Esiste un elemento in comune tra una passeggiata, un viaggio in treno o una visita al museo: il paesaggio. Guardato, rappresentato, vissuto, il paesaggio, come da definizione, restituisce e precisa tanto una porzione di territorio quanto un’immagine. Ma dov’è allora la differenza – e quale la sua natura - tra un paesaggio dipinto da Cézanne e un paesaggio che si erge all’orizzonte e si percorre con i sensi durante un’escursione? Questo il primo quesito con cui si apre il libro di Justine Balibar, dottoressa e professoressa di filosofia, Qu’est-ce qu’un paysage?, edito da Vrin nel 2021.
Il termine paesaggio è intendibile in due sensi: uno realista, l’altro iconico. La differenza sostanziale, specifica nelle prime pagine Balibar, è data dalla « situazione spaziale del soggetto percettore in relazione allo spazio percepito » (trad., p.8). Nel caso del paesaggio rappresentato, il soggetto si posiziona in uno spazio distinto rispetto a quello che percepisce; una fotografia, un quadro e, più generalmente un’immagine, racchiudono uno spazio a due dimensioni – delimitato da un’eventuale cornice o bordo – sottolineandone la lontananza e l’inaccessibilità fisica e ontologica; « noli me tangere » sarà l’ordine costitutivo del paesaggio rappresentato. Al contrario, il paesaggio reale circonda il soggetto che si situa e si muove all’interno dello spazio percepito, trovandosi in una relazione di continuità con esso. Ne consegue dunque, seguendo il ragionamento di Balibar, che il paesaggio rappresentato e quello reale rilevano due spazialità distinte da cui dipendono due esperienze estetiche differenti: « da una parte, spiega la filosofa, l’esperienza contemplativa della percezione di uno spazio separato dal nostro, uno spazio al di fuori del quale siamo situati, dall’altro l’esperienza immersiva o integrativa della percezione di uno spazio in continuità con il nostro, uno spazio in cui siamo situati.» (trad., p.11). Inoltre, rispetto al paesaggio rappresentato, quello reale mette in gioco non soltanto un’esperienza estetica della percezione – dall’aisthésis greca, esperienza fondata sulla percezione sensibile – ma anche da un’esperienza pratica del movimento, dell’attività fisica del corpo nello spazio.
Poste queste prime differenze, quali rapporti intrattengono il paesaggio reale e quello rappresentato? Si possono pensare a dei legami di interdipendenza tra questi due paesaggi? Per rispondere a queste domande, Justine Balibar ripercorre la storiaetimologica della parola ‘‘paesaggio’’ cercando di contestualizzarne l’uso lessicale e di comprendere l’origine della confusione contemporanea tra i sensi, realista e iconista, del termine. Per una curiosa inversione del rapporto che vorremmo spontaneamente instaurare tra la realtà e la sua rappresentazione, ai nostri giorni, osserva Balibar, l’idea di paesaggio, inteso nel suo senso realista, è stato contaminato dall’idea della rappresentazione « come se il paesaggio reale dovesse essere sempre compreso e percepito in termini di paesaggio rappresentato, o addirittura come se, alla fine, esistesse solo un paesaggio rappresentato » (trad., p.12). L’origine? Il topos iconista, secondo cui il paesaggio rappresentato eserciterebbe un’ascendenza sul paesaggio reale. Complici di questo pensiero sono la teoria settecentesca del pittoresco e, nell’età contemporanea, i teorici del paesaggio come Augustin Berque (1995), Anne Cauquelin (2004) e Alain Roger (1978 ; 1997). Questo primato tradizionalmente attribuito al paesaggio rappresentato rispetto al paesaggio reale è inteso nel senso di una precedenza cronologica e logica. Secondo Alain Roger l’esistenza di rappresentazioni paesaggistiche, nella sua prima formulazione rinascimentale, avrebbe permesso la costituzione di un metodo di percezione e apprezzamento dei paesaggi reali in natura; un fenomeno che l’autore chiama “artialisation”, sottolineando il ruolo cruciale dell’arte nella formazione del nostro modo di osservare e considerare il paesaggio. Sulla stessa linea di pensiero, la teoria di Anne Cauquelin sostiene che il Rinascimento ha visto l’avvento di un nuovo genere pittorico - la pittura di paesaggio - che avrebbe sviluppato il nostro senso e la nostra cultura del paesaggio, determinando così la nostra capacità a percepirli e apprezzarli. Un po’ provocatoriamente, si potrebbe ribattere, con Justine Balibar, che prima della comparsa della pittura di paesaggio, non ci sarebbe stato alcun paesaggio nel mondo reale; detto altrimenti, non saremmo stati in grado di sperimentare i paesaggi nel mondo fisico né tantomeno di apprezzarne la bellezza.
Per discutere e confutare la teoria del primato del paesaggio rappresentato su quello reale, Balibar inizia con il criticare la teoria dell’anteriorità cronologica del paesaggio rappresentato rispetto al paesaggio reale. A difesa della teoria viene spesso avanzata un’argomentazione di natura lessicale, che relaziona l’origine del paesaggio con l’origine della parola “paesaggio”, nata durante il periodo rinascimentale nel gergo pittorico, per designare innanzitutto una rappresentazione del territorio prima del suo aspetto reale. Una prova argomentativa di duplice debolezza : in primo luogo, afferma l’autrice, questa teoria semplifica eccessivamente il complesso sviluppo etimologico della parola “paesaggio” e, in secondo luogo, ne riduce il concetto al suo corrispettivo terminologico.
Per rispondere a questa argomentazione, Justine Balibar si sofferma, per diverse pagine, a seguire la storia etimologica, complessa e intricata, del termine “paesaggio”, comparandolo ai suoi equivalenti europei, occupandosi poi di distinguere il livello lessicale da quello concettuale. Esistono, infatti, altre parole oltre a ‘‘paesaggio’’ che traducono il concetto, sia in francese che in altre lingue europee: l’inglese ‘‘prospect’’, il francese ‘‘contrée’’, l’italiano ‘‘contrada’’, tutti termini che designano inequivocabilmente il territorio così come si dispiega davanti a noi e si offre alla nostra vista. Non c’è bisogno, quindi, della parola ‘‘paesaggio’’ per esprimerne il concetto e neanche di parole o espressioni legate ad un contesto pittorico : né ‘‘prospettiva’’, né ‘‘contrée’’ o ‘‘contrada’’, né ‘‘facies locorum’’ o ‘‘forma regionis’’ provengono originariamente dal registro della rappresentazione pittorica. Inoltre, il ricorso all’argomento lessicale tende a nascondere tutto ciò che è paradossale nell’affermazione di un’anteriorità cronologica del paesaggio rappresentato rispetto a quello reale. Questa affermazione sembra controintuitiva perché contravviene al rapporto che siamo spontaneamente tentati di stabilire tra realtà e rappresentazione, tra modello e copia; non dovremmo essere in grado di percepire e apprezzare i paesaggi nel mondo reale, prima di poterli rappresentare su una tela? Si chiede Balibar. E ancora, un paesaggio non dovrebbe esistere realmente prima di poterlo fotografare?
Riprendendo gli esempi descritti da Philippe Joutard (1986), Balibar ricorda l’abbaglio di Dürer, durante il viaggio a Venezia del 1494, davanti alle forme e ai contrasti delle Alpi, che gli fornirono numerosi soggetti per disegni e dipinti. Allo stesso modo Brueghel, al tempo del suo viaggio in Italia del 1551, si soffermò tra i paesaggi alpini che ispirarono la valle montana ne Cacciatori nella neve. E lo stesso Leonardo da Vinci, con la sua profonda conoscenza del paesaggio dell’Italia settentrionale, dalla campagna agricola della pianura padana alle montagne lombarde, evoca nei suoi scritti le contemplazioni paesaggistiche.
Di fronte a questi esempi, si potrebbe certamente obiettare che se Dürer, Brueghel o Leonardo si dimostrano capaci di vedere e apprezzare paesaggi reali, è proprio perché li vedono con ‘‘l’occhio del pittore’’. Sembrerebbe non esserci una via d’uscita: chiedersi se viene prima il paesaggio reale o il paesaggio rappresentato, è il paradosso dell’uovo e della gallina. Per risolvere la questione, Balibar si discosta da una prospettiva unicamente cronologica e storica, interrogando in modo approfondito la natura del concetto di paesaggio. Porre la questione in termini genealogici, scrive la filosofa, « porta a un vicolo cieco, perché la questione è insolubile a meno che non si difenda una posizione ingenua - i pittori devono aver percepito i paesaggi reali prima di rappresentarli nei loro dipinti - o paradossale - nessun paesaggio reale prima del Rinascimento e dello sviluppo della pittura di paesaggio » (trad., p.23).
La seconda parte del riflessione di Balibar, inizia riproponendo la distinzione con cui esordiva il suo testo: il paesaggio rappresentato è un’immagine, il paesaggio reale è un ambiente fisico. Considerazione che permette di evitare di cadere nell’illusione iconista e confondere il paesaggio reale con le sue rappresentazioni, « la chose avec l’image de la chose » (p.30). A questo proposito, l’estetica ambientale che si è sviluppata nel mondo anglosassone a partire dagli anni Sessanta con autori come Ronald Hepburn (1966), John Baird Callicott (1983; 1994), Allen Carlson (1979; 1981), Emily Brady (1998; 2003), Arnold Berleant (1992) e Noël Carroll (1993), offre preziose risorse teoriche per pensare al paesaggio come ambiente e al tipo di esperienza estetica a cui si presta. Il gesto decisivo dell’estetica ambientale consiste nel difendere una definizione naturalistica dell’ambiente, riconoscendolo come uno spazio fisico polisensoriale e tridimensionale, radicalmente distinto da un’immagine. Tuttavia l’estetica ambientale non è un’estetica del paesaggio: « Per comodità, spiega Balibar, i filosofi dell’estetica ambientale, preferiscono parlare di ‘‘ambiente’’, di ‘‘natura’’ o di ‘‘territorio’’ piuttosto che di ‘‘paesaggio’’, il quale possiede ancora connotazioni artistiche o iconistiche, marcate » (trad., p.35). La nozione di paesaggio reale non si sovrappone a quella di ambiente, ma vi è inclusa. Il paesaggio è infatti un tipo di ambiente con determinate caratteristiche proprie che lo distinguono da altri tipi di ambienti.
Se i teorici dell’estetica ambientale non si sono interessati alla specificità degli ambienti paesaggistici in relazione ad altri tipi di ambienti, altri autori, provenienti da diverse tradizioni teoriche, hanno preso in considerazione questa questione. È il caso del filosofo italiano Rosario Assunto, che definisce i paesaggi reali come ambienti la cui caratteristica principale è l’apertura spaziale : gli ambienti paesaggistici sono ambienti aperti, in contrapposizione ad ambienti chiusi e confinati come un giardino o un sottobosco. Al contempo, l’apertura si oppone all’illimitatezza o a tutto ciò che, per immensità, supera le capacità di sintesi percettiva di un soggetto umano: l’Universo, la Terra, un Paese intero o persino un’immensa regione sono ambienti troppo vasti per essere percepiti nel loro insieme, ossia per poter costituire un paesaggio in sé. L’apertura che caratterizza in modo specifico l’ambiente paesaggistico lo colloca in una posizione intermedia tra gli ambienti chiusi e confinati e gli ambienti sproporzionati o illimitati. Continuando l’analisi di Assunto, possiamo dire che l’apertura non è la semplice dimensione spaziale. Affinché uno spazio sia aperto quest’ultimo deve estendersi tra due punti: tra il vicino e il lontano, tra il punto di vista a cui è ancorato il soggetto che percepisce e il punto di fuga fino al quale la sua percezione può spingersi. Il paesaggio si apre fino al punto in cui lo si può attraversare (visivamente o fisicamente), ma anche dal punto in cui ci si colloca nello spazio e lo si percepisce.
Date queste condizioni, il paesaggio, come ambiente aperto, presuppone un tipo particolare di esperienza, sia dal punto di vista del funzionamento percettivo che dell’articolazione della percezione rispetto al movimento. Il corpo è coinvolto interamente nella misura in cui è in grado di muoversi e percepire il paesaggio attraverso una pluralità di sensazioni, non solo visive, ma anche tattili, cinestesiche, olfattive e uditive, persino gustative. Nel momento in cui il corpo del soggetto che percepisce è in movimento nello spazio che contempla, la visione del paesaggio non è più autonoma: il movimento rende possibile una variazione costante degli angoli di visuale e, di conseguenza, una moltiplicazione indefinita delle vedute del paesaggio. I punti di vista si susseguono fondendosi l’uno nell’altro senza determinazione di un punto di vista privilegiato; il paesaggio reale, basandosi su una percezione in movimento, non è una vista o una serie di viste discontinue come il paesaggio rappresentato, ma è un continuum visivo. Il movimento è quindi una condizione specifica della visibilità del paesaggio reale e della sua leggibilità per lo sguardo del soggetto che percepisce. Per riassumere, citando la filosofa Balibar : « L’esperienza dei paesaggi reali lascia una grande libertà estetica al soggetto, a differenza del paesaggio rappresentato, che impone una cornice e un atteggiamento. Spetta al soggetto comporre la propria esperienza, nella molteplicità delle possibilità che gli vengono offerte. Tuttavia, una maggiore attenzione permette di determinare modalità di movimento e di sperimentazione più appropriate di altre, a seconda della tipologia di paesaggio - camminare o arrampicarsi in alta montagna, utilizzare l’automobile nei grandi spazi delle Badlands americane » (trad., p.57).
Come ogni esperienza, anche quella del paesaggio reale è condizionata da un certo contesto culturale, non esclusivamente di natura artistica. La cultura che guida e modella la nostra comprensione dei paesaggi reali non è fatta solo di immagini di paesaggi, ma comprende anche un’intera gamma di altre pratiche non artistiche e non rappresentative, a partire dalle tecniche e dalle pratiche fisiche che ci permettono di muoverci all’interno dei paesaggi, fino alle conoscenze teoriche che ci permettono di capire e interpretare le percezioni di un paesaggio. Le rappresentazioni del paesaggio sono quindi solo un aspetto di una cultura del paesaggio più ampia ed eterogenea, e sembra difficile in queste circostanze concludere che i paesaggi rappresentati abbiano una precedenza assoluta sui paesaggi reali.
Per concludere la sua riflessione sulle differenti declinazioni del concetto di paesaggio, Justine Balibar si allarga a delle problematiche che trascendono quelle puramente estetiche. A questo proposito intraprende un’analisi del ciclo di affreschi di Ambrogio Lorenzetti Allegoria ed effetti del buono e del cattivo governo (1338) considerato da taluni come il primo paesaggio dell’arte occidentale, esempio della circolazione tra reale e rappresentazione, che caratterizza l’estetica paesaggistica occidentale, e interessante in quanto introduce un’altra dimensione fondamentale e costitutiva del concetto di paesaggio: la sua dimensione socio-politica.
Situato in un luogo pubblico e politico, al Palazzo Pubblico di Siena, seggio del governo della commune, l’affresco è di chiara vocazione politica e non meramente estetica. L’affresco, richiesto a Lorenzetti dalla governo dei Nove in un momento di grande instabilità politica e sociale, rende pubblico e accessibile a tutta la popolazione un messaggio politico complesso sulla questione del bene comune. Con il suo affresco, sottolinea Balibar, Lorenzetti presenta il paesaggio come « l’incarnazione territoriale di una politica, di un governo, di un vivere insieme » (trad., p.67). Il paesaggio diviene cosi non solo uno spazio particolare da percepire, ma soprattutto uno spazio particolare da vivere, abitare e modificare all’interno di una comunità attiva. La cultura del paesaggio è infatti cultura del façonnement (Jackson, 2003; Besse, 2009): il paesaggio si modifica attraverso tutte le attività che costituiscono la nostra cultura e, molto spesso, sono il risultato di scelte politiche. Le trasformazioni del paesaggio dipendono da decisioni politiche di una collettività più o meno grande, tanto sul piano sociale che sul piano economico o ambientale.
Da questo punto di vista allora, specifica Balibar, il paesaggio rappresenta una necessaria articolazione tra la contemplazione estetica e l’interesse pratico. La filosofa conclude la sua riflessione con una citazione di Rosario Assunto : « “il paesaggio è una realtà estetica che contempliamo mentre viviamo in esso”. Perdere questa dimensione d’attività vitale e pratica all’interno del paesaggio, vorrebbe dire prendere il rischio di impoverire considerabilmente l’esperienza estetica del paesaggio » (trad., p.69). Dovremmo forse considerare nelle attuali politiche ambientali e nel nostro modo di concepire il paesaggio, la suggestione del Lorenzetti e del suo “buon governo”.
In appendice, Balibar inserisce e commenta due testi che risultano essenziali per comprendere meglio il significato, per la cultura occidentale, del concetto di paesaggio, e le tensioni tra quello reale e rappresentato, offrendo due modelli esemplificativi presi da due contesti storici molto lontani tra loro. Il primo è “La Promenade Vernet” Ruines et paysages. Salon de 1767 di Diderot, un testo che, per riassumere, lontano dal ridurre il paesaggio all’arte del paesaggio secondo un’ottica “artialisante”, propone un’estetica pittoresca, stabilendo un rapporto di reciprocità tra pittura e realtà, « un passaggio poetico dall’uno all’altro e viceversa, poiché si può passare dal modello pittorico alla visione della realtà e da quest’ultima al disegno» (trad., p.100).
Il secondo testo, invece, è tratto dal primo capitolo del volume di Rosario Assunto, Il paesaggio e l’estetica (2005), in cui il filosofo definisce il concetto di ‘‘metaspazialità paesaggistica’’, riassumibile in tre caratteristiche: da un punto di vista puramente spaziale, il paesaggio è uno spazio contemporaneamente limitato e aperto; questo spazio è iscritto in una temporalità naturale e non storica e la sua percezione estetica coincide con quella ecologica (inteso in senso largo), nella misura in cui il soggetto è tanto attore quanto spettatore del paesaggio in cui vive. L’idea che sviluppa Assunto sotto il termine di metaspazialità è, secondo Balibar “essenziale e inevitabile”, per tutta l’estetica dei paesaggi reali : il paesaggio è un ambiente con qualità estetiche che si rivolgono alla nostra sensibilità, ma è soprattutto realtà nel quale e grazie al quale viviamo. Ed è in questa intersezione che la posizione estetica ed ecologica si raggiungono: « la realtà da contemplare è anche realtà vitale, da preservare » (trad., p.124). In conclusione alla sua riflessione filosofica, Justine Balibar sottolinea quanto la critica del paesaggio contenga le possibilità di sviluppare un’attitudine etica orientata alla salvaguardia dei paesaggi. Fare allora della critica paesaggistica una militanza in favore del paesaggio o, per utilizzare un’espression di Brunon (2002), proporre una «critica in azione» (trad., p.124).
Ciò che più si avvicina all’idea di consapevolezza ecologica è un senso di intimità, piuttosto che il senso di appartenere a qualcosa di più grande: la sensazione di essere vicini, anche troppo vicini, ad altre forme di vita, di averle sottopelle. (Timothy Morton)
I saggi raccolti nella pubblicazione Ecologie complesse. Pensare l’arte oltre l’umano (Meltemi, 2021) a cura di Gabriela Galati, tracciano possibili strade per accordarsi al non-umano, offrendo spunti per un superamento della visione antropocentrica che riguarda nello specifico l’arte, la pedagogia, la musica, la pratica curatoriale e quella archivistica.
La raccolta si apre con “Il curatore animale”, testo in cui Edith Doove propone un curioso rovesciamento di prospettiva: esplorare l’attività umana della curatela di mostre come pratica animale, collocando l’essere umano a livello dell’animale e non viceversa. L’esempio citato dall’autrice è quello dell’uccello giardiniere che assembla rami per costruire pergolati, decorandoli con materiali e scarti variopinti. Diversi zoosemiotici riconoscono infatti che alcuni uccelli hanno un senso estetico, sia visivo sia musicale, che permetterebbe di rompere la presa antroposemiotica sull’arte (G. Genosko, 2002). Questo spostamento è proposto dall’autrice attraverso un’analisi della questione del linguaggio, passando per Jacques Derrida e Cary Wolfe, per approdare al concetto di infrasottile - una presenza che c’è ma sfugge -derivato da Marcel Duchamp e qui suggerito come possibile approccio all’alterità: uno strumento per “vedere artisti e curatori come uccelli”. Il concetto di infrasottile in relazione al mondo animale non-umano mi riporta agli studi sul mimetismo di Roger Caillois. Tra i comportamenti classificati dall’accademico francese, il mascheramento (differenziato dal travestimento e dall’intimidazione) è individuato come l’atteggiamento attraverso il quale l’animale giunge a confondersi con l’ambiente. Particolarmente suggestivo è il caso delle conchiglie della famiglia Xenophoridae (xénos, straniero, estraneo; phéro, portatore) la cui caratteristica è quella di inglobare altri gasteropodi, bivalvi, sassolini e detriti vari, raccolti sul fondo del mare, assumendo su di sé elementi dell’ambiente circostante. Il gasteropode Xenophora attua un comportamento mimetico le cui finalità rimangono ipotetiche, certa è invece l’intenzionalità – potremmo dire la cura - con cui l’animale unisce e dispone sul proprio corpo i materiali scelti.
Non stupisce che sia proprio la tecnica del collage a caratterizzare la ricerca artistica di Eva Kot’átková (Praga, Repubblica Ceca, 1982) citata nel saggio di Federica Fontana: l’artista assembla e ricombina materiali - frammenti di corpi, animali, elementi architettonici, oggetti, sogni – aprendo uno spazio su mondi non antropocentrici. La ricerca di Eva Kot’átková esplora le dinamiche di controllo e di istruzione, il potenziale comunicativo dei gesti e il mondo infantile, trasformando spesso forme oppressive (dispositivi contenitivi o correttivi) in espressive. La capacità di creare e diffondere conoscenza attraverso la comunicazione è da sempre considerata una facoltà esclusiva dell’uomo: l’educazione è ciò che ha distinto l’uomo dal resto del vivente. Federica Fontana suggerisce alcune strade per un decentramento antropologico al fine di sostenere una pedagogia postumanista, che richiede innanzitutto una nuova concezione di soggettività. Il saggio Per un’educazione non antropocentrica. Elementi di postumanesimo nell’arte di Eva Kot’átková ne delinea i tre aspetti fondamentali: la crisi del soggetto-persona, un’inclusione del non umano che non sia più subordinante o strumentale ma paritetica e interconnessa, e una prospettiva che tenga conto delle relazioni simboliche e materiali che l’uomo instaura con ambiente e oggetti. L’idea che sostiene tutte queste teorie è quella di un’educazione concepita come «un assemblaggio socio-materiale complesso e imprevedibile di umano e non umano che genera effetti di strutturazione e de-strutturazione della personalità» (A. Ferrante, 2013). Emblematico in questo senso è il processo di umanizzazione di utensili di uso quotidiano che Eva Kot’átková propone attraverso il lavoro Theatre of speaking objects (2013), un’installazione di oggetti in grado di comunicare con la voce.
L’idea di oggetto come entità transitoria e mutevole è parte della ricerca artistica di Pierre Huyghe (Parigi, 1962), la cui produzione espositiva è concepita come una presentificazione, un esaudirsi, di sistemi viventi: la mostra diviene un organismo pulsante su cui l’artista cessa di avere controllo, aprendo all’incidentale e all’imprevisto. Nel saggio L’esposizione oltre l’umano, coesistenza e simpoiesi nel lavoro di Pierre Huyghe, Vincenzo Di Rosa indaga quella “grammatica” dell’exhibition-making in grado di superare l’antropocentrismo e di abbracciare una forma di relazionalità pienamente postumana. L’autore definisce innanzitutto il concetto di mostra come “dispositivo” in grado di generare un vero e proprio potere espositivo, attraverso la capacità di modellare e orientare l’esperienza spettoriale. Ripercorrendo la definizione di “regime di separazione” di Dorothea Van Hantelmann, come netta opposizione tra soggetti e oggetti all’interno dello spazio-mostra, Vincenzo Di Rosa individua le premesse che hanno condotto a un modello antropocentrico dell’esposizione. Emblema di questo regime è il white-cube modernista, basato sull’esclusione del mondo esterno e sull’annullamento della relazione spazio temporale. La decostruzione del “regime di separazione” è possibile mediante un’opposizione non più gerarchizzata tra i vari elementi dell’esposizione e assegnando al soggetto-spettatore solo un posto tra gli altri (D. V. Hantelmann, 2011). Vincenzo Di Rosa individua nella produzione espositiva dell’artista francese un esempio di superamento del “regime di separazione” e di affermazione di una “scrittura ecologica”, in cui si realizza un generale principio di coesistenza tra entità. La pratica di Huyghe mi consente un breve collegamento con quella “pedagogia del non volere” (Daniel Charles, 1972) argomentata e sperimentata da John Cage attraverso il tema del lasciar-essere, sostenendo un distacco progressivo nei confronti della volontà. Nel settembre 1958 Cage avvia la stesura di un testo per un convegno a Bruxelles, che concepisce come una conferenza di soli aneddoti della sua vita (l’idea è di leggere ciascuna storia in un minuto):
«Mettendo insieme questi aneddoti in maniera non programmata, intendevo suggerire che tutte le cose, le storie, i suoni casuali dell’ambiente, e per estensione gli esseri, sono collegati, e che questa complessità è più evidente quando non è ipersemplificata da un’idea che alberga nella testa di una persona».
Questa riflessione, applicata a qualsiasi interrelazione tra entità, consente di esprime quella condizione di coesistenza su cui si edifica anche il lavoro di Pierre Huyghe, definito da Vincenzo Di Rosa come «un universo senza cose, un enorme campo di eventi a intensità variabile».
Potremmo dire che gli artisti tentano una riconfigurazione dell’esistente permettendoci di accedere a nuove possibilità di relazione con l’altro da noi. Quale ruolo assume la materia all’interno di questo processo di riconfigurazione? Alberto Micali e Nicolò Pasqualini, nel saggio Estetica Posthuman. Percezione e relazionalità, mappare il campo tramite la lente del postumanesimo critico, propongono un approccio all’ambito delle pratiche artistiche da una posizione postumanista attraverso un’analisi guidata dai concetti di relazionalità e percezione.
«Il nostro principale obiettivo è quello di proporre una narrazione, un percorso di possibilità, una mappa per un’estetica posthuman. Una mappa che sia capace di intuire le modalità chiave mediante cui, nel processo artistico-creativo, la materia non-umana trasmuti in un componente attivo e co-determinante anziché passivo e accessorio».
Citando l’indagine di Donna Haraway e di Karen Barad sulla distanza concettuale tra riflessione e diffrazione, Micali e Pasqualini enucleano quelle fondamentali differenze che permettono di non inciampare in un’estetica umanista del post-human, ovvero in un’estetica riflessiva che rifortifica la superiorità dell’animale umano evadendo una possibile contaminazione e mescolanza con l’alterità. Un atteggiamento diffrattivo, anziché rappresentazionalista e riflessivo, permette di evitare il solo apparire delle differenze tra noi e l’altro non umano al fine «di pensare le pratiche socio-culturali in modo performativo» (K. Barad, 2007). Il processo artistico, da manipolazione demiurgica, trasmuta divenendo il deposito enattivo ed emotivo dello stratificarsi, del contaminarsi e del congiungersi di molteplici alterità in rapporto fra loro; molteplicità in relazione che restituiscono una concezione postumanista dell’accoppiarsi tra homo e res (A. Micali, N. Pasqualini).
Eva Kot’átková, Diary n.2 (I-Animal), 2018 (dettaglio). Commissionata e prodotta da Pirelli HangarBicocca, Milano. Courtesy dell’artista. Foto: Agostino Osio
Massimiliano Viel, nel saggio Musica umana, ascolto postumano, pone un quesito fondamentale: cosa riconosciamo come musica che ci parla di un possibile senso del postumano musicale? Partendo da una prima ipotesi di accostamento tra postumano ed extramusicale - in quanto “irruzione della diversità, nella forma di oggetti del mondo introdotti attraverso un processo mimetico sonoro nella pratica musicale” – l’autore smonta e rimonta le possibili strade per un approccio non umanista, attraverso la citazione del lavoro di Eric Satie, Brian Eno, Murray Schafer, Oliver Messiaen, Iannis Xenakis, Karlheinz Stockhausen e uno studio dell’etnomusicologo Anthony Seeger. Ma è svincolandosi dalla definizione di musica – attraverso la pratica di John Cage - che Massimiliano Viel individua un possibile approccio in termini postumani, identificando nel processo di ascolto l’elemento caratterizzante di «tutte le pratiche musicali e di comunione con soggetti di culture lontane, bambini in età prelinguistica e animali non umani». Essendo inoltre l’ascolto un processo di riconoscimento, è intrinsecamente legato al concetto di attenzione e memoria. Ecco allora che un ascolto come eredità della musica umanista, se vuole avvicinarsi al postumano, deve evitare di adagiarsi sulle esperienze d’ascolto accumulate: si tratterà quindi di ricercare un ascolto intransitivo, in grado di riconfigurare attenzione e memoria. Come esempio di una pratica d’ascolto aperta alle tematiche del postumano viene citata la passeggiata sonora (soundwalk) in grado di stimolare nei partecipanti lo sviluppo di una sensibilità verso i suoni circostanti: qui si esaudisce ed esplora la relazione tra orecchio, il nudo orecchio, e ambiente (H. Westerkamp, 2006). Torno qui a Marcel Duchamp e al concetto di infrasottile: tra gli esempi che l’artista cita nel definire questa categoria di elementi al limite del percettibile, vi si ritrovano anche «il rumore o la musica prodotti da un pantalone di velluto a coste mentre si respira».
Il saggio L’archivio come pratica etica del vivente di Gabriela Galati, chiude la raccolta con un’argomentazione attorno al concetto di archivio come pratica che modella la vita (a life-making practice) e strumento di relazione. Il ragionamento si sviluppa attraverso una lettura dei fenomeni di estinzione e di de-estinzione, citando l’approccio femminista di Joanna Zylinska e il suo concetto di “controapocalisse”, per proporre l’archivio come un modo per comprendere la de-estinzione in chiave etica. Citando le considerazioni di Cary Wolfe e di Ashley Dawson, Gabriela Galati articola una riflessione che muove dall’impossibilità di definire il concetto di natura, identificando nella condizione di finitudine legata alla morte l’elemento che accomuna tutti gli esseri senzienti. La precarietà e l’idea di finitudine conducono al pensiero di Jacques Derrida, di cui l’autrice cita nello specifico i due articoli Freud e la scena della scrittura e Mal d’archivio. Un’impressione freudiana, associando archivio-inconscio e ripercorrendo i concetti di “domiciliazione” (che segna la possibilità di accedere all’archivio passando da privato a pubblico) e di “potere di consegna”, non nel senso di depositare ma nel senso di “consegnare riunendo segni” (ovvero di archivio come ri-unione). Il saggio si conclude con un ulteriore passaggio derridiano, volto a riflettere sull’esternalizzazione dell’archivio in termini di memoria protesica, e con un invito dell’autrice a valutare la scena di responsabilità entro cui ci muoviamo: una responsabilità verso la memoria che stiamo preservando e l’agentività dell’archivio stesso, da intendersi come strumento di modellamento della realtà passata, presente e futura.
Pierre Huyghe, Untilled, 2011–2012, veduta della mostra, Kassel, 2012. Courtesy dell’artista; Galerie Marian Goodman, New York /Paris; Esther Schipper, Berlin
Vorrei concludere con una breve riflessione che mi permetta di ricapitolare – e di rilanciare - alcune delle tematiche proposte, attraverso un campo di ricerca non espressamente trattato nella pubblicazione: la fotografia. Quale ruolo assume la riproduzione del reale, attraverso il mezzo fotografico, nel nostro relazionarci con ambiente e oggetti? Riprendendo gli studi di Elio Grazioli sulla relazione tra opera d’arte e immagine, e nello specifico il rapporto tra Duchamp e la fotografia, quest’ultima – accanto al readymade - viene indicata come quel medium capace di “interrogare lo statuto del reale stesso” (E. Grazioli, 2017). In questi termini è molto prezioso il pensiero di Jean-Christophe Bailly (2010), ripreso dallo stesso Grazioli, in merito alla fotografia, definita come «Fragile segno di esistenza, fragile segno indicante che qualcosa è esistito prima che marcasse, la fotografia (…) agisce direttamente e silenziosamente come ciò che sa o può far echeggiare l’intimo delle cose».
L’arte, la pedagogia, la musica, la pratica curatoriale e quella archivistica, la fotografia, sono campi di ricerca e attitudini discrete: come presenze “vicine” ci affiancano, partecipando al quotidiano scambio con l’alterità. Problematizzare, decostruire e ripensare queste pratiche in termini postumani, come proposto nella pubblicazione qui recensita, significa innanzitutto riposizionarsi all’interno di questi sistemi ecologici, con uno sguardo che sappia coglierne la complessità fino a restringere il campo sul piccolo, il microscopico, l’intimo, l’infrasottile.
di Roberta Perego
Bibliografia
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Il tema dell’ornamento sta al centro del numero 162 dei Cahiers philosophiques, pubblicato da Vrin nel terzo trimestre del 2020. Il volume non pretende di offrire un’analisi sistematica del suo oggetto d’indagine: piuttosto, mimando la natura poliedrica e irriducibilmente ambigua dell’ornamento stesso, il numero di rivista mette in scena una serie di interventi in cui temi e problemi ritornano e variano da un contributo all’altro, affrontando la questione dell’ornamento da prospettive diverse, che talvolta s’intersecano, e partendo da casi sempre specifici e singolari.
Ad aprire il volume è l’articolo di Bernard Sève, in cui l’indagine viene condotta da un punto di vista ontologico. Una storia e teoria dell’ornamento a cavallo tra diciottesimo e diciannovesimo secolo è invece offerta da Claire Pacquet, la quale rivolge la propria attenzione alla querelle berlinese che ha visto tra i suoi protagonisti autori del calibro di Moritz e Goethe. Marie Schiele, con un testo sul panneggio in Aby Warburg, e Rémi Labrusse, con un intervento dedicato all’arabesque, in maniere diverse mostrano come l’ornamento possa andare a perturbare il regime rappresentativo occidentale. Il testo di Aurélie Ledoux si articola invece intorno a questioni di ordine politico. Il volume si chiude proponendo la traduzione in francese di alcuni testi classici sul tema: l’introduzione de Il senso dell’ordine di Ernst Gombrich (1979), in cui l’ornamento, inteso come pattern, viene indagato con strumenti psicologici e biologici, e due conferenze di William Morris, intitolate L’arte e i suoi produttori (1888) e Conferenza sulla collezione di pittura della scuola preraffaelita inglese (1891). Le traduzioni, realizzate da Laure Bordonaba, sono precedute da un suo commento introduttivo.
Come gli autori mostrano fin dalle prime pagine del volume, l’ornamento rifiuta non solo una definizione univoca, ma anche una collocazione chiara: pullulando, accidente fantasmatico separato dal suo supporto sostanziale, esso è in grado di migrare, andando a innestarsi nei più diversi contesti. Basti pensare alle grottesche, motivi ibridi di derivazione antico romana che mescolano il registro dell’umano, dell’animale, del vegetale e del geometrico (fig. 1), o alle arabesques, volute fitomorfe di origine islamica: soprattutto a partire dagli scavi di Ercolano (1738) e Pompei (1748), questi motivi ornamentali hanno avuto la capacità di circolare come vere e proprie formule di sapore warburghiano, andando a “infestare” le produzioni artistiche più disparate, dal disegno alla danza.
Proprio la capacità di attraversare i diversi linguaggi artistici fa dell’ornamento un elemento di straordinaria rilevanza nel mettere in discussione il paradigma moderno dell’autonomia dell’arte, come si evince dagli articoli di Sève e Pacquet. L’ornamento, “concetto transartistico” (p. 9 e ss.), evidenzia non solo la continuità tra pittura, scultura, musica, danza e così via, ma permette anche di ripensare i rapporti tra arte alta e arti applicate, mettendo in luce zone di fertile commistione (p. 25). Il tema è anche al centro delle preoccupazioni di William Morris (1834-1896), che individua proprio nell’ornamento l’area di intersezione tra le proprie posizioni politiche ed estetiche. Morris, unendo la militanza socialista all’attività artigianale presso il movimento Arts and Crafts, promuove una concezione secondo cui “tutta l’arte è ornamentale” poiché tutta l’arte – dalla minore alla maggiore – si dà nell’articolazione ad un ambiente. Il museo, “luogo melanconico” (p. 131), strappa invece l’opera alla vita. Portando avanti una critica d’ispirazione marxista all’industria e alla distruzione del fare artigianale, Morris pone l’ornamento al centro del proprio “pensiero ecologico” (p. 136): se il capitalismo si impernia su pratiche di separazione e parcellizzazione, l’ornamento, nozione relazionale, segnala invece l’essenziale giuntura tra arte e contesto. L’arte, per Morris, è “socialista per essenza” (p. 136): essendo ornamentale, essa è relazionale, e non può essere separata dal politico.
D’altro canto, proprio l’ambiguità che anima intimamente l’ornamento fa sì che esso possa essere letto anche in una chiave politica molto diversa. È ciò che viene evidenziato nell’articolo di Ledoux: partendo dalla tesi di Siegfried Kracauer su La massa come ornamento, in cui si rinviene un’omologia strutturale tra la parcellizzazione del lavoro nell’organizzazione tayloristica e le composizioni di ballerine che verranno poi esibite in maniera eminente dalle coreografie per cinema di Busby Berkeley, l’autrice analizza l’“impensato fascista” che può venire ad animare il motivo ornamentale. Qui, la massa umana che diviene ornamento è il correlato estetico dei modi di produzione capitalista: “la ballerina, come l’operaio” (p. 79), una volta sussunta nell’insieme perde il proprio valore individuale.
Fenomeni come quello delle Tiller girls di fine Ottocento o delle Rockettes americane, in cui il corpo individuale sparisce e la sincronia dei movimenti dà vita a formazioni astratte, dall’apparenza quasi inorganica, ci permettono di volgere l’attenzione alla natura morfologica dell’ornamento. Aspetto poco esplicitato nel volume, il carattere anzitutto morfologico di ogni motivo ornamentale anima però implicitamente tutti gli interventi, in particolare quelli di Pacquet e Labrusse: si tratta, ad esempio, della “gratuità formale” delle arabesques (p. 58), “forme mute” che eccedono la figurazione (p. 59) e che, nella loro qualità puramente plastica, autonoma rispetto a significati e finalità estrinseche, quasi si configurano come astrazione ante litteram. L’arabesque, forma errante che, come ha notato Moritz, incarna il gesto che la traccia e sorge da una pulsione (un Trieb) di decorazione (pp. 34-38, 69), ha dunque carattere “capriccioso, arbitrario, non mimetico” (p. 33). Questa indulgenza formale, sganciata da ogni possibile dinamica di riferimento, denota il peculiare erotismo dell’ornamento: se già Goethe evidenziava la sensualità dell’arabesque (p. 33), non pare azzardato rinvenire qualcosa come un “sex appeal dell’inorganico” (secondo l’espressione benjaminiana recuperata da Mario Perniola) all’opera anche nelle formazioni delle chorus girls. Il luogo dell’erotico non è, qui, il corpo della singola ballerina; l’erotismo riguarda piuttosto la composizione nei suoi tratti irriconoscibili e inorganici, puramente morfologici.
La gratuità formale dell’ornamento si lega, evidentemente, alla questione della rappresentazione. Come mostrano Schiele e Labrusse, l’ornamento non sembra tanto negare il regime rappresentativo, quanto deviarlo dal suo interno: l’arabesque orientale, ad esempio, va a innestarsi nell’immaginario occidentale secondo la logica della hantise, in cui l’infestato e l’infestante non sono mai esenti da contaminazioni reciproche. È così che la perturbante alterità dell’arabesque, interiorizzata dall’Occidente, può introdurre una frattura nel regno dell’oggettività rappresentativa a cui l’immagine mimetica fa capo (p. 57). Anche nelle analisi che Warburg dedica a Botticelli sono proprio gli elementi secondari a creare uno spazio in cui è possibile il prodursi di novità stilistica. Le capigliature e più ancora i panneggi, “estensioni inorganiche dell’individuo” o “organi indolori” (p. 49), sono ornamenti espressivi nella misura in cui essi danno forma grafica all’interiorità del personaggio introducendo movimento nella sua figura; questi elementi, “margini della rappresentazione”, costituiscono delle “zone di sovversione in cui progressivamente si elaborano le trasformazioni di stile” (p. 44). Marginalità e minorità dell’ornamento si convertono così nel suo punto di forza, in ciò che ne fa un oggetto dal potere trasformativo se non addirittura sovversivo.
Tuttavia, la secondarietà stessa dell’ornamento può essere messa in questione – non per negarla tout court, quanto piuttosto per evidenziare come anche in questo caso la natura ambigua della dimensione ornamentale richieda una complicazione ulteriore. Si tratta dell’operazione teorica condotta da Sève nel suo testo. In prima battuta sembra possibile affermare semplicemente che “l’ornamento non esiste in sé, [poiché] ogni ornamento è ornamento di qualcosa che lo precede ed è da esso indipendente” (p. 11): la sua secondarietà ontologica appare tanto più evidente qualora si considerino oggetti come le cornici (di cui basamenti, piedistalli, paratesti e così via non costituiscono che delle variazioni). La cornice presenta il quadro; il parergon, soglia ornamentale, permette di accedere all’opera (all’ergon). In questo senso, la secondarietà dell’ornamento risponde anzitutto alla funzione transitiva di presentazione. Eppure, come nota Sève, ci sono casi in cui l’ontologia dell’ornamento si rovescia ed esso diviene elemento “primo”, intransitivo, pura manifestazione di sé. Casi del genere possono essere osservati nel dominio del vivente, se si sceglie di adottare una prospettiva antiutilitarista: autori come Roger Caillois e Jacques Dewitte permettono di guardare a certe forme e colori animali come a casi in cui in natura si dà una dépense formale, un eccesso che non risponde a valori ed esigenze estrinseche (fig. 2). L’ornamento, qui, è quell’auto-presentazione, quell’esuberante manifestazione priva di destinatario (l’unadressierte Erscheinung di Adolf Portmann) che caratterizza anche alcuni motivi ornamentali realizzati dall’uomo: per usare le parole di Caillois, citate da Sève, si tratterebbe di comprendere “i quadri dei pittori come la varietà umana delle ali delle farfalle” (p. 22). Ancora una volta, la marginalità dell’ornamento cambia di segno e viene ad esibire una forza dirompente, seppur sottile: concetto non solo “transartistico”, capace di attraversare i confini tra le diverse arti, l’ornamento appare ora in grado di superare anche il partage tra natura e cultura (p. 23), nell’ottica di una comune e pervasiva profusione di forme.
Se riconoscere il superamento del progetto artistico dall’alterità di cause determinanti benché inavvertite sembra ormai essere un luogo comune delle rappresentazioni del fare artistico (si pensi alle diverse teorie di ispirazione divina, a quelle di involontario condizionamento ideologico, alla postulazione dell'esistenza di una logica dell'inconscio), l'implicazione del caso quale causa della produzione artistica non consente di accedere a un'interpretazione dell'opera come manifestazione di determinazioni essenziali, sociali o psicoanalitiche. In altre parole, il riconoscimento di una parte di caso nel processo creativo implica modalità di significanza per le quali l'identificazione di un progetto diventa altamente problematica.
Although acknowledging that any artistic project is necessarily exceeded by the alterity of determining causes is quite a mundane way of representing the artistic fact (one thinks of the various theories of divine inspiration, of involuntary ideological conditioning, of the postulation of the existence of a logic of the unconscious, etc.), the implication of chance as the root cause of a work raises a critical issue since it rules out any interpretation of the work either as a manifestation of a truth that would have been pre-existing in god, or as a social or psychoanalytical determination of the forms produced and interpreted. In other words, the recognition or claiming of a measure of chance seems to imply modes of signifiance for which the identification of a project becomes problematic.
A cura di Benoît Monginot, Stefano Oliva e Sébastien Wit
Qual è la realtà dei colori? I colori esistono? Sono percezioni? Come è possibile affermare, come il pittore Velasco Vitali, in riferimento al colore giallo: «è il mio autoritratto»? L’indagine sui colori in ambito filosofico è un campo di studi che sta tornado ad essere di grande attualità; le trattazioni a riguardo sono numerose, ricche di spunti e toccano diversi ambiti. Il giallo del colore. Un’indagine filosofica (Jaca Book 2020) si propone di ripercorrere la storia del dibattito, in particolare nella filosofia angloamericana nell’ultimo secolo e non solo, tagliando trasversalmente l’argomento con temi che passano dall’ontologia in senso stretto a questioni epistemologiche e linguistiche, allacciandosi tanto alle moderne e attuali teorie neuroscientifiche, come alla filosofia del linguaggio e alla critica dell’arte.
Nonostante l’argomento di ricerca possa sembrare oltremodo specialistico, l’indagine sul problema del colore si colloca nel contesto più ampio che comprende il mind-body problem, la questione linguistica e più in generale l’infinita battaglia tra idealismo e realismo che la filosofia occidentale, con poche eccezioni, si trascina dall’illuminismo. Così il tema del colore, come caso particolare, in realtà fa eco a quelli che probabilmente sono i più grandi problemi che la filosofia si sia trovata ad affrontare.
Questo saggio è il primo lavoro di Alice barale che abbraccia a così ampio raggio la questione del colore e che si discosta dai suoi riferimenti abituali, comprendendo anche tematiche della filosofia analitica. Alice Barale studiosa di Estetica presso l’università di Milano Statale, è redattrice della rivista «Itinera» e corrispondente di «Aisthesis». Barale si è occupata a lungo di Aby Warburg e di Walter Benjamin. Di quest’ultimo ha curato una nuova edizione e traduzione italiana de L’Origine del dramma barocco tedesco (Carocci, 2018).
Il Giallo del colore può essere diviso in due segmenti: il primo, comprendente i primi due capitoli, ha la funzione di introdurre il lettore alle principali soluzioni che le varie discipline teoriche hanno dato al problema dei colori, individuando, tra le altre cose, la figura di Goethe, sia questa esplicita o meno essa funziona come perno intorno al quale ruotano le teorie presentate. Invece il secondo segmento, che racchiude gli ultimi capitoli, si focalizza da una parte sul colore e il suo legame con l’arte e dall’altra il colore in relazione al linguaggio.
Le prime due sezioni funzionano quindi, nell'organicità del libro, come fondamento delle trattazioni successive e come una vera e propria cartina, utile per muoversi all’interno del dibattito sul colore in ambito analitico. Le principali teorie presentate sono: l’eliminativismo, il relazionismo e il fisicalismo; in queste pagine l’autrice riporta studi e teorie relative al carattere epistemico del colore, avanzando tesi sui due ampi fronti del realismo e dell’idealismo, spaziando da fisiologi tedeschi, come Helmholtz, fino a teorie fisiche, Maxwell, e neuroscientifiche, mettendo in comunicazione teorie scientifiche e filosofiche. Vengono così messe in evidenza le criticità della nozione di colore per il filosofo, che in questo senso si trova separato dalla massa, in quanto la sua idea sui colori deve passare per un’inevitabile problematizzazione dell’esperienza che ne facciamo. Questa scissione tra l’esperienza e l’ontologia verrà messa in discussione dalle tesi presenti nel secondo capitolo che, pur confermando il carattere non semplice del colore in opposizione alla concezione classica delle qualità secondarie, mostrano le concezioni più ingenue, in cui il colore viene riportato su di un piano più vicino a quello dell’esperienza di un soggetto non avvezzo alle circonvoluzioni della filosofia. In questo modo si apre la strada a un campo che fino ad ora è stato escluso dalla ricerca sui colori e che verrà invece inserito nel terzo capitolo, quello della loro componente simbolica.
Inizia così a delinearsi la sagoma di una seconda figura quella di Wittgenstein, forse ancora più esclusa rispetto a quella di Goethe dalla narrazione costruita intorno al dibattito filosofico; questo autore irromperà nell’ultimo capitolo per scardinare le concezioni classiche sul colore. In particolare, il carattere inafferrabile di quest’ultimo appare sempre più evidente man mano che si passano in rassegna le varie soluzioni proposte e questo suo carattere perturbante sarà ciò che più animerà lo spirito del filosofo austriaco.
Osservando le tesi proposte dalla filosofia angloamericana, esposte nei primi capitoli, ci si rende conto che ad essere escluso dal discorso è proprio ciò che verrebbe più semplicemente in mente a chiunque non fosse avvezzo al discorso filosofico, cioè il rapporto che intercorre tra i colori e il loro valore simbolico e artistico. Questa componente mancante viene reintrodotta nel terzo capitolo tramite le trattazioni sull’araldica di Pastoureau e quelle successive su Gage. Questa sezione è ricca di riferimenti artistici contemporanei e non, da William Turner a John Piper, per avvalorare la tesi per cui i colori non solo si esperiscono a livello sensoriale, ma si vivono in un senso più intimo e significativo. Essi non sono semplici astrazioni, stimoli fisici o mentali, ma hanno una componente centrale nella nostra cultura e interpretazione del mondo. Questo tema viene approfondito con la trattazione della teoria di John Gage, il quale non sosteneva l'universalità dei colori, criticando le ricerche di stampo evoluzionistiche dell’epoca, ma optando più semplicemente per delle somiglianze che sussistono tra di essi, che via via si vanno ad assottigliare. I colori vengono così fatti diventare un linguaggio particolare capace di descrivere la realtà, «John Gage contesta alla filosofia la capacità di cogliere questa densità. proprio perché il colore non è traducibile in parole[...]» (p.90). Probabilmente è proprio il carattere non alfabetico di questo linguaggio dei colori, che l’artista conosce bene, ad aver portato all’esclusione della sua non-voce dalla narrazione filosofica sul tema, poiché l’artista non spiega nulla, mostra e gioca col colore. Queste due nozioni: quella di gioco e quella di mostrare non possono che farci venire in mente uno dei più grandi critici del linguaggio del ‘900, la cui presenza si preannuncia numerose volte all’interno dei primi capitoli, ma che, come si è detto, si afferma nell’ultima parte del testo, cioè quella di Wittgenstein. L’indagine sul colore così trattata dischiude la possibilità di un’altra dicotomia fondamentale della storia del pensiero filosofico e psicologico, quella per cui il linguaggio determina o meno la nostra esperienza, dicotomia che nel corso della trattazione del filosofo viennese verrà sempre meno a presentarsi come tale; questo perché si va ad affermare sempre più l’idea che il colore scaturisca dalla sovrapposizione di vari piani della comprensione umana, o come direbbe l’autrice «Il colore appare, ancora una volta, come qualcosa soltanto apparentemente semplice, che si costituisce nell’incontro tra dimensioni diverse» (p.133).
In un primo momento la tematica sui colori non sembra toccare particolarmente il filosofo austriaco (siamo nel periodo del Tractatus), una svista questa che però metterà più avanti in crisi il suo sistema filosofico. Da questa crisi si ha il punto di svolta il secondo Wittgenstein, in cui la questione del colore è centrale. Le considerazioni sul colore lo portano in un primo momento a rivedere le sue tesi sulle proposizioni semplici e le loro relazioni, completamente escluse nel Tractatus in virtù della loro indipendenza. Il tema delle foglie d’autunno, col loro verde che vira sul rosso, scuote profondamente l’animo del filosofo, poiché per esse non sembrano valere i principi logici fondamentali, come quello di non contraddizione, essendo le foglie autunnale sia verdi che rosse contemporaneamente. Successivamente, con la svolta teoretica dei giochi linguistici, già preannunciata nel periodo intermedio, e con la nozione di grammatica, il cui compito è quello di definire l’uso possibile o non possibile di certe proposizioni, il problema viene spostato dal piano logico a quello pratico. Forse l’unica vera pecca di Wittgenstein è, secondo il nostro parare, proprio da rintracciare in questa sua incapacità di emanciparsi dalla questione pratica dell’uso dei concetti, ovvero in quel piano intermedio tra empiria e logica che ora appare come posizione dei colori. Così scardinato il falso dualismo, che voleva il colore come derivato esclusivamente dell’esperienza comune come presente nelle concezioni linguistiche più relativistiche, si apre dunque la possibilità di una trattazione veramente filosofica sul colore. Poiché dove c’è dualismo possono nascere solo scienze particolari e non Filosofia.
Avviandosi verso la fine del libro, vengono poste le somiglianze tra colori come possibile risposta al quesito fino ad ora trattato. Sempre sul solco di Wittgenstein, il colore viene così inserito in questa concezione per cui noi possiamo dire che un colore è tale perché appartiene a un sistema di differenze e «non si può chiamare il rosso un colore, se esso non è inserito all’interno di un sistema di colori diversi» (p.141). Ma è soprattutto con le ricerche successive di Wittgenstein, dove il colore viene ricondotto nella categoria più ampia di gioco linguistico, che appare evidente il legame tra colore e vita, la parola gioco linguistico infatti è destinata a mettere in evidenza il fatto che il parlare sia una forma di attività, o una forma di vita. Il legame indissolubile tra i colori e la vita è evidente nel ruolo che gioca la memoria nella trattazione di Wittgenstein. Al filosofo di Vienna è chiaro che nella memoria di un colore non vi è solo un archivio di colori vissuti, con cui confrontare il colore presente qui ed ora nell’esperienza, ma «qualcosa che suona e che scatta quando vedo il colore giusto» (p.146) una vera e propria via per la ricerca di esso; così colore e memoria entrano a far parte di quella sfera pratica che è la vita. Anche se come giustamente notato dall’autrice, che conosce bene gli scritti di Benjamin su Baudelaire, Bergson e Proust, c’è effettivamente qualcosa che suona, un carattere temporale, lo stesso Wittgenstein sembra rendersi conto di questa peculiarità man mano che le strutture logiche dei primi scritti fanno spazio a un farsi dinamico di un insieme di nessi e di regole. In un certo senso le relazioni tra i colori, che nel Tractatus appaiono come relazioni logiche, vengono ricondotte all’interno di quella sfera temporale da cui erano state escluse. Così attraverso Wittgenstein, si raggiunge il cuore del problema e una sua possibile soluzione, ovvero non ha senso parlare di «un colore reale e un colore apparente, ma esiste soltanto un unico colore, che è il risultato dell’interazione tra i nostri concetti e le situazioni concrete in cui essi si trovano immersi» (p.153). Da questo discorso, quello che più emerge è il carattere perturbante del colore, la sua inafferrabilità, che scuote le elaborazioni classiche della filosofia, costringendoci a ripensare come problematiche le esperienze della vita quotidiana. Così la trattazione del colore fa vibrare le strutture concettuali filosofiche, diventando in questo modo un orizzonte di possibilità per la soluzione dei problemi più fondativi della filosofia.
È noto che Michel Foucault intendeva scrivere un libro sul pittore Édouard Manet, dal titolo Le noir et la couleur, la cui pubblicazione era prevista da parte delle Éditions de Minuit (Defert 2001, p. 41). Egli aveva redatto un gran numero di pagine sull’argomento, senza però consegnarle all’editore. A quanto sembra, dopo aver conservato molto a lungo l’ampio manoscritto su Manet, da ultimo il filosofo ha scelto di distruggerlo (Guibert 2019, p. 27). Tuttavia alcuni segni significativi del suo interesse per l’artista francese sono emersi a più riprese, nel corso dei decenni.
Già in un saggio su Flaubert datato 1964, Foucault ha introdotto un parallelismo fra il narratore e il pittore ottocenteschi: «Flaubert è, rispetto alla biblioteca, ciò che Manet è rispetto al museo. Essi scrivono e dipingono in un rapporto fondamentale con quel che è stato dipinto e scritto – o piuttosto con ciò che della pittura e della scrittura rimane indefinitamente aperto. La loro arte si edifica là dove si forma l’archivio. Non in quanto segnalino il carattere tristemente storico – gioventù diminuita, assenza di freschezza, inverno delle invenzioni – con cui ci piace stigmatizzare la nostra epoca alessandrina; ma essi fanno emergere un fatto essenziale per la nostra cultura: ogni quadro appartiene ormai alla grande superficie quadrettata della pittura; ogni opera letteraria appartiene al mormorio indefinito di ciò che è scritto. Flaubert e Manet hanno fatto esistere, nell’arte stessa, i libri e le tele»[1]. In effetti, lo scrittore – specie in opere come La tentation de saint Antoine o Bouvard et Pécuchet[2] – aveva costruito dei volumi che erano il frutto di innumerevoli letture, così come Manet presupponeva nello spettatore delle proprie tele la capacità di riconoscere analogie e differenze rispetto ai capolavori pittorici dei secoli precedenti, a cui non di rado si ispirava.
Occorre ricordare inoltre che Foucault ha dedicato al pittore una serie di conferenze tenute in vari luoghi del mondo: nel 1967 a Milano, nel 1970 a Tokyo e a Firenze, nel 1971 a Tunisi, nel 1972 a Buffalo. L’esposizione orale di Tunisi, dal titolo La peinture de Manet, ha avuto una storia editoriale piuttosto complessa. Dapprima, per la sua pubblicazione su una rivista tunisina, avvenuta nel 1989, ci si è basati su una registrazione parziale (l’unica disponibile) della seduta. Più tardi, è stato possibile, tenendo conto di una trascrizione che era in possesso di Daniel Defert, ricostruire una versione più fedele del testo, edita nel 2001 nel bollettino annuale della Société française d’esthétique. Infine, grazie al fortunato ritrovamento di una registrazione sonora completa, nel 2004 si è giunti alla pubblicazione integrale della conferenza, in un volume corredato anche da vari interventi di studiosi che la commentano[3].
Nel suo discorso rivolto all’uditorio tunisino, Foucault esordisce scusandosi per il fatto di parlare del grande pittore pur senza essere un esperto d’arte. Aggiunge che non è sua intenzione occuparsi dell’opera di Manet in generale, bensì soltanto di prendere in esame una dozzina di dipinti. In effetti, però, la parte iniziale della conferenza riguarda quelle che, a giudizio del filosofo, sono le intenzioni di fondo del lavoro del pittore. Foucault conferma il giudizio tradizionale che vede in quest’artista il precursore dell’impressionismo, ma si spinge ben oltre: «Mi sembra che Manet abbia reso possibile non solo l’impressionismo, ma tutta la pittura successiva, tutta la pittura del XX secolo, la pittura al cui interno si sviluppa ancora, attualmente, l’arte contemporanea» (Foucault 2005, p. 9-11). Il filosofo non è certo l’unico ad attribuire al pittore francese un ruolo inaugurale. Malraux e Bataille, per esempio, lo avevano già fatto, l’uno sostenendo che «Manet passa dalle sue prime tele romantiche ad Olympia, al Portrait de Clemenceau, al piccolo Bar aux Folies-Bergère, così come la pittura passa dal museo all’arte moderna», mentre l’altro, in maniera ancor più esplicita, scrivendo che «Manet non è soltanto un grandissimo pittore: in rotta con coloro che l’hanno preceduto, ha aperto il periodo in cui viviamo, accordandosi col mondo attuale, il nostro» (Malraux 1999, p. 41: Bataille 2013, p. 11).
E. Manet, Olympia (1863)
Per dimostrare la propria audace tesi, il filosofo passa ad esaminare alcuni dipinti, ben pochi in rapporto alla vasta produzione dell’artista francese, ma comunque rilevanti e rappresentativi[4]. Il primo aspetto che Foucault vuole sottolineare riguarda il modo in cui Manet ha messo in rilievo gli aspetti materiali della tela. Fa dunque notare che in La musique aux Tuileries le teste dei numerosi personaggi raffigurati (ricordiamo per inciso che fra essi ci sono il pittore stesso e alcuni suoi amici, come Baudelaire) sono disposte lungo una linea orizzontale, mentre gli assi verticali vengono indicati dagli alberi. Una composizione simile si ritrova in Le bal masqué à l’Opéra: anche qui, infatti, i cappelli a cilindro indossati dai personaggi maschili sono disposti lungo una linea orizzontale. Tuttavia, rispetto al quadro precedente, vi sono alcune modifiche significative, volte a diminuire la profondità di campo. Dice il filosofo: «Questa profondità è ora chiusa, chiusa da uno spesso muro; e come per segnalare bene che vi è un muro e nulla da vedere dietro, osservate i due pilastri verticali e l’enorme barra orizzontale che incornicia il quadro, che raddoppia in qualche modo all’interno del dipinto la verticale e l’orizzontale della tela. Questo grande rettangolo della tela viene ripetuto all’interno del quadro, lo chiude sul fondo, eliminando così l’effetto di profondità» (Foucault 2005, p. 27). L’unica modesta apertura di campo dovrebbe trovarsi in alto, al di sopra della barra orizzontale (che è una specie di soppalco), ma tale apertura mostra solo i piedi di altri individui, come se la scena fosse raddoppiata, ricominciasse da capo. La tendenziale chiusura dello spazio è ravvisabile anche in un altro quadro, L’exécution de Maximilien, il cui sfondo è quasi interamente costituito da un muro: questo fa sì che i personaggi si trovino confinati su una stretta superficie di terreno. Inoltre essi sono vicini fra loro al punto che i fucili del plotone di esecuzione esplodono i loro colpi quasi a contatto col petto delle tre persone giustiziate. E anche qui non manca l’inizio di una scena ulteriore nella parte alta del dipinto.
L’incrociarsi delle linee orizzontali e verticali è al centro di un’opera, Le port de Bordeaux, in cui le alberature delle navi formano un reticolo talmente fitto da richiamare, secondo Foucault, non soltanto la forma del quadro, ma qualcosa di ancor più concreto, in quanto sono «in certo modo la riproduzione, nella filigrana del dipinto, di tutte le fibre orizzontali e verticali che costituiscono la tela stessa, la tela in quel che ha di materiale» (Foucault 2005, p. 35)[5]. Ciò diviene ancor più chiaro in Argenteuil, dove tale effetto viene ottenuto grazie ai tessuti riprodotti nel quadro, quelli degli abiti indossati dalle due figure in primo piano: il vestito a righe verticali della donna e la maglietta a righe orizzontali dell’uomo che le sta accanto.
Oltre ai due procedimenti citati (restringimento della profondità di campo ed evidenziazione delle linee ortogonali), Foucault ne segnala un terzo, che consiste nel rappresentare dei personaggi che stanno guardando in direzioni opposte, in avanti e all’indietro, come accade in La serveuse de bocks o in Le chemin de fer. Con qualche forzatura, egli ravvisa qui l’intento, da parte del pittore, di richiamare l’attenzione sul fatto che il quadro è un oggetto bifronte, giacché presenta un recto e un verso. Se a ciò si aggiunge che, in entrambe le opere, quel che i personaggi guardano si vede a malapena o non si vede affatto, allora la strategia dell’artista diviene ancor più perversa: «È questo gioco dell’invisibilità, assicurata dalla superficie stessa della tela, che Manet usa all’interno del quadro in un modo che si può comunque definire, come vedete, vizioso, malizioso e crudele; poiché, in fin dei conti, è la prima volta che la pittura si offre mostrandoci qualcosa di invisibile: gli sguardi sono lì per indicarci che c’è qualcosa da vedere, qualcosa che per definizione, e per la natura stessa della pittura, della tela, è necessariamente invisibile» (Foucault 2005, p. 45-46).
Il filosofo passa poi a considerare un altro aspetto del lavoro di Manet, quello che riguarda i problemi legati alla luce. Un primo esempio viene offerto dal quadro Le fifre, che mostra un ragazzino, con un’elegante divisa militare, intento a suonare il piffero. Tuttavia la soppressione della profondità di campo fa sì che il personaggio si stagli su uno sfondo neutro e del tutto vuoto. Solo poche ombre attorno ai piedi suggeriscono che egli si trova su un pavimento, distinguibile a stento dalla parete di fondo. Tale semplificazione è una delle caratteristiche per cui il dipinto, nel 1866, è stato rifiutato dalla giuria del Salon. Ma non è questo ad interessare a Foucault, bensì il fatto che, mentre nella pittura classica l’illuminazione proviene sempre da una certa direzione, e spesso la fonte di luce viene resa esplicita anche quando la scena si svolge in un interno, in Le fifre non si nota nulla del genere. Qui la luce raggiunge la figura di fronte, è un’«illuminazione dunque totalmente perpendicolare, come lo sarebbe l’illuminazione reale della tela se questa, nella sua materialità, fosse esposta davanti a una finestra aperta» (Foucault 2005, p. 50). Ma la tecnica relativa alla luce può essere, in Manet, anche più complessa, come mostra un dipinto celebre, Le déjeuner sur l’herbe. Foucault scorge in quest’opera la compresenza di due diversi metodi di illuminazione. Per quanto riguarda lo sfondo, la luce proviene dall’alto e da sinistra, in una maniera che si può definire tradizionale, mentre i personaggi in primo piano vengono illuminati frontalmente. «Questi due sistemi di rappresentazione, o piuttosto questi due sistemi di manifestazione della luce all’interno del quadro, sono qui giustapposti nella stessa tela, e la giustapposizione dà al quadro il suo carattere discordante, la sua eterogeneità interna» (Foucault 2005, p. 52-53).
Foucault giunge così ad affrontare Olympia, il dipinto forse più famoso di Manet, o se si preferisce il più famigerato, viste le reazioni che aveva prodotto al momento della sua esposizione al pubblico. Il filosofo, che di norma nella sua conferenza sorvola sugli aspetti relativi alla ricezione delle opere dell’artista, in questo caso fa un’eccezione e accenna ai fatti accaduti all’epoca: «L’Olympia, come ben sapete, ha suscitato scandalo quando è stata esposta al Salon del 1865, uno scandalo tale che si è stati costretti a ritirarla. Alcuni borghesi, in visita al Salon, volevano trafiggerla con la punta dei loro ombrelli, tanto la trovavano indecente. Ora, la rappresentazione della nudità femminile nella pittura occidentale è una tradizione che risale al XVI secolo, e se n’erano viste molte altre prima di Olympia […]. Cosa c’era dunque di così scandaloso in questo quadro, da far sì che non si riuscisse a sopportarlo?» (Foucault 2005, p. 53-56)[6]. Una prima risposta, non formulata da Foucault, è piuttosto ovvia: pur ispirandosi a quadri classici, in particolare la Venere di Urbino di Tiziano, l’artista francese aveva scelto di raffigurare non una dea dalle forme perfette e sensuali, bensì una donna dall’aspetto banale e realistico. Ciò viene riconosciuto anche dai rari e coraggiosi difensori di Manet, come Émile Zola: «Quel corpo nudo è parso indecente; così doveva essere, perché è carne, una ragazza che l’artista ha gettato sulla tela nella sua nudità giovane e già appassita» (Zola 1993, p. 27). Infatti il senso della scena rappresentata non sfugge agli osservatori: la donna stesa sul letto è una prostituta, cui la domestica di colore sta consegnando un mazzo di fiori portato da un cliente. Jules Claretie scrive appunto, con tono d’indignazione: «Olympia? Quale Olympia? Senza dubbio una cortigiana» (Claretie in Romano 2004, p. 14). I vari aspetti provocatori del quadro convergono fra loro, come ha notato un amico e ammiratore dell’artista, il poeta Stéphane Mallarmé, ravvisando nell’Olympia «quella cortigiana pallida e scarna la quale offre per la prima volta al pubblico il nudo che sfugge alle convenzioni e alle tradizioni» (Mallarmé 2004, p. 65).
Il filosofo, da parte sua, ricorda che «gli storici dell’arte sostengono, e indubbiamente hanno ragione, che lo scandalo morale era soltanto un modo maldestro di esprimere lo scandalo estetico: non si sopportava questa estetica, queste tinte piatte, questa grande pittura alla giapponese» (Foucault 2005, p. 56). E in ciò anche la luce gioca il suo ruolo: se nella Venere di Tiziano «c’è una fonte luminosa in alto a sinistra che viene a illuminare dolcemente la donna […] e che sembra una sorta di doratura che le accarezza il corpo», nel quadro di Manet la luce, essendo fredda e frontale, produce un effetto assai meno idealizzante. Inoltre, proprio per il fatto che sembra provenire dal luogo stesso in cui si trova l’osservatore del quadro, «è il nostro sguardo che, aprendosi sulla nudità dell’Olympia, la illumina. Siamo noi a renderla visibile» (Foucault 2005, p. 56-57).
Che la luce eserciti il suo pieno effetto solo sulle figure in primo piano trova conferma in un altro quadro di Manet, Le balcon. In esso, oltre al consueto gioco sulle linee orizzontali e verticali, si ritrova, sia pure in maniera diversa, anche il restringimento della profondità di campo. In teoria, oltre ai tre personaggi (uno maschile e due femminili) che si trovano sul balcone, l’illuminazione dovrebbe estendersi anche alla stanza retrostante, ma di fatto ciò non accade, poiché l’interno appare quasi buio. Secondo Foucault, che esagera un pochino, «si distingue solo il vaghissimo riflesso di un oggetto metallico, una specie di teiera, e un ragazzo che la porta, ma è a malapena visibile. E tutto questo grande spazio cavo, questo grande spazio vuoto che normalmente dovrebbe aprire su una profondità, ci è reso assolutamente invisibile, e perché? Ebbene, semplicemente perché tutta la luce è all’esterno del quadro» (Foucault 2005, p. 60-61). In questa scena appiattita, i personaggi appaiono situati tra la luce e l’ombra, quasi fossero al confine tra la vita e la morte. A tal proposito, il filosofo non manca di ricordare che il pittore surrealista René Magritte ha eseguito un’ironica variante di Le balcon, nella quale al posto delle figure umane si trovano altrettante bare[7].
E. Manet, Le balcon (1868)
Riguardo all’ultimo dei temi che è sua intenzione affrontare, ossia quello del luogo assegnato da Manet allo spettatore dei dipinti, il conferenziere sceglie di riferirsi a una sola opera, Un bar aux Folies-Bergère. Si tratta di una tela complessa: mostra infatti una figura centrale, la giovane donna che serve al bancone di un bar, ma dietro a lei si trova un grande specchio, nel quale possiamo vedere riflesso, in maniera più o meno distinta, il resto de locale. Il fatto che nel dipinto lo specchio eserciti un ruolo rilevante richiama alla memoria (benché il parallelismo non venga esplicitato) un celebre quadro che si basava su un dispositivo simile, Las Meninas di Velázquez, al cui minuzioso esame era dedicata l’ouverture di un altro libro del filosofo, Les mots et les choses (Foucault 2012, p. 17-30). Anche se l’inclusione nell’immagine dipinta di un riflesso speculare non costituisce di per sé una novità, Manet adotta ulteriori soluzioni innovative, coerenti col proprio stile. Tanto per cominciare, nel quadro lo specchio occupa interamente lo sfondo, dunque delimita e restringe lo spazio così come un muro lo chiudeva in L’exécution de Maximilien. L’illuminazione, ancora una volta, è frontale, con l’astuzia supplementare data dal fatto che il riflesso mostra i lampadari presenti nella sala, dunque nello spazio antistante rispetto a quello in cui si trova la barista.
Ma il riflesso medesimo offre ben altre sorprese. Osserva il filosofo che, «in linea di principio, questo è uno specchio, dunque tutto quel che si trova davanti allo specchio deve essere riprodotto all’interno di esso […]. In realtà, se provaste a contare e a ritrovare le stesse bottiglie qui e là, non ci riuscireste, perché di fatto c’è una distorsione tra ciò che viene rappresentato nello specchio e ciò che dovrebbe esservi riflesso» (Foucault 2005, p. 68). La distorsione raggiunge il massimo nella figura della donna, la cui immagine riflessa si trova alquanto spostata a destra rispetto alla posizione che dovrebbe logicamente occupare. È come se lo spettatore osservasse la scena da un’angolazione molto laterale, ma se così fosse egli non potrebbe vedere la barista di fronte, come invece il quadro ce la mostra. «Dunque il pittore occupa – e lo spettatore è invitato a farlo con lui – successivamente, o piuttosto simultaneamente, due posizioni incompatibili» (Foucault 2005, p. 68). Non si può neanche ipotizzare che lo specchio sia disposto in obliquo, poiché il suo bordo è perfettamente parallelo al bancone del bar, e alla cornice stessa del dipinto. Non basta ancora: il riflesso rivela un personaggio maschile che sta parlando con la barista, e che dunque dovrebbe trovarsi, fuori dallo specchio, di fronte a lei, mentre in effetti non c’è. Da tutte queste stranezze consegue che Manet «fa giocare la proprietà del quadro di non essere assolutamente uno spazio normativo la cui rappresentazione ci assegna, o assegna allo spettatore, un punto e un unico punto da cui guardare, e il quadro appare come uno spazio davanti al quale e in rapporto al quale ci si può spostare» (Foucault 2005, p. 71). È quel che accade quando osserviamo una tela appesa alle pareti di una stanza o nella sala di un museo. Manet – conclude il filosofo – «è dunque in procinto di inventare, se volete, il quadro-oggetto, la pittura-oggetto, ed è questa senza dubbio la condizione fondamentale affinché, finalmente, un giorno ci si liberi dalla rappresentazione e si lasci giocare lo spazio con le sue proprietà pure e semplici, le sue stesse proprietà materiali» (Foucault 2005, p. 72)[8].
Se il testo completo dell’esposizione tunisina è ora accessibile, lo stesso non può dirsi per quello delle altre conferenze tenute da Foucault sul pittore. Tuttavia nel 2011 è stata pubblicata la riproduzione fotografica (con relativa trascrizione) di una serie di ventiquattro fogli manoscritti senza data su Manet, dal titolo Le noir et la surface (Foucault 2011, p. 378-395). Si tratta di appunti schematici, ma ricchi di riferimenti sia alla biografia dell’artista che, più in generale, alla storia della pittura. Da essi, ci limiteremo a trarre solo poche osservazioni. Il filosofo ricorda che «Manet viene considerato come […] il primo pittore del XIX secolo ad aver attuato, in maniera violenta e scandalosa, una rottura con l’accademismo. […] E non, come Courbet, tramite la scelta dei soggetti, ma per via del modo stesso di dipingere» (Foucault 2011, p. 380). Riguardo all’altra delle definizioni tradizionali dell’artista, visto come antesignano dell’impressionismo, Foucault si mostra invece più cauto: riconosce che «senza dubbio c’era qualcosa, della pittura di Manet, che rendeva l’impressionismo possibile; e qualcosa che resisteva ad esso. Tuttavia ciò che resisteva all’impressionismo non era […] il classicismo della pittura, ma piuttosto qualcosa che doveva apparire in piena luce solo dopo l’impressionismo» (Foucault 2011, p. 380).
L’artista, che da giovane era stato un allievo, ancorché indocile, di Thomas Couture, da lui aveva desunto l’idea di un richiamo non propriamente accademico alla tradizione, per cui i nuovi quadri che venivano realizzati potevano instaurare un nesso, per così dire laterale, con i dipinti del passato. Da qui il fatto che, in Manet, «Le déjeuner sur l’herbeha più rapporti con Giorgione che con una vera colazione. Olympia con la Venere di Urbino» (Foucault 2011, p. 381). Questo e altri insegnamenti di Couture, in parte accolti da Manet, «resteranno in sospeso, inavvertiti, fino a quando la pittura postimpressionista – Cézanne e Gauguin, Bonnard, i Nabis, i Fauves – ne risveglierà per noi i poteri rimasti dormienti» (Foucault 2011, p. 383). Foucault prosegue esaminando alcune opere al livello della composizione e dell’uso dei colori. A tal proposito entra il gioco il nero, che agisce al tempo stesso «come colore e come valore (distinguendosi così dal bianco e dal chiaro, che continuano ad essere assimilati fra loro […])» (Foucault 2011, p. 384). In Le déjeuner sur l’herbe, per esempio, «a partire dal momento in cui il nero funziona come colore, gli altri colori se ne liberano: – il verde acido degli alberi – i volti e i corpi sono assolutamente lisci – il fondo si schiarisce» (Foucault 2011, p. 385).
E. Manet, Le déjeuner sur l'herbe (1863)
Il filosofo appare minuziosamente attento agli aspetti tecnici del lavoro pittorico e ricorre spesso al confronto tra l’artista francese e i suoi predecessori: «Manet abolisce la distinzione scena-ritratto – Gainsborough aveva collocato dei ritratti su un fondo di paesaggio – Courbet e Corot avevano collocato dei ritratti […] nei paesaggi, e l’illuminazione era la stessa per gli uni e per gli altri. Mai erano stati dipinti in un paesaggio ritratti dotati delle dimensioni, dell’illuminazione e del contrasto netto che sono propri di un ritratto. È evidente che nell’evoluzione di Manet (almeno fino al 1870) la tecnica del ritratto prevale sulle esigenze specifiche dei paesaggi» (Foucault 2011, p. 385). Foucault è sempre pronto a cogliere quel che distingue il pittore di cui si occupa dagli impressionisti, anche proprio a livello tecnico. Così, se Manet sopprime «uno degli elementi più importanti della pittura classica: il tono locale (tono dell’oggetto stesso, opposto al tono fondamentale del quadro)», non lo fa in maniera analoga agli impressionisti: questi ci riescono «tramite il colore puro, che è al tempo stesso sostanza della luce e sostanza dell’oggetto», mentre in Manet ciò avviene «tramite l’utilizzo di colori complessi offerti alla luce, ma alla luce che illumina realmente il quadro», vale a dire dall’esterno (Foucault 2011, p. 388). E il filosofo ribadisce nuovamente che, tra i colori, è il più scuro ad avere la prevalenza: «Il nero è sì un colore come gli altri, ma ha una funzione spaziale che gli altri non hanno – si è visto quale ruolo giocava a titolo di linea di contorno – ma gioca anche un ruolo organizzatore in quanto macchia centrale. […] Di modo che, in fin dei conti, lo spazio del quadro s’illumina per effetto del nero, e sembra volatilizzarsi grazie al potere di questa macchia enigmatica. Sorta di macchia cieca che fa scintillare il visibile» (Foucault 2011, p. 389-390).
Un altro metodo usato per ottenere un effetto di apertura o dispersione consiste nel modo in cui è orientato lo sguardo dei personaggi: «A partire dal Rinascimento italiano, la divergenza degli sguardi aveva la funzione di definire lo spazio del quadro, e in certo modo di incorniciarlo, percorrerlo e solidificarlo – in Manet, gli sguardi escono dal quadro, ma in una direzione non valutabile, dunque per rivolgersi non verso lo spettatore, bensì verso qualcosa che contesta il quadro» (Foucault 2011, p. 391). Un risultato analogo viene ottenuto allontanando alcune delle figure umane dal centro del dipinto e rendendole visibili solo in parte: «È in certo modo il quadro stesso ad essersi spostato in rapporto allo spazio che rappresenta. Perciò il fatto che i personaggi non siano al centro della tela non è dovuto a loro, ma a uno slittamento del quadro in rapporto al proprio spazio. Da qui i personaggi tagliati» (Foucault 2011, p. 392).
Proprio come nella conferenza tunisina, anche in Le noir et la surface la conclusione è dedicata all’analisi di Un bar aux Folies-Bergère. Oltre a mettere in evidenza il gioco sulle immagini riflesse dallo specchio, Foucault rende esplicito il rapporto, nel contempo analogico e oppositivo, stabilito dall’artista con Las Meninas di Velázquez (oppositivo perché in Manet i riflessi speculari risultano dislocati). Da ultimo, la forma e il colore del corsetto della barista che vediamo in primo piano acquistano, agli occhi del filosofo, un significato particolare, funereo: «Questa macchia nera in forma di busto ha le stesse linee di una clessidra: è la figura del tempo e della morte, così come la gondola del Grand Canal, errante in uno spazio incerto e decomposto, aveva tutti i poteri della barca dei morti» (Foucault 2011, p. 394)[9].
E. Manet, Le Grand canal de Venis (1875)
Prima di concludere a nostra volta, dobbiamo ricordare che Foucault ha fatto riferimento al pittore francese anche in due interviste. La prima, del 1970, è tuttora inedita, ma un passo significativo di essa è stato citato da Didier Eribon nella sua biografia del filosofo. Parlando del progetto di scrivere un libro su Manet, Foucault spiega di aver scelto di occuparsi dell’artista in quanto rappresenta un «fenomeno di rottura»; infatti «la sua opera è apparsa all’interno di una storia della pittura che era lirica, rappresentativa, spaziale, voluminosa, mentre egli, senza aver coscienza (o avendo scarsa coscienza) della propria stranezza, si è messo a dipingere figure piatte e brutte. Ed è proprio questa distruzione della pittura quale veniva riconosciuta dalle persone del suo tempo che, quindici anni più tardi, diverrà il segno stesso della modernità per altri pittori, gli impressionisti, che del resto non sono fedeli a Manet. È sorprendente…» (Foucault in Eribon 2011, p. 299).
La seconda intervista è datata 1975. A un domanda volta a chiarire se egli sia interessato all’arte pittorica in generale, il filosofo risponde di sì, specificando che, in quell’ambito, «ci sono cose che assolutamente mi affascinano e m’incuriosiscono, come Manet. Tutto mi stupisce in lui. La bruttezza, ad esempio. L’aggressività della bruttezza, come in Le balcon. E poi l’inesplicabilità, tale che lui stesso non ha mai detto nulla sulla propria pittura. Manet ha fatto, in pittura, un certo numero di cose rispetto alle quali gli “impressionisti” erano del tutto regressivi» (Foucault 1974, p. 1574). Spiazzato dall’elogio della bruttezza, l’intervistatore gli chiede di spiegarsi meglio. Foucault precisa che «può trattarsi della distruzione totale, dell’indifferenza sistematica a tutti i canoni estetici, e non solo a quelli della sua epoca. Manet è stato indifferente a canoni estetici talmente radicati nella nostra sensibilità che persino adesso non capiamo perché e come egli abbia potuto far questo. C’è una bruttezza profonda, che ancora oggi continua ad urlare, a stridere» (Foucault 1974, p. 1574). Secondo il filosofo, il carattere urtante di tale pittura, lo choc che (sia pure in forma attenuata rispetto a quanto avveniva nell’Ottocento) essa produce anche adesso sullo spettatore, va considerato come un merito, non come un difetto.
Si può dunque dire che l’analisi condotta da Foucault sull’opera di Manet, nonostante l’indubbia originalità del metodo adottato, perviene a conclusioni piuttosto simili a quelle a cui giungeva Bataille, che a sua volta scorgeva in essa un elemento di mistero e, nel contempo, una significativa anticipazione dell’arte novecentesca. Infatti, nel 1955, Bataille chiudeva il proprio libro con queste frasi: «Ho voluto presentare Manet come uno dei pittori più segreti, più difficilmente penetrabili. Come il più degno di annunciare la nascita di quel mondo favoloso, così fertile di sorprese, che oggi la pittura moderna apre dinanzi ai nostri occhi» (Bataille 2013, p. 90)[10].
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[1] Testo pubblicato prima in tedesco nel 1964, poi in francese nel 1967 col titolo Un «fantastique» de bibliothèque, ora in Foucault 1971: 139; si avverte che i passi delle traduzioni italiane cui si rimanda vengono spesso citati con modifiche).
[2] Sul nesso fra i due libri, cfr. gli appunti per una conferenza del 1970, Foucault 2019: 265-286.
[3] Su tutto ciò, cfr. Maryvonne Saisonin Foucault2005: 9-11.
[4] I quadri commentati da Foucault vengono riprodotti a colori nel volume La peinture de Manet. Per un esame complessivo dell’opera, si può vedere ad esempio Cachin1991.
[5] Anzi, se si isola la parte del dipinto che raffigura le alberature, diviene legittimo scorgervi un’analogia con «la serie di variazioni che Mondrian ha fatto sull’albero […], il suo famoso albero a partire dal quale – contemporaneamente a Kandinskij – ha scoperto la pittura astratta» (Foucault 2005: 35-36).
[6] Sulle polemiche suscitate dal quadro, cfr. Rewald 1991: 110-113, e Romano 2007.
[7] Anni prima, il filosofo aveva chiesto chiarimenti a Magritte sul suo quadro Perspective: «Le balcon» de Manet (1950), e l’artista belga gli aveva risposto con una lettera del 4 giugno 1966, ripresa in appendice a Foucault 1980: 84-85).
[8] Su come ciò si sia verificato in molte opere novecentesche, si veda ad esempio Menna 1975.
[9] Per Giorgione, il riferimento è al Concerto campestre, uno dei modelli del Déjeuner sur l’herbe.
[10] L’altro quadro di Manet qui richiamato è Le Grand Canal à Venise.
Cercare di definire la New Media Art è come cercare di circoscrivere l’arte contemporanea: i confini della categoria, le opere e i nomi che potrebbero farne parte in un determinato momento slittano e si trasformano nel giro di pochi anni. La New Media Art è dunque una galassia di riferimenti, spesso interdisciplinari, che necessitano di essere continuamente mappati. Una parte importante del libro di Marco Mancuso affronta proprio questa esigenza e svolge tale compito in maniera esaustiva, almeno fino alle prossime metamorfosi. Nonostante ogni tassonomia sia in parte arbitraria, dieci anni dopo il libro di Deseriis e Marano Net.Art. L’arte della connessione (Cyberpunkline 2008), un aggiornamento era necessario. Mancuso non solo si dedica ad aggiornare la tassonomia, i nomi, le opere, i festival e tutti gli autori che ne fanno parte, ma propone anche una lettura che mette in gioco un nuovo attore: le art industries. «Industrie artistiche e culturali che producono beni, servizi e attività e che hanno la capacità di agire come catalizzatori di questo processo» (p. 13). L’ipotesi di base a sostegno della sua analisi è rinvenibile nella constatazione che tutto il sistema che aveva supportato la New Media Art nell’ultimo decennio è stato fondamentalmente di tipo assistenzialista, e dunque difficilmente sostenibile nel lungo periodo. Le art industries hanno ora assunto il ruolo di sostenitrici del movimento.
L’autore ha utilizzato la piattaforma da lui fondata e diretta - Digicult - come un osservatorio privilegiato dal quale non solo si è limitato a osservare, catalogare e descrivere il campo della New Media Art, ma anche di interagire direttamente con il suo oggetto di studio entrando in contatto diretto con gli artisti e le loro opere, i festival e gli eventi di maggiore interesse di cui tratta nel volume.
Il libro si presenta così è diviso in quattro sezioni: Scenario, Ambiti disciplinari, Case studies e Scenari futuri.
Nel primo capitolo (p.19), l’autore riassume la storia del rapporto tra arte e tecnologia dalla rivoluzione industriale, decade per decade fino agli anni Settanta, per poi focalizzarsi sul caso di Olivetti (un aspetto interessante del libro è quello di contestualizzare artisti e progetti italiani nella complessità del lansdcape internazionale).
In seguito Mancuso analizza la complessità e interdisciplinarietà del suo oggetto di studio: «Il termine New Media Art fa riferimento effettivamente a un ambito artistico ampio e stratificato, strutturalmente contaminato con i più diversi settori della ricerca tecnologica e la relativa industria, i cui albori risalgono ormai a quasi un secolo fa. Al di là delle definizioni, vi si possono ricondurre, come vedremo, una serie di esperienze artistiche che vanno dalla ricerca su linguaggi e codici espressivi, all’analisi su medium e strumenti, alle riflessioni politiche e sociali caratterizzate dall’integrazione di tecnologie, reti e scienze» (p. 31). In questo capitolo quindi l’autore affronta il tema delle art industries (p. 38) mostrando come, in questo momento, esse rappresentino un vero e proprio cambio di paradigma: il modello assistenzialista che finanziava le opere attraverso bandi, fondi comunali o dell’Unione Europea è fallito mentre nel nuovo modello i finanziamenti arrivano direttamente dall’industria (p. 38-40). In questo contesto, si sottolinea, cambia anche il ruolo del curatore poiché l’interdisciplinarietà intrinseca alla New Media Art mette in discussione i principali ruoli del campo dell’arte, e soprattutto quello del curatore, che quando possiede una formazione troppo classica, a volte non è in grado di gestire una tale complessità (p. 41).
Nel terzo capitolo (p. 46), l’autore elenca in maniera esaustiva tutti quei dispositivi che hanno contribuito a sviluppare e sostenere la diffusione e la ricerca sulla New Media Art, da Rhizome e Creative Applications Network (CAN), a festival, premi e residenze come Sonar+D, Collide @CERN o Ars Electronica (p. 49-71). Un aspetto interessante che Mancuso sottolinea è la rilevanza delle gallerie d’arte commerciali che si dedicano, alcune da molto tempo, alla diffusione della NMA, come Bitforms e Postmasters a New York, o DAM Gallery di Berlino; oppure Sedition, una piattaforma per l’acquisto online di opere di arte new media, l’equivalente di quello che oggi è Artsy, e nel passato è stato Artnet, per questo tipo di opere (p. 68-71). Anche se questa pratica, in parte per i motivi elencati sopra, è lontana dal livello di rilevanza commerciale che può avere l’arte cosiddetta “mainstream”, è interessante che l’autore trovi tra i motivi di sviluppo dell’arte Post-Internet, cioè la seconda generazione di artisti nati intorno alle pratiche della net.art a metà degli anni Duemila, l’interesse di essere riconosciuti e di penetrare il mondo dell’arte contemporanea, che comprende ovviamente anche il mercato (p. 78). In questo senso, l’arte Post-Internet è in continuità concettuale con la prima generazione - quella le cui mitiche origini si trovano nella mailing list nettime, e nella famosa mail ricevuta da Vuk Ćosić sul cui testo corrotto permetteva solo di leggere “net.art” a metà degli anni Novanta - pur estendendo il proprio campo d’azione non solo allo spazio pubblico o quello della galleria, ma soprattutto producendo oggetti esponibili e vendibili, e utilizzando la rete come fonte di ricerca. Questa generazione di artisti non fa differenza tra la propria attività online e offline, e in molti casi l’interesse si concentra nel rendere evidente la materialità e le infrastrutture che rendono possibile il funzionamento di Internet e di altre tecnologie, spesso considerate e percepite come “immateriali” dal pubblico più ampio. Nel libro viene citato come chiaro esempio Evan Roth e suoi Internet Landscapes (2016), ma si può anche pensare ai Bahamas Internet Cable System (BICS-1) del 2015 di Trevor Paglen, come anche ad altri suoi progetti con gli obiettivi sopra menzionati.
Nei capitoli successivi, Mancuso continua la sua tassonomia contemporanea della New Media Art dedicando il quinto capitolo a “L’arte del codice” (p.99), il sesto capitolo (p. 119) alle ricerche dedicate al rapporto tra suono e immagine, in cui parla di artisti e collettivi come gli Otolab, o il giapponese Ryoiji Ikeda. Il capitolo sette è dedicato a un approfondimento sulla materialità della New Media Art, e quindi al fabbing e ai makers (p. 143); nel capitolo otto (p. 167) si indaga il rapporto tra spazio, macchine e uomo, ovvero ricerche al limite tra arte new media e architettura, mentre l’ultimo capitolo (p. 201) investiga i rapporti tra arte e scienza, in particolare l’integrazione tra organico e tecnologico, cioè, i moist media.
Evan Roth_ Internet Landscapes_ 2015.
L’autore evita giudizi critici o complessi sviluppi teorici, le parti del libro funzionano infatti come una complessiva guida allo state-of-the-art dell’arte new media rivolta a chiunque sia interessato ad avvicinarsi a questa particolare e forma di avanguardia artistica mettendo a disposizione quell’insieme di informazioni e riferimenti utili per maggiori approfondimenti.
Invece, nella parte intitolata “Case Studies” (p. 233), l’autore utilizza i contatti e l’esperienza ottenuta negli anni attraverso Digicult, e la sua attività di curatore e docente, presentando una serie di interviste a key players del campo della new media art, ognuno dei quali introduce la propria attività con uno sguardo particolare sulla situazione attuale e sul futuro.
Se è vero che il libro non ha una vera e propria conclusione, nell’ultima sezione (p. 243), “Scenari futuri” si presentano una serie di brevi articoli che pongono delle domande su diversi aspetti degli sviluppi tecnologici contemporanei, aspetti trattati dalla New Media Art, ma che non si limitano ad essa. Le domande lasciate aperte vanno dalle nuove possibilità del cyborg contemporaneo: «perché non ipotizzare di comandare una flotta di droni per mezzo di una parte espansa tecnologicamente del nostro corpo» (p. 256), a come cambierà la fruizione, se cambierà, dell’arte attraverso dispositivi come Google Arts & Culture (p. 260), a domande più radicali, che in realtà l’umanità si è posta da sempre ma la cui risposta positiva sembra essere imminente: «sarà possibile vedere il mondo con gli occhi di un’altra persona?» (p. 270).
Queste domande si allacciano in modo naturale alla conclusione di Bruce Sterling che nella sua “Postfazione” al volume scrive: «quando Mancuso parla di art industries e di ‘nuovo paradigma di produzioni’ si sposta ben oltre l’idea del garage buio occupato da hipsters» (p. 277). In effetti, oltre alla sua profonda conoscenza e consapevolezza del mondo dell’arte Mancuso intravede e pone le domande chiave che possono fungere da base per un nuovo paradigma pronto a farsi strada nel panorama artistico italiano - Sterling parla di Milano in particolare - allineato, se non un passo avanti, alle tendenze osservabili a livello internazionale.
Potremmo pensare che filosofi e artigiani facciano due mestieri molto diversi, che hanno davvero poco a che vedere l’uno con l’altro: il primo infatti pensa, scrive e parla mentre il secondo fa, produce e manipola. Forse proprio per questo è poco usuale, per i filosofi, interrogarsi sul nesso tra la loro attività abituale, il pensiero, e il fare che segna tanto il lavoro dell’artigiano quanto la più comune prassi quotidiana. Ed è forse altrettanto poco usuale per un operaio o un artigiano chiedersi in che modo, nella sua attività di produzione, egli stia anche pensando. Eppure si tratta di una questione straordinariamente feconda, ci insegna Tim Ingold nel suo Making, prima opera dell’autore ad essere interamente tradotta in italiano a cura di Gesualdo Busacca per Raffaello Cortina (Milano, 2019, pp. 262). Il testo scaturisce dall’esperienza di un corso universitario tenuto da Ingold a partire dal 2004 nella facoltà di Antropologia dell’università di Aberdeen, intitolato: Le quattro A: Antropologia, Archeologia, Arte e Architettura. Più volte ripreso e messo da parte nel corso degli anni, Making esce per la prima volta nel 2013 e riprende l’ossatura teorica di Being alive (2011), la raccolta di saggi in cui si sviluppa un originale percorso teorico mosso dall’esigenza di riavvicinare l’antropologia alla vita. Ciò che però contraddistingue Making, rispetto a questa raccolta, è l’intimo legame che la riflessione intrattiene con l’esperienza al contempo didattica e di ricerca dell’insegnamento universitario. Ingold intende spingersi ben oltre la trasmissione di nozioni ridotte a rappresentazioni astratte, ferme e chiuse; è piuttosto interessato a coinvolgere i suoi studenti in percorsi di movimento nell’ambiente che aprano ad esso in un atteggiamento di ascolto ed esplorazione. Il gruppo si educa così a una forma di attenzione percettiva che permette di porsi sulle tracce delle cose che abitano il mondo tramite una paziente e scrupolosa raccolta di indizi. Gli studenti, infatti, erano chiamati non solo a seguire lezioni frontali, ma soprattutto a cimentarsi in esperienze di manipolazione di materiali e costruzione di oggetti nel corso di esperimenti e laboratori collettivi sempre accompagnati da momenti di restituzione e discussione. Le quattro A intrecciava dunque attività di produzione ed elaborazione riflessiva, facendole scaturire come momenti di una conoscenza trasformativa che si innesta sui percorsi vitali delle cose e si sviluppa con essi. Questo lavoro dà origine alla pratica di formazione collettiva nella quale prendono corpo le idee che animano il libro. Nell’ambito di un corso universitario, volto comunemente a produrre tramite il pensiero, Ingold e i suoi studenti imparano ad imparare in un altro modo, ossia a pensare tramite il produrre.
Tutto inizia con un duplice paradosso. Da una foto scattatagli da Antonio Semeraro nel 1994, il pittore Simon Hantaï ritaglia un particolare (che mostra le ginocchia, sformate e impolverate, dei propri pantaloni) e lo glossa sul retro con la scritta: «Ho passato la vita a quattro zampe. Scultura fatta dal corpo (Duchamp). Autoritratto, dunque». Se già questa, come immagine o sineddoche di sé, appare sorprendente, non lo è meno l’inclusione del particolare fotografico in un libro del filosofo Jean-Luc Nancy dal titolo Le Regard du portrait, accanto ad altre riproduzioni, quasi tutte di ritratti o autoritratti tradizionalmente intesi. Certo, considerando che il pittore ungherese ha dipinto gran parte delle proprie tele non su un cavalletto ma appoggiandole sul pavimento dell’atelier, si capisce in quale senso egli possa vedere nel dettaglio della foto un’immagine eloquente di se stesso. Da parte sua, Nancy prende sul serio tale definizione di ‘autoritratto’ perché si rende conto che, nell’arte contemporanea, la centralità dello sguardo della persona raffigurata si perde spesso a favore di più indirette rappresentazioni del soggetto, o di nuovi e imprevisti trattamenti «del sub e del getto (del supporto e della pittura)». In ogni caso, quando il filosofo si rivolge ad Hantaï per chiedergli l’autorizzazione a inserire nel proprio libro la foto dei pantaloni, probabilmente non immagina che la risposta positiva del pittore sarà all’origine di un carteggio fra loro destinato a durare anni e a essere pubblicato in due distinti volumi. Le lettere presentano un carattere personale e spontaneo ma, nel contempo, offrono utili spunti di riflessione. L’artista, infatti, è anche un lettore di testi filosofici, antichi e recenti, dunque in grado di dialogare senza imbarazzo col suo interlocutore. SCARICA IL PDF
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Giuseppe Zuccarino è critico e traduttore. Ha pubblicato vari saggi: La scrittura impossibile, Genova, Graphos, 1995; L’immagine e l’enigma, ivi, 1998; Critica e commento. Benjamin, Foucault, Derrida, ivi, 2000; Percorsi anomali, Udine, Campanotto, 2002; Il desiderio, la follia, la morte, ivi, 2005; Il dialogo e il silenzio, ivi, 2008; Da un’arte all’altra, Novi Ligure, Joker, 2009; Note al palinsesto, ivi, 2012; Il farsi della scrittura, Milano-Udine, Mimesis, 2012. Tra i libri da lui tradotti figurano opere di Mallarmé, Bataille, Klossowski, Blanchot, Caillois e Barthes.
Pietro Verri, all’inizio del suo Discorso sull’indole del piacere e del dolore (1781), descriveva la sensibilità umana come «il grande arcano». L’età moderna è attraversata da una doppia consapevolezza: dell’oscura complessità del sentire e della necessità di imbrigliarlo. Iniziano da qui gli sforzi di subordinare questa potenza centrifuga ad una facoltà ordinatrice, l’intelletto; salvo poi, per rendere ragione del suo aspetto più sacro e inquietante, ricondurla ad una zona delimitata dove quasi tutto è concesso: la sfera dell’arte e i suoi luoghi. L’Estetica nasce divisa tra il dominio dei sensi nell’edificio della conoscenza e il dominio delle arti, soprattutto le arti “belle”, dove la sensibilità è portata al suo grado di perfezione. Un grande equivoco. O un paradigma che non regge più: sia l’arte che la sensibilità sono state liberate, storicamente, nelle loro potenze più inquiete e se si vuole ancora - poiché più che mai si deve - parlare in termini estetici occorrono tutt’altri presupposti. Il libro di Fulvio Carmagnola L’anima e il campo. La produzione del sentire (Mimesis 2016) propone in tal senso i termini di una rifondazione del discorso estetico.
L’intento di Carmagnola è innanzitutto quello di individuare le modalità minime dell’estetico, là dove esso non è stato addomesticato. Le sue prime mosse teoriche si potrebbero riassumere in questa frase: l’estetico è rapporto con un reale. Si tratta della proposizione minima su cui si è giocato il discorso da ben prima della costituzione dell’Estetica moderna: Platone parla del rapporto che va dalla copia o dal simulacro all’idealità reale, Aristotele di quello che lega una facoltà sensitiva al reale fisico. Oggi s’impone la necessità di pensare questo rapporto al di là del legame rappresentativo. Ispirandosi alle analisi del post-strutturalismo francese, Carmagnola cerca nel paradigma realista (nel De Anima di Aristotele prima e nell’Estetica razionale di Ferraris poi) le asperità teoriche che permettono di riformulare l’estetico come l’affezione che un’anima riceva da un fuori. Il reale si configura come un’esteriorità dinamica, opacità non-oggettivabile né riducibile a simbolo, che frantuma il soggetto (una lacaniana extimité) a partire dalle sue stesse facoltà. Ciò che è affetto, l’anima, è invece una tabula dotata non di semplice ricettività, ma di una forma di riflessione produttiva, la cui attività resta precedente alla coscienza.C’è un “fuori” che affetta un’“anima”: ecco l’estetico.
La mossa teorica cruciale sta nel collocare l’anima tra le facoltà e in ognuna di esse: come spiega Carmagnola, citando Deleuze, ogni facoltà ha il suo sentire, la sua zona di virtualità dinamica, la sua passione. La sensibilità, intesa come facoltà dei sensi, confina “in basso” con le potenze del reale; si tratterà di liberarla dal suo ruolo iniziale nell’edificazione del soggetto e dalla sua subordinazione all’intelletto. Il pensiero, a sua volta, confina “in alto” con un impensato, come il nous che Aristotele divide in passivo (materiale) e agente (formale). Il “fuori” è dunque tanto concreto quanto astratto. E si manifesta come presentazione assoluta: l’immagine, nel mostrare le ragioni del proprio apparire, è un nudo imperativo che coglie di sorpresa tanto i sensi quanto il pensiero. Le parti più feconde del saggio sono proprio quelle che si avvicinano all’incontro che avviene nelle opere - da Beckett a Barnett Newman -, all’accadere dell’estetico in virtù di queste due potenze differenti.
L’anima è così una sorta di ricettacolo delle forme che riflette la passione dei sensi e quella del pensiero. Riguarda il senso non elaborato dalla coscienza, e perciò è più corpo che spirito. Soprattutto, è «emergenza di un terreno»: si configura spazialmente, come un campo. Togliendo gli oggetti, spiega Carmagnola, e togliendo le loro coordinate trascendentali, non resta che il campo di produzione, il luogo dell’incontro, il campo del sentire. Questo termine pesante tenuto in gioco, “anima”, appare come un tentativo di sviluppare la nozione deleuziana di superficie. Al limite delle facoltà, secondo il loro eccesso, il sentire ha luogo come emergenza di uno spazio, «impersonale» e «intensivo» (Deleuze), «esteso» - perché non cogitans, come l’inconscio, e in tal senso «tecnico» (Nancy). Non ci addentriamo nelle argomentazioni riportate dall’autore; basti l’esempio di quelle opere (quei frutti della techne), che per semplicità chiamiamo ancora opere d’arte, in cui siamo “invitati ad entrare”, che impongono cioè un ingresso piuttosto che un’osservazione distaccata: non siamo più oggi, di fronte ad un quadro, ma «dentro una macchina». Nel produrre puro sentire, l’arte contemporanea non rappresenta, ma presenta degli spazi.
Anche se un tale mosaico teorico non sembra raggiungere lo stato di una sintesi, l’autore mostra un grande lavoro di raccolta e messa a frutto di materiali disparati, in assoluta consapevolezza delle attuali tendenze filosofiche. L’originalità della proposta si scorge anche nelle sue prime conseguenze: fra tutte, la possibilità - suggerita da Carmagnola nell’ultima parte del saggio - di interpretare il campo estetico come una componente del campo del biopotere. Quello che si dischiude attraverso i vari dispositivi di apertura del campo del sentire (dalle immagini pubblicitarie agli oggetti di consumo) è uno spazio comune di godimento, di empatia nel being entertained,che non si rivolge più a delle soggettività compiute ma, piuttosto, le compie.
Qui l’autore intercetta un passaggio importante e raramente riconosciuto: l’ideale dell’arte come chance di resistenza e liberazione è legato alla supposizione di una sua mistica portata veritativa. È sul terreno vago delle potenzialità politiche che la filosofia dell’arte e la vecchia estetica continuano ad avere un peso. Nella sua analisi, fortemente influenzata dalla psicanalisi lacaniana, Carmagnola sembra però vedere solo un lato della questione. Se è vero che il distoglimento dischiuso dal sentire non ha più alcun valore liberatorio nel caso dell’arte attuale (l“arte contemporanea” e il suo sistema), è vero d’altra parte che, allargando il campo a ciò che arte non è, anche le chances per la prassi si moltiplicano. Come intendere altrimenti il fenomeno (non ancora del tutto superato nell’istituzionalizzazione) della street art? Come includere quelle immagini che, da sole, tengono in piedi una memoria minacciata, come i pochi fotogrammi scattati dentro i campi di sterminio? Il «campo del sentibile» è qualcosa di molto più sfuggente del campo dell’arte, e deve indicare un più ampio paesaggio di pratiche.
È piuttosto insolito incontrare, negli scritti di un pittore, riferimenti ai filosofi. Eppure, nell’ampio corpus di quelli redatti nel corso dei decenni da René Magritte, capita a volte di imbattersi nei nomi di Eraclito, Socrate, Platone, Descartes, Berkeley, Kant, Hegel, Schopenhauer, Marx, Nietzsche, Bergson, Bachelard, Heidegger, Sartre, Merleau-Ponty. Inoltre, anche se i testi dell’artista belga non sono certo di carattere filosofico, in alcuni di essi si può ravvisare un’originale riflessione sul linguaggio. Ricordiamo per esempio un celebre scritto illustrato del 1929, Les mots et les images, che contiene enunciati lapidari come i seguenti: «Un oggetto non è mai tanto legato al suo nome che non se ne possa trovare un altro che gli si adatti meglio»; «Un’immagine può prendere il posto di una parola in una proposizione»; «Tutto tende a far pensare che ci sia scarso rapporto tra un oggetto e ciò che lo rappresenta»; «A volte il nome di un oggetto può sostituire un’immagine»; «In un quadro, le parole sono della stessa sostanza delle immagini»; «Si vedono in un modo diverso le immagini e le parole in un quadro». Date queste premesse, non desta sorpresa il fatto che Magritte si sia affrettato a leggere un libro di Michel Foucault dal promettente titolo Les mots et les choses, senza farsi intimorire dalla mole e dalla complessità della trattazione. Resta strano, però, il fatto che, a poco più di un mese dall’uscita del volume, un pittore anziano e affermato come lui abbia sentito l’esigenza di scrivere a Foucault una lettera al fine di comunicargli le proprie idee su una questione specifica, ossia il tema della somiglianza. In effetti nel libro, riferendosi alla cultura del Cinquecento, il filosofo aveva evidenziato l’onnipresenza, in vari campi del sapere, dell’idea di somiglianza o similitudine...Scarica PDF
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Giuseppe Zuccarino è critico e traduttore. Ha pubblicato vari saggi:La scrittura impossibile, Genova, Graphos, 1995; L’immagine e l’enigma, ivi, 1998; Critica e commento. Benjamin, Foucault, Derrida, ivi, 2000; Percorsi anomali, Udine, Campanotto, 2002; Il desiderio, la follia, la morte, ivi, 2005; Il dialogo e il silenzio, ivi, 2008; Da un’arte all’altra, Novi Ligure, Joker, 2009; Note al palinsesto, ivi, 2012; Il farsi della scrittura, Milano-Udine, Mimesis, 2012. Tra i libri da lui tradotti figurano opere di Mallarmé, Bataille, Klossowski, Blanchot, Caillois e Barthes.
Nel senso più generico del termine, la deformazione consiste nell’alterazione, temporanea o definitiva, della configurazione originaria di un oggetto, e in pittura indica quel processo di alterazione delle forme naturali che porta a risultati spesso considerati mostruosi o aberranti. Attraverso le diverse riflessioni di artisti e filosofi, nel corso del Novecento la deformazione ha però subito una notevole evoluzione concettuale, passando dall’essere concepita come specifico fattore stilistico a processo genetico dello stile in quanto tale, fino a darsi addirittura come mediazione di più larghe operazioni estetiche o extra-pittoriche.
Untitled, Jannis Kounellis (1968)
A inizio Novecento, il simbolista francese Maurice Denis proponeva un’acuta distinzione tra deformazione “oggettiva” e deformazione “soggettiva”: la prima, accostabile alla coeva nozione worringeriana di abstraktion, si costituiva come principio regolatore delle tensioni formali interne all’immagine secondo quelle che Denis definisce le “leggi eterne della decorazione”; la seconda scaturiva dalla necessità di mediare la natura attraverso il proprio “temperamento” psichico. La nuova teoria della pittura di Denis si basa sull’espressione per “equivalenze” e non più per “mimesi”, individuando così le basi di quella che sarà la più valida e genuina pittura contemporanea. Alla luce di quanto si è visto nei decenni a venire, potremmo infatti intravedere in questa coppia polare il seme di due linee stilistiche dominanti nella cultura novecentesca: dalla prima la dipartenza dello sviluppo di tutti i decorativismi geometrici e delle ricerche di arte concreta, mentre dall’altra le contratture segniche e materiche degli espressionismi, manifestatisi nel corso del secolo a più riprese, fino agli esiti figurativi dell’Informale.
Il futurista Carlo Carrà, in un breve e puntuale scritto intitolato proprio La deformazione in pittura e pubblicato sulla rivista «Lacerba» del 15 marzo 1914, afferma che ormai non possa più sussistere opera senza l’intervento della deformazione, considerando questa soluzione non solo come “fattore predominante” nella costruzione del quadro, ma addirittura come un “altimetro” per misurare i vari gradi di espressione plastica di un’opera. Naturalmente, in piena fede futurista, Carrà vede la deformazione come conseguenza del movimento, della necessità di resa dinamistica della realtà e rivanga quel concetto riportato nel Manifesto tecnico della pittura futurista del 1910 secondo cui “per la persistenza dell’immagine nella retina, le cose si moltiplicano”, ma soprattutto “si deformano, susseguendosi, come vibrazioni, nello spazio che percorrono”. Le affermazioni di Carrà riguardano problematiche stilistiche ben precise e circoscritte al loro tempo, ma l’intuizione per cui la deformazione sia alla base di qualunque opera d’arte contemporanea è di una lungimiranza che solo anni dopo e in sede di riflessione estetica avrebbe trovato un più ampio sviluppo. Dovremo perciò aspettare la soglia degli anni Cinquanta perché il concetto di deformazione venga esteso da Maurice Merleau-Ponty fino ad assurgere a sinonimo di stile. Per il fenomenologo francese lo stile è un modo di ricreare i fenomeni e trovare per essi nuove modalità di essere nel mondo, perché solo il pittore riesce a percepire “le norme e le deviazioni dell’inaccessibile pienezza delle cose”. La sua dissertazione sullo stile muove dall’assorbimento sul piano fenomenologico del concetto di “deformazione coerente” formulato da André Malraux (autore esplicitamente richiamato nel titolo con le voci del silenzio), secondo il quale ogni pittore ha un proprio modo consapevole di deformare i dati visibili per risemantizzarli, investirli di nuovi significati. Quasi come in un lontano dialogo con Maurice Denis, anche Merleau-Ponty concepisce lo stile-deformazione come “sistema di equivalenze”, ma aggiunge che solo attraverso “l’indice universale della deformazione coerente” un artista “concentra il senso ancora sparso nella sua percezione e lo fa esistere espressamente”. Qui l’oggettivo e il soggettivo teorizzati da Denis sono come stati fusi in un unico canale di accesso alla realtà attraverso cui il pittore rielabora le qualità dei dati visivi nella più generale prospettiva di una propria definizione stilistica. A proposito di questa assimilazione del concetto di deformazione a quello di stile, andrebbe forse considerato il fatto che gli anni in cui scrive Merleau-Ponty sono anche i graffianti anni dell’Informale, rappresentato in Francia da maestri quali Jean Dubuffet e Jean Fautrier. Corrente pittorica di larga e capillare diffusione, incentrata su problematiche esistenziali affatto estranee al pensiero fenomenologico, essa ha, com’è noto, fervidamente applicato indici di deformazione estrema alle proprie figure, aspetto che può avere giocato un qualche ruolo nelle riflessioni del nostro filosofo.
Jean Dubuffet, Affluence (1961)
Il contributo più articolato sul concetto di deformazione arriva però da un filosofo italiano, sempre di scuola fenomenologica, Miro Martini, allievo di Antonio Banfi e autore di un ampio e complesso saggio intitolato La deformazione estetica, frutto di profonde riflessioni sull’atto estetico come atto deformante. Si tratta di un sistema che ingloba e sostiene la corrispondenza cara a Merleau-Ponty tra deformazione e stile, ma che va ben oltre i comuni processi di formalizzazione artistica per aprirsi al più generale piano dell’estetica. Martini estende tale concetto “all’intero mondo estetico nella varietà dei suoi piani fondamentali”, quasi intuendo che l’orizzonte mediale dell’arte si sarebbe a breve espanso enormemente fino a coincidere con quello della quotidianità; secondo Dino Formaggio, con questa “legge dell’esistere artistico in concreta esperienza” Martini intendeva sostenere che “l’arte compie un’opera di trans-valutazione dei momenti della vita, del vivere di ogni giorno”, una traslazione del mondano nell’artistico attraverso quella che oggi con Arthur Danto diremmo una trasfigurazione del banale. Si tratta di sottrarre quindi elementi concreti e dinamiche del quotidiano alla loro comune funzione pratico-utilitaristica per riscattarli esteticamente o, come rimarca Formaggio, “a dar forma compiuta e nobiltà di stile ad ogni esperienza del vivere”. Conferme pratiche alle idee di Martini sarebbero arrivate solo anni e anni dopo la sua scomparsa con fenomeni quali lo happening, la performance, l’Antiform o le poetiche del Concettuale; ma mi pare piuttosto significativo che nella Milano di metà anni Cinquanta, e poco dopo l’uscita (purtroppo postuma) del testo di Miro Martini, artisti spazialisti come Agostino Bonalumi o Enrico Castellani cominciassero a intervenire su delle tele monocrome per dilatarle, estrofletterle, alterandone la configurazione di base e sperimentando così la deformazione non più sul piano virtuale della figurazione, bensì su quello della piena materialità (pur rimanendo ancora legati a un supporto artistico tradizionale), producendo in definitiva una sorta di sinergia tra teorie e poetiche contemporanee, e riuscendo anzi a dare alle idee martiniane un’indiretta e probabilmente inconsapevole convalida.
Agostino Bonalumi, Senza titolo - nero (1968)
Ecco dunque emerso lo status “bipolare” del concetto di deformazione nella cultura del Novecento, dove al primo polo, quello originario o dell’uso comune del termine e relativo a questioni plastico-formali (deformazione come alterazione di configurazione), se ne affianca un altro relativo a ridefinizioni artistiche dell’esperienza tramite mezzi, elementi e modalità dell’esperienza stessa (deformazione come stile e, solo dopo, come riformulazione estetica del quotidiano), ampliando così ad libitum le possibilità pratiche di stilizzazione. Quello tra deformazione plastica e deformazione estetica non è tuttavia un conflitto insolubile o un eterno scontro tra nemici giurati, ma al contrario una quieta e fruttuosa convivenza, spesso di reciproco supporto: le due istanze si incrociano e dialogano sempre più di frequente, e soprattutto oggi, nell’uso di mezzi come la fotografia o il video ormai divenuti imprescindibili per la ricerca contemporanea. La deformazione plastica, infatti, ha trovato in questi strumenti vie di aggiornamento oggi battutissime come l’uso delle distorsioni, delle alterazioni di segnale, e manipolazioni di ogni sorta, per le quali è proprio la deformazione estetica, lanciata nella prospettiva di una potenziale pan-artisticità dell’esperienza, a garantirne il valore espressivo. Da qui in poi, il concetto di deformazione in ambito artistico non potrà che vivere dunque di alternanze e distinzioni, ma questo suo bipolarismo lo manterrà, senza dubbio, fiamma di ogni dibattito sullo stile, sulle poetiche, sull’esistenza dell’arte. Attuale per sempre.
di Pasquale Fameli
Bibliografia
Carrà, C. (1978). La deformazione in pittura (1914). In M. Carrà (a cura di), Carlo Carrà. Tutti gli scritti (pp. 30-33). Milano: Feltrinelli.
Danto, A. (2008). La trasfigurazione del banale. Una filosofia dell’arte (1981). Bari: Laterza.
Denis, M. (1920). Théories 1890-1910. Du symbolisme et de Gauguin vers un nouvel ordre classique (1913). Paris: L. Rouart et J. Watelin Éditeurs; in particolare pp. 23, 268.
Martini, M. (2002). La deformazione estetica (1955). Milano: Unicopli; in particolare: pp. 55-57. Si veda inoltre la prefazione alla seconda edizione di Dino Formaggio, in particolare pp. 2-3.
Merleau-Ponty, M. (1967). “Il linguaggio indiretto e le voci del silenzio” (1952). In Id., Segni. Milano: Saggiatore; in particolare p. 81.
Worringer, W. (1976). Astrazione e empatia (1907). Torino: Einaudi.
Negli ultimi quindici anni di ricerca e insegnamento i temi e i soggetti a cui abbiamo rivolto la nostra attenzione, a partire da posizioni e con traiettorie indipendenti, hanno mostrato un denominatore comune che si può indicare nel mito. Ogni volta, nell'affrontare con strumenti e sguardi di volta in volta monografici o tematico-discorsivi, oggetti disparati legati alle dimensioni della politica, della società, dell'economia, dell’identità, dell’immaginario, della memoria, della storia, delle credenze, la questione del mito – di cosa fosse, cosa sia, come si generi, come si trasformi, come agisca, cosa produca – si è posta come centrale e urgente. A partire dal 2011 la nostra collaborazione sul tema del mito ha dato vita a una riflessione specifica che si è materializzata nella pubblicazione di un volume collettaneo, curato dai sottoscritti e con circa trenta collaboratori, dedicato al mito nel XX secolo: Filosofie del mito nel Novecento, Carocci, Roma 2015. L'impianto generale di questo numero della rivista e alcuni articoli derivano da quel cantiere di lavoro, inteso come una vasta ricognizione sul mito e sul modo di rivolgersi a esso nella cultura contemporanea. Filosofie del mito nel Novecento, chepuò essere considerato il fratello maggiore di questo numero, consiste in un percorso storico-storiografico per autori e temi, strettamente legato alla filosofia, all'antropologia e alla storia della religioni: diversamente gli articoli qui proposti, dopo un inquadramento filosofico (teoretico e politico al tempo stesso) dei curatori, prendono in considerazione alcuni snodi trasversali della miticità contemporanea, in ambiti diversificati come quelli dell’arte visiva, della critica letteraria, del cinema, delle scienze cognitive, della storiografia, dell’esoterismo. Abbiamo invitato studiosi e studiose di differenti ambiti a scrivere testi relativamente brevi, a metà tra un saggio e una voce di enciclopedia, chiedendo un apporto teorico che non va inteso in senso completistico o riassuntivo. Ogni tema è dunque stato declinato mediante la scelta di un percorso o uno studio di caso, significativo ed esemplare.
Nel caso di arte, letteratura e cinema, curati rispettivamente da Martina Corgnati, Giulia Boggio Marzet Tremoloso e Giampiero Frasca, si tratta, come è immaginabile, di mostrare gli aspetti estetici e poietici del mito nella cultura del Novecento, con tagli e prospettive che sono propri di ogni ambito, nel riferimento al mito come repertorio di soggetti e temi o strumento analitico, ma anche come generatori di nuova e specifica miticità. Il saggio di Gianluca Solla su Kantorowicz, nel contesto del George-Kreis e della cultura nella Repubblica di Weimar, nella sua singolarità mostra come anche la scienza storica, nella sua prassi scritturale e metodologica, possa essere strettamente intrecciata alla dimensione mitologica e si inscriva in cortocircuito tra passato e presente, che richiede anche sorveglianza. In una sorta di antipodo, il saggio di Francesco Baroni illumina in termini storico-storiografici e di storia delle idee un ambito in cui il mito, nella produzione testuale di figure come Guénon e Evola, consuma l'intero spazio del reale, della storia e del divenire fino a trasformarsi in contro-mondo finanche allucinato e ideologizzato, dove la dimensione metafisica tende ad azzerare o sovradeterminare quella sensibile e materiale. Il saggio dedicato alle neuroscienze cognitive, scritto da Edoardo Acotto mostra un'approccio biologico, evoluzionista e in qualche modo neo-trascendentale al mito, innovativo e tendenzialmente recente, almeno per gli standard italiani, che apre prospettive particolarmente interessanti che non possono non essere problematiche per chiunque si rapporti alla dimensione del mito in termini “classici” e metafisici.
Contro i fanatici rimitizzatori e per avvertire gli ingenui demitizzatori, pensiamo sia opportuno guardare al “mito” o meglio al MITO, nelle sue declinazioni – mitologie, miticità, mitopoiesi, mitodinamiche; per tracciarne gli slittamenti, le intermittenze e le folgorazioni, inseguendoli negli ambiti delle pratiche sociali in virtù delle quali i vincoli collettivi trovano stabilità e fondamento. Con l'idea che in questo quadro si inscriva parte significativa del modo in cui i moderni narrano sé stessi e definiscono portata e limiti del luogo, supposto altro, abitato dal mito.
Al volgere del Sessantotto, un fine critico come Filiberto Menna lanciava la sua Profezia di una società estetica, intuendo per la società postmoderna i modi di una creatività diffusa, la diluizione dell’arte nella quotidianità, rintracciandone i precursori in Preraffaelliti e Simbolisti. La tendenza alla sintesi e all’alleggerimento dell’immagine contemporanea ha infatti favorito un rifiorire della decoratività, che oggi si dà in numerose forme, dal tatuaggio al gadget allo sticker, dalle copertine dei dischi alle cover per lo smartphone. Sono queste le nuove forme di quella che un tempo si diceva arte applicata e che oggi passa anche come design, con una panoplia di possibili prefissi. Persino il video mapping, che può essere legittimato come un nipote eccentrico dei sons et lumières francesi, rientra a pieno nell’alveo delle arti applicate contemporanee: spettacoli, nel senso stretto della parola, ornamenti mobili, dinamici, evanescenti ed effimeri, ma pur sempre mirati a intrattenere e divertire un pubblico di massa animando la facciata di un qualche palazzo, riqualificandola esteticamente. Così valga anche per quei variegati tappeti visuali che animano i live di musica elettronica o le discoteche, etichettati con il termine un po’ generico di visual. Essi fungono da apparato decorativo, mutuano i loro stilemi perlopiù dai geometrismi concretisti del Neoplasticismo e del Suprematismo, o viceversa, in altri casi, simulano le pulsioni organiche dell’Informale e dell’Espressionismo Astratto mediante le molte possibilità della computergrafica. Sia la dinamicità sia le evoluzioni delle loro forme sono subordinate alla velocità e alle peculiarità della musica che accompagnano: la loro funzione è quella di alleggerire l’ascolto cosiddetto “acusmatico”, come lo ha definito Pierre Schaeffer, quello della musica registrata, separata dal gesto o dall’evento che l’ha generata, per favorire un più equilibrato bilanciamento di stimoli sensoriali.
Vivid Sydney 3D Mapping
Esistono però motivi più profondi che permettono di ricondurre il fenomeno del visual per musica alle arti applicate, motivi che legano indissolubilmente decorazione e musica rintracciati da grandi filosofi e teorici già tra Sette e Ottocento. Nella Critica del giudizio Kant afferma che «i disegni à la grecque, i fogliami delle cornici e delle tappezzerie […] sono bellezze libere» (1997, p. 124), riconducendo così l’ornamento a quella che nel terzo momento della “Analitica del bello” viene da lui stesso etichettata come pulchritudo vaga, una bellezza estranea agli obblighi della rappresentazione e quindi formalmente autoreferenziale. La libertà formale degli ornamenti porta il pensatore di Königsberg a considerarli «come della stessa specie di quelle che in musica si chiamano fantasie (senza tema), ed anche tutta la musica senza testo» (ibidem). Meno di un secolo dopo anche Eduard Hanslick, musicologo praghese e teorico del formalismo musicale, si appresterà a stabilire una stretta corrispondenza ontologica tra le forme dell’ornamento e le forme della musica, riconoscendo a entrambe una comune autonomia di significato, istanze di una pulchritudo vaga, per dirla ancora con Kant. Nel tentativo di spiegare in che modo la musica possa dare “forme belle senza contenuto”, Hanslick trova infatti un appoggio ideale nel paragone con l’arabesco e ne fa emergere le possibili corrispondenze con la composizione musicale, tracciando nella propria immaginazione «linee curve che ora si abbassano dolcemente, ora audacemente si innalzano, si incontrano e si allontanano, si corrispondono in archi piccoli e grandi, sono apparentemente incommensurabili, ma sempre ben proporzionate, si contrappongono o si fanno riscontro: insieme di piccole unità singole che pure costituisce un tutto» (2001, pp. 63-64). L’invito di Hanslick è ora quello di immaginare un arabesco mobile, vivente, «che nasca davanti ai nostri occhi in una continua autoformazione» e in quanto «attiva estrinsecazione di uno spirito artistico, che riversi incessantemente tutta la pienezza della sua fantasia nelle vene di questo movimento» (ibidem), proprio come in una composizione musicale. La suggestiva descrizione di Hanslick, ricca di verbi di movimento, appare già come la descrizione di un film astratto di Hans Richter, di Len Lye o di Norman McLaren, così come dei visual (eredi diretti di queste esperienze) dei live di Alva Noto. Il perfetto matrimonio tra visual e musica elettronica si deve poi alla loro affinità ontologica, all’identità delle loro origini: entrambe le forme nascono infatti dai medesimi algoritmi, da calcoli celati, nascosti, che le intrecciano e le canalizzano in un unico flusso temporale. Anche l’ornamento più tradizionale ha in sé un certo movimentismo, come notava a suo tempo Henri Focillon, ma di certo è solo il video a renderlo un fatto concreto e a trasformare così la metafora di Hanslick nella realtà delle nuove dimensioni dell’ascolto musicale: un ascolto espanso, sinestetico, vitalistico.
di Pasquale Fameli
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Bibliografia
Focillon, H. (1987). Vita delle forme (1934). Torino: Einaudi.
Hanslick, E. (2001). Il bello musicale (1854). Palermo: Aesthetica.
Kant, I. (1997). Critica del giudizio (1790). Roma-Bari: Laterza.
Mazzoni, A. (2011). Il gioco delle forme sonore. Studi su Kant, Hanslick, Nietzsche e Stravinskij. Milano-Udine: Mimesis.
McLuhan, M. (2011). Capire i media. Gli strumenti del comunicare (1964). Milano: Il Saggiatore.
Menna, F. (1968). Profezia di una società estetica. Roma: Lerici.
Schaeffer, P. (1966). Traité des objets musicaux. Paris: Éd. du Seuil.
Estesie. Forme e idee del Novecento è uno spazio di riflessione sui rapporti tra l’arte e la filosofia, un banco di prova dei loro possibili intrecci e un laboratorio in cui testarne le loro forze magnetiche. Tra i molti settori della cultura di una determinata epoca vengono infatti a stabilirsi delle connessioni spontanee, delle sintonie inattese o non necessariamente cercate, che contribuiscono tuttavia ad avvalorarne i tratti somatici e a farne emergere le peculiarità. Prendendo spunto dalle poetiche, dalle teorie o dai fatti artistici ed estetici più rilevanti del Novecento, nello spazio di Estesie vengono testate le loro molteplici aperture connettive, secondo una concezione rizomatica della cultura che vede nell’intersezione e nella trama reticolare le più efficaci forme di comprensione dell’oggi.
Pasquale Fameli (1986) è dottorando in Arti visive, performative e mediali presso l'Università di Bologna. Si occupa di ricerche extra-pittoriche del Novecento, con particolare attenzione ai fenomeni sonori e sinestetici.
Ferdinand Kriwet, Ohne Titel (Rundschreiben), 1973
A partire dall’inizio degli anni Settanta, Pierre Klossowski si lascia quasi del tutto alle spalle una lunga carriera di romanziere, saggista, filosofo e traduttore, per dedicarsi alla pratica del disegno. Quella grafico-pittorica, del resto, è un’arte che gli era familiare fin dall’infanzia, visto che entrambi i suoi genitori si dedicavano a essa, mentre il fratello maggiore, Balthasar, è divenuto un pittore di fama internazionale col nome di Balthus. La dedizione di Klossowski alle arti visive diventa ancor più appassionata ed esclusiva a partire dal 1972, in coincidenza col passaggio dai disegni a grafite a quelli effettuati con le matite colorate. Si tratta di una tecnica resa originale dal fatto di essere applicata su grandi superfici di carta, il che consente all’artista di ottenere dei quadri che hanno spesso l’imponenza di affreschi murali. Pur non avendo alcun problema a trovare galleristi e critici disposti ad appoggiare la sua nuova scelta di vita, e pur considerando l’espressione visiva come più diretta ed efficace rispetto a quella letteraria o saggistica, Klossowski non è mai riuscito a liberarsi dal medium della parola. Ha ritenuto infatti necessario ricorrere a esso per spiegare la propria idea di pittura e replicare alle obiezioni di coloro che trovavano da ridire sui suoi lavori, giudicandoli troppo letterari per un verso (in quanto i temi dei quadri sono spesso collegabili a quelli delle opere narrative precedenti) e troppo rétro e maldestri dal punto di vista formale. Tuttavia i testi da lui scritti in proposito nell’ultimo trentennio di vita sono interessanti non soltanto come autodifese o dichiarazioni di poetica, ma anche per le loro implicazioni teoriche generali, concernenti lo statuto dell’opera d’arte pittorica.
Giuseppe Zuccarino è critico e traduttore. Ha pubblicato vari saggi:La scrittura impossibile, Genova, Graphos, 1995; L’immagine e l’enigma, ivi, 1998; Critica e commento. Benjamin, Foucault, Derrida, ivi, 2000; Percorsi anomali, Udine, Campanotto, 2002; Il desiderio, la follia, la morte, ivi, 2005; Il dialogo e il silenzio, ivi, 2008; Da un’arte all’altra, Novi Ligure, Joker, 2009; Note al palinsesto, ivi, 2012; Il farsi della scrittura, Milano-Udine, Mimesis, 2012. Tra i libri da lui tradotti figurano opere di Mallarmé, Bataille, Klossowski, Blanchot, Caillois e Barthes.
La rubrica si occuperà dei margini della filosofia, cioè dei punti in cui a essa può accadere di sconfinare, evadendo dal proprio territorio, o all’opposto di subire invasioni da parte di «non addetti ai lavori». Per essere più espliciti, diremo che a essere in causa è il rapporto tra la filosofia e le arti, in particolare la letteratura. Si tratterà dunque di mostrare, tramite esempi significativi, come i pensatori del secolo scorso e di quello presente si siano rapportati alle opere di poeti, narratori o artisti visivi. Ma spesso saranno anche presi in esame casi in cui, viceversa, sono stati gli scrittori a dimostrare interesse per le opere dei filosofi, antichi o recenti. Date le competenze specifiche del curatore, l’attenzione sarà rivolta perlopiù all’area culturale francese.
Giuseppe Zuccarino è critico e traduttore. Ha pubblicato vari saggi:La scrittura impossibile, Genova, Graphos, 1995; L’immagine e l’enigma, ivi, 1998; Critica e commento. Benjamin, Foucault, Derrida, ivi, 2000; Percorsi anomali, Udine, Campanotto, 2002; Il desiderio, la follia, la morte, ivi, 2005; Il dialogo e il silenzio, ivi, 2008; Da un’arte all’altra, Novi Ligure, Joker, 2009; Note al palinsesto, ivi, 2012; Il farsi della scrittura, Milano-Udine, Mimesis, 2012. Tra i libri da lui tradotti figurano opere di Mallarmé, Bataille, Klossowski, Blanchot, Caillois e Barthes.