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«Lo stupore perché le cose che viviamo sono “ancora” possibili nel ventesimo secolo – scriveva Walter Benjamin una novantina di anni fa – è tutt’altro che filosofico. Non è all’inizio di nessuna conoscenza, se non di quella che l’idea di storia da cui proviene non sta più in piedi». E infatti le «cose» del ventesimo secolo di cui parlava Benjamin sono “ancora” possibili nel ventunesimo. Oggi come novant’anni fa, dietro la porta della crisi finanziaria si preparava lo scenario del fascismo e della guerra totale. Oggi come novant’anni fa, la gestione biopolitica delle popolazioni è trapassata senza soluzione di continuità – sotto la pressione del rinnovamento dell’apparato tecnico di distruzione e sorveglianza – nella gestione tanatopolitica del loro sterminio. Oggi come novant’anni fa, infine, la politica economica si è rivelata, secondo il celebre rovesciamento foucauldiano del motto di Clausewitz, come «la prosecuzione della guerra con altri mezzi».

Nel febbraio 2022, l’opinione pubblica occidentale prese atto con immenso stupore del «ritorno» della guerra sul suolo europeo. Eppure, c’era ben poco di che stupirsi, siccome, ripercorrendo l’intera vicenda dell’homo sapiens, non si trova un’epoca che, più della nostra, sia stata attraversata da guerre di ogni genere, estensione e intensità. Lo stupore, tuttavia, resta: sarà perché ci si era ormai abituati a pensare a un’Europa militarmente inviolabile; sarà perché si era relegata la guerra di movimento tra i brutti ricordi di un Novecento lontano. Non è neppure mancato chi, attraversato da un posticcio brivido di Realpolitik, ha salutato con gioia sinistra, nel «ritorno» della guerra, il «ritorno» della politica (o, meglio, del politico) e, con esso, la fine della «fine della storia». Per liquidare senza sforzo amenità del genere, sarebbe bastato ricordare le caustiche ammonizioni di Marx o di Foucault: «non ci sono mai ritorni nella storia; o meglio: ogni analisi che intenda produrre un effetto politico resuscitando vecchi spettri è destinata allo scacco». Non soltanto non c’è qualcosa come un revenant della guerra, ma occorre tenersi bene in guardia da chi ne parla con toni da negromante.

Come ogni mito, il «ritorno» della guerra è ricorsivo. E, come ogni mito, non si lascia scacciare se non attraverso una decisa messa a terra; e l’unico terreno capace di assorbire la sua terribile scarica è, come sempre, quello della storia. Per cortocircuitare il mito della guerra, dunque, ci si dovrà affidare a domande-guida di carattere eminentemente genealogico. E anzitutto: In che modo la guerra ha potuto diventare ciò che vediamo oggi, in Ucraina come a Gaza? In base a quali criteri accettiamo di classificare come «guerra» un certo insieme di pratiche, eventi, soggetti e progetti? E in che modo i criteri e le procedure di classificazione della guerra sono mutati nell’ultimo secolo? Ecco il compito che Frédéric Gros si assume nel suo Perché la guerra? (2024), uscito da poco per Nottetempo nella traduzione di Raffaele Alberto Ventura.

Il libretto di Gros è un’agile inchiesta sullo état de violence contemporaneo, per riprendere il titolo più noto della bibliografia dell’autore. Malgrado il titolo, il volume si preoccupa meno del «perché» della guerra – delle sue ragioni geostoriche, antropologiche o magari, peggio ancora, delle sue radici metafisiche – quanto piuttosto dei suoi «come»: delle costanti e delle variabili che organizzano i suoi divenire e le sue inscrizioni in sequenze storiche più o meno lunghe. Con la conclusione del secondo conflitto mondiale, infatti, non è certo la guerra a finire, ma «un certo tipo di guerra»: «quella che aveva strutturato il rapporto tra Stati, dalle spiagge di Maratona nel 490 a.C. fino alle coste della Normandia» (p. 24). Dopo il 1945, dunque, sulle ceneri del paradigma polemologico «classico», sarebbero fioriti nuovi «stili di guerra». In gioco, qui, non c’è soltanto la ridefinizione delle strategie, delle tecnologie militari o del diritto di guerra. Si tratta, piuttosto, di un vero e proprio cambio di paradigma – di continui cambi di paradigma –: dell’innesco di incessanti dislocazioni tra campi del sapere e pratiche di potere. Nulla di meno ci si aspetterebbe da uno studioso che, come Gros, ha avuto il merito di curare le opere di Foucault per la prestigiosa Bibliothèque de la Pléiade di Gallimard. Eppure, per più di un verso, Perché la guerra? sembra restare un passo indietro rispetto alle sue ambizioni dichiarate. Ma andiamo con ordine.

Al netto delle cesure fondamentali nell’arte della guerra occidentale – come l’imporsi della tattica oplitica nella dottrina militare greca del V secolo (p. 47) –, e nelle strategie giuridiche e metafisiche per giustificarla – come il passaggio dalla dottrina cristiana della guerra giusta, focalizzata sullo ius ad bellum, alla dottrina post-vestfaliana della guerra legale, incentrata sullo ius in bello (p. 62 sgg.) –, il paradigma polemologico classico si lascia riconoscere per mezzo di alcuni marcatori, che Gros rintraccia in alcuni classici del pensiero della guerra. Il primo, di carattere ontologico, lo si può desumere da Aristotele: come la dynamis, pur restando indipendente dalla enérgeia, rimane comunque subordinata ad essa, così la guerra si muove sempre in nome della pace e, perciò, si presenta in tutto e per tutto come potenza di pacificazione. Il secondo, di carattere giuridico e politico, ha trovato la sua formulazione più chiara in Carl Schmitt: nel sistema dello ius publicum Europaeum, definitivamente tramontato con la prima guerra mondiale, la guerra «limitata» funzionava come un principio di strutturazione del rapporto tra Stati. Per il terzo, infine, di carattere etico, Gros si richiama a Clausewitz: c’è guerra laddove c’è riconoscimento reciproco del valore dei contendenti («La guerra – scrive Clausewitz – non è che un duello più esteso»). In questo senso, può concludere Gros, nel paradigma polemologico classico la guerra si presenta come «violenza strutturata secondo delle regole e sospesa a degli obiettivi (cioè, normata e strumentale)» (p. 39).

Ora, il 1945 segna la definitiva implosione del paradigma polemologico classico. E non tanto perché, come diceva Günther Anders, «il 6 agosto 1945, giorno di Hiroshima, è cominciata una nuova era: l’era in cui possiamo trasformare in qualunque momento ogni luogo, anzi la terra intera, in un’altra Hiroshima». Certo, con gli armamenti nucleari a profilarsi è una decisiva condizione di impossibilità della guerra, poiché le prospettive di distruzione totale del nemico tendono qui alla perfetta coincidenza con l’apocalisse planetaria. Se tale condizione (la cui formulazione più perspicua si trova, forse, nella dottrina della mutual assured destruction) ha contribuito in modo decisivo a definire il primo dei paradigmi post-classici – la «guerra binaria», che ha dato forma al confronto globale e locale tra i blocchi USA e URSS, in una sequenza infinita di «guerre per procura» –, il cambio di passo decisivo in materia di tecnologie militari andrebbe però, forse, retrodatato alla prima guerra mondiale. È l’introduzione delle armi chimiche a segnare l’ineliminabile opacità nella conduzione della guerra che avrebbe segnato l’intero Novecento: l’impossibilità di distinguere l’esercito dalla popolazione, il regolare dall’irregolare. Con la guerra chimica, come aveva ben visto Benjamin, la tecnologia militare è già tecnologia di sterminio. Tra le nebbie del fosforo bianco, ogni differenza tra tenuta civile e uniforme è cancellata, e sfuma ogni possibilità di circoscrivere i confini del campo di battaglia.

Il 26 giugno 1945, pochi mesi prima dei bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki, veniva varato lo Statuto delle Nazioni Unite, che segnava la nascita dell’Onu. Nel preambolo della Carta, la prima delle ragioni indicate per motivarne la fondazione è «to save succeeding generations from the scourge of war» – che si potrebbe rendere un po’ liberamente con «proteggere le generazioni future dalla piaga della guerra». È sotto l’insegna di questa «protezione» che si apre l’epoca della cosiddetta pax americana. Ed è qui che si verifica un decisivo scontro, una decisiva ricombinazione» di «ordini del discorso» assai eterogenei: il discorso della guerra e la biopolitica. Che cos’è, infatti, una pace fondata sulla «protezione» o la «messa in sicurezza» dei popoli? Dopo l’11 settembre 2001, la risposta a questa domanda assumerà contorni sempre più netti, fino a delineare il paradigma della «guerra globale» (p. 29). Qui, l’opacità del nemico è tale che (non) lo si può vedere ovunque e in nessun luogo. È l’epoca della guerra al terrorismo, degli Stati-canaglia, del nation building, della guerra ridotta a insieme eterogeneo di «interventi» o «operazioni» di polizia, dove all’anonimato del nemico corrisponde l’impersonalità del pilota di droni.

Il regime di prevenzione della guerra, secondo Gros, funziona come un dispositivo in grado di cancellare il confine tra interno ed esterno, tra criminale e nemico e tra stato di pace e stato di guerra: «l’atto terroristico, così come le operazioni di peace keeping, confondono la frontiera tra questi due stati fino a farlo compenetrare» (p. 36). A ben vedere, le «guerre di caotizzazione» non sono che il rovescio di tale regime di prevenzione. Incapace di provvedere alla sicurezza della popolazione, lo Stato si presenta qui «con il volto di una cricca di oligarchi abbarbicati alle loro rendite». È il caso della Libia, della Siria, dell’Iraq e dello Yemen, dove la conduzione della guerra è perfettamente slegata da ogni orizzonte di pacificazione, e si rivela piuttosto come un meccanismo di appropriazione e sfruttamento delle ricchezze nazionali.

In tale prospettiva, la guerra in Ucraina – che, nell’analisi di Gros, gioca il ruolo di fondamentale pietra di paragone e istanza di verifica del discorso – si presenta come un assemblaggio di elementi eterogenei, di volta in volta prelevati da uno dei quattro paradigmi menzionati, il cui effetto complessivo sarebbe appunto quello di un «ritorno» della guerra classica. Così, ad esempio, se le dichiarazioni di Putin sui moventi russi avrebbero dovuto riattivare il discorso classico dello ius ad bellum, lo stesso Putin si rifiutò di parlare apertamente di guerra, preferendo la locuzione «operazione militare speciale».

Tuttavia, come abbiamo anticipato, le pretese di Gros non si limitano alla tassonomia. Fin dall’inizio di Perché la guerra? – malgrado il taglio piuttosto didascalico –, l’autore non fa mistero delle sue ambizioni genealogiche. Ed è proprio su questo versante che ci si imbatte nelle osservazioni più notevoli di Gros, come, ad esempio, quelle dedicate al rapporto tra guerra e desiderio. Nel secondo capitolo, dopo aver scartato l’ipotesi che la genesi della guerra possa esser ricondotta a fattori puramente economici, Gros si colloca, forse un po’ timidamente, nella prospettiva di un’altra economia: l’economia libidinale. Tanto nel caso dell’eroe epico, quanto nel caso del soldato moderno, che deve resistere (o «tener duro», secondo la metafora fallica che torna continuamente nel testo) durante l’assedio metropolitano o in trincea, la guerra si presenta anzitutto come un dispositivo di governo delle passioni (p. 53). La posta in gioco di un simile approccio, che qui si lascia appena intravedere, si rivela nell’ipotesi suggerita verso la fine del libro, dove la guerra è presentata come un dispositivo antropogenetico in grado di istituire alcune partizioni originali: la divisione del lavoro, la dicotomia pólis/oikos e, con essa, la partizione e gerarchizzazione dei sessi. «Ogni guerra – scrive Gros – consolida nuovamente la norma di genere, perché ogni volta si rimettono in scena e si re-istituiscono la separazione tra i sessi e la supremazia del maschile» (p. 119).

In entrambi i casi, la guerra appare come un meccanismo di messa in forma, blocco e direzionamento dei flussi di desiderio – il che, del resto, come ricordava Erasmo, è un trucco persino banale nell’arte di governare, dove spesso si tratta di proiettare all’infuori l’odio dei governati verso i loro governanti. È nel solco di tale impostazione che, forse, si sarebbero potuti rintracciare i lineamenti di una effettiva genealogia della guerra: soprattutto sviluppando coerentemente alcune delle indicazioni abbozzate da Gros nel capitolo più notevole del libro, dal titolo «Lo Stato fa la guerra e la guerra fa lo Stato». In quelle pagine, chi legge è invitato a non guardare allo Stato con le lenti della razionalità politica occidentale, che ha tentato di metaforizzarlo, di volta in volta, sotto le spoglie di «corpo» della nazione o di «animale» attraversato da pulsioni aggressive.

Spezzato il cerchio stregato della metaforologia (teologico-)politica, lo Stato non si presenta più come sostanza, ma come semplice effetto di potere: «entità fantasmatica» prodotta dalla repressione poliziesca, dalle decisioni militari e dagli «appelli alla difesa della sua integrità» (p. 95). È lo stato di guerra, dunque, iniettando la mancanza nei flussi di desiderio nelle forme dell’insicurezza generalizzata e della mobilitazione totale, a dar forma alle moltitudini, assoggettandole alla loro immagine separata, perpetuo supporto dell’apparato di Stato e dell’architettura del potere.

Tuttavia si cercherebbe invano in Perché la guerra? uno sviluppo integrale di tale ipotesi. Pur adombrandola, Gros sembra rifiutarsi di trarne le conseguenze che avrebbero potuto dare al testo una decisa impronta genealogica. Ne risulta, da un lato, che il libro non sembra riuscire veramente a pensare la guerra al di là della polemologia classica – in particolare nella versione codificata da Carl Schmitt.

A ben vedere, infatti, le definizioni degli stili di guerra post-classici proposte da Gros restano essenzialmente negative: si limitano a registrare il venir meno di questo o quell’aspetto della guerra classica, e in particolare della distinzione binaria amico/nemico. Di conseguenza, dall’altro lato, l’inchiesta di Gros finisce con l’arrestarsi al piano tassonomico, alla successione e parziale sovrapposizione dei paradigmi di guerra, senza mai sfondare le porte della genealogia. In tale prospettiva, infatti, sarebbe stato necessario nulla di meno che decostruire il dispositivo amico/nemico come criterio del politico e, al tempo stesso, scardinare la sequenza guerra-Stato-morte. In altre parole, si sarebbe dovuta formulare espressamente la questione: Che cosa sarebbe la guerra, oltre e al di qua dell’apparato di Stato? Di questa domanda, che scandisce l’intero Trattato di nomadologia, non c’è traccia nel testo di Gros. È nota, però, la risposta di Deleuze e Guattari: al di qua della cattura dello Stato, la guerra perderebbe i suoi connotati tanatopolitici e distruttivi, per capovolgersi in macchina-nomade, produttiva, creativa, capace di comporre e muoversi in spazi lisci, non più binari. È la dimensione ludica dell’agòn, che la genealogia scopre prima e alle spalle di ogni pòlemos. A questo punto, l’indagine si sarebbe potuta orientare sulle resistenze, le incrinature e le discontinuità che, dopo il ’45, hanno incessantemente sabotato la macchina polemologica classica, costringendola a continue ricomposizioni forzate in grado di generare effetti di ricorso. Macchina nomade, «tradizione degli oppressi», stásis,o agòn – il punto di fuga, che manca alla successione di prospettive polemologiche offertaci da Gros, sarebbe anche la linea di fuga dalla polemologia.

Lorenzo Mizzau

Bibliografia

Agamben, G. (2015), Stasis. La guerra civile come paradigma politico. Homo sacer II, 2, Torino: Bollati Boringhieri.

Benjamin, W. (2006), Sul concetto di storia, in Opere complete, a cura di E. Ganni, Torino: Einaudi, vol. VII, pp. 483-493.

Deleuze, G. & Guattari, F. (2017), Millepiani. Capitalismo e schizofrenia, tr. it. a cura di P. Vignola, Napoli: Orthotes.

Gentili, D. (2020), Conflitto, in Enciclopedia Treccani. X appendice dell’Enciclopedia Italiana, Roma: Istituto della Enciclopedia Italiana, pp. 302-305.

Gros, F. (2024), Perché la guerra?, tr. it. a cura di R. A. Ventura, Milano: Nottetempo.

Lazzarato, M. (2024), Guerra civile mondiale?, Bologna: DeriveApprodi.

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