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Possiamo davvero sbarazzarci del concetto di sistema? Mantenere insieme, il testo di Emilia Marra edito da Meltemi, abita la tensione teoretica che un tale interrogativo solleva e lascia aperto, attraversando il panorama della Francia post-strutturalista, con particolare riferimento a Foucault, Derrida e Deleuze.

Per l’autrice si tratta di mettere alla prova la possibilità che l’idea di sistema sia cambiata in risposta alle urgenze della realtà (p. 16) più che di pensare ad una sua liquidatoria (e in fondo superficiale) dimissione.

Se sentire parlare di sistema ad oggi provoca una sorta di istintiva “orticaria concettuale”, secondo Marra l’esigenza di concretezza che ha individuato nel molteplice e nel disparato la cifra del contemporaneo sembra del resto far riemergere la necessità di posture filosofiche che tengano in considerazione in maniera rinnovata la figura del sistema. Il sistema è cioè uno spettro filosofico che continua a farci visita, e di cui l’autrice si propone di seguire sintomatologicamente la variazione (p.10). Porre il problema del sistema non è anacronistico: come ci ricordano Deleuze e Guattari - a cui Marra si appoggia -,«si parla del fallimento dei sistemi odierni, quando è soltanto il concetto di sistema che è cambiato» (Deleuze, Guattari 1996, p. xv).

In questa prospettiva la scommessa dell’autrice è quella di seguire una nuova piegatura del concetto di sistema. Serve cioè un nuovo gesto per il sistema, che non può più fare capo ad una soggettività fondativa. Tale gesto è quello del “mantenere insieme”, che scava ed erode quello del “mettere insieme”, o meglio di un ego cogito che mette insieme. Punto focale del testo è il rapporto tra questi due tipi di gesti e il progressivo slittamento verso l’esigenza contemporanea del “mantenere insieme”.

Se il “mettere insieme” presuppone un soggetto forte che aggiunge qualcosa alla realtà mettendo insieme, appunto, dei pezzi di reale che altrimenti sarebbero frammentari e scomposti, la postura del “mantenere insieme”, declinata rigorosamente all’infinito, allude invece ad un altro stile per il pensiero, secondo cui l’insieme c’è già ed è già reale (p. 14). Lo scarto tra la prima e la terza persona è quello che conduce dall’idea che il fare sistema sia il portato di un’attività soggettiva, alla visione secondo la quale il sistema sia un evento impersonale che continua a prodursi al di qua dell’io. Per l’autrice fare sistema non ha più a che vedere con un gesto architettonico dove il molteplice deve adattarsi all’uno per mano di un’operazione di unificazione soggettiva: l’io non è l’architetto che ricompone l’ammasso del sensibile operando verso un fine sovrasensibile, ma al più un’increspatura del reale stesso, di cui non può che assecondare le flussioni, le relazioni e le reti.

A variare sono le condizioni essenziali del sistema (centralità del soggetto, rapporto soggetto-oggetto e relazione con il tempo), e dunque, in ultima analisi, il senso stesso della nozione di sistema, che viene risemantizzato dall’interno dei suoi confini, emergendo dalle smagliature dei sistemi metafisici, intesi in senso classico.

Per tenere traccia di un’innegabile molteplicità si rende dunque necessario un nuovo modo di pensare il sistema, che non ceda alla tentazione di negarla (p. 15). La questione è quella posta da Derrida, il quale saccheggiando un’espressione di Blanchot, definisce il problema come quello del «mantenere insieme del disparato stesso. Non di tenere assieme il disparato, ma di portarsi là dove il disparato stesso tiene assieme, senza ferire la dis-giuntura, la dispersione o la differenza» (Derrida 1994, p. 41). In quest’ottica “mantenere insieme” significa assecondare il flusso, seguirne i movimenti, rintracciarne le venature. Il perno del sistema non è la soggettività, ma una rete complessa di relazioni che precedono ed eccedono il soggetto. Il “mantenere insieme” evoca un’immagine che parla di un gesto che accoglie il disparato e la molteplicità. Non si tratta più di fare capo ad un io soggettivo che fonda un sistema impermeabile al Fuori. Il cardine mobile di questa nuova figura del sistema è al contrario una rete complessa attraverso cui il soggetto si muove e viene definito (p. 216).  In ultima analisi le coordinate risemantizzate del sistema risiedono in un «io dissolto che si oppone ad ogni forma di ego cogito» (p. 187).

Se la questione del sistema fa segno per coordinate eterogenee, per l’autrice è fondamentale rintracciare tali direzionalità non tanto in una fiera opposizione alla nozione stessa e ad un rigetto della sua storia concettuale, quanto piuttosto in un’analisi delle variazioni che la questione della totalità pone proprio dall’interno della metafisica. Appoggiandosi a Derrida, Marra ci ricorda che non ha alcun senso non servirsi dei concetti della metafisica per far crollare la metafisica, dal momento che non disponiamo di nessuna sintassi e di nessun lessico che sia in fondo estraneo a questa storia; non possiamo enunciare nessuna proposizione distruttrice che non faccia filtrare qualcosa dalla logica di ciò che vorremo contestare. Come rileva l’autrice non si tratta di saltare sull’altra riva e di sferrare da lì l’attacco alla metafisica. La nozione di sistema è stata erosa goccia dopo goccia dall’interno della sua stessa storia concettuale, tramite progressive stratificazioni decostruttive. Non si può in linea di principio sfuggire alla metafisica poiché ci si muove entro il bacino della sua storia concettuale: la resistenza è sempre una linea di fuga interna a ciò che mette in fuga. L’autrice ci propone dunque di seguire i cambiamenti impercettibili e le trasformazioni silenziose a cui il concetto di sistema è sottoposto, disegnandone dei nuovi contorni. La sfida avanzata dal testo di Marra è precisamente questo tentativo di mettere in fuga il sistema e di proporre una linea che lo disfi dal suo interno, senza mai sbarazzarsene del tutto. Il testo non ci parla quindi della fine dei sistemi, ma piuttosto di quali sono ad oggi i confini della nozione di sistema, nonché di quali siano gli effetti che un rinnovato concetto di sistema può produrre.

Per Marra i progetti di Foucault, Derrida e Deleuze hanno il vantaggio strategico di offrire una mappa per seguire e tracciare tale variazione. Al contrario e allo stesso tempo il sistema come problema filosofico è una particolare lente per poter rileggere la genesi dei progetti teorici di Foucault, Derrida e Deleuze (p. 16). Secondo l’autrice l’attraversamento teoretico dei progetti filosofici dei tre autori permette di ragionare al di qua di semplici “fazioni concettuali”. Marra ci guida cioè attraverso una terza via, in alleanza con Foucault, Derrida e Deleuze, che non cancella un certo tipo di spirito sistematico, ma non vi aderisce nemmeno in maniera acritica. La figura del sistema che la triade concettuale “Foucault-Derrida-Deleuze” mobilita va vista come un’anamorfosi dei sistemi metafisici e non come una totale cesura dagli stessi presupposti che li animano.

La domanda che mantiene insieme il testo e lo percorre in maniera sagittale, attraversando concettualmente il panorama della Francia post-strutturalista è la seguente: può darsi un sistema filosofico in assenza di un Io assoluto, senza teleologia e senza passaggio mediatore tramite la contraddizione? (p. 101).  La figura del sistema non è un semplice disegno sulla sabbia che si cancella sotto l’onda decostruttiva del post-strutturalismo, ma una traccia che continua a interpellarci e a seguirci, solo con nuove forme e nuovi codici.

Senza pretendere di ridurre in toto il pensiero dei tre filosofi all’etichetta del post-strutturalismo e di amalgamare le loro specifiche prospettive l’una nell’altra fino a discioglierne le differenze, l’autrice ci pone di fronte a una triade filosofica né opposta né convergente, ma che vale la pena tentare di mantenere insieme, poiché sicuramente in tale assemblaggio concettuale qualcosa è entrato in risonanza (p. 191). Nella fattispecie tale risonanza orbita attorno alla questione del “mantenere insieme” in assenza di una soggettività intesa in senso forte. In forme e modalità eterogenee il mantenersi insieme del disparato è inequivocabilmente una cifra e postura comune alla triade “Foucault-Derrida-Deleuze”. Per pensare alla questione del sistema occorre dunque porsi nel mezzo del diastema che crea il disparato, partendo dalla disgiunzione come figura della molteplicità.

Marra comincia da Foucault per rendere conto di questa “atmosfera di pensiero”. Il termine “sistema” ricorre spesso nella produzione foucaultiana: sistema delle passioni, delle punizioni, degli errori, del linguaggio etc. Eppure, per Marra in Foucault il sistema è un vero e proprio gesto e problema filosofico, che chiama in causa un’immagine della razionalità che non consente più «di contare su categorie che comunemente operano nell’individuazione di quegli elementi che dell’insieme fanno parte, e che assumono al contempo su sé il compito fondamentale di separarli da tutti gli altri, secondo l’insuperata credenza dell’omnis determinatio est negatio» (p. 204). L’operazione foucaultiana è quella di porsi dal lato del disparato, nel tentativo di pensare un “ordine” nonostante i decentramenti operati dai maestri del sospetto. L’ontologia dell’attualità fa segno per regolarità che trovano nel disparato la propria cifra, eppure esibiscono in un certo senso una qualche forma di continuità. È proprio entro tale tensione e smagliatura che Foucault cerca archeologicamente di ricostruire una nuova immagine per il sistema, sconfessando nella fattispecie la coppia oppositiva divenire/sistema e di storia/struttura. Il sistema si configura in questo senso come «il complesso preindividuale che determina le condotte in un certo spazio-tempo, e che emerge innanzitutto dai discorsi, trasformati poi in pratiche di esclusione, leggi, etiche e politiche, o contraddizioni tra questi aspetti» (p. 224). La ragione dialettica fa spazio alla ragione analitica, che è consapevolezza della scissione del pensiero, o di non poter più pensare un pensiero, nella direzione dove il pensiero sfugge a sé stesso. Occorre cioè mantenere insieme ed accogliere certe discontinuità che l’empirico produce, prendere atto di come il cogito moderno non possa che porsi nella forma di un’interrogazione continua, che lungi dall’ostracizzare le opacità del pensiero, le assume nella loro radicalità. Il pensiero, non si offre cioè solo nella forma del pensato, ma anche del non-pensante. Inoltre, esso è un fatto sistematico che prima di presentarsi come individuale, si configura come preindividuale. Per Foucault, prima di ogni esistenza umana, prima di ogni pensiero umano, c’è già un sapere, un sistema.

Il secondo personaggio concettuale a cui Marra si appoggia per ricostruire i confini di una nuova immagine del sistema è Derrida. Per Derrida centrale è definire ed abitare lo spazio del non fondamento, possibilità questa che si apre nel linguaggio, dove vita e idealità si fanno indiscernibili. Tale coalescenza introduce la non-presenza e la differenza, il segno e il rinvio. Questo itinerario speculativo, che dissoda e mobilita l’intera storia della metafisica occidentale, prenderà il nome di decostruzione. Essa è la possibilità del sistema impossibile, nome di una tensione inesauribile che è proprio il luogo nel quale si dà un divenire irrinunciabile per la filosofia. La decostruzione altro non è che la disfunzione, l’impossibilità fattuale del sistema. La decostruzione è la possibilità di disertare la scelta tra apertura e totalità, stando al centro di un’incoerenza strutturale, che altro non è che la possibilità del sistema impossibile. L’avventura della decostruzione prende corpo attraverso un’interrogazione delle ragioni per le quali la presenza si è affermata come paradigma filosofico privilegiato della metafisica, esprimendosi in particolar modo tramite il sistema della lingua associato alla scrittura fonetico-alfabetica. Per Derrida c’è un divenire-segno del simbolo che ci mette sulla via di una scrittura non totalmente fonetica. Il fonocentrismo assume che la phoné sia esclusivamente fonetica, mentre Derrida scardina questa presunta equazione e si orienta verso un pensiero della traccia, sostituendo alla cosalità dell’ente, presente in sé stesso in modo stabile e ben definito, il suo tracciarsi infinito, nel labirintico rimando tra segni e interpretanti. In questo senso: «la possibilità del sistema totale sarà allora possibilità di un movimento differenziale che renderà ragione dell’espressione grafica e di quella non grafica a partire non già da un’identità, ma da un’archi-scrittura» (p. 254). L’archi-scrittura traccia una differenza infinita che continua a prodursi rispetto alla cosa, apre una disparatezza costitutiva che deve, al contrario e allo stesso tempo, sempre costituirsi. Tale tensione inesauribile è precisamente lo spazio del sistema. In maniera speculare per Derrida il soggetto è il primo attore colto nell’atto stesso del suo scomparire nella scrittura, dissolvenza che trasborda verso l’oggettualità ideale, raccolta dal noi speculativo attraverso la tradizione. La decostruzione si spinge dunque anche verso il soggetto, ma non verso una sua totale liquidazione, come spesso si è tentati di pensare. In Derrida il soggetto è cioè sicuramente riorientato, ripensato, ma mai dismesso del tutto. Il fatto che esso coincida con la sua stessa dissolvenza non è cioè un mero effetto ottico, ma il darsi di un processo che continua ad avvenire. Per Derrida ogni grafema è essenzialmente testamentario, e l’io è precisamente questa dissoluzione che continua ad avvenire.

La terza tappa che consente all’autrice di fare un passo ulteriore nell’identificazione di coordinate rinnovate per il sistema è la filosofia di Deleuze. Quello che interessa a Marra lettrice di Deleuze è il suo accento per un sistema che sia un’eterogenesi delle differenze, in grado di mantenere insieme l’univoco e il molteplice in maniera funambolica. Questo aspetto fondamentale del “sistema” filosofico deleuziano, ovvero la capacità di aprirsi al disparato lungo la superficie di un unico campo immanente, oltre che in senso ontologico, si traduce in una peculiare visione della transdisciplinarietà. Deleuze mantiene insieme la polivocità del sapere, tra letteratura e scienza, attraversando la linguistica e la psicanalisi, la pittura e l’arte etc. Senza perdere l’univocità, la pluralità si dispone lungo un piano di immanenza laddove le differenze sono potenze e non essenze. Altro punto centrale per l’empirismo trascendentale deleuziano è sicuramente il rifiuto del soggetto come punto di partenza obbligato nell’analisi del reale. La vita, in senso pieno, non è esperienza vissuta personale e idiosincratica, ma flusso pre-personale ed anonimo composto da singolarità. Il soggetto si costituisce cioè nel e attraverso il dato. Per Deleuze avviene un importante spostamento della genesi del senso dall’Ego trascendentale alle singolarità pre-individuali che fanno emergere il soggetto da tale campo informale. Inoltre, la tensione che abita la filosofia della differenza deleuziana deforma dall’interno le logiche hegeliane del negativo: incompatibilità senza contraddizione, o sintesi disgiuntiva sono le chiavi deleuziane per abitare un nuovo spazio sistematico. La contraddizione è cioè solo una modalità antropologica della differenza, mentre l’espressione è differenza genuina. Ad esprimere l’essere è l’eterno ritorno, che rompe la logica del fondamento, aprendo la possibilità di un sistema dell’avvenire, della possibilità stessa della novità.

In ultima analisi, il testo di Marra è un tentativo di “mantenere insieme” la storia concettuale della nozione di sistema, sondandone le variazioni intensive nell’ambito della Francia post-strutturalista. Le coordinate entro cui tale operazione strategica prende corpo sono eterogenee per i vari pensatori chiamati in causa, eppure conservano una certa somiglianza di famiglia, parlandoci di problemi che risuonano, pur nelle loro dissonanze.

Silvia Zanelli

Deleuze G., Guattari F., Che cos’è la filosofia? (1991), tr.it. di De Lorenzis A., Einaudi, Torino 1996.

Derrida, J. Spettri di Marx (1993), tr.it. di Chiurazzi G., Raffaello Cortina Editore, Milano 1994.

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