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Philosophy Kitchen

È sempre più evidente l’impossibilità di scindere la nostra contemporaneità, e non solo, dallo studio delle tecniche e delle tecnologie che l’attraversano, la strutturano e la formano. Mai come adesso, la filosofia della tecnica ha iniziato ad abbandonare i margini in cui ha sempre vissuto, ponendosi sempre più al centro di dibattiti a cui spesso offre importanti contributi capaci di riformulare e sollecitare diversi ambiti di indagine. Tuttavia, il termine “filosofia della tecnica” è in fondo ambiguo, in quanto questa disciplina non è quasi mai stata veramente sistematizzata. Allo stesso modo, le sue correnti – diverse per approcci, obiettivi e metodologie – non permettono una ricostruzione che sia semplicemente storiografica. In altri termini, per parlare di filosofia della tecnica è sempre necessario ritornare ai suoi fondamenti, saggiarne i suoi statuti e svilupparli a partire da un gesto che è sempre necessariamente teoretico.

È a partire da questa comprensione fondamentale che prende le mosse il testo di Emanuele Clarizio, La vita tecnica. Una filosofia biologica della tecnica (Mimesis, Milano – Udine 2024). Come recita il sottotitolo, questo testo si muove all’interno della filosofia biologica della tecnica, termine coniato da Canguilhem in Macchina e organismo. Tale corrente, che Clarizio attraversa con attenzione e profondità, proponendone uno sviluppo, può essere inquadrata schematicamente proprio a partire da Canguilhem, secondo cui tra vita e tecnica si può rintracciare una «relazione essenziale» (p. 15). La vita tecnica mira a sviluppare tale relazione all’interno di due principali direttive: da una parte, rintracciando e sviluppando l’origine biologica della tecnica, senza però ricadere in riduzionismi verso uno o l’altro polo; dall’altra, utilizzando l’analogia proprio per pensare il rapporto tra vita e tecnica al di là di una logica dell’identità, e quindi riduzionista. Centrale per queste direttive è il concetto di invenzione tecnica come funzione biologica, da cui l’importanza attribuita a Bergson e Simondon per sviluppare una «concezione relazionale e analogica della vita e della tecnica» (p. 17).

Canguilhem è dunque il punto di partenza. Qui, la comprensione della tecnica come «creazione originaria della vita» (p. 21) si inserisce nella diatriba di Canguilhem contro il positivismo. Invece di ridurre la tecnica a scienza applicata, il filosofo francese la inserisce nel vivente, inteso come portatore di una normatività autonoma rispetto alla scienza. In questo modo, nota Clarizio, la tecnica, così liberata dalla scienza e dalla funzione del negativo propria della sua fase giovanile, viene compresa in relazione al vivente e al suo concreto rapporto con l’ambiente – tema sempre più centrale dopo Il normale e il patologico. Canguilhem pone così due questioni centrali per la filosofia biologica della tecnica: da un lato, la tecnica come prodotto dell’originale carattere creativo della vita, che secondo l’autore sarebbe propria di un’impostazione organologica inizialmente riconducibile a Kapp e successivamente sviluppata da Bergson; dall’altro, e in maniera solidale con il primo punto, la centralità epistemologica dell’analogia tra macchina e organismo, discussa da Canguilhem nel testo omonimo. In altri termini, proprio perché la vita è in grado di produrre macchine da essa separate si pone la questione di utilizzarle «analogicamente come modelli per comprendere gli organismi» (p. 35).

La posizione di queste due questioni segna così l’origine della filosofia biologica della tecnica, ma il suo sviluppo teorico è ancora in divenire. Ciò che frena maggiormente una tale elaborazione è, secondo Clarizio, l’impostazione organologica di Canguilhem, che negherebbe «ogni originalità ontologica alla macchina» (p. 35), ridotta a emanazione della vita, unica fonte di normatività. Anche se Canguilhem riesce a salvare la tecnica dal riduzionismo positivista, questa cade però in quello vitale. Schiacciata su una logica dell’identità con il vitale, la tecnica non sarebbe che una sua estensione priva di autonomia, rivelando così l’incapacità del paradigma organologico di riconoscere una normatività tecnica, nonché di spiegare la genesi di macchine più complesse, in quanto separate da questa dinamica di emanazione vitale. Se l’aspetto più approfondito da Canguilhem è quello di un’«etica biologica della tecnica» (p. 41), incentrata sulla questione della normatività del vivente, l’aspetto ontologico ed epistemologico sono invece quelli di cui Clarizio rintraccia le carenze principali, al cui sviluppo è dedicato il prosieguo del testo.

La questione è innanzitutto sviluppata dal lato dell’analogia, a cui è dedicato il secondo capitolo. Qui vengono chiarite le differenze tra l’impostazione di Canguilhem e quella di Kapp, che il filosofo francese considera proprio antesignano. L’impostazione di Kapp, in quanto antropologia idealista, non procede a partire dall’assunto fondamentale della filosofia biologica, ossia il concetto di invenzione come «adattamento dell’organismo all’ambiente in una relazione dinamica tra questi due termini della relazione» (p. 48). Clarizio intende sviluppare un approccio epistemologico che eviti i due riduzionismi, di segno opposto, che sono il meccanicismo, come riduzione dell’organico al tecnico, e la teoria della proiezione di Kapp, come riduzione del tecnico all’organico. In mezzo a questi due riduzionismi si situa il compito di pensare «contemporaneamente la relazione e la distinzione tra organizzazione tecnica e organizzazione biologica, tra macchina e organismo» (p. 54).

Su tale questione epistemologica è incentrato il secondo capitolo, che rintraccia prima in Cartesio – al di là della vulgata che lo riduce a fiero riduzionista meccanicista – e poi in Kant le basi per un uso epistemologico dell’analogia. Da un lato, Clarizio mostra come Cartesio sia ben conscio della «differenza ontologica» (p. 61) tra organico e vivente, dimostrando, a partire da questo chiarimento, come il concetto cartesiano di macchina rappresenti un concetto pienamente analogico, che permette di confrontarli a fini epistemologici, pur mantenendo la loro irriducibilità. Dall’altro, è il Kant della Critica del giudizio che sancisce definitivamente il valore epistemologico dell’analogia. Nella lettura di Clarizio, la terza Critica, oltre a rivelare come l’origine della biologia sia «inconcepibile» (p. 69) senza il riferimento alla tecnica, e viceversa, permette anche di connettere la questione dell’analogia a un ripensamento della tecnica al di là del concetto classico di abilità o padronanza. Qui, la vita viene compresa dall’autore come potenza creatrice che opera attraverso la kantiana “tecnica della natura”. Analogicamente, la tecnica è così ripensata come creazione, «una sorta di causalità intermedia tra la necessità fisica e la libertà morale» (ivi).

Questi temi, presenti implicitamente in Cartesio e Kant, vengono esplicitati con Bergson, a cui è dedicato il capitolo centrale. Qui, la mossa interpretativa di Clarizio consiste nel leggere l’Evoluzione creatrice come un trattato sulla tecnica. In questo modo, l’organologia generale di Bergson consente di rintracciare una «tecnicità immanente alla vita» (p. 73). Questa scelta rivela il suo pensiero analogico – aspetto spesso trascurato dagli interpreti –, nonché profondamente materialista ed evoluzionista. In questo modo, la vita si mostra tecnica in quanto «azione sulla materia» (p. 81): nello scontro con la materia inerte, la vita si prolunga tecnicamente al di là di essa, permettendo così di sviluppare le basi per una lettura analogica che definisca reciprocamente vita e tecnica, in quanto entrambe accomunate dal fine di organizzare la materia. Il risultato è la continuità tra organico e inorganico, al cui interno però è presente uno «scarto» (p. 83) che, oltre a evitare i già citati riduzionismi, configura «un’unione intimamente lacerata, carica di dualità e tensione» (p. 80). Si manifesta qui un elemento centrale della filosofia biologica della tecnica: quest’ultima non è identificabile con l’umano, poiché riguarda la strategia con cui il vivente si rapporta al proprio ambiente, modificandolo. Posto questo legame con l’ambiente, e posto che la tecnicità è collegata alla vita secondo varie soglie – tra vegetale e animale, e tra quest’ultimo e l’umano –, il dialogo che il vivente intrattiene con l’ambiente è descrivibile come «operazione e mediazione» (p. 92), ossia quella distanza tra la vita e i suoi prodotti che permette di pensare l’invenzione tecnica come creazione di una radicale novità. I termini di questo dialogo sono la relativa libertà del vivente e le necessità della materia, dialogo che si specifica con l’umano – in quanto portatore di una riflessività che si palesa nella sua capacità di creare strumenti per altri strumenti –, senza con ciò creare una lacerazione con la più ampia dimensione vitale.

Raggiunta questa prima importante svolta, il testo prosegue discutendo la metamorfosi dell’eredità bergsoniana alla luce della paleoantropologia francese. In particolare, il quarto capitolo si incentra sulle teorie di Édouard Le Roy e Pierre Teilhard de Chardin, dove l’eredità bergsoniana si risolve in un ritorno a una concezione finalista di stampo prettamente psicologico e idealista. Sarà Leroi-Gourhan a proseguire l’idea di invenzione e fabbricazione tecnica come «dialogo tra il vivente e la materia» (p. 102). Ciò è particolarmente evidente nei primi due volumi di Evoluzione e tecniche, che pongono le basi per una tecnologia, ossia una «classificazione delle tecniche basata su criteri tecnologici e non su criteri d’uso» (p. 109). Il lavoro che compie qui Clarizio è quello di mostrare le diverse e ramificate riprese dell’eredità di Bergson, come il porre la tecnica come fatto zoologico in generale oppure la classificazione dei gesti tecnici, che pone le basi per una tecnologia che fa eco all’idea di tecnica come azione del vivente sulla materia. Il risultato più decisivo di questa ripresa consiste nella possibilità, attraverso i concetti di tendenza e fatto tecnico, di studiare in maniera autonoma tanto l’evoluzione tecnica quanto quella organica, pur mantenendone la continuità.

Tuttavia, l’approfondimento dell’eredità bergsoniana si interrompe nei due volumi che compongono il Gesto e la parola – gli ultimi due di Evoluzione e tecniche. A differenza dei primi due volumi, questo dittico subisce in maniera patente l’influenza di Kapp, conducendo alla nota teoria della tecnica come esteriorizzazione delle facoltà mentali umane e introducendo così il tema dell’esteriorizzazione della memoria. In linea con quanto discusso in precedenza, questa svolta è ritenuta da Clarizio un’involuzione delle promesse teoriche di Leroi-Gourhan. Ciò perché rappresenta un allontanamento dalle premesse di una filosofia biologica della tecnica a favore di una maggiore centralità del momento antropologico – ampiamente sviluppato e approfondito da autori come Stiegler, a cui, conseguentemente, Clarizio rivolge le stesse critiche, in particolare riguardo all’identificazione di tecnogenesi e antropogenesi, sostenuta in La colpa di Epimeteo.

A tal riguardo, la critica di Clarizio procede dalle stesse problematiche già indicate in Kapp: il paradigma dell’esteriorizzazione, pur funzionando con strumenti semplici, si ritroverebbe incapace di spiegare la genesi di strumenti tecnici più complessi. In questo modo, il concetto di esteriorizzazione perderebbe la sua valenza epistemologica e si ridurrebbe a un utilizzo «largamente metaforico» (p. 123). L’impasse propria del paradigma dell’estensione tecnica è inoltre quella di un’eccessiva centralità dell’umano, la cui conseguenza sarebbe dunque quella di consentire uno studio della tecnica iuxta propria principia. Ciò risulterebbe evidente qualora si considerassero non più gli strumenti semplici, ma la genesi della macchina, «lo scoglio principale della filosofia biologica della tecnica» (p. 127), questione che apre l’ultimo capitolo del testo.

Questo scoglio, come nota l’autore, è insidioso sotto diversi aspetti, i quali riassumono i temi finora affrontati. In prima battuta, la difficoltà consiste nel pensare il modo in cui la macchina possa essere compresa come prodotto della vita; di conseguenza, come rendere funzionante un pensiero dell’analogia tra la vita e i suoi prodotti più complessi; infine, come regolarli e gestirli all’interno della società una volta riconosciuti come portatori di una normatività autonoma dalla vita – pur derivando da essa. È soprattutto contro il primo limite che si scontra l’organologia di Bergson, come esplicitamente esposta in Le due fonti della morale e della religione. A tal proposito, il giudizio di Clarizio è molto chiaro. L’impianto organologico «ha dunque una virtù che coincide con il proprio limite» (p. 131): pur riuscendo a porre una relazione essenziale tra vita e tecnica, l’organologia tuttavia manca nello specificare l’aspetto ontologico e tecnologico della macchina. Se il punto centrale del testo è quello di porre la tecnica come creazione di novità, ciò non è ottenibile attraverso l’organologia, né tantomeno nella versione di Leroi-Gourhan, a causa del suo «legame essenziale tra tecnicità e umanità» (p. 132). È dunque necessario un passo oltre rispetto a queste prospettive.

Questo passo, preparato da Jacques Lafitte e dalla sua meccanologia, viene compiuto pienamente da Simondon, autore con cui si chiude l’ultimo capitolo. Simondon continua le analisi di Lafitte dell’evoluzione dell’oggetto tecnico, e quindi della sua temporalità, mantenendo tanto il radicamento alla prospettiva della vita quanto un rinnovato approccio analogico. Questo impianto sarebbe dovuto alla forte vicinanza tra Simondon e Bergson, che Clarizio mostra molto chiaramente. In particolare, per entrambi la questione della tecnica riguarda il piano ontologico e, più chiaramente, come «ontologia dell’invenzione» (p. 138), ovvero quel passaggio dall’astratto al concreto che struttura il noto concetto simondoniano di concretizzazione. L’invenzione, derivando sempre da un problema inteso come difficoltà del vivente nel suo costante rapporto con l’ambiente, racchiude l’intera posta in gioco del testo. Da questa prospettiva, diventa possibile comprendere l’espressione “vita tecnica” come uno «schematismo tra l’organismo e l’ambiente per mezzo di un’attività tecnica inventiva, di cui l’oggetto tecnico è solo la forma più compiuta perché oggettivata, almeno parzialmente separata dal soggetto» (p. 141). L’invenzione è dunque la definizione fondamentale di tecnica grazie alla sua capacità di offrire continuità e differenza tra l’ambito biologico e quello ontologico. Inoltre, grazie al concetto di concretizzazione, ossia il processo interminabile di avvicinamento dell’oggetto tecnico agli enti naturali, Simondon può completare la sfida kantiana dell’analogia tra vita e tecnica, rendendola  funzionante da entrambi i lati grazie al concetto di “operazione pura”, «chiave di volta della sua tecnologia» (p. 157).

Muovendosi a partire dalla continuità tra biologia e tecnica, e specificando i rispettivi modi di evoluzione attraverso l’analogia, Simondon rappresenta così il punto di arrivo del testo. Attraverso il filosofo francese è possibile fondare una tecnologia declinata come «un’epistemologia analogica e tecnica» (p. 155). I due aspetti, quello biologico e analogico, confluiscono nell’espressione vita tecnica che, oltre a designare l’origine vitale di ogni tecnica, rimanda anche, in maniera analogica, alla vita umana «nella sua funzione di schematizzazione tra i domini disparati ma operativamente analoghi del biologico e del tecnico» (p. 157).

Il testo di Clarizio è un denso e ricco sviluppo della filosofia biologica della tecnica, a cui va riconosciuto il merito di aver riportato al centro del dibattito filosofico autori e momenti troppo velocemente dimenticati o considerati esauriti. L’indubbia ricchezza del testo è dimostrata anche dalle diverse linee di fuga esposte nella conclusione, le quali rappresentano ulteriori approfondimenti della questione della vita tecnica. Una delle numerose questioni che la lettura di un testo così ricco suscita è se, proprio per gli sviluppi possibili indicati nelle conclusioni, il concetto di vita tecnica non possa aprire il dialogo con altri autori, qui citati ma, dati gli obiettivi posti, non discussi approfonditamente. Ad esempio, la questione politica, posta alla fine di La vita tecnica, non potrebbe beneficiare di un pensiero come quello di Stiegler? In altri termini, è possibile scartare Stiegler con lo stesso gesto con cui si scarta Leroi-Gourhan, specialmente considerando che l’organologia generale di Stiegler è costruita attraverso un fitto dialogo con Simondon, qui autore centrale? L’espressione vita tecnica, così «carica di ambiguità» (p. 157), non guadagnerebbe nulla dal dialogo con Stiegler e la sua «posizione ambigua rispetto al rapporto tra tecnica e vita» (p. 130)? Questa è, a mio parere, una delle tante questioni che possono sorgere dalla lettura di La vita tecnica di Clarizio, testo che avrà sicuramente lunga vita nel dibattito filosofico sulla tecnica.

Pietro Prunotto

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