Questo lavoro di Ronchi non può essere ignorato da chi continua o comincia a considerare la filosofia uno sforzo rigoroso e sistematico. Esso, non esito a dire, risponde a una delle domande comunemente dette “da un milione di dollari”: ma la filosofia ci serve oggi? Se sì, in che modo? E risponde non dicendo che è così e perché è così, ma mostrandolo. Apocalissi valoriali, catastrofi culturali, instabilità politiche, identità frantumate, mutamenti sociali, stravolgimenti psicologici, crisi economiche, flussi perpetui, turbolenze costanti, intrecci inestricabili, dinamiche inarrestabili, movimentismi, aperture incessanti, ossessione per la novità, e così via: sembrerebbe questa la cifra della contemporaneità, di un’epoca in cui trasformazioni e processi sembrano moltiplicarsi in modo quasi asfissiante. Vediamo istituzioni nascenti o fatiscenti, crisi economico-sistemiche, esistenze in costante transizione, affermazione del lifelong learning, moltiplicazione di scoperte scientifiche e di progetti di ricerca in campi nuovi, sommovimenti sociali e politici e chi più ne ha più ne metta. Si tratta di una fase storico-culturale che comincia a essere esplicitamente connotata come «interregno» (C. Bordoni), quasi alla stregua di un limbo perpetuo, di una fase di transizione in atto ma senza un “verso dove”, di un cambiamento in corso ma senza un “verso cosa”, di un post- (modernità, verità, democrazia, guerra, comunità, Stato, …) che rigira su di sé, sospeso tra l’euforia e la fobia per ciò che sarà, come tra il disprezzo e la malinconia per ciò che è stato. Sembrerebbe di vivere in un periodo socio-politico nel quale la depressione si diffonde, intesa come affaticamento esistenziale e proprio in rapporto alla configurazione di un ambiente dove riveste un ruolo centrale la persistenza dello sforzo di configurare il proprio posizionamento, piuttosto che la permanenza di una posizione data (A. Ehrenberg). Simili fenomeni dinamico-relazionali o «d’intorno», per dirla con E. Morin, sembrano aprire almeno tre tipi di interrogativi.
Il primo è domandarsi che peso giochi il piano più strettamente produttivo. Dal lato economico il postfordismo, al cui centro non c’è più il modello “duro” fabbrica-operaio-prodotto governato dalla ripetitività dei cicli di produzione e vendita di cose e di soddisfazione dei bisogni, ma quello “morbido” impresa-self management-esperienza governato dall’oscillazione degli indici di borsa e fiducia e del godimento, in cui flessibilità, creatività, precarietà, relazionalità, espressività, ecc. la fanno da padrone. Dal lato tecnologico il digital world, che allo schema generativo forma-materia/produttore-prodotto ha sostituito quello trasformativo informazione-trasmissione, in cui i rigidi confini tra soggetto e oggetto vengono meno in favore di flussi e impersonalità. Siamo vittime del capitale, della tecnologia, o del loro complesso mix?
Il secondo è chiedersi se si ha davanti un da-sempre che si rivela (oggetto di un oblio più o meno essenziale), che si manifesta magari in forme più pervasive di quanto non sia capitato in passato (una sorta di Babele 2.0), o se invece ci si imbatte in qualcosa di radicalmente nuovo e che annuncia insieme il tramonto di qualcosa (il mondo occidentale, della stabilità, delle certezze, ecc.) e il sorgere di qualcos’altro. Siamo in una “zona di soglia” analoga ad altre faglie emerse nella storia o di fronte a qualcosa di ancor più dirompente?
Il terzo è giungere ad accettare con più o meno esaltazione o a rifiutare con più o meno sdegno la “confusione” eretta a sistema, il mistero della “transustanziazione” portato a mobile fondamento di esistenza e società. Siamo finalmente salvati o nuovamente condannati?
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di Giacomo Pezzano