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Nel 2008 Paul Humphreys e Mark Bedau curano un’originale antologia dal titolo Emergence: Contemporary Readings in Philosophy and Science. Nell’introduzione al volume, che riunisce contributi sul tema da parte di filosofi e scienziati, vengono forniti alcuni esempi di fenomeni (apparentemente) emergenti che spaziano dalle proprietà di certi sistemi fisici ai passaggi di fase, dal fenomeno della vita a quello della mente e della coscienza, fino ai comportamenti dei gruppi sociali (Bedau & Humphreys 2008, 1-2). Come evidenziato da Humphreys e Bedau, la nozione di emergenza sembra comparire in diverse discipline filosofiche e scientifiche e questa pervasività ne rende difficile la definizione. Poco più di vent’anni più tardi, lo scenario non sembra troppo diverso, se non per l’ulteriore diffusione del termine e del concetto di emergenza:
Since the nineteenth century, the notion of emergence has been widely applied in philosophy, particularly in contemporary philosophy of mind, philosophy of science and metaphysics. It has more recently become central to scientists’ understanding of phenomena across physics, chemistry, complexity and systems theory, biology and the social sciences.
Questa è l’affermazione che introduce, dalla quarta di copertina, il Routledge Handbook of Emergence, pubblicato nel 2019 a cura di Sophie Gibb, Robin F. Hendry e Tom Lancaster, rispettivamente professori di metafisica, filosofia della scienza e fisica della materia condensata presso l’Università di Durham. Il termine e il concetto di emergenza sono oggi più che mai al centro del dibattito filosofico e scientifico e non a caso, negli ultimi anni, le pubblicazioni dedicate a essi si sono moltiplicate esponenzialmente. In questa introduzione vorrei fornire una breve contestualizzazione del dibattito sull’emergenza poiché, storicamente, è possibile riconoscere due diverse ondate di interesse che sono radicate, tuttavia, in circostanze storiche e motivazioni teoriche differenti. La prima ondata vede protagonisti quei pensatori che Brian McLaughlin ha definito Emergentisti Britannici:
This tradition began in the middle of the nineteenth century and flourished in the first quarter of this century. It began with John Stuart Mill’s System of Logic (1843), and traced through Alexander Bain’s Logic (1870), George Henry Lewes’s Problems of Life and Mind (1875), Samuel Alexander’s Space, Time, and Deity (1920), Lloyd Morgan’s Emergent Evolution (1923), and C. D. Broad’s The Mind and Its Place in Nature (1925) (1992, 49).
Nonostante sia per molti versi appropriato riunire questi pensatori sotto un’unica etichetta, l’uso che essi fanno del concetto di emergenza è molteplice: come attestato dall’articolo di Joel Walmsley, mentre Mill e Lewes sviluppano una nozione di emergenza che può essere definita epistemica perché legata a un’insufficienza della nostra conoscenza del mondo naturale, Morgan e Alexander propongono una visione propriamente ontologica dell’emergenza, enfatizzando la capacità dei fenomeni emergenti di esercitare poteri causali nuovi e autentici. Il lavoro di Broad, infine, può essere considerato una via media fra queste due concezioni, che verranno ampiamente analizzate e discusse nei contributi qui proposti. Ciò che accomuna gli Emergentisti Britannici, d’altro canto, è un monismo metafisico di sostanza per il quale il mondo non sarebbe composto da materia fisica da un lato e materia non fisica (entelechie, spiriti o altre entità metafisicamente contestabili) dall’altro, ma sarebbe invece totalmente costituito di materia. Ciononostante, questa materia presenterebbe, per gli Emergentisti, caratteristiche speciali a seconda della complessità della sua organizzazione e della sua struttura, e tali caratteristiche non sarebbero esplicabili tramite le leggi e le spiegazioni causali che governano e spiegano livelli più semplici di organizzazione.
La diffusione delle teorie emergentiste a cavallo fra Ottocento e Novecento coincide significativamente con un periodo storico in cui fisica, chimica e biologia vivono esistenze parzialmente autonome e la loro unificazione – per quanto auspicata – non sembra profilarsi all’orizzonte. È esattamente la possibilità di questa unificazione, che diviene concreta negli anni Venti del Novecento, a rappresentare la causa principale della caduta dell’Emergentismo Britannico: secondo McLaughlin, lo sviluppo della meccanica quantistica, la spiegazione delle proprietà chimiche tramite l’elettromagnetismo e la scoperta della struttura molecolare del DNA aprirono la via alla tesi generale per cui per ogni fenomeno naturale più o meno complesso, sarebbe disponibile una “microspiegazione”, dove con questo termine si intende «the explanation of the behavior of macro-systems in terms of the behaviour of their micro-constituents» (Hüttemann 2004, 24). La presunta disponibilità di spiegazioni micro-fisicaliste per ogni macro-fenomeno coincise, dunque, con l’abbandono dell’ipotesi emergentista. Il dibattito che vedeva protagonisti gli emergentisti britannici si giocava quindi su un terreno prettamente empirico: dati alcuni fenomeni naturali non spiegabili dalla fisica, sembrava ragionevole ipotizzare l’esistenza e l’efficacia causale di nuove forze naturali fondamentali ed emergenti. Tuttavia, come abbiamo visto, le scoperte scientifiche dei primi decenni del Novecento fornirono buone ragioni per supporre che le cause di questi fenomeni potessero essere ricondotte a quelle più classicamente fisiche, infliggendo un duro colpo ai presupposti teorici dell’emergentismo. È significativo, a questo riguardo, che l’ultimo lavoro chiaramente riconducibile al movimento emergentista, The Mind and Its Place in Nature di Broad, risalga al 1923, mentre già a partire dal 1922 Niels Bohr proponeva alla comunità scientifica un nuovo ed efficace modello atomico e suggeriva come esso potesse rivelarsi in grado di spiegare le proprietà chimiche degli elementi della tavola periodica.
Se nell’Ottocento e agli inizi del Novecento il progredire della scienza aveva dunque sottratto forza ai filosofi emergentisti, fu proprio la scienza a favorire un ritorno e un irrobustirsi della nozione di emergenza a partire dagli anni Settanta del Novecento. Come testimoniato da numerosi dibattiti scientifici, di cui questo volume presenta una selezione, la nozione di emergenza si sta dimostrando utile per descrivere e comprendere una serie di disparati fenomeni naturali e la troviamo infatti impiegata per concettualizzare l’origine dello spazio-tempo, la correlazione quantistica, i comportamenti macroscopici delle molecole e degli insiemi chimici, così come le caratteristiche dei sistemi biologici. Accanto a questi fenomeni naturali, inoltre, l’accento sull’emergenza viene posto anche nel campo della psicologia, delle scienze cognitive e dell’arte.
Nonostante l’uso estensivo del concetto di emergenza in tutti questi campi, tuttavia, non esiste una sola definizione che si adatti a tutti i contesti. Come testimoniato da Gibb, Hendry, e Lancaster, sembra quindi che i filosofi e gli scienziati stiano utilizzando lo stesso termine per riferirsi a cose diverse (2019, 2). Quel che è certo, insomma, è che di emergenza si può parlare in vari modi e che una definizione semplice e univoca non sembra in grado di catturarne la complessità.
Il presente volume di Philosophy Kitchen è la prima pubblicazione in Italia che si ponga come obiettivo quello di offrire una visione d’insieme del dibattito emergentista contemporaneo. Il volume si apre con l’articolo di Joel Walmsley, che offre una ricostruzione teorica dell’Emergentismo Britannico, e con quello di Erica Onnis, che propone un’analisi dei criteri e delle tassonomie elaborate nel dibattito filosofico contemporaneo. Quindi, viene presentato un modello non standard di emergenza, il modello diacronico “piatto” di Olivier Sartenaer, ripreso successivamente da Karen Crowther che sfrutta la nozione di emergenza per affrontare il tema dell’origine dello spaziotempo nella fisica quantistica. Il contributo successivo, quello di Marina Paola Banchetti-Robino, suggerisce che la nozione di emergenza si contrappone alla mereologia classica husserliana che si rivela inadeguata a descrivere i sistemi chimici. Le implicazioni della nozione di emergenza per la biologia sono invece esaminate da Luciano Boi e Isaac Hernandez: il primo analizza le caratteristiche dei sistemi complessi biologici, mentre il secondo si concentra sull’emergenza dell’individualità biologica. Segue l’articolo di Alfredo Paternoster, che indaga la possibilità che nelle scienze cognitive l’Embodied Cognition implichi qualche forma di emergenza e quello di Micheal W. Stadler, che analizza il problema della intuizione immediata (insight) in psicologia chiedendosi se l’emergenza sia un buon modello per concettualizzare questo processo. Segue l’articolo di Alessandro Bertinetto, che applica il concetto di emergenza alla filosofia dell’arte e al problema dell’interpretazione delle opere d’arte. L’articolo di Maurizio Ferraris, infine, riassume la sua visione metafisica dell’emergenza, basata sulle teorie della traccia e della registrazione da lui formulate, mentre Maria Mancilla Garcia e Tilma Hertz propongono una nuova visione dell’emergenza contestualizzata nel quadro concettuale della filosofia del processo, in riferimento a James, Deleuze e Whitehead.
A cura di Erica Onnis
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DOI: https://doi.org/10.13135/2385-1945/11.2019
Pubblicato: settembre 2019
Indice
E. Onnis - Introduzione [PDF It]
J. Walmsley - Verso una riconsiderazione dell'Emergentismo Britannico [PDF It]
E. Onnis - Definire l'emergenza [PDF It]
O. Sartenaer - Emergenza piatta [PDF It]
K. Crowther - L'emergenza dello spazio-tempo nella gravità quantistica e nella cosmologia quantistica [PDF It]
M. P. Banchetti-Robino - Sull'inadeguatezza della mereologia formale husserliana per l'ontologia regionale degli interi chimici [PDF It]
L. Boi - On Emergence and Causality in the Living World [En]
I. Hernandez - Comment penser l'émergence d'un individu biologique à partir d'une collectivité d'individus biologiques? [PDF Fr]
A. Paternoster - The Emergence of Emergentism in Cognitive Science [PDF En]
M. W. Stadler - The Emergence of Insight in Problem Solving [PDF En]
A. Bertinetto - L'emergentismo nell'arte [PDF It]
M. Ferraris - Che cosa può la registrazione? [PDF It]
T. Hertz, M. Mancilla Garcia - The Event: a Process Ontological Concept to Understand Emergent Phenomena [PDF En]
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«In principio era l’Azione». Se si dovesse scegliere una frase da porre in esergo al volume di Alessandro Bertinetto (Eseguire l’inatteso. Ontologia della musica e improvvisazione, Il glifo ebook, Roma 2016) dedicato alla pratica dell’improvvisazione musicale, non si potrebbe che scegliere il celebre verso goethiano (ripreso da Ludwig Wittgenstein nelle annotazioni raccolte sotto il titolo Della Certezza). Il lavoro di Bertinetto pone il fenomeno improvvisativo al centro dell’indagine e definisce le sue caratteristiche distintive seguendo le coordinate proprie dell’estetica analitica, riservando particolare attenzione agli aspetti ontologici della pratica artistica in cui «processo e prodotto coincidono» (p. 52). Ma l’analisi filosofica dell’improvvisazione musicale impone, alla fine dell’indagine, una complessiva rielaborazione delle determinazioni concettuali attraverso le quali l’estetica analitica ha finora pensato l’ontologia della musica: il caso dell’improvvisazione mostra cioè che le categorizzazioni abitualmente adottate dalla riflessione filosofica non sono sufficienti a rendere conto della complessità del fenomeno musicale, così come esso effettivamente si presenta. Come nota l’autore, il rischio che corre la filosofia è infatti quello di sostituire agli oggetti che intende studiare delle pure astrazioni, capaci forse di soddisfare i criteri che la riflessione arbitrariamente sceglie per sé ma non corrispondenti alla realtà dell’esperienza. Bertinetto non si limita dunque ad analizzare l’improvvisazione musicale, ma utilizza i risultati della ricerca per rimettere in discussione alcuni assunti di base dell’estetica analitica, come il primato dell’ontologia sull’estetica – vale a dire la priorità della risposta alle domande “che cosa c’è?” e “che cos’è quello che c’è’” rispetto all’indagine relativa alla concreta esperienza legata a una pratica artistica – e la relazione tra opera ed esecuzione (abitualmente intesa secondo il binomio type/token, modello/occorrenza).
Per apprezzare la portata del lavoro che stiamo discutendo occorre però seguire il percorso scandito dai sette capitoli che compongono il saggio. Il lettore viene introdotto inizialmente nel dibattito dell’ontologia della musica, il cui orizzonte è caratterizzato dal dualismo tra opera ed esecuzione (cap. 1). Contro l’opinione (generalmente ammessa) secondo cui, per apprezzare una performance, dovremmo essere in grado di giudicarne l’appropriatezza rispetto al modello normativo rappresentato dall’opera, Bertinetto mette in luce il carattere processuale che determina l’attualizzazione dell’opera nelle diverse esecuzioni, preannunciando quella che sarà una delle tesi portanti del suo lavoro: l’opera stessa, attraverso le sue interpretazioni, viene modificata incessantemente, in un continuo processo formativo e trasformativo. Il mainstream dell’ontologia musicale si basa pertanto su un presupposto tacito ma non per questo neutrale:
A partire dall’assioma, assunto come indiscutibile, della ripetibilità dell’opera senza perdita d’identità, esse [le ontologie generalmente ammesse in ambito analitico] spiegano la relazione tra l’opera e le sue esecuzioni, dando per scontata la validità normativa dell’ideale della fedeltà (Treue) all’opera (Werk) (pp. 20-21).
Le ontologie della Werktreue, dettagliatamente analizzate e criticate da Bertinetto, sposano il modello basato sul dualismo tra opera ed esecuzione, proiettando il primo termine in un orizzonte normativo e atemporale e relegando il secondo in posizione subalterna. Ma, come detto in apertura, nell’ambito dell’esperienza musicale l’azione ha un’evidente priorità: è questo il punto su cui fa leva l’autore, proponendo all’ontologia della musica l’experimentum crucis dell’improvvisazione (capp. 2 e 3). Se infatti la musica – come argomentato da Bertinetto in un lavoro precedente[1] – è essenzialmente arte dei suoni, le concrete esperienze dell’ascolto e della pratica (strumentale e vocale) non possono essere relegate al ruolo di inessenziale “sonorizzazione” di una struttura ritmica, armonica e melodica precedentemente data. Il primato del suono e l’autonomia rispetto a modelli estrinseci divengono lampanti nell’esperienza dell’improvvisazione, in cui «il processo-prodotto accade contemporaneamente alla sua percezione da parte dell’ascoltatore» (p. 52). Bertinetto analizza il complesso rapporto che lega e distingue l’improvvisazione dalla composizione e individua successivamente alcune peculiarità di quel tipo di creatività in cui composizione e esecuzione coincidono. Irreversibilità, situazionalità, singolarità, presenza, autenticità definiscono l’improvvisazione come pratica paradossale: spontanea ma radicata in una continua frequentazione delle tecniche strumentali; intenzionale ma non predeterminata da decisioni prese in anticipo; fondata su abitudini ma portatrice di risultati imprevedibili. Viene dunque analizzato il rapporto tra improvvisazione e interpretazione, mettendo in luce il «carattere eminentemente auto-espressivo» (p. 101) della pratica improvvisativa, nella quale il soggetto musicale, così come l’opera, si costituisce e si sviluppa in concomitanza con l’esperienza del suono. L’improvvisazione diventa dunque il luogo di un’inedita soggettivazione, in cui trovano spazio nuove rappresentazioni di sé che possono coinvolgere e retroagire sulla collettività e sul contesto da cui pure hanno preso origine. Sulla scorta di queste analisi, Bertinetto può affermare l’inadeguatezza del modello type/token ai fini di una soddisfacente descrizione della pratica improvvisativa. Costituendo un caso limite in cui è impossibile distinguere tra opera ed esecuzione, così come tra strutture essenziali e coloriture contingenti, l’improvvisazione sfugge al modello della ripetibilità dell’opera ma non per questo deve essere “declassata” a mera performance; piuttosto, è il concetto stesso di “opera” a dover essere rimesso in discussione.
Dopo aver esaminato nel cap. 3 alcuni casi in cui i confini tra opera e improvvisazione tendono a sfumare (la composizione come risultato dell’improvvisazione, l’improvvisazione come determinazione di opere indeterminate, l’improvvisazione su opere), l’autore analizza dettagliatamente la relazione tra improvvisazione e musica registrata (andando a toccare un tema recentemente molto dibattuto nell’ambito dell’ontologia musicale[2]; cap. 4) e presenta il caso paradigmatico della contraffattura (cap. 6), pratica musicale di appropriazione e rielaborazione di temi, melodie, strutture armoniche attraverso cui si dà luogo a “nuove” opere.
Se i capp. 4 e 6 presentano dunque due possibili articolazioni del discorso sull’improvvisazione, il cuore teorico del saggio può essere invece individuato nei capp. 5 e 7, dedicati rispettivamente alla definizione della natura finzionale dell’opera e alla logica improvvisativa dell’ontologia musicale.
Nel cap. 5 Bertinetto afferma decisamente la natura culturalmente costruita dell’opera musicale e stabilisce il primato dell’esecuzione sul modello. Attraverso una mossa teorica che si potrebbe definire decostruttiva, l’autore sferra una critica decisiva alle ontologie della Werktreue notando come «la finzione dell’opera musicale che rimane identica attraverso le sue esecuzioni ha un’origine evidente nelle pratiche di scrittura potenziate dall’invenzione della stampa a caratteri mobili» (p. 203). Il singolare equilibrio di Bertinetto sta nel non liquidare però il riferimento all’opera come un richiamo inutile o insensato: affermando che l’opera vive nelle sue interpretazioni, viene ribadito il legame con una struttura normativa, intesa però non più come modello atemporale bensì come regola. Ma la logica che, wittgensteinianamente, sorregge il seguire una regola determina contemporaneamente un’apertura a diverse possibili esecuzioni e una incessante ridefinizione della regola stessa:
L’alterazione (anche minimale) o la violazione (anche radicale) della norma possono produrre nuove norme attraverso la modificazione della norma precedente, qualora venga seguita e dunque riconosciuta come tale dai partecipanti alla pratica. In ciò consiste il carattere formativo della normatività all’opera nell’improvvisazione (p. 268).
Il carattere ricorsivo e dinamico della normatività, esemplificato in modo paradigmatico dalla pratica dell’improvvisazione, può di fatto essere esteso all’intera pratica musicale, anche laddove si riconosca l’esistenza di opere, intese come entità finzionali, nel senso precedentemente specificato. Si può dunque pensare che il principio formante, presente in ogni composizione, non finisca di agire quando il compositore abbia tracciato la doppia stanghetta al termine dell’ultima battuta del pentagramma, ma che continui ad animare le diverse performances che nella partitura trovano la propria regola, la propria “ricetta” per preparare “piatti” diversi e innovativi. In definitiva, il modello type/token è da rifiutare perché mentre «l’esemplare non aggiunge nulla al tipo, semplicemente lo realizza», al contrario «la performance, realizzando l’opera, non la ripete identica. Altrimenti, tra l’altro, che senso avrebbe offrire più di un’esecuzione di un’opera musicale?» (p. 310). Quest’ultima riflessione, così come le sottili analisi dei capitoli precedenti, preparano un’ultima mossa teorica rilevante, vale a dire l’affermazione del primato dell’estetica sull’ontologia, che coincide con un posizionarsi nella «prospettiva dei partecipanti».
Data l’ampiezza del tema trattato e la ricchezza di informazioni, articolazioni, argomentazioni, non è facile rendere conto di un saggio come Eseguire l’inatteso. Una semplice constatazione, utile forse a contestualizzare il lavoro di Bertinetto, può essere l’individuazione di tre assi concettuali, tre linee argomentative che il lettore facilmente potrà ritrovare nelle pagine dedicate all’ontologia dell’improvvisazione. Per indicare questi tre assi faremo uso di altrettanti termini, ognuno legato a un autore esplicitamente richiamato nei capitoli del saggio. L’improvvisazione, intesa come paradigma capace di ristrutturare l’intera ontologia della musica, si situa dunque nel punto di intersezione tra formatività, regola e storia degli effetti, vale a dire in una ripresa di alcune tematiche legate alle riflessioni di Luigi Pareyson, Ludwig Wittgenstein e Hans Georg Gadamer.
Definendo l’arte come «un tal fare che, mentre fa, inventa il modo di fare»[3] Pareyson dà inavvertitamente una tra le più calzanti definizioni di “improvvisazione” e invita implicitamente a leggere l’intera attività formativa sotto la lente della pratica improvvisativa. La creazione artistica non implicherebbe dunque la realizzazione di un piano o di un progetto virtuale, ma si presenterebbe come un processo dinamico di scoperta, aperto tanto alla riuscita quanto al fallimento, sebbene non ordinato secondo norme preesistenti. Le regole dell’attività artistica seguono pertanto la massima con cui Wittgenstein definisce il funzionamento dei giochi linguistici: «We make up the rules as we go along»[4]. La norma che presiede all’improvvisazione coincide in realtà con quest’ultima e, al limite, è individuabile solamente ex post; estendendo questa riflessione all’intero ambito della creazione musicale, l’opera risulta non essere altro che l’insieme delle istruzioni rivolte dal compositore all’interprete, affinché nell’esecuzione (l’unica realtà che valga la pena di definire “musicale”) la composizione dispieghi la vita che le è propria. La vita dell’opera, infatti, continua in quella che Gadamer chiama Wirkungsgeschichte[5], storia degli effetti: in ambito musicale la performance, in quanto attualizzazione dell’opera e sua recezione, sviluppa in senso trasformativo il testo di partenza e mette in moto un processo retroattivo che va dall’esecuzione all’opera.
Il lavoro di Bertinetto ha il merito di rimettere in moto la riflessione sugli aspetti ontologici dell’esperienza musicale, determinando una problematizzazione dei modelli di riferimento abitualmente adottati. Ulteriore merito è quello di condurre la discussione fuori dalle secche dell’ontologia analitica senza rifiutarne aprioristicamente il quadro concettuale ma superandolo, per così dire, dall’interno, argomentando e rispondendo alle possibili obiezioni, ascrivibili alle voci più autorevoli dell’estetica musicale contemporanea, puntualmente citate e interrogate nel discorso. Un ultimo motivo di apprezzamento consiste nella reintroduzione nel dibattito di autori troppo spesso dimenticati nell’ambito della riflessione musicale: i tre esempi di Pareyson, Wittgenstein e Gadamer, poco presenti nella discussione analitica (su due dei tre nomi non ci dovrebbero essere dubbi, nel caso di Wittgenstein la questione della recezione analitica è di certo più complessa), comportano un ampliamento del panorama da cui la filosofia della musica non può che trarre giovamento.
di Stefano Oliva
[1] A. Bertinetto, Il pensiero dei suoni. Temi di filosofia della musica, Bruno Mondadori, Milano 2012.
[2] Cfr. Ontologie musicale. Perpectives et débats, sous la direction de A. Arbo, M. Ruta, Paris, Hermann 2014 (in partic. la sez. III, dedicata a Œuvres et enregistrements).
[3] L. Pareyson, Estetica. Teoria della formatività, Bompiani, Milano 1954 (nuova ed. 2010), p. 59; citato nel saggio di Bertinetto (p. 51).
[4] L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 2006, p. 56; citato nel saggio di Bertinetto (p. 269).
[5] H.-G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano 1990, p. 350 ss; cit. nel saggio di Bertinetto (p. 306).