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L’ornamento. «Cahiers philosophiques» n. 162/3
Recensioni / Febbraio 2022Il tema dell’ornamento sta al centro del numero 162 dei Cahiers philosophiques, pubblicato da Vrin nel terzo trimestre del 2020. Il volume non pretende di offrire un’analisi sistematica del suo oggetto d’indagine: piuttosto, mimando la natura poliedrica e irriducibilmente ambigua dell’ornamento stesso, il numero di rivista mette in scena una serie di interventi in cui temi e problemi ritornano e variano da un contributo all’altro, affrontando la questione dell’ornamento da prospettive diverse, che talvolta s’intersecano, e partendo da casi sempre specifici e singolari.
Ad aprire il volume è l’articolo di Bernard Sève, in cui l’indagine viene condotta da un punto di vista ontologico. Una storia e teoria dell’ornamento a cavallo tra diciottesimo e diciannovesimo secolo è invece offerta da Claire Pacquet, la quale rivolge la propria attenzione alla querelle berlinese che ha visto tra i suoi protagonisti autori del calibro di Moritz e Goethe. Marie Schiele, con un testo sul panneggio in Aby Warburg, e Rémi Labrusse, con un intervento dedicato all’arabesque, in maniere diverse mostrano come l’ornamento possa andare a perturbare il regime rappresentativo occidentale. Il testo di Aurélie Ledoux si articola invece intorno a questioni di ordine politico. Il volume si chiude proponendo la traduzione in francese di alcuni testi classici sul tema: l’introduzione de Il senso dell’ordine di Ernst Gombrich (1979), in cui l’ornamento, inteso come pattern, viene indagato con strumenti psicologici e biologici, e due conferenze di William Morris, intitolate L’arte e i suoi produttori (1888) e Conferenza sulla collezione di pittura della scuola preraffaelita inglese (1891). Le traduzioni, realizzate da Laure Bordonaba, sono precedute da un suo commento introduttivo.
Come gli autori mostrano fin dalle prime pagine del volume, l’ornamento rifiuta non solo una definizione univoca, ma anche una collocazione chiara: pullulando, accidente fantasmatico separato dal suo supporto sostanziale, esso è in grado di migrare, andando a innestarsi nei più diversi contesti. Basti pensare alle grottesche, motivi ibridi di derivazione antico romana che mescolano il registro dell’umano, dell’animale, del vegetale e del geometrico (fig. 1), o alle arabesques, volute fitomorfe di origine islamica: soprattutto a partire dagli scavi di Ercolano (1738) e Pompei (1748), questi motivi ornamentali hanno avuto la capacità di circolare come vere e proprie formule di sapore warburghiano, andando a “infestare” le produzioni artistiche più disparate, dal disegno alla danza.
Proprio la capacità di attraversare i diversi linguaggi artistici fa dell’ornamento un elemento di straordinaria rilevanza nel mettere in discussione il paradigma moderno dell’autonomia dell’arte, come si evince dagli articoli di Sève e Pacquet. L’ornamento, “concetto transartistico” (p. 9 e ss.), evidenzia non solo la continuità tra pittura, scultura, musica, danza e così via, ma permette anche di ripensare i rapporti tra arte alta e arti applicate, mettendo in luce zone di fertile commistione (p. 25). Il tema è anche al centro delle preoccupazioni di William Morris (1834-1896), che individua proprio nell’ornamento l’area di intersezione tra le proprie posizioni politiche ed estetiche. Morris, unendo la militanza socialista all’attività artigianale presso il movimento Arts and Crafts, promuove una concezione secondo cui “tutta l’arte è ornamentale” poiché tutta l’arte – dalla minore alla maggiore – si dà nell’articolazione ad un ambiente. Il museo, “luogo melanconico” (p. 131), strappa invece l’opera alla vita. Portando avanti una critica d’ispirazione marxista all’industria e alla distruzione del fare artigianale, Morris pone l’ornamento al centro del proprio “pensiero ecologico” (p. 136): se il capitalismo si impernia su pratiche di separazione e parcellizzazione, l’ornamento, nozione relazionale, segnala invece l’essenziale giuntura tra arte e contesto. L’arte, per Morris, è “socialista per essenza” (p. 136): essendo ornamentale, essa è relazionale, e non può essere separata dal politico.
D’altro canto, proprio l’ambiguità che anima intimamente l’ornamento fa sì che esso possa essere letto anche in una chiave politica molto diversa. È ciò che viene evidenziato nell’articolo di Ledoux: partendo dalla tesi di Siegfried Kracauer su La massa come ornamento, in cui si rinviene un’omologia strutturale tra la parcellizzazione del lavoro nell’organizzazione tayloristica e le composizioni di ballerine che verranno poi esibite in maniera eminente dalle coreografie per cinema di Busby Berkeley, l’autrice analizza l’“impensato fascista” che può venire ad animare il motivo ornamentale. Qui, la massa umana che diviene ornamento è il correlato estetico dei modi di produzione capitalista: “la ballerina, come l’operaio” (p. 79), una volta sussunta nell’insieme perde il proprio valore individuale.
Fenomeni come quello delle Tiller girls di fine Ottocento o delle Rockettes americane, in cui il corpo individuale sparisce e la sincronia dei movimenti dà vita a formazioni astratte, dall’apparenza quasi inorganica, ci permettono di volgere l’attenzione alla natura morfologica dell’ornamento. Aspetto poco esplicitato nel volume, il carattere anzitutto morfologico di ogni motivo ornamentale anima però implicitamente tutti gli interventi, in particolare quelli di Pacquet e Labrusse: si tratta, ad esempio, della “gratuità formale” delle arabesques (p. 58), “forme mute” che eccedono la figurazione (p. 59) e che, nella loro qualità puramente plastica, autonoma rispetto a significati e finalità estrinseche, quasi si configurano come astrazione ante litteram. L’arabesque, forma errante che, come ha notato Moritz, incarna il gesto che la traccia e sorge da una pulsione (un Trieb) di decorazione (pp. 34-38, 69), ha dunque carattere “capriccioso, arbitrario, non mimetico” (p. 33). Questa indulgenza formale, sganciata da ogni possibile dinamica di riferimento, denota il peculiare erotismo dell’ornamento: se già Goethe evidenziava la sensualità dell’arabesque (p. 33), non pare azzardato rinvenire qualcosa come un “sex appeal dell’inorganico” (secondo l’espressione benjaminiana recuperata da Mario Perniola) all’opera anche nelle formazioni delle chorus girls. Il luogo dell’erotico non è, qui, il corpo della singola ballerina; l’erotismo riguarda piuttosto la composizione nei suoi tratti irriconoscibili e inorganici, puramente morfologici.
La gratuità formale dell’ornamento si lega, evidentemente, alla questione della rappresentazione. Come mostrano Schiele e Labrusse, l’ornamento non sembra tanto negare il regime rappresentativo, quanto deviarlo dal suo interno: l’arabesque orientale, ad esempio, va a innestarsi nell’immaginario occidentale secondo la logica della hantise, in cui l’infestato e l’infestante non sono mai esenti da contaminazioni reciproche. È così che la perturbante alterità dell’arabesque, interiorizzata dall’Occidente, può introdurre una frattura nel regno dell’oggettività rappresentativa a cui l’immagine mimetica fa capo (p. 57). Anche nelle analisi che Warburg dedica a Botticelli sono proprio gli elementi secondari a creare uno spazio in cui è possibile il prodursi di novità stilistica. Le capigliature e più ancora i panneggi, “estensioni inorganiche dell’individuo” o “organi indolori” (p. 49), sono ornamenti espressivi nella misura in cui essi danno forma grafica all’interiorità del personaggio introducendo movimento nella sua figura; questi elementi, “margini della rappresentazione”, costituiscono delle “zone di sovversione in cui progressivamente si elaborano le trasformazioni di stile” (p. 44). Marginalità e minorità dell’ornamento si convertono così nel suo punto di forza, in ciò che ne fa un oggetto dal potere trasformativo se non addirittura sovversivo.
Tuttavia, la secondarietà stessa dell’ornamento può essere messa in questione – non per negarla tout court, quanto piuttosto per evidenziare come anche in questo caso la natura ambigua della dimensione ornamentale richieda una complicazione ulteriore. Si tratta dell’operazione teorica condotta da Sève nel suo testo. In prima battuta sembra possibile affermare semplicemente che “l’ornamento non esiste in sé, [poiché] ogni ornamento è ornamento di qualcosa che lo precede ed è da esso indipendente” (p. 11): la sua secondarietà ontologica appare tanto più evidente qualora si considerino oggetti come le cornici (di cui basamenti, piedistalli, paratesti e così via non costituiscono che delle variazioni). La cornice presenta il quadro; il parergon, soglia ornamentale, permette di accedere all’opera (all’ergon). In questo senso, la secondarietà dell’ornamento risponde anzitutto alla funzione transitiva di presentazione. Eppure, come nota Sève, ci sono casi in cui l’ontologia dell’ornamento si rovescia ed esso diviene elemento “primo”, intransitivo, pura manifestazione di sé. Casi del genere possono essere osservati nel dominio del vivente, se si sceglie di adottare una prospettiva antiutilitarista: autori come Roger Caillois e Jacques Dewitte permettono di guardare a certe forme e colori animali come a casi in cui in natura si dà una dépense formale, un eccesso che non risponde a valori ed esigenze estrinseche (fig. 2). L’ornamento, qui, è quell’auto-presentazione, quell’esuberante manifestazione priva di destinatario (l’unadressierte Erscheinung di Adolf Portmann) che caratterizza anche alcuni motivi ornamentali realizzati dall’uomo: per usare le parole di Caillois, citate da Sève, si tratterebbe di comprendere “i quadri dei pittori come la varietà umana delle ali delle farfalle” (p. 22). Ancora una volta, la marginalità dell’ornamento cambia di segno e viene ad esibire una forza dirompente, seppur sottile: concetto non solo “transartistico”, capace di attraversare i confini tra le diverse arti, l’ornamento appare ora in grado di superare anche il partage tra natura e cultura (p. 23), nell’ottica di una comune e pervasiva profusione di forme.
di Alice Iacobone
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Se riconoscere il superamento del progetto artistico dall’alterità di cause determinanti benché inavvertite sembra ormai essere un luogo comune delle rappresentazioni del fare artistico (si pensi alle diverse teorie di ispirazione divina, a quelle di involontario condizionamento ideologico, alla postulazione dell'esistenza di una logica dell'inconscio), l'implicazione del caso quale causa della produzione artistica non consente di accedere a un'interpretazione dell'opera come manifestazione di determinazioni essenziali, sociali o psicoanalitiche. In altre parole, il riconoscimento di una parte di caso nel processo creativo implica modalità di significanza per le quali l'identificazione di un progetto diventa altamente problematica.
Although acknowledging that any artistic project is necessarily exceeded by the alterity of determining causes is quite a mundane way of representing the artistic fact (one thinks of the various theories of divine inspiration, of involuntary ideological conditioning, of the postulation of the existence of a logic of the unconscious, etc.), the implication of chance as the root cause of a work raises a critical issue since it rules out any interpretation of the work either as a manifestation of a truth that would have been pre-existing in god, or as a social or psychoanalytical determination of the forms produced and interpreted. In other words, the recognition or claiming of a measure of chance seems to imply modes of signifiance for which the identification of a project becomes problematic.
A cura di Benoît Monginot, Stefano Oliva e Sébastien Wit
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DOI: https://doi.org/10.13135/2385-1945/14.2021
Pubblicato: marzo 2021
Indice
INTRODUZIONE
Benoît Monginot, Stefano Oliva, Sébastien Wit - Tra caso e progetto: alea e forme di soggettivazione nelle pratiche artistiche [PDF It]
I. Forma e alea nelle arti performative
Alessandro Bertinetto - (Caso) per caso. La contingenza nell'improvvisazione artistica [PDF It]
Veronica Cavedagna, Alice Giarolo - Il movimento: tutto qui. L’ordine aleatorio delle macchine danzanti [PDF It]
Alberto Giustiniano, Carlo Deregibus - Progetto e ricerca della forma. Dall'aleatorio ai campi di validità [PDF It]
Daniela Angelucci - L’infallibilità dell’improbabile: dipingere, camminare, filmare [PDF It]
Mauro Folci, Stefano Oliva, Guido Baggio - Intervista a Mauro Folci [PDF It]
II. Toccare il codice: processi e alea
Sylvain Reynal - Entre processus stochastiques et métriques d’évaluation : l’IA-créatrice à l'épreuve de l'étrangeté [PDF Fr]
Rodolphe Olcèse - L’image du monde en son infinition. L’aléa dans la pratique filmique de Jacques Perconte [PDF Fr]
Alice Iacobone - The Strategy of Genesis. On the Productive Power of Artistic Iteration [PDF En]
III. Scritture contingenti - caso e letteratura nel Novecento
Jean-Pierre Zubiate - Face au hasard : ouvraisons poetiques au XXe siecle [PDF Fr]
Sibylle Orlandi - Coup de « dé » et « lois du hasard » dans les créations poétiques et plastiques de Ghérasim Luca [PDF Fr]
Sébastien Wit - Hasard et orient au XXe siecle. Les controverses artistiques Boulez / Cage et Queneau / Breton [PDF Fr]
Paulo Fernando Lévano - Decolonizzare la lettura. Indecidibilità nella prosa rioplatense (1960-1969) [PDF It]
IV. Coda: les jeux sont faits
Anne Duprat, Benoît Monginot, Sébastien Wit - « Le hasard ne fait rien au monde – que de se faire remarquer ». Entretien avec Anne Duprat [PDF Fr]
V. Varia: focus su Guillaume Artous Bouvet
Guillaume Artous-Bouvet - Lieu (Artaud, Jabès) [PDF Fr]
Benoît Monginot - Infondatezza di una pratica discorsiva. Su "Poésie et Autorité" di Guillaume Artous-Bouvet [PDF It]
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Marco Mancuso – ARTE, TECNOLOGIA E SCIENZA
Recensioni / Giugno 2019Cercare di definire la New Media Art è come cercare di circoscrivere l’arte contemporanea: i confini della categoria, le opere e i nomi che potrebbero farne parte in un determinato momento slittano e si trasformano nel giro di pochi anni. La New Media Art è dunque una galassia di riferimenti, spesso interdisciplinari, che necessitano di essere continuamente mappati. Una parte importante del libro di Marco Mancuso affronta proprio questa esigenza e svolge tale compito in maniera esaustiva, almeno fino alle prossime metamorfosi. Nonostante ogni tassonomia sia in parte arbitraria, dieci anni dopo il libro di Deseriis e Marano Net.Art. L’arte della connessione (Cyberpunkline 2008), un aggiornamento era necessario. Mancuso non solo si dedica ad aggiornare la tassonomia, i nomi, le opere, i festival e tutti gli autori che ne fanno parte, ma propone anche una lettura che mette in gioco un nuovo attore: le art industries. «Industrie artistiche e culturali che producono beni, servizi e attività e che hanno la capacità di agire come catalizzatori di questo processo» (p. 13). L’ipotesi di base a sostegno della sua analisi è rinvenibile nella constatazione che tutto il sistema che aveva supportato la New Media Art nell’ultimo decennio è stato fondamentalmente di tipo assistenzialista, e dunque difficilmente sostenibile nel lungo periodo. Le art industries hanno ora assunto il ruolo di sostenitrici del movimento.
L’autore ha utilizzato la piattaforma da lui fondata e diretta - Digicult - come un osservatorio privilegiato dal quale non solo si è limitato a osservare, catalogare e descrivere il campo della New Media Art, ma anche di interagire direttamente con il suo oggetto di studio entrando in contatto diretto con gli artisti e le loro opere, i festival e gli eventi di maggiore interesse di cui tratta nel volume.
Il libro si presenta così è diviso in quattro sezioni: Scenario, Ambiti disciplinari, Case studies e Scenari futuri.
Nel primo capitolo (p.19), l’autore riassume la storia del rapporto tra arte e tecnologia dalla rivoluzione industriale, decade per decade fino agli anni Settanta, per poi focalizzarsi sul caso di Olivetti (un aspetto interessante del libro è quello di contestualizzare artisti e progetti italiani nella complessità del lansdcape internazionale).
In seguito Mancuso analizza la complessità e interdisciplinarietà del suo oggetto di studio: «Il termine New Media Art fa riferimento effettivamente a un ambito artistico ampio e stratificato, strutturalmente contaminato con i più diversi settori della ricerca tecnologica e la relativa industria, i cui albori risalgono ormai a quasi un secolo fa. Al di là delle definizioni, vi si possono ricondurre, come vedremo, una serie di esperienze artistiche che vanno dalla ricerca su linguaggi e codici espressivi, all’analisi su medium e strumenti, alle riflessioni politiche e sociali caratterizzate dall’integrazione di tecnologie, reti e scienze» (p. 31). In questo capitolo quindi l’autore affronta il tema delle art industries (p. 38) mostrando come, in questo momento, esse rappresentino un vero e proprio cambio di paradigma: il modello assistenzialista che finanziava le opere attraverso bandi, fondi comunali o dell’Unione Europea è fallito mentre nel nuovo modello i finanziamenti arrivano direttamente dall’industria (p. 38-40). In questo contesto, si sottolinea, cambia anche il ruolo del curatore poiché l’interdisciplinarietà intrinseca alla New Media Art mette in discussione i principali ruoli del campo dell’arte, e soprattutto quello del curatore, che quando possiede una formazione troppo classica, a volte non è in grado di gestire una tale complessità (p. 41).
Nel terzo capitolo (p. 46), l’autore elenca in maniera esaustiva tutti quei dispositivi che hanno contribuito a sviluppare e sostenere la diffusione e la ricerca sulla New Media Art, da Rhizome e Creative Applications Network (CAN), a festival, premi e residenze come Sonar+D, Collide @CERN o Ars Electronica (p. 49-71). Un aspetto interessante che Mancuso sottolinea è la rilevanza delle gallerie d’arte commerciali che si dedicano, alcune da molto tempo, alla diffusione della NMA, come Bitforms e Postmasters a New York, o DAM Gallery di Berlino; oppure Sedition, una piattaforma per l’acquisto online di opere di arte new media, l’equivalente di quello che oggi è Artsy, e nel passato è stato Artnet, per questo tipo di opere (p. 68-71). Anche se questa pratica, in parte per i motivi elencati sopra, è lontana dal livello di rilevanza commerciale che può avere l’arte cosiddetta “mainstream”, è interessante che l’autore trovi tra i motivi di sviluppo dell’arte Post-Internet, cioè la seconda generazione di artisti nati intorno alle pratiche della net.art a metà degli anni Duemila, l’interesse di essere riconosciuti e di penetrare il mondo dell’arte contemporanea, che comprende ovviamente anche il mercato (p. 78). In questo senso, l’arte Post-Internet è in continuità concettuale con la prima generazione - quella le cui mitiche origini si trovano nella mailing list nettime, e nella famosa mail ricevuta da Vuk Ćosić sul cui testo corrotto permetteva solo di leggere “net.art” a metà degli anni Novanta - pur estendendo il proprio campo d’azione non solo allo spazio pubblico o quello della galleria, ma soprattutto producendo oggetti esponibili e vendibili, e utilizzando la rete come fonte di ricerca. Questa generazione di artisti non fa differenza tra la propria attività online e offline, e in molti casi l’interesse si concentra nel rendere evidente la materialità e le infrastrutture che rendono possibile il funzionamento di Internet e di altre tecnologie, spesso considerate e percepite come “immateriali” dal pubblico più ampio. Nel libro viene citato come chiaro esempio Evan Roth e suoi Internet Landscapes (2016), ma si può anche pensare ai Bahamas Internet Cable System (BICS-1) del 2015 di Trevor Paglen, come anche ad altri suoi progetti con gli obiettivi sopra menzionati.
Nei capitoli successivi, Mancuso continua la sua tassonomia contemporanea della New Media Art dedicando il quinto capitolo a “L’arte del codice” (p.99), il sesto capitolo (p. 119) alle ricerche dedicate al rapporto tra suono e immagine, in cui parla di artisti e collettivi come gli Otolab, o il giapponese Ryoiji Ikeda. Il capitolo sette è dedicato a un approfondimento sulla materialità della New Media Art, e quindi al fabbing e ai makers (p. 143); nel capitolo otto (p. 167) si indaga il rapporto tra spazio, macchine e uomo, ovvero ricerche al limite tra arte new media e architettura, mentre l’ultimo capitolo (p. 201) investiga i rapporti tra arte e scienza, in particolare l’integrazione tra organico e tecnologico, cioè, i moist media.
L’autore evita giudizi critici o complessi sviluppi teorici, le parti del libro funzionano infatti come una complessiva guida allo state-of-the-art dell’arte new media rivolta a chiunque sia interessato ad avvicinarsi a questa particolare e forma di avanguardia artistica mettendo a disposizione quell’insieme di informazioni e riferimenti utili per maggiori approfondimenti.
Invece, nella parte intitolata “Case Studies” (p. 233), l’autore utilizza i contatti e l’esperienza ottenuta negli anni attraverso Digicult, e la sua attività di curatore e docente, presentando una serie di interviste a key players del campo della new media art, ognuno dei quali introduce la propria attività con uno sguardo particolare sulla situazione attuale e sul futuro.
Se è vero che il libro non ha una vera e propria conclusione, nell’ultima sezione (p. 243), “Scenari futuri” si presentano una serie di brevi articoli che pongono delle domande su diversi aspetti degli sviluppi tecnologici contemporanei, aspetti trattati dalla New Media Art, ma che non si limitano ad essa. Le domande lasciate aperte vanno dalle nuove possibilità del cyborg contemporaneo: «perché non ipotizzare di comandare una flotta di droni per mezzo di una parte espansa tecnologicamente del nostro corpo» (p. 256), a come cambierà la fruizione, se cambierà, dell’arte attraverso dispositivi come Google Arts & Culture (p. 260), a domande più radicali, che in realtà l’umanità si è posta da sempre ma la cui risposta positiva sembra essere imminente: «sarà possibile vedere il mondo con gli occhi di un’altra persona?» (p. 270).
Queste domande si allacciano in modo naturale alla conclusione di Bruce Sterling che nella sua “Postfazione” al volume scrive: «quando Mancuso parla di art industries e di ‘nuovo paradigma di produzioni’ si sposta ben oltre l’idea del garage buio occupato da hipsters» (p. 277). In effetti, oltre alla sua profonda conoscenza e consapevolezza del mondo dell’arte Mancuso intravede e pone le domande chiave che possono fungere da base per un nuovo paradigma pronto a farsi strada nel panorama artistico italiano - Sterling parla di Milano in particolare - allineato, se non un passo avanti, alle tendenze osservabili a livello internazionale.
di Gabriela Galati
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Tim Ingold – Making. Una ecologia del produrre
Recensioni / Maggio 2019Potremmo pensare che filosofi e artigiani facciano due mestieri molto diversi, che hanno davvero poco a che vedere l’uno con l’altro: il primo infatti pensa, scrive e parla mentre il secondo fa, produce e manipola. Forse proprio per questo è poco usuale, per i filosofi, interrogarsi sul nesso tra la loro attività abituale, il pensiero, e il fare che segna tanto il lavoro dell’artigiano quanto la più comune prassi quotidiana. Ed è forse altrettanto poco usuale per un operaio o un artigiano chiedersi in che modo, nella sua attività di produzione, egli stia anche pensando. Eppure si tratta di una questione straordinariamente feconda, ci insegna Tim Ingold nel suo Making, prima opera dell’autore ad essere interamente tradotta in italiano a cura di Gesualdo Busacca per Raffaello Cortina (Milano, 2019, pp. 262). Il testo scaturisce dall’esperienza di un corso universitario tenuto da Ingold a partire dal 2004 nella facoltà di Antropologia dell’università di Aberdeen, intitolato: Le quattro A: Antropologia, Archeologia, Arte e Architettura. Più volte ripreso e messo da parte nel corso degli anni, Making esce per la prima volta nel 2013 e riprende l’ossatura teorica di Being alive (2011), la raccolta di saggi in cui si sviluppa un originale percorso teorico mosso dall’esigenza di riavvicinare l’antropologia alla vita. Ciò che però contraddistingue Making, rispetto a questa raccolta, è l’intimo legame che la riflessione intrattiene con l’esperienza al contempo didattica e di ricerca dell’insegnamento universitario. Ingold intende spingersi ben oltre la trasmissione di nozioni ridotte a rappresentazioni astratte, ferme e chiuse; è piuttosto interessato a coinvolgere i suoi studenti in percorsi di movimento nell’ambiente che aprano ad esso in un atteggiamento di ascolto ed esplorazione. Il gruppo si educa così a una forma di attenzione percettiva che permette di porsi sulle tracce delle cose che abitano il mondo tramite una paziente e scrupolosa raccolta di indizi. Gli studenti, infatti, erano chiamati non solo a seguire lezioni frontali, ma soprattutto a cimentarsi in esperienze di manipolazione di materiali e costruzione di oggetti nel corso di esperimenti e laboratori collettivi sempre accompagnati da momenti di restituzione e discussione. Le quattro A intrecciava dunque attività di produzione ed elaborazione riflessiva, facendole scaturire come momenti di una conoscenza trasformativa che si innesta sui percorsi vitali delle cose e si sviluppa con essi. Questo lavoro dà origine alla pratica di formazione collettiva nella quale prendono corpo le idee che animano il libro. Nell’ambito di un corso universitario, volto comunemente a produrre tramite il pensiero, Ingold e i suoi studenti imparano ad imparare in un altro modo, ossia a pensare tramite il produrre.
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Scrivere tra le pieghe. Nancy e Hantaï
Sconfinamenti, Serial / Febbraio 2017Tutto inizia con un duplice paradosso. Da una foto scattatagli da Antonio Semeraro nel 1994, il pittore Simon Hantaï ritaglia un particolare (che mostra le ginocchia, sformate e impolverate, dei propri pantaloni) e lo glossa sul retro con la scritta: «Ho passato la vita a quattro zampe. Scultura fatta dal corpo (Duchamp). Autoritratto, dunque». Se già questa, come immagine o sineddoche di sé, appare sorprendente, non lo è meno l’inclusione del particolare fotografico in un libro del filosofo Jean-Luc Nancy dal titolo Le Regard du portrait, accanto ad altre riproduzioni, quasi tutte di ritratti o autoritratti tradizionalmente intesi. Certo, considerando che il pittore ungherese ha dipinto gran parte delle proprie tele non su un cavalletto ma appoggiandole sul pavimento dell’atelier, si capisce in quale senso egli possa vedere nel dettaglio della foto un’immagine eloquente di se stesso. Da parte sua, Nancy prende sul serio tale definizione di ‘autoritratto’ perché si rende conto che, nell’arte contemporanea, la centralità dello sguardo della persona raffigurata si perde spesso a favore di più indirette rappresentazioni del soggetto, o di nuovi e imprevisti trattamenti «del sub e del getto (del supporto e della pittura)». In ogni caso, quando il filosofo si rivolge ad Hantaï per chiedergli l’autorizzazione a inserire nel proprio libro la foto dei pantaloni, probabilmente non immagina che la risposta positiva del pittore sarà all’origine di un carteggio fra loro destinato a durare anni e a essere pubblicato in due distinti volumi. Le lettere presentano un carattere personale e spontaneo ma, nel contempo, offrono utili spunti di riflessione. L’artista, infatti, è anche un lettore di testi filosofici, antichi e recenti, dunque in grado di dialogare senza imbarazzo col suo interlocutore. SCARICA IL PDF
A cura di:
Giuseppe Zuccarino è critico e traduttore. Ha pubblicato vari saggi: La scrittura impossibile, Genova, Graphos, 1995; L’immagine e l’enigma, ivi, 1998; Critica e commento. Benjamin, Foucault, Derrida, ivi, 2000; Percorsi anomali, Udine, Campanotto, 2002; Il desiderio, la follia, la morte, ivi, 2005; Il dialogo e il silenzio, ivi, 2008; Da un’arte all’altra, Novi Ligure, Joker, 2009; Note al palinsesto, ivi, 2012; Il farsi della scrittura, Milano-Udine, Mimesis, 2012. Tra i libri da lui tradotti figurano opere di Mallarmé, Bataille, Klossowski, Blanchot, Caillois e Barthes.
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L’arte della similitudine. Foucault e Magritte
Sconfinamenti, Serial / Ottobre 2016È piuttosto insolito incontrare, negli scritti di un pittore, riferimenti ai filosofi. Eppure, nell’ampio corpus di quelli redatti nel corso dei decenni da René Magritte, capita a volte di imbattersi nei nomi di Eraclito, Socrate, Platone, Descartes, Berkeley, Kant, Hegel, Schopenhauer, Marx, Nietzsche, Bergson, Bachelard, Heidegger, Sartre, Merleau-Ponty. Inoltre, anche se i testi dell’artista belga non sono certo di carattere filosofico, in alcuni di essi si può ravvisare un’originale riflessione sul linguaggio. Ricordiamo per esempio un celebre scritto illustrato del 1929, Les mots et les images, che contiene enunciati lapidari come i seguenti: «Un oggetto non è mai tanto legato al suo nome che non se ne possa trovare un altro che gli si adatti meglio»; «Un’immagine può prendere il posto di una parola in una proposizione»; «Tutto tende a far pensare che ci sia scarso rapporto tra un oggetto e ciò che lo rappresenta»; «A volte il nome di un oggetto può sostituire un’immagine»; «In un quadro, le parole sono della stessa sostanza delle immagini»; «Si vedono in un modo diverso le immagini e le parole in un quadro». Date queste premesse, non desta sorpresa il fatto che Magritte si sia affrettato a leggere un libro di Michel Foucault dal promettente titolo Les mots et les choses, senza farsi intimorire dalla mole e dalla complessità della trattazione. Resta strano, però, il fatto che, a poco più di un mese dall’uscita del volume, un pittore anziano e affermato come lui abbia sentito l’esigenza di scrivere a Foucault una lettera al fine di comunicargli le proprie idee su una questione specifica, ossia il tema della somiglianza. In effetti nel libro, riferendosi alla cultura del Cinquecento, il filosofo aveva evidenziato l’onnipresenza, in vari campi del sapere, dell’idea di somiglianza o similitudine...Scarica PDF
A cura di:
Giuseppe Zuccarino è critico e traduttore. Ha pubblicato vari saggi: La scrittura impossibile, Genova, Graphos, 1995; L’immagine e l’enigma, ivi, 1998; Critica e commento. Benjamin, Foucault, Derrida, ivi, 2000; Percorsi anomali, Udine, Campanotto, 2002; Il desiderio, la follia, la morte, ivi, 2005; Il dialogo e il silenzio, ivi, 2008; Da un’arte all’altra, Novi Ligure, Joker, 2009; Note al palinsesto, ivi, 2012; Il farsi della scrittura, Milano-Udine, Mimesis, 2012. Tra i libri da lui tradotti figurano opere di Mallarmé, Bataille, Klossowski, Blanchot, Caillois e Barthes.
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Estesie #3 – Sul binario della deformazione
Estesie, Serial / Maggio 2016Nel senso più generico del termine, la deformazione consiste nell’alterazione, temporanea o definitiva, della configurazione originaria di un oggetto, e in pittura indica quel processo di alterazione delle forme naturali che porta a risultati spesso considerati mostruosi o aberranti. Attraverso le diverse riflessioni di artisti e filosofi, nel corso del Novecento la deformazione ha però subito una notevole evoluzione concettuale, passando dall’essere concepita come specifico fattore stilistico a processo genetico dello stile in quanto tale, fino a darsi addirittura come mediazione di più larghe operazioni estetiche o extra-pittoriche.
A inizio Novecento, il simbolista francese Maurice Denis proponeva un’acuta distinzione tra deformazione “oggettiva” e deformazione “soggettiva”: la prima, accostabile alla coeva nozione worringeriana di abstraktion, si costituiva come principio regolatore delle tensioni formali interne all’immagine secondo quelle che Denis definisce le “leggi eterne della decorazione”; la seconda scaturiva dalla necessità di mediare la natura attraverso il proprio “temperamento” psichico. La nuova teoria della pittura di Denis si basa sull’espressione per “equivalenze” e non più per “mimesi”, individuando così le basi di quella che sarà la più valida e genuina pittura contemporanea. Alla luce di quanto si è visto nei decenni a venire, potremmo infatti intravedere in questa coppia polare il seme di due linee stilistiche dominanti nella cultura novecentesca: dalla prima la dipartenza dello sviluppo di tutti i decorativismi geometrici e delle ricerche di arte concreta, mentre dall’altra le contratture segniche e materiche degli espressionismi, manifestatisi nel corso del secolo a più riprese, fino agli esiti figurativi dell’Informale.
Il futurista Carlo Carrà, in un breve e puntuale scritto intitolato proprio La deformazione in pittura e pubblicato sulla rivista «Lacerba» del 15 marzo 1914, afferma che ormai non possa più sussistere opera senza l’intervento della deformazione, considerando questa soluzione non solo come “fattore predominante” nella costruzione del quadro, ma addirittura come un “altimetro” per misurare i vari gradi di espressione plastica di un’opera. Naturalmente, in piena fede futurista, Carrà vede la deformazione come conseguenza del movimento, della necessità di resa dinamistica della realtà e rivanga quel concetto riportato nel Manifesto tecnico della pittura futurista del 1910 secondo cui “per la persistenza dell’immagine nella retina, le cose si moltiplicano”, ma soprattutto “si deformano, susseguendosi, come vibrazioni, nello spazio che percorrono”. Le affermazioni di Carrà riguardano problematiche stilistiche ben precise e circoscritte al loro tempo, ma l’intuizione per cui la deformazione sia alla base di qualunque opera d’arte contemporanea è di una lungimiranza che solo anni dopo e in sede di riflessione estetica avrebbe trovato un più ampio sviluppo. Dovremo perciò aspettare la soglia degli anni Cinquanta perché il concetto di deformazione venga esteso da Maurice Merleau-Ponty fino ad assurgere a sinonimo di stile. Per il fenomenologo francese lo stile è un modo di ricreare i fenomeni e trovare per essi nuove modalità di essere nel mondo, perché solo il pittore riesce a percepire “le norme e le deviazioni dell’inaccessibile pienezza delle cose”. La sua dissertazione sullo stile muove dall’assorbimento sul piano fenomenologico del concetto di “deformazione coerente” formulato da André Malraux (autore esplicitamente richiamato nel titolo con le voci del silenzio), secondo il quale ogni pittore ha un proprio modo consapevole di deformare i dati visibili per risemantizzarli, investirli di nuovi significati. Quasi come in un lontano dialogo con Maurice Denis, anche Merleau-Ponty concepisce lo stile-deformazione come “sistema di equivalenze”, ma aggiunge che solo attraverso “l’indice universale della deformazione coerente” un artista “concentra il senso ancora sparso nella sua percezione e lo fa esistere espressamente”. Qui l’oggettivo e il soggettivo teorizzati da Denis sono come stati fusi in un unico canale di accesso alla realtà attraverso cui il pittore rielabora le qualità dei dati visivi nella più generale prospettiva di una propria definizione stilistica. A proposito di questa assimilazione del concetto di deformazione a quello di stile, andrebbe forse considerato il fatto che gli anni in cui scrive Merleau-Ponty sono anche i graffianti anni dell’Informale, rappresentato in Francia da maestri quali Jean Dubuffet e Jean Fautrier. Corrente pittorica di larga e capillare diffusione, incentrata su problematiche esistenziali affatto estranee al pensiero fenomenologico, essa ha, com’è noto, fervidamente applicato indici di deformazione estrema alle proprie figure, aspetto che può avere giocato un qualche ruolo nelle riflessioni del nostro filosofo.
Il contributo più articolato sul concetto di deformazione arriva però da un filosofo italiano, sempre di scuola fenomenologica, Miro Martini, allievo di Antonio Banfi e autore di un ampio e complesso saggio intitolato La deformazione estetica, frutto di profonde riflessioni sull’atto estetico come atto deformante. Si tratta di un sistema che ingloba e sostiene la corrispondenza cara a Merleau-Ponty tra deformazione e stile, ma che va ben oltre i comuni processi di formalizzazione artistica per aprirsi al più generale piano dell’estetica. Martini estende tale concetto “all’intero mondo estetico nella varietà dei suoi piani fondamentali”, quasi intuendo che l’orizzonte mediale dell’arte si sarebbe a breve espanso enormemente fino a coincidere con quello della quotidianità; secondo Dino Formaggio, con questa “legge dell’esistere artistico in concreta esperienza” Martini intendeva sostenere che “l’arte compie un’opera di trans-valutazione dei momenti della vita, del vivere di ogni giorno”, una traslazione del mondano nell’artistico attraverso quella che oggi con Arthur Danto diremmo una trasfigurazione del banale. Si tratta di sottrarre quindi elementi concreti e dinamiche del quotidiano alla loro comune funzione pratico-utilitaristica per riscattarli esteticamente o, come rimarca Formaggio, “a dar forma compiuta e nobiltà di stile ad ogni esperienza del vivere”. Conferme pratiche alle idee di Martini sarebbero arrivate solo anni e anni dopo la sua scomparsa con fenomeni quali lo happening, la performance, l’Antiform o le poetiche del Concettuale; ma mi pare piuttosto significativo che nella Milano di metà anni Cinquanta, e poco dopo l’uscita (purtroppo postuma) del testo di Miro Martini, artisti spazialisti come Agostino Bonalumi o Enrico Castellani cominciassero a intervenire su delle tele monocrome per dilatarle, estrofletterle, alterandone la configurazione di base e sperimentando così la deformazione non più sul piano virtuale della figurazione, bensì su quello della piena materialità (pur rimanendo ancora legati a un supporto artistico tradizionale), producendo in definitiva una sorta di sinergia tra teorie e poetiche contemporanee, e riuscendo anzi a dare alle idee martiniane un’indiretta e probabilmente inconsapevole convalida.
Ecco dunque emerso lo status “bipolare” del concetto di deformazione nella cultura del Novecento, dove al primo polo, quello originario o dell’uso comune del termine e relativo a questioni plastico-formali (deformazione come alterazione di configurazione), se ne affianca un altro relativo a ridefinizioni artistiche dell’esperienza tramite mezzi, elementi e modalità dell’esperienza stessa (deformazione come stile e, solo dopo, come riformulazione estetica del quotidiano), ampliando così ad libitum le possibilità pratiche di stilizzazione. Quello tra deformazione plastica e deformazione estetica non è tuttavia un conflitto insolubile o un eterno scontro tra nemici giurati, ma al contrario una quieta e fruttuosa convivenza, spesso di reciproco supporto: le due istanze si incrociano e dialogano sempre più di frequente, e soprattutto oggi, nell’uso di mezzi come la fotografia o il video ormai divenuti imprescindibili per la ricerca contemporanea. La deformazione plastica, infatti, ha trovato in questi strumenti vie di aggiornamento oggi battutissime come l’uso delle distorsioni, delle alterazioni di segnale, e manipolazioni di ogni sorta, per le quali è proprio la deformazione estetica, lanciata nella prospettiva di una potenziale pan-artisticità dell’esperienza, a garantirne il valore espressivo. Da qui in poi, il concetto di deformazione in ambito artistico non potrà che vivere dunque di alternanze e distinzioni, ma questo suo bipolarismo lo manterrà, senza dubbio, fiamma di ogni dibattito sullo stile, sulle poetiche, sull’esistenza dell’arte. Attuale per sempre.
di Pasquale Fameli
Bibliografia
Carrà, C. (1978). La deformazione in pittura (1914). In M. Carrà (a cura di), Carlo Carrà. Tutti gli scritti (pp. 30-33). Milano: Feltrinelli.
Danto, A. (2008). La trasfigurazione del banale. Una filosofia dell’arte (1981). Bari: Laterza.
Denis, M. (1920). Théories 1890-1910. Du symbolisme et de Gauguin vers un nouvel ordre classique (1913). Paris: L. Rouart et J. Watelin Éditeurs; in particolare pp. 23, 268.
Martini, M. (2002). La deformazione estetica (1955). Milano: Unicopli; in particolare: pp. 55-57. Si veda inoltre la prefazione alla seconda edizione di Dino Formaggio, in particolare pp. 2-3.
Merleau-Ponty, M. (1967). “Il linguaggio indiretto e le voci del silenzio” (1952). In Id., Segni. Milano: Saggiatore; in particolare p. 81.
Worringer, W. (1976). Astrazione e empatia (1907). Torino: Einaudi.
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Estesie #1 – Il visual, un’arte applicata
Estesie, Serial / Marzo 2016Amon Tobin, ISAM 2011
Al volgere del Sessantotto, un fine critico come Filiberto Menna lanciava la sua Profezia di una società estetica, intuendo per la società postmoderna i modi di una creatività diffusa, la diluizione dell’arte nella quotidianità, rintracciandone i precursori in Preraffaelliti e Simbolisti. La tendenza alla sintesi e all’alleggerimento dell’immagine contemporanea ha infatti favorito un rifiorire della decoratività, che oggi si dà in numerose forme, dal tatuaggio al gadget allo sticker, dalle copertine dei dischi alle cover per lo smartphone. Sono queste le nuove forme di quella che un tempo si diceva arte applicata e che oggi passa anche come design, con una panoplia di possibili prefissi. Persino il video mapping, che può essere legittimato come un nipote eccentrico dei sons et lumières francesi, rientra a pieno nell’alveo delle arti applicate contemporanee: spettacoli, nel senso stretto della parola, ornamenti mobili, dinamici, evanescenti ed effimeri, ma pur sempre mirati a intrattenere e divertire un pubblico di massa animando la facciata di un qualche palazzo, riqualificandola esteticamente. Così valga anche per quei variegati tappeti visuali che animano i live di musica elettronica o le discoteche, etichettati con il termine un po’ generico di visual. Essi fungono da apparato decorativo, mutuano i loro stilemi perlopiù dai geometrismi concretisti del Neoplasticismo e del Suprematismo, o viceversa, in altri casi, simulano le pulsioni organiche dell’Informale e dell’Espressionismo Astratto mediante le molte possibilità della computergrafica. Sia la dinamicità sia le evoluzioni delle loro forme sono subordinate alla velocità e alle peculiarità della musica che accompagnano: la loro funzione è quella di alleggerire l’ascolto cosiddetto “acusmatico”, come lo ha definito Pierre Schaeffer, quello della musica registrata, separata dal gesto o dall’evento che l’ha generata, per favorire un più equilibrato bilanciamento di stimoli sensoriali.
Esistono però motivi più profondi che permettono di ricondurre il fenomeno del visual per musica alle arti applicate, motivi che legano indissolubilmente decorazione e musica rintracciati da grandi filosofi e teorici già tra Sette e Ottocento. Nella Critica del giudizio Kant afferma che «i disegni à la grecque, i fogliami delle cornici e delle tappezzerie […] sono bellezze libere» (1997, p. 124), riconducendo così l’ornamento a quella che nel terzo momento della “Analitica del bello” viene da lui stesso etichettata come pulchritudo vaga, una bellezza estranea agli obblighi della rappresentazione e quindi formalmente autoreferenziale. La libertà formale degli ornamenti porta il pensatore di Königsberg a considerarli «come della stessa specie di quelle che in musica si chiamano fantasie (senza tema), ed anche tutta la musica senza testo» (ibidem). Meno di un secolo dopo anche Eduard Hanslick, musicologo praghese e teorico del formalismo musicale, si appresterà a stabilire una stretta corrispondenza ontologica tra le forme dell’ornamento e le forme della musica, riconoscendo a entrambe una comune autonomia di significato, istanze di una pulchritudo vaga, per dirla ancora con Kant. Nel tentativo di spiegare in che modo la musica possa dare “forme belle senza contenuto”, Hanslick trova infatti un appoggio ideale nel paragone con l’arabesco e ne fa emergere le possibili corrispondenze con la composizione musicale, tracciando nella propria immaginazione «linee curve che ora si abbassano dolcemente, ora audacemente si innalzano, si incontrano e si allontanano, si corrispondono in archi piccoli e grandi, sono apparentemente incommensurabili, ma sempre ben proporzionate, si contrappongono o si fanno riscontro: insieme di piccole unità singole che pure costituisce un tutto» (2001, pp. 63-64). L’invito di Hanslick è ora quello di immaginare un arabesco mobile, vivente, «che nasca davanti ai nostri occhi in una continua autoformazione» e in quanto «attiva estrinsecazione di uno spirito artistico, che riversi incessantemente tutta la pienezza della sua fantasia nelle vene di questo movimento» (ibidem), proprio come in una composizione musicale. La suggestiva descrizione di Hanslick, ricca di verbi di movimento, appare già come la descrizione di un film astratto di Hans Richter, di Len Lye o di Norman McLaren, così come dei visual (eredi diretti di queste esperienze) dei live di Alva Noto. Il perfetto matrimonio tra visual e musica elettronica si deve poi alla loro affinità ontologica, all’identità delle loro origini: entrambe le forme nascono infatti dai medesimi algoritmi, da calcoli celati, nascosti, che le intrecciano e le canalizzano in un unico flusso temporale. Anche l’ornamento più tradizionale ha in sé un certo movimentismo, come notava a suo tempo Henri Focillon, ma di certo è solo il video a renderlo un fatto concreto e a trasformare così la metafora di Hanslick nella realtà delle nuove dimensioni dell’ascolto musicale: un ascolto espanso, sinestetico, vitalistico.
di Pasquale Fameli
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Bibliografia
Focillon, H. (1987). Vita delle forme (1934). Torino: Einaudi.
Hanslick, E. (2001). Il bello musicale (1854). Palermo: Aesthetica.
Kant, I. (1997). Critica del giudizio (1790). Roma-Bari: Laterza.
Mazzoni, A. (2011). Il gioco delle forme sonore. Studi su Kant, Hanslick, Nietzsche e Stravinskij. Milano-Udine: Mimesis.
McLuhan, M. (2011). Capire i media. Gli strumenti del comunicare (1964). Milano: Il Saggiatore.
Menna, F. (1968). Profezia di una società estetica. Roma: Lerici.
Schaeffer, P. (1966). Traité des objets musicaux. Paris: Éd. du Seuil.
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Estesie – A cura di Pasquale Fameli
Estesie, Serial / Marzo 2016Estesie. Forme e idee del Novecento è uno spazio di riflessione sui rapporti tra l’arte e la filosofia, un banco di prova dei loro possibili intrecci e un laboratorio in cui testarne le loro forze magnetiche. Tra i molti settori della cultura di una determinata epoca vengono infatti a stabilirsi delle connessioni spontanee, delle sintonie inattese o non necessariamente cercate, che contribuiscono tuttavia ad avvalorarne i tratti somatici e a farne emergere le peculiarità. Prendendo spunto dalle poetiche, dalle teorie o dai fatti artistici ed estetici più rilevanti del Novecento, nello spazio di Estesie vengono testate le loro molteplici aperture connettive, secondo una concezione rizomatica della cultura che vede nell’intersezione e nella trama reticolare le più efficaci forme di comprensione dell’oggi.
Pasquale Fameli (1986) è dottorando in Arti visive, performative e mediali presso l'Università di Bologna. Si occupa di ricerche extra-pittoriche del Novecento, con particolare attenzione ai fenomeni sonori e sinestetici.
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Sulla teoria dell’opera pittorica in Klossowski
Sconfinamenti, Serial / Novembre 2015A partire dall’inizio degli anni Settanta, Pierre Klossowski si lascia quasi del tutto alle spalle una lunga carriera di romanziere, saggista, filosofo e traduttore, per dedicarsi alla pratica del disegno. Quella grafico-pittorica, del resto, è un’arte che gli era familiare fin dall’infanzia, visto che entrambi i suoi genitori si dedicavano a essa, mentre il fratello maggiore, Balthasar, è divenuto un pittore di fama internazionale col nome di Balthus. La dedizione di Klossowski alle arti visive diventa ancor più appassionata ed esclusiva a partire dal 1972, in coincidenza col passaggio dai disegni a grafite a quelli effettuati con le matite colorate. Si tratta di una tecnica resa originale dal fatto di essere applicata su grandi superfici di carta, il che consente all’artista di ottenere dei quadri che hanno spesso l’imponenza di affreschi murali. Pur non avendo alcun problema a trovare galleristi e critici disposti ad appoggiare la sua nuova scelta di vita, e pur considerando l’espressione visiva come più diretta ed efficace rispetto a quella letteraria o saggistica, Klossowski non è mai riuscito a liberarsi dal medium della parola. Ha ritenuto infatti necessario ricorrere a esso per spiegare la propria idea di pittura e replicare alle obiezioni di coloro che trovavano da ridire sui suoi lavori, giudicandoli troppo letterari per un verso (in quanto i temi dei quadri sono spesso collegabili a quelli delle opere narrative precedenti) e troppo rétro e maldestri dal punto di vista formale. Tuttavia i testi da lui scritti in proposito nell’ultimo trentennio di vita sono interessanti non soltanto come autodifese o dichiarazioni di poetica, ma anche per le loro implicazioni teoriche generali, concernenti lo statuto dell’opera d’arte pittorica.
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A cura di:
Giuseppe Zuccarino è critico e traduttore. Ha pubblicato vari saggi: La scrittura impossibile, Genova, Graphos, 1995; L’immagine e l’enigma, ivi, 1998; Critica e commento. Benjamin, Foucault, Derrida, ivi, 2000; Percorsi anomali, Udine, Campanotto, 2002; Il desiderio, la follia, la morte, ivi, 2005; Il dialogo e il silenzio, ivi, 2008; Da un’arte all’altra, Novi Ligure, Joker, 2009; Note al palinsesto, ivi, 2012; Il farsi della scrittura, Milano-Udine, Mimesis, 2012. Tra i libri da lui tradotti figurano opere di Mallarmé, Bataille, Klossowski, Blanchot, Caillois e Barthes.
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Sconfinamenti – a cura di Giuseppe Zuccarino
Sconfinamenti, Serial / Settembre 2015La rubrica si occuperà dei margini della filosofia, cioè dei punti in cui a essa può accadere di sconfinare, evadendo dal proprio territorio, o all’opposto di subire invasioni da parte di «non addetti ai lavori». Per essere più espliciti, diremo che a essere in causa è il rapporto tra la filosofia e le arti, in particolare la letteratura. Si tratterà dunque di mostrare, tramite esempi significativi, come i pensatori del secolo scorso e di quello presente si siano rapportati alle opere di poeti, narratori o artisti visivi. Ma spesso saranno anche presi in esame casi in cui, viceversa, sono stati gli scrittori a dimostrare interesse per le opere dei filosofi, antichi o recenti. Date le competenze specifiche del curatore, l’attenzione sarà rivolta perlopiù all’area culturale francese.
I- Blanchot e i filosofi di Thomas
Giuseppe Zuccarino è critico e traduttore. Ha pubblicato vari saggi: La scrittura impossibile, Genova, Graphos, 1995; L’immagine e l’enigma, ivi, 1998; Critica e commento. Benjamin, Foucault, Derrida, ivi, 2000; Percorsi anomali, Udine, Campanotto, 2002; Il desiderio, la follia, la morte, ivi, 2005; Il dialogo e il silenzio, ivi, 2008; Da un’arte all’altra, Novi Ligure, Joker, 2009; Note al palinsesto, ivi, 2012; Il farsi della scrittura, Milano-Udine, Mimesis, 2012. Tra i libri da lui tradotti figurano opere di Mallarmé, Bataille, Klossowski, Blanchot, Caillois e Barthes.