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Un collettaneo esteso allo scopo di mappare le emergenze di uno “scultoreo” ipercontemporaneo titolava sintomaticamente, all’altezza della fine della prima decade del Ventunesimo secolo e riverberando una frase di Nelson Goodman, Quando è scultura (cfr. Baldacci, Ricci, 2010). Quella scelta lessicale denuncia tuttora un’esigenza critica e teorica ormai inderogabile nel soppesare i residui del “plastico”, sparsi e tesi tra la consistenza impalpabile della “smaterializzazione” lippardiana e quella solida o vischiosa di una materialità rivendicata a detrimento della lavorazione. L’urgenza sta anzitutto nell’assenza dell’articolo (“la”): è quella dell’interrogazione, ognora contingente e revocabile, sulla localizzazione – cartografica, che nessun luogo esclude – di ciò che può essere detto scultoreo; questo approccio processuale scongiura la formulazione di domande ontologiche: che cosa sia la scultura non è più necessario chiederselo; occorre rifuggire l’incombenza monolitica dell’essenzialismo e della specificità mediale. E il bisogno chiarificatore prosegue poi nell’optare per l’avverbio “quando”, vòlta giusto appunto a situare lo scultoreo nella dimensione temporale (nel «qui e ora come dispositivo temporale» antimonumentale; cfr. Ricci, 2010) piuttosto che a delimitarlo precisamente in presunti spazi deputati.

Il processo di “temporalizzazione” della scultura, che investe in sostanza tutte le tendenze “plastiche” del secondo Novecento, è l’indizio del suo smarcarsi a livello teorico – finalmente e risolutivamente – dall’imperativo lessinghiano che per secoli l’ha voluta esclusivamente come “arte dello spazio”; questa definizione limitante la precludeva alla percezione evenemenziale: la sua dismissione si è concretizzata solo tramite l’erosione dei confini del “sistema delle arti” (problematizzato, per esempio, in maniera storica da Paul O. Kristeller e in senso filosofico da Étienne Souriau) e dal ripensamento del concetto di “materia” (non più mezzo ancillare e passivo, semmai medium dinamico e attivo). Souriau afferma infatti che «è impossibile assegnare ad ogni grande specie d’arte una materia che le sia propria e che la caratterizzi»; ciò significa che «la diversità delle materie impiegate» non deve discriminare lo “schema” delle arti: conviene che i “qualia”, i precipitati fenomenico-materiali dell’artisticità, si ponderino quasi fossero una «pelle che agisce come mezzo di conoscenza e d’esperienza qualitativa» (Souriau, 1988, 149, 151), passibili dunque di una sintesi astratta. Affinché alla scultura spettasse l’intero spettro espressivo della materialità (in luogo della sua storica funzione solida e struttiva), si è dovuto attendere che un secolo di sperimentazioni si chiudesse, e che si passasse dal concepire la materia da inerte a «una materia nelle sue presenze complete, sia evocate, sia concrete» (Souriau, 1988, 151).

Ci sono state però voci che, grazie alla loro esperienza artistica difficilmente classificabile, oltre ad avere sorpassato i dettami modernisti sulla medium specificity alla loro esacerbazione, hanno superato persino l’antinomia tra la “objecthood” friediana e l’intangibilità più pura del concettuale, già nel pieno della stagione postmodernista,  intravvedendo e antivedendo soluzioni che non escludessero né l’una né l’altra, nel nome della “completezza” materica souriauiana. Giuseppe Penone, poverista da subito incondizionato dalla linea celantiana e destinato a un lungo itinerario personale, è un caso esemplare; lo ricorda bene – anzi lo asserisce ex novoAlice Iacobone, che dedica all’artista una monografia di “estetica e poetica”: Per crescita di buio (2023), compresa nella promettente collana Corpi, curata da Emanuele Garbin per Quodlibet. L’autrice intende dare un apporto che vuole essere, scientificamente, sia teorico (filosofico e critico) sia storico-artistico (demandando a terzi compiti squisitamente archivistici); lo sforzo di sintesi è d’obbligo – è dichiarato nell’Introduzione – perché, tanto nel panorama dell’estetica quanto in quello della storia dell’arte, è raro che accada; è infrequente che le due discipline, nonostante le lampanti tangenze, si incrocino: di qui l’occorrenza di mettere «“all’opera”» i concetti filosofici, «a contatto con i materiali storico-artistici» (Iacobone, 2023, 7). Il libro segue i principali snodi teorico-artistici penoniani, costantemente verificandoli mediante analisi comparative di alcune opere paradigmatiche; la densità concettuale del lavoro dello scultore si vede quindi sensibilmente incarnata, in riflessioni esplicative (accessibili anche a chi è digiuno di letture estetologiche, in virtù di una scrittura chiara che nondimeno rinuncia all’eleganza) che corrispondono alle opere d’arte quasi fossero prova provata le une delle altre.

È eloquente che Iacobone ritmi la struttura dell’indice con il metro del corpo umano; raggruppa temi e problemi sotto il segno della “mano” (I), dell’“occhio” (II) e dell’“epidermide intiera” (III), e con un campo semantico in progressiva espansione; annuncia, così, il Grundbegriff –instillato da Penone – che ha deciso di eleggere a centro della sua meditazione compendiaria: quello della «presa di forma e della sua qualità materica» (Iacobone, 2023, 21). Il rapporto tra forma e materia – viene spiegato – penonianamente si dà in chiave antimetafisica, concreta invece; il depotenziamento di una tradizione filosofica occidentale così lunga e così soverchiante avviene proprio a causa della scultura, la cui origine sarebbe «un gesto semplicissimo […]: una mano che incontra un materiale» (Iacobone, 2023, 11). La scultura come semplice contatto, come «evento minore» (Iacobone, 2023, 11), avrebbe conseguenze rivoluzionarie: detronizzerebbe la forma in quanto impalpabile essenza di ascendenza platonica in favore della materia, senza cui nessuna forma verrebbe in essere.

Siccome Penone esordisce a postmodernismo avanzato (e mai dismetterà del tutto il ricordo di quella temperie in cui ha trovato le radici della sua carriera, per poi sempre farle crescere fino a oggi), lancia i suoi strali anti-formali con il proprio corpo; con il corpo del creatore che diviene corpo in opera, e che in ragione della sua performatività “attiva” la materia forme scultoree dai confini duttili. Iacobone illustra lucidamente che, sebbene l’artista reclami un’originaria (ma non genetica) «affirmation of sculpture» (Daval, 1986, 1118), essa è tesa all’espansione nello spazio e nel paesaggio – tramite la sua corporalità – di uno scultoreo non necessariamente “plastico” e solido, in virtù della «reversibilità di stato della materia» (Iacobone, 2023, 30). Dapprincipio c’è la materia che, per via di chi la manipola, diventa forma; l’accostamento può eccedere i codici dell’espressione e produrre «una nuova morfologia, poiché, per un breve momento, tra le mani dell’artista e la terra di produce uno spazio di assoluta prossimità che diviene indistinzione carnale» (Iacobone, 2023, 15). La “morfologia carnale”, che Penone sperimenta a partire dal “gesto minimo” e che poi dilaga, riguarda il mondo; buca un altro dualismo, quello tra arte e vita. Essa ricorda le gesta di un personaggio letterario, Gerolamo Aspri, che al principio di Corporale di Paolo Volponi (1974), si ritrova in villeggiatura sulla Costa adriatica senza mai sapere dove sbattere la testa e dove mettere gli occhi: «Guardo e vedo tutto e non c’è niente che promani dalla mia coscienza» (Volponi, 2014, 5); prova allora a “pensare” e a “guardarsi” attorno con il corpo, dato che «il contatto con il proprio corpo com’è completo e vigile: segue ogni piccolo evento […] fino alla formulazione e poi alla evidenza di un pensiero critico e quindi di una storia» (Volponi, 2014, 6); passa per la coesione con l’alterità organica e inorganica: «Attraverso lo svuotamento raggiungevo l’esaltazione. Il mio corpo come un minerale affondava in un giaciglio sempre più fondo» (Volponi, 2014, 24).

«Con umano volevo dire artificiale» (Volponi, 2014, 35), esclama infine la creatura volponiana alla perenne ricerca di immagini, saldando e fondendo il fenomenico all’artistico con l’agire del corpo: imprimendovelo addosso. Penone procede analogamente in parecchie sue opere, tanto che Iacobone rivolge a ciò alcune pagine tra le più appassionate del suo volume. Sono quelle circa l’Estetica dell’impronta, in cui viene scelto, come lume ermeneutico, il côté français degli studi sull’indessicalità, rappresentato da Georges Didi-Huberman sulla scorta di Jacques Derrida. Abbondanti esiti penoniani sono “impronte” nella misura in cui, similmente a un calco e presentandosi allora in una simultaneità di «forma e controforma […] unite in uno stesso dispositivo operazionale di morfogenesi» (Didi-Huberman, cit. in Iacobone, 2023, 38), nascono via “somiglianza per contatto”: per immediata rappresentazione affatto mimetica bensì “diffratta”, eterodiretta dalla «vicinanza esasperata tra il corpo e il materiale» (Iacobone, 2023, 39) che perturba e infonde il quid autoriale.

Le conquiste sull’indice del côté americain, al contrario, vengono opinate per un’eccessiva propensione all’“immaterialità”, cavalcando la critica all’«idealismo latente» (Iacobone, 2023, 38) che Chari Larsson ha mosso a Rosalind Krauss, tacciata di avere obliterato gli aspetti (e gli effetti) materiali dell’immagine indessicale. Unicamente per scrupolo, si segnala le ricerche  di Krauss non si sono limitate a Notes on the Index (1977), e che in moltissimi altri luoghi dove non si soffermano squisitamente sulla fotografia, ribadiscono quanto lo scopo dell’azione indessicale sia segnare «una superficie ricettiva» per «violazione, […] per effrazione»: «intervenendo», il segno, «come una coltellata nell’indivisibilità della presenza» dell’integrità superficiale (Krauss, 2008, 122, 269, 270). Iacobone giustamente risalta l’intransigenza anti-abduttiva del procedere penoniano, che convoca immaginazione e trasfigurazione del fruitore: le sue opere sono “tracce” e non “segni”: «La pratica di Penone rigetta il trattamento dell’impronta come indice semiotico» (Iacobone, 2023, 39). Ma certa teoria dell’arte – Krauss in particolare – si è solo servita della semiologia, e mescolandola al post-strutturalismo francese ha configurato una nozione di indice ibrida: forte della propria matrice perciana, ma lontana dalla medesima laddove ha in animo di contestare la «dimensione di opacità, di ripetizione, di temporalità» (Krauss 2008: 24) propria del modernismo. Non sono alla fine assolutamente incompatibili, queste due estetiche dell’indice (la prima, francese, più “generativa”), per comprendere una tipologia di immagine passibile di prolungamenti e propaggini, esorbitanze fuori di sé.

Lo studio informa poi del disinteresse penoniano per la vista, senso culturalmente deputato alla percezione pittorica; è curioso ma non stupisce, stante la primaria importanza della “digitazione minima” che – secondo Penone – basterebbe a che sorga uno scultoreo il quale è gesto di una traccia: un minimo di immagine sorto dalla materia solcata. Tuttavia, Iacobone coraggiosamente si addentra in un carotaggio delle presenze aptiche nel corpus dello scultore: di quelle intersezioni tra vedere e toccare che per Alois Riegl – si scomoda un nobile esempio tra i tanti – ricorrono quando la “forma” (l’«estendersi nelle tre dimensioni» di una cosa nella natura) si fa scultorea, e conseguentemente suscettibile di essere percepita pure come “superficie” («qualcosa di illusorio e apparente, […] che la vista simula davanti a noi») palpabile con gli occhi, come “superficie tattile” (Riegl, 2008, 283, 285). L’autrice scioglie i nodi delle «relazioni inedite» e sperimentali che Penone mira a instaurare tra i due sensi; essi sono, siccome “messi in forma”, indivisi; meglio: suggestivamente «embricati» (Iacobone, 2023, 53, 57), contaminati e sovrapposti reciprocamente. Ne risulta un’apticità che penetra addirittura nelle dimensioni dell’invisibilità e del vuoto cieco, ricomprendendole – specie in alcune opere precise – in proposte percettive che esibiscono il paradosso dell’“immagine apparente”: quello di «un’apparizione in cui ciò che appare dimostra all’improvviso di non essere esattamente un corpo» (Didi-Huberman, 2011, 21) e si manifesta sottile e fragile per eccesso di aderenza.

Il nucleo manifestamente filosofico del libro è quello in cui viene esplicitato il legame diretto tra l’estetica di Luigi Pareyson e l’ambiente dell’Arte Povera; il metodo comparativo della studiosa consente al lettore di appurare concretamente quanto – in ambito artistico e particolarmente nel secondo Novecento – prassi creativa e riflessione teorica possano compenetrarsi scambievolmente: sia per influsso diretto (è il caso di Penone) sia per somiglianza o simmetria di obiettivi. Vale la pena di riassumere la teoria della “formatività” pareysoniana, poiché spicca di parecchio dal panorama culturale italiano dell’epoca e perché rispecchia i fondamenti della poetica penoniana. La proposta estetologica di Pareyson combina due istanze apparentemente inconciliabili: l’autonomia dell’opera d’arte (per sganciarla dalla mimesi riproduttiva) e la sua eteronimia (per ancorarla alla materia che la sostanzia e che le è inerente); tale cortocircuito «sottrae l’arte all’ambito teoretico per riconsegnarla a quello pratico» (Iacobone, 2023, 98). Le sue sono simili alle «forme raffinate e intense di esperienza» (Dewey, 2020, 31) di John Dewey, solo che l’«intento formativo come groppo di possibilità» (Pareyson, cit. in Iacobone, 2023, 100) che le informa è ancora connotato, rispetto alla prassi in sé, di artisticità. Associandole a Penone, Iacobone rimarca quanto queste idee non siano i poli opposti di un’antinomia, bensì le due sponde verso cui costruire un’arte relazionale, che «collega l’uomo all’ambiente» (Iacobone, 2023, 125) tenendo in vita tanto l’opera quanto i suoi dintorni e le sue lontananze; rende bene il concetto una metafora nouveau-romanesque di Nathalie Sarraute: «Ce geste, comme un fil électrique jusqu’ici toujours bien isolé, […] soudain dénudé, branché sur un générateur, […] [est] le meilleur conducteur pour porter, pour transmettre» (Sarraute, 2019, 45-46).

Le traiettoria di relazione tracciata, per opera della materia, dall’artista verso lo spazio culmina finalmente in una «conversione del corpo in paesaggio» affiancata da una «conversione del paesaggio in corpo» (Iacobone, 2023, 135): in un desiderio di estendere lo scultoreo all’“epidermide intiera” (l’autrice mutua l’espressione dal Laborintus sanguinetiano) – di plasmare potenzialmente tutto con i soli mezzi essenziali. Ritornando allo spunto inziale: Quando è scultura in una cornice in perenne espansione? Quando – risponde Iacobone con Penone e i suoi commentatori – si riesce a formulare e a elaborare «un’ontogenesi materiale della forma» (Didi-Huberman, cit. in Iacobone, 2023, 112). Quando si segue il profetico lascito, quasi anti-ilomorfico, di Henri Focillon, che già nel 1934 invitava a non separare forma e materia, a non elevare la prima a prius superiore, «giacché si può pur sostenere che la materia imponga la propria forma a una forma»; è la materia stessa, senza nobili intermediari, ad avere «una certa vocazione formale» (Focillon, 1987, 52).

Oltre a eviscerare limpidamente l’estetica di Penone nello specifico, Per crescita di buio ha il merito di fare chiarezza sulle differenze – elementari ma talvolta incomprese finanche dalla critica specializzata – tra i cardini del poverismo italiano e quelli del minimalismo americano. Entrambi i movimenti hanno in comune un lavoro che muove dalla materia e da essa si espande all’ambiente; al netto di ciò, modi e posizionamenti divergono. L’autrice si è focalizzata su un esponente dell’Arte Povera, ma le sue indagini – perennemente di stampo poetico: teorico e pratico – funzionano anche ex negativo e offrono un utile confronto che, in conclusione, rimane a disposizione di chi legge. La materia dei minimalisti è un “materiale” inerte, che viene messo in opera affinché la sua natura “cosale” schianti contro l’habitus dello spettatore, avvezzo piuttosto “cose vive” a patto che siano incorniciate, staccate dalla realtà; essa è “a matter of fact”, “raw material” in un “environment” in scala umana e urbana. La materia dei poveristi è “materiale organico”, che viene minimamente scalfito da un gesto artistico di modo che si inneschi «una complicità tra materiale che sono tra loro essenzialmente eterogenei e che tuttavia sono capaci, in certe circostanze ambientali, di entrare in rapporti di somiglianza reciproca»; essa è germe che, nelle giuste condizioni, «cresce e concresce» (Iacobone, 2023, 103, 119). Una freccia estetologica puntata precipuamente su Penone, dopo aver girato su sé stessa mira altrove, e indica che – in generale – la stessa cosa, la materia che si allarga sulla forma convoca, per focilloniano “destino”, dissimili giustificazioni della sua legalità.

Marcello Sessa

Riferimenti bibliografici

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Daval, J.-L. (1986). The Affirmation of Sculpture (1118-1119). In G. Duby & J.-L-Daval (eds.) (2006). Sculpture. From the Renaissance to the Present Day. Köln: Taschen.

Dewey, J. (2020). Arte come esperienza (1934). Milano: Aesthetica.

Didi-Huberman, G. (2011). La conoscenza accidentale. Apparizione e sparizione delle immagini. Torino: Bollati Boringhieri.

Focillon, H. (1987). Vita delle forme (1934). Torino: Einaudi.

Iacobone, A. (2023). Per crescita di buio. Estetica e poetica di Giuseppe Penone. Macerata: Quodlibet.

Krauss, R. (2008). L’inconscio ottico (1993). Milano: Bruno Mondadori.

Riegl, A. (2008). Grammatica storica delle arti figurative (1966). Macerata: Quodlibet.

Sarraute, N. (2019). Les Fruits d’Or (1963). Paris: Gallimard.

Souriau, É. (1988). La corrispondenza delle arti (1947, 1968). Firenze: Alinea.

Volponi, P. (2014). Corporale (1974). Torino. Einaudi.

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