioni globali che segnavano il contesto dell’elezione di Reagan alla presidenza degli Stati Uniti negli anni ’80. Il cyborg, protagonista dell’opera, rappresentava provocatoriamente quella peculiare “creatura” contraddistinta da un’intrinseca necessità di evadere ogni forma di pensiero dicotomico, ogni forma di razionalità strutturata intorno a stringenti dualismi, in favore di un nuovo punto di vista in grado di rendere conto di una realtà infinitamente complessa ed eccedente che il suo stesso apparire metteva prepotentemente alla ribalta. A quasi trent’anni di distanza, in cui la modalità dominante di gestione della complessità (sociale, psichica, politica, scientifica) sembra ancora rimanere il riduzionismo, in cui lo scenario pare ancora caratterizzato dal riproporsi di un pensiero dicotomico e dall’intensificarsi delle logiche di dominazione patriarcale, razzista e capitalista connaturate a esso, provare a immaginare un modello di razionalità che non evade la complessità ma che se ne fa carico non si rivela meno urgente. La posta in gioco è l’elaborazione di modalità alternative e sfaccettate di gestione della complessità, rifiutando quindi anche quel pensiero che vedrebbe nella postmodernità il terreno in cui si consuma la crisi della razionalità dominante che non lascia spazio a null’altro se non alla contingenza e alla “differenza” irriducibile, intese come negazione dell’elaborazione teorica e della prassi. Manifesto Cyborg riapre invece con forza l’elaborazione teorica, etica e politica, al cuore della postmodernità e lo fa oggi non meno di ieri.
Lo sguardo attraverso cui Haraway analizza le trasformazioni che segnano il suo tempo è quello che deriva dalla sua storia in quanto biologa: in particolare, l’autrice mette in luce la profonda rielaborazione e ripensamento della biologia in relazione all’emergere di nuovi saperi, quali la cibernetica, le teorie dei sistemi, le scienze della comunicazione e dell’informazione. Il ripensamento della biologia in seguito alla contaminazione con nozioni, teorie e concetti provenienti da queste scienze è stato profondo al punto che, secondo Haraway, si può sostenere che l’“organismo” biologico, come oggetto della scienza, abbia cessato di esistere, e sia stato sostituito da sistemi di comunicazione completamente denaturalizzati. Gli organismi sono quindi diventati artefatti, sempre contingenti, le cui modalità di costruzione non sono vincolate da nessun’architettura naturale. Contemporaneamente, le macchine hanno preso vita: se quelle pre-cibernetiche potevano essere ancora distinte dagli organismi in quanto pensate e costruite dall’uomo, le macchine cibernetiche rendono completamente ambigua la distinzione tra autosviluppo e progettazione esterna (p.43).
Le ondate di denaturalizzazione e de-essenzializzazione che secondo N. Katherine Hayles definiscono il postmodernismo hanno quindi investito anche i corpi biologici: se le prime teorizzazioni degli organismi come sistemi cibernetici riposavano ancora su una concezione olistica e mantenevano intorno a questi un certo involucro, le teorie sociobiologiche di uno scienziato dalla sensibilità postmoderna come Richard Dawkins hanno radicalizzato questa tendenza, rompendo definitivamente con i paradigmi olistici e ripensando l’individualità biologica come costrutto contingente ad ogni livello. Come mettono in luce le escursioni di Haraway nel territorio delle moderne biologie della comunicazione, i processi di decostruzione e ricostruzione dei corpi occupano il centro del discorso, non solamente dal punto di vista del critico culturale o dell’archeologo delle scienze umane, ma anche dello scienziato postmoderno: le biologie moderne si occupano di tecnologie d’inscrizione e codici, di processi di disassemblaggio e riassemblaggio, di sistemi di controllo altamente tecnologizzati. La centralità delle tecnologie di scrittura emerge in modo evidente se si considerano i lauti investimenti direzionati a progetti come quello di mappatura e ricostruzione del genoma umano. Questo progetto emblematizza un “umanesimo postmoderno” in cui la ricerca biologica segnata dalla rilevanza sempre maggiore delle tecnologie d’inscrizione è messa al servizio della tradizionale ideologia umanista e del sogno ad essa associato di poter finalmente definire l’umano, di poter finalmente tracciare un confine netto e chiaro, privo di ambiguità e porosità tra il sé e il non-sé.
Il cyborg, segnalando importanti cedimenti di confine come quello tra macchina e organismo e tra umano e animale, si presenta come figurazione non dicotomica della nostra realtà sociale e corporea, che consente quindi di rompere con i dualismi che hanno strutturato la razionalità occidentale: naturale/artificiale, natura/cultura, uomo/donna, mente/corpo, materia/forma, umano/animale, soggetto/oggetto. Come ci ricorda Haraway, queste non sono mai solo opposizioni dicotomiche: attraverso questi dualismi, la razionalità occidentale ha intrecciato il suo destino a pratiche di dominio e di oppressione legate al genere, alla razza e alla specie.
D’altra parte, il cyborg in occidente è anche espressione di una cultura maschilista e guerrafondaia, che concepisce la vulnerabilità che contraddistingue la dimensione corporea come segno di una “mancanza” costitutiva, a cui far fronte attraverso un progressivo miglioramento delle strategie di difesa. Se le individualità cyborg sono per definizione contingenti e instabili, l’immagine della corsa agli armamenti e della guerra perenne lascia trasparire in filigrana il “telos apocalittico” (p. 41) di un sé finalmente libero da ogni forma di dipendenza. La realizzazione di un sé autonomo e integro, che ha “disassemblato” e digerito ogni forma di eterogeneità e alterità si accompagna al dispiegamento di un apparato di controllo diffuso e capillare, che Haraway indica come “informatica del dominio” (p. 55). Con questa figurazione si vogliono mappare i nuovi inquietanti meccanismi di controllo che attraversano il nostro tempo: alle gerarchie che contraddistinguono il “patriarcato capitalista bianco” (p. 57) si sostituisce un sistema polimorfo e reticolare, che agisce attraverso l’allacciamento di connessioni multiple. Ai vecchi sistemi di controllo centralizzato si sostituisce la delocalizzazione, la decentralizzazione, la diffusione e la moltiplicazione dei centri.
Ma il cyborg è anche un costrutto femminista, e in questo senso elicita possibilità oppositive e liberatorie. Cyborg è quel particolare oggetto di conoscenza e pratica femminista, l’esperienza delle donne, che proprio in quanto fatta oggetto di sapere, è ricostruita come aperta, non finita, contestata, vulnerabile, presa in un gioco di perenne decostruzione e riscrittura. Haraway a questo proposito da particolare importanza ai processi di decostruzione e di de-naturalizzazione che hanno interessato il femminismo in seguito al prendere voce di quelle soggettività, come le donne nere, che sfuggono al sistema di categorie attraverso cui i teorici e le teoriche occidentali hanno tentato di rappresentare il mondo degli oppressi. Questi processi hanno consentito al soggetto femminista di riarticolarsi lungo assi inediti, di immaginare e di praticare nuove forme di unità e di identità al di fuori dell’impianto dicotomico e oppositivo che ha strutturato i miti politici occidentali. La critica post-coloniale ha ricostruito le identità femministe come identità sempre parziali, contraddittorie e problematiche, definite dal non poter essere naturalizzate o essenzializzate. Haraway legge in questo senso la Sister outsider della poetessa nera Audre Lorde (p. 74), ovvero come ricostruzione letteraria dell’identità attraverso l’esclusione, la non appartenenza in quanto eccedenza rispetto a categorie prestabilite. Le identità ricostruite nelle pratiche di scrittura delle donne di colore sono identità sempre contraddittorie e frantumate, prive del privilegio dell’identità a sé, prerogativa dei corpi non marcati come quelli maschili e bianchi. Se i processi decostruttivi e de-essenzializzanti impediscono di radicare la politica nelle identità “naturali”, questo non significa che sia stata minata radicalmente la possibilità di legami: la loro ricostruzione implica politiche dell’affinità, che non ripristinano unità naturali, ma non per questo impediscono legami (parziali ma potenti) e comunità per soggetti postmoderni.
Con l’elaborazione della nozione di “saperi situati” Haraway si inserisce in un altro dibattito che attraversa il femminismo: il rapporto con l’epistemologia e la scienza e, strettamente connesso a questo, il dibattito circa lo statuto dell’oggetto di conoscenza. Proponendo “saperi situati” Haraway intende pensare una versione femminista di oggettività scientifica, che consenta di uscire dalla polarizzazione del dibattito attuale, caratterizzato dal contrapporsi di posizioni radicalmente costruzioniste ed empiriste. La rielaborazione della nozione di oggettività che Haraway propone si appoggia a un ripensamento della metafora della visione. Se quest’ultima ha significato, nella storia della razionalità occidentale, la capacità di alcuni corpi (quelli maschili, benestanti e occidentali) di “smaterializzarsi” in uno sguardo venuto dal nulla mentre si inscrivevano i corpi marcati nel mito, con la nozione di saperi situati assume un significato opposto. L’oggettività e la visione non significano più neutralità e distanza, ma corporeità, parzialità, localizzabilità, impegno e coinvolgimento. (p. 115) L’oggettività ha a che fare non con la scoperta distaccata, ma con la strutturazione reciproca e di solito ineguale; solo saperi parziali, vulnerabili e impegnati garantiscono una conoscenza oggettiva, ovvero che non sia un’illusione. Oggettività e visione non segnalano più un “trucco da dio”, che consente di scomparire arrogandosi il potere di rappresentare senza essere rappresentati, ma diventano modi per stare nel corpo, pratiche di assunzione corporea.
In How we became posthuman, Katherine Hayles sostiene che l’affermarsi di quell’entità chiamata informazione si sia accompagnata a processi di “smaterializzazione” dei corpi, di progressivo abbandono e trascendimento dei vincoli della materialità. L’approccio di Haraway ai mondi alto-tecnologici mostra una realtà più complessa: i corpi radicalmente decostruiti e ricostruiti dalle moderne biotecnologie e dalle scienze informatiche non comportano tanto la smaterializzazione di questi in puri flussi informativi, problemi di codifica e di ricerca di un linguaggio comune che permetta la perfetta comunicazione. Anche l’informazione per Haraway ha una specifica dimensione materiale, così come i testi e i codici, che dovrebbero venire ripensati attraverso la nozione di embodiment. Facendo riferimento alla dimensione corporea, Haraway non si riferisce quindi a una dimensione prettamente biologica: le tecnologie di visualizzazione sono ripensate come sistemi di percezione attivi, nelle quali siamo immersi e con le quali siamo inestricabilmente intrecciati nella costruzione di specifiche forme di vita: un aspetto del nostro embodiment.
Il ripensamento della nozione di corporeità consente ad Haraway di riprendere e al tempo stesso di andare oltre l’analisi biopolitica inaugurata da Michael Foucault, ovvero dell’analisi che fa del corpo l’entità bioculturale per eccellenza e che consente di indagare i rapporti di potere che si concentrano direttamente sul soggetto in quanto entità corporea. La decostruzione della corporeità come sistema di comunicazione tecnologico consente di indagare gli effetti del biopotere oltre la sfera organismica: oggetto delle relazioni di potere non è più un corpo organico e organizzato gerarchicamente, ma sistemi cibernetici completamente decostruiti, assemblaggi ricomposti in modo sempre parziale, costrutti contingenti. Le biopolitiche che interessano corpi ricostruiti come sistemi di comunicazione non sono quelle del sesso e della riproduzione, ma dell’immunità, legate ai processi di replicazione di un sé estremamente vulnerabile e contingente (p.159). Quali tipi di sé vengono costruiti dal discorso sul sistema immunitario? L’intento di Haraway è di risignificare il paradigma immunitario: da dispiegamento di una guerra diffusa e capillare, in cui la replicazione del sé è funzione delle sue strategie di difesa e di attacco di fronte a una minaccia costante di “invasione”, a sistema che “apre” il sé e lo mantiene aperto. In quanto dispiegamento di una rete capillare di blackout e crolli delle comunicazioni, di confusione di confini, il sistema immunitario continuamente “disfa” il sé, mantenendolo contraddittorio ed eterogeneo, impedendone la chiusura e l’autonomizzazione. In questa dimensione riposa la “promessa illegittima” (p. 42) del cyborg: la sua natura artefatta, saltando il gradino dell’unità originaria, impedisce la realizzazione del suo telos apocalittico. In quest’ottica, inoltre, la differenza irriducibile con cui obbligano a fare i conti la postmodernità e i processi a essa inestricabilmente connessi, come quelli di decolonizzazione, non segnala tanto la “morte del soggetto”, come vorrebbero alcuni, ma piuttosto ci costringe a ripensare il soggetto come non isomorfico, auto-contraddittorio e multidimensionale.
di Ambra Lulli
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Nel 1996 Lev Manovich, in polemica con le derive commerciali della computer art, pubblica un articolo su Rhizome in cui contrappone la terra di Duchamp e la terra di Turing: se per il teorico dei nuovi media l’arte dopo Duchamp è sostanzialmente autoreferenziale, autoironica, complicata e orientata al contenuto, quella che utilizza le nuove tecnologie dell’informazione è invece semplice, incentrata sulla forma e rispettosa del proprio medium (qui inteso come dispositivo). Questa divaricazione fra le due terre, però, che in Duchamp Meets Turing Gabriela Galati si pone l’obbiettivo di ricongiungere, si basa su un presupposto dualismo fra contenuto e forma che, opponendo realtà e rappresentazione, rimane incapace di cogliere le modalità performative dell’arte inaugurate da Duchamp ma proprie anche degli ambienti mediali digitali, e considerare così la linea di confine fra le due “terre” come un medium connettivo (e anzi generativo) invece che come un taglio insanabile.
Facendo implodere la costellazione di dicotomie che ha sostanziato la nozione di rappresentazione tradizionale, fondativa del canone moderno e solo apparentemente superata in quello postmoderno, diventa invece possibile cogliere la dimensione incarnata dell’informazione e, per converso, quella informata della materia, ovvero i feedback loop che modulano i collegamenti fra attori umani e non umani in ambienti immersivi e dinamici insieme fisici e virtuali, dove corporeità e cognizione si performano continuamente in relazioni mediate e processi contingenti e distribuiti (pp. 15-16), come ben esemplifica uno dei casi di studio più interessanti scelti da Galati, la performance Excellences and Perfections realizzata su Instagram da Amalia Ulman fra l’Aprile e il Settembre del 2014 (pp. 72-77).Sospesi nella cesura tra originale e copia, segno e cosa, mente e corpo, il Soggetto (un soggetto che sappiamo adesso riconoscere come marcato e posizionato, appartenente alla tradizione umanista e liberale dell’Occidente) l’oggetto e il medium sono rimasti, invece, sostanzialmente divisi. In Duchamp Meets Turing, Galati propone una radicale revisione di una serie di nozioni chiave (ripetizione, simulacro, archivio, incoporazione e medium) che hanno contribuito a produrre questa interminabile catena di duplicazioni adoperate per giustificare “rappresentazionalmente” la rappresentazione – e confluite nella divaricazione fra analogico e digitale, servendosi di alcuni fondamentali antidoti teorici quali la ripetizione o la piega di Deleuze, la différance di Derrida, il postumano di Hayles, o il modello semiotico triadico di Pierce. L’obiettivo dell’autrice non è tanto quello di rintracciare una continuità delle espressioni artistiche negli ambienti digitali, né quello di garantire nuova legittimità al discorso estetico sul digitale, quanto piuttosto quello di scovare il “punto cieco” (p. 18) a partire dal quale l’umano e il macchinico avrebbero potuto ritrovarsi nel mezzo, e invece si sono ritrovati uno di fronte all’altro, pur se – ma solo in apparenza – sembrerebbe sia stato il contrario. Ma immaginare l’umano come una macchina, controllando il passaggio delle informazioni nel corpo per la gestione del suo equilibrio e del suo potenziamento (si veda la prima formulazione della teoria del cyborg di Clynes e Kline (1960), oppure la macchina come un umano, testando fino a che punto può spingersi l’intelligenza di un computer, secondo le interpretazioni prevalenti del test di Turing (la cui iniziale componente performativa e di genere è stata quasi subito assorbita in quella cognitivista-rappresentazionale), sono operazioni che presuppongono entrambe una scissione sostanziale fra l’umano e la macchina, e che possono soltanto contemplare una loro analogia o una loro reciproca sostituzione (con tutte le derive tecnoutopistiche o tecnodistopiche che ciò ha comportato), ma mai la loro coimplicazione (vedi p. 86).
Per Galati, questo punto cieco – che è anche il paradossale punto di vista di nessun soggetto in particolare, ma a partire dal quale ogni soggettività può essere costituita – è proprio il ready-made di Duchamp, che riprendendo la nozione di Lévi-Strauss, l’autrice definisce “significante fluttuante dei media” (p. 148), ovvero un medium vuoto potenzialmente riempibile in modi sempre diversi, piuttosto che qualcosa di fatto e finito stando a una traduzione letterale del termine. Un medium che si presta a spiegare il funzionamento anche dei processi digitali partendo dall’idea di un soggetto e un oggetto emergenti nel mezzo, relazionali e assemblati come quelli che popolano le riflessioni sul postumano e sul cyborg di autori come Haraway, Hayles o Caronia. Nel ready-made, l’opera d’arte si libera finalmente dalla tirannia del referente esterno di cui sarebbe segno e copia, e acquisisice una medialità immanente e radicale, senza punti di partenza né approdi (si veda la recente riflessione di Grusin in proposito).
L’intera operazione duchampiana, che ha nel ready-made il suo fulcro, è una rivolta contro lo statuto retinico dell’arte, che travolge a un tempo l’idea di estetica come contemplazione, di pittura come produzione di oggetti (unici) per un mercato e di spettatore come soggetto esclusivamente guardante, nonché il privilegio della visione (disincarnata) sugli altri sensi. Con Duchamp, l’opera cessa di essere rappresentazione e diventa medium perché il medium scavalca il privilegio del significante e anche del significato come dati nel testo e, passando al contesto, “esplode” (Krauss cit. in Galati, p. 188) facendosi processo – in quanto evento, e non stato, sempre diversamente ripetibile (pp. 62-66). Nell’“indifferenza visiva” del ready-made come opera che non viene fatta il medium non coincide con gli strumenti tecnici della pittura (supporto e pigmenti), come al contrario ribadirà Greenberg sostenendo il primato del significante nell’“esperienza puramente ottica” della pittura, né d’altra parte il ready-made come opera senza autore può essere il contenitore di un messaggio. In tal senso, la difesa duchampiana dell’arte concettuale contro l’arte “animale” come arte che piace più facilmente non va letta come un suo rifiuto della materialità, ma pittosto della piena comunicabilità dei valori che l’arte sarebbe in grado di veicolare una volta per tutte, e del gusto che questi fonderebbero a partire dalla “callistica” dominante.
Duchamp, anzi, definisce coefficiente d’arte il rinvio, lo scarto tra ciò che nell’arte si progetta e ciò che accade, tra intenzione e risultato, ovvero tra controllo e casualità, una nozione che ben si presta a essere letta all’interno di un approccio performativo come quello proposto da Galati, in cui ogni opera è attualizzazione sempre diversa di un “nodo di tendenze” (Lévy cit. in Galati, p. 120) che ne costituisce la virtualità senza fondo. Potremmo dire, allora, che il ready-made esplora il medium come interfaccia, incontro, appuntamento casuale, resi possibili da una trasparenza che, come quella de Le Grand Verre (La Mariée mise à nu par ses célibataires, même, 1915-1923) – tecnicamente non un ready-made ma operante secondo la medesima logica –, non allude a una leggibilità, quanto piuttosto alla necessità dell’attraversamento e del rimando, una trasparenza che partendo dal contesto e attraversando il testo riporta ancora, ma sempre diversamente, al contesto. Trasparenza impura, soggetta al caso che può incrinarla, come effettivamente accadde a Le Grand Verre – opera aperta per eccellenza, mai più riparata né finita – durante un trasporto, o persino opacizzarla, come testimonia Elévage de Poussière di Man Ray, fotografia del 1920 (a sua volta ready-made elevato a potenza) che ci mostra un Vetro appena riconoscibile, in posizione orizzontale e ricoperto da uno spesso strato di polvere. Qui, come anche in un’altra opera “indicale” duchampiana, Tu m’ (1918), la trasparenza si trasforma addirittura in traccia, differimento della presenza, impossibilità dell’origine, direbbe Derrida.
“L’arte è una condizione, una condizione eraclitea di continuo mutamento, no?”, dice Duchamp a Dore Ashton in un’intervista del 1966. Una condizione ready-made, dunque, fluttuante e in divenire, che istituisce lo sguardo (e il suo soggetto) altrove ogni volta, perché sempre già in ritardo o ancora in anticipo rispetto a ciò che è.
di Federica Timeto
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Tra le scuole di pensiero marcatamente connotate dalla presenza di un capostipite fondatore – si pensi alla fenomenologia di Husserl, all’ermeneutica di Heidegger, e alla biopolitica di Foucault – oggi è forse la decostruzione a godere della più vasta pervasività; e non tanto per intensità e clamore mediatico, quanto piuttosto in termini di tacita assunzione e di capillarità. A nostro modo di vedere, ciò è potuto accadere poiché, situandosi a cavallo di istanze epistemologico-metodologiche e di ipotesi ontologiche forti, il pensiero di Derrida ha raggiunto lo statuto di referente teorico ineludibile, sia dal punto di vista dei detrattori sia da quello dei più strenui fautori. Equipaggiando la filosofia di un metodo critico di lettura e riscrittura, così come, al contempo, drenando dai bacini delle filosofie decostruite operatori concettuali dormienti, la decostruzione ha fornito strumenti e spazi di disputa. È divenuta cioè il teatro ideale di animate discussioni, tanto interne, volte ad affinare la lettura degli stessi testi derridiani, quanto esterne, ossia vertenti sulla possibilità o meno di applicare le procedure e le nozioni decostruttive in relazione a prospettive di diverso lignaggio. Ora, è esattamente in direzione di questo doppio binario che si inserisce il recente lavoro di Francesco Vitale, Biodeconstruction. Jacques Derrida and Life Sciences (Suny Press, 2018). Frutto di un’attenta ricerca filologica, capace di coordinare l’approccio storico-ricostruttivo con quello più spiccatamente propositivo, il testo di Vitale si situa a pieno titolo tra i lavori della “scuola” decostruttiva progressista, intendendo con questa espressione quel filone di studi derridiani – di cui Rodolphe Gasché è probabilmente il nume tutelare – impegnati a manifestare fedeltà metodologica alla decostruzione, tramite un’espansione della sua area di operatività. Dopotutto il volume di Vitale, come si vedrà, cerca di assecondare quello che fu l’auspicio stesso di Derrida: preservare la singolarità del gesto decostruttivo tradendone però, di volta in volta, i limiti epistemici.