Un bellissimo film uscito ormai più di vent’anni fa e diretto da Alejandro Aménabar racconta la storia di una famiglia composta da una madre, Grace (interpretata magistralmente da un’incantevole Nicole Kidman), e dai suoi due bambini alle prese con delle strane presenze, degli spiriti che infestano la loro casa di campagna. Dai disegni inquietanti della figlia più piccola, Anna, la madre capisce che la loro dimora è abitata da quella che sembra a tutti gli effetti essere un’altra famiglia: un padre, un’altra madre, un bambino e una quarta figura che Anna dice essere una strega. L’arrivo di due misteriosi anziani signori che si propongono come domestici, il ritrovamento di un album fotografico del diciannovesimo secolo in cui, secondo un’antica usanza, persone decedute vengono ritratte in posa come se fossero vive e l’insistenza ossessiva, da parte di Grace, di non far mai entrare neanche uno spiraglio di luce nelle stanze della casa, poi, sono solo alcuni degli elementi che scandiscono l’incedere di un thriller psicologico tra i più avvincenti e originali, e contribuiscono a rendere The Others (2001) un horror che non si limita a riproporre il classico topos della casa stregata ma, anzi, arriva a sovvertirlo.
In un raccapricciante susseguirsi di scene al cardiopalma, infatti, lo spettatore è accompagnato verso l’agghiacciante realizzazione, da parte di Grace, che in realtà la vera famiglia di spettri che infesta la sua residenza è proprio la sua. Lei e i suoi figli – colpo di scena – sono i veri fantasmi, e la strega che terrorizza la sua bambina è in verità una medium al soldo dell’altra famiglia, quella che si rivela essere nel sorprendente finale una famiglia di persone vive e vegete, benché spaventate a morte. Se si trovano lì, infatti, è solo perché hanno comprato una casa di campagna nella quale era stato compiuto un crimine ignominioso: un doppio infanticidio del quale la responsabile è Grace stessa, che dopo aver soffocato i figli aveva deciso, in preda alla disperazione, di suicidarsi…
Ma lo stesso espediente narrativo per cui il protagonista di una storia di fantasmi si scopre essere, alla fine, un fantasma esso stesso lo incontriamo anche in un altro film, ben più celebre e uscito solo due anni prima: Il sesto senso (1999). Qui Bruce Willis veste i panni di uno psicologo, Malcolm, che aiuta il piccolo Cole a superare l’orrore che gli impedisce di vivere: il bambino è infatti dotato del potere soprannaturale di entrare in contatto con i morti, e la cosa (giustamente) lo terrorizza. Dopo avergli spiegato che i fantasmi lo contattano perché lui, Cole, ha il potere di ascoltarli e quindi di regolare i conti in sospeso che questi hanno lasciato nella loro vita terrena, giunge anch’egli alla fine a realizzare di essere un fantasma. E così, nella celeberrima scena finale, Malcolm si accorge di essere lo spirito disincarnato di sé stesso quando scopre che la moglie, che durante tutto il film sembrava semplicemente ignorarlo e fare finta che egli non esistesse come a seguito di una lite, è in realtà letteralmente incapace di percepirne la presenza in quanto lui, ormai da molto tempo, ha smesso di vivere. Solo Cole, dotato del potere di comunicare con i deceduti, ha davvero interagito con lui durante tutto il film.
Ora: c’è una logica ben precisa che fa funzionare le sceneggiature di questi due film così bene, un criterio che impedisce di far si che i protagonisti realizzino anzitempo, ovvero prima del colpo di scena finale, che tutte le loro azioni sono mosse, in ultima analisi, dal fatale misconoscimento della loro natura di spettri. Ne Il sesto senso è lo stesso Cole a riferire a Malcolm, nell’iconica scena in cui pronuncia la celebre frase “vedo la gente morta…”, la formula di questa logica. I fantasmi dei morti, sussurra il bambino, “vedono solo quello che vogliono vedere”.
Non c’è forse formula migliore di questa per richiamare il tema centrale del quattordicesimo seminario di Lacan, “La logica del fantasma”[1], recentemente – e finalmente… – pubblicato anche in italiano da Einaudi. E quella di Cole è a tutti gli effetti una massima che potrebbe ben figurare accanto ad altri mantra nel formulario psicanalitico lacaniano, come quella che recita “l’inconscio è strutturato come un linguaggio”, o ancora “non esiste rapporto sessuale”. Dire che “i fantasmi vedono solo quello che vogliono vedere” può ben fungere infatti, come queste altre espressioni ormai divenute idiomatiche, da bussola per orientarsi nel fitto labirinto di riflessioni filosofiche e di acrobatiche cogitazioni psicanalitiche che infarciscono i testi di Lacan, e al netto dell’assonanza tra il fantasma che compare nel titolo di questo quattordicesimo seminario ed i fantasmi protagonisti dei due film che abbiamo richiamato. Questo perché il termine francese “fantasme”, che in italiano viene tradotto con “fantasma”, non ha (quasi) nulla a che fare con gli spettri, con i poltergeist in quanto tali – soprattutto da un punto di vista linguistico, in quanto gli spiriti dei morti che appaiono a mezzanotte nei castelli disabitati, sotto forma di lenzuoli volanti o di sagome traslucide, in francese si chiamano fantômes. “Fantasme”,al contrario, è un termine tecnico che nel linguaggio lacaniano indica la dimensione fantasmatica del soggetto, la coappartenenza o la coincidenza strutturali di questo alle sue facoltà immaginarie e simboliche ovvero la sua reale (per quanto spettrale) consistenza ontologica. La stoffa metafisica della soggettività così come questa è intesa dalla psicoanalisi, infatti, è irriducibile a qualsivoglia riduzione deterministica e ben si presta ad essere còlta nei termini del fantasticare, della fantasia e del fantastico. Di qui, insomma, la scelta strategica del temine-chiave francese “fantasme” che, se da una parte segna tutta la distanza possibile tra la disciplina freudiana e le neuroscienze (impegnate nella localizzazione cerebrale, e quindi nella riduzione fisica, delle facoltà psicologiche), dall’altra costringe ognuno di noi a misurarci con la stessa sconcertante verità che coglie Grace e Malcolm alla fine di The Others e Il sesto senso. Anche noi, come loro, conduciamo esistenze fondamentalmente illusorie, annaspiamo nell’inconsapevolezza di noi stessi e anche noi, in fondo, siamo fantasmi che vedono solo quello che vogliono vedere.
Il fulcro della questione, va da sé, come si tratterà di scoprire nel corso del seminario su La logica del fantasma (come nel corso di una psicoanalisi, ma questo è un altro discorso…), sta in quel “vogliono”, in ciò che anche noi vogliamo, e nel grado di consapevolezza riguardo a quei moti più reconditi del nostro stesso spirito che noi, come loro, siamo disposti a tollerare. Grace e Malcolm infatti sono fantasmi, ma in quanto fantasmi inconsapevoli (leggasi: inconsci) il loro stesso essere è confuso durante tutta la durata del film con i pensieri che questi possono e non possono fare. Il loro essere (termine-chiave per la filosofia del novecento, e riferimento imprescindibile per Lacan che non ha mai smesso di guardare ad Heidegger – il filosofo dell’Essere – come ad un maestro) si sostiene quindi su di un regime, su di una logica per l’appunto, che impone un rigido ordine di pensabilità (e quindi di speculare non pensabilità) da cui dipende niente di meno che la tenuta stessa della loro esistenza. E il centro, il nucleo della profonda meditazione condotta nel seminario La logica del fantasma è proprio questo rapporto, oscuro e vertiginoso, che sussiste tra il pensiero, l’inconscio e l’essere dell’ontologia – rapporto dal quale dipende la struttura logica del nostro volere, delle cose che vogliamo vedere e quindi, in senso lato, il nostro stesso essere.
Sarebbe davvero impossibile provare a riassumere il contenuto o anche solo proporre una breve rassegna ragionata dei temi trattati ne La logica del fantasma, seminario tra i più ricchi dell’intera avventura didattica aperta al pubblico presieduta da Lacan, a Parigi, ogni mercoledì dal 1953 al 1980. Basti dire a tal riguardo che questo corso, che si tiene a cavallo degli anni 1966 e 1967 e che costituisce un unicum con quello dell’anno successivo dedicato all’atto analitico (la cui pubblicazione in italiano è attesa per l’anno prossimo), è quello in cui la questione della formalizzazione logica dell’inconscio entra nella sua fase più viva. Certo, quest’operazione ha da sempre costituito l’obiettivo ultimo dell’approccio di Lacan alla psicoanalisi ed era stata da lungo approntata dal lavoro compiuto nel corso degli anni precedenti. Ma se nel seminario su Il desiderio e la sua interpretazione[2] quest’impresa sembrava essere giunta ad un risultato soddisfacente, con l’elaborazione del grafo del desiderio, nell’anno successivo aveva subito una forte battuta d’arresto ed era entrata in una fase di stallo nella misura in cui l’accento, li, veniva spostato sul godimento. Al corpo intessuto di quella che in lacanese si chiama jouissance e alle sue zone erogene, ovvero al versante pulsionale, ingovernabile ed incandescente della psiche umana, Lacan aveva infatti associato, nel seminario sull’Etica della psicanalisi[3] in cui si consuma questa svolta epocale nel suo insegnamento, il concetto più problematico dell’ontologia heideggeriana: Das Ding. Lo psichiatra francese innestava in questo modo la vexata quaestio del trascendentalismo kantiano (benché mediata dalla lettura esistenzialista di Heidegger) sul corpus freudiano, e rivoluzionava così la psicanalisi in modo talmente radicale ed originale da condannare intere generazioni di psicoanalisti e di filosofi a seguirlo, come uno sherpa metafisico, nelle sue impervie escursioni nel campo di un inconscio, secondo la fortunata formula di Colette Soler, completamente reinventato. Di lì in poi infatti tutti i tentativi di tradurre logicamente i processi psichici e di fondare, in ottemperanza al mandato strutturalista, una scienza il più esatta possibile della psiche umana saranno drammaticamente destinati ad un fallimento speculativo a dir poco delizioso, e ad una disfatta (filosofica in senso lato) tanto inesorabile quanto sublime. Inesorabile, in quanto si rivelerà inattuabile rendere conto di quegli eventi imperscrutabili che sono i desideri ed i godimenti umani in assenza di un saldo fondamento ontologico (e Heidegger, com’è noto, di fondamenti ontologici non ne offre…), e sublime in quanto proprio il tracciato, la mappa di queste stesse sconfitte della ragione andranno a delineare il profilo, la sagoma del sapere psicanalitico – un sapere per definizione zoppicante, incompleto ed imperniato sull’impossibile…Ma di lì in poi, allo stesso tempo, tra desiderio e godimento andrà a scavarsi una voragine che porrà questi due poli della soggettività in un’opposizione sempre più radicale tra di loro.
Sono queste, anche se davvero in breve, le ragioni che decretano la necessità di elaborare il concetto di fantasma ovvero di ciò che funziona come uno schermo che si frappone tra il soggetto e la realtà che questi vive. E Lacan, in questo seminario, tratta di questo fantasma e della logica che lo governa alla stregua di una matrice algoritmica (di cui la sezione aurea, alla quale vengono dedicate pagine e pagine tra le più confusive, non è che una metafora dal forte valore evocativo) che organizza, scandendolo in partizioni ben definite e non ulteriormente scomponibili, il rapporto del soggetto con i suoi oggetti secondo modalità che sono indipendenti, e in un certo senso anteriori, sia al desiderio che al godimento. Per questo Il mathema del fantasma è formulato così: $◊a, e rappresenta graficamente il rapporto (simbolizzato dalla losanga: ◊) del soggetto ($) con la panoplia di oggetti piccoli a dai quali trae come per luce riflessa quel che si potrebbe intendere, anche se non senza qualche riserva, come la sua vera e propria sostanza. Ma se gli oggetti piccoli a sono oggetti di cui il soggetto può godere, o che il soggetto può desiderare, quel che è più importante è che il soggetto non abbia la benché minima idea – come i protagonisti di The Others e Il sesto senso – dei meccanismi che presiedono al rapporto che questi intrattiene con loro. D’altronde i fantasmi, come dice Cole a Malcolm, “vedono solo quello che vogliono vedere”, ma non sanno davvero cosa vogliono, altrimenti non esisterebbe l’analisi…
Sullo sfondo di tutto ciò, e per meglio capire quel che c’è in ballo in questo seminario, vale la pena ricordare quello che è il grande tema che accompagna ogni dibattito filosofico di quegli anni, il problema attorno al quale si avvolgono come in una matassa tutti i fili che intessono la trama della temperie culturale parigina degli anni sessanta e settanta: la destituzione del cogito cartesiano. Lacan ritrova infatti proprio nella psicanalisi, e in quegli stessi anni, un punto di vista elettivo per operare lo smantellamento del cogito ovvero del soggetto moderno, il soggetto della scienza al quale siamo tutti innegabilmente debitori ma che troppo presto, e incautamente, trae la sua folle conclusione: ergo sum. Certo, questo è il soggetto al quale si deve tanto lo sviluppo del sapere scientifico quanto l’avanzamento tecnologico che hanno innalzato l’uomo da uno stato di quasi totale servaggio nei confronti della natura, e di insicura e frugale sussistenza, ad una condizione di dominio della stessa che non trova pari nel mondo animale. Ma la storia del novecento, con le sue trincee e le sue fabbriche di morte, aveva reso ormai palpabile già nel secondo dopoguerra come questo dominio, ed il mito del progresso che alimenta, non fossero altro che il volto imbellettato della più turpe violenza dell’uomo cogitante contro la natura e contro sé stesso. All’impostura del cogito, negli anni in cui Lacan tiene il suo seminario, è imputata allora l’accusa di essere il dispositivo mitopoietico che nel promettere all’uomo il suo essere più autentico non gli riconsegna altro, oltre che al suo ben-essere materiale, se non la smorfia feroce della sua bestialità. Non a caso si profila proprio in quegli anni (siamo in piena Nietzsche reinassance, tant’è che a Nietzsche, in Francia, ogni filosofo che voglia dirsi tale dedica almeno un libro: Foucault, Deleuze, Klossowski, Bataille, per citarne solo alcuni…) l’idea che la storia dell’umanità, la genealogia delle sue morali ed il cammino verso le progressive e magnifiche sorti della stessa sia una storia raccontata solo a metà, una narrazione filtrata dagli interessi di chi, ancora, “vede solo quello che vuole vedere”, ovvero di chi nel celebrare la ragione e nell’esercitare la disciplina si dimentica della follia e trae un piacere perverso dall’infliggere macabre punizioni (si pensi, ovviamente, ancora a Michel Foucault). Una storia, quella del destino di un continente intero e delle sue propaggini che vanno ben al di là dei suoi confini geografici, che è una storia di progresso materiale e civile vero, innegabile, ma sulla quale grava da sempre una fatale e silenziosa rimozione che ha, in gergo psicanalitico, il sapore di un rifiuto (ververfung) senza tempo. Il disagio della civiltà, il nichilismo quale approdo ultimo della cultura europea e la ridda di nevrosi che recinge la vita civile si rivelano essere allora le spie, le timide avvisaglie di una più grande rivelazione ontologica che la finzione del cogito cartesiano aveva impedito di giungere alla luce, e che in quegli stessi anni assurge a tema portante l’intera riflessione filosofica in Europa. Anche Lacan, dal canto suo, partecipa a quest’avventura intellettuale che mira a dissodare il fondo inumano ed impersonale[4] della soggettività e lo fa, da psicoanalista, percorrendo la via dell’inconscio. Restando in ascolto dell’inconscio dei suoi analizzanti sdraiati sul lettino in 5, Rue de Lille, Lacan riesuma così a suo modo, dal suo millenario oblio, la questione che si pone al di là del cogito e che ci ingiunge di ripensare l’uomo, la sua surreale sostanza, la sua posizione nel mondo, il suo rapporto con la storia (sia collettiva che singolare) e la sua pensabilità, la questione – per essere più precisi – dell’Essere.
“L’essere dell’uomo”, dice Lacan in una lezione di questo quattordicesimo seminario – del quale si rischia di non capire nulla se prima non si è inquadrata, da un’angolazione grandangolare, l’altissima posta in gioco filosofica – “ha un nome” e “per scoprire questo nome, e quello che designa, basta uscire di casa un giorno, in campagna, per fare una passeggiata. Attraversando la strada si incontra un camping, e tutt’attorno al camping, a demarcarlo con un cerchio di scorie incontrerete quell’essere verworfen (rigettato, ndr) dell’uomo che riappare nel reale. Si chiama detrito”[5].
Ora: se la funzione del fantasma consiste precisamente, come abbiamo già detto, nell’ottundere il rapporto percettivo e fenomenologico del soggetto con il mondo affinché esso giunga all’essere dimidiato (scisso tra un versante conscio ed uno inconscio, come ben raffigurato dal suo mathema: $), ovvero al prezzo di vedere solo quello che vuole vedere, va da sé che l’essere dell’uomo in quanto detrito è ciò cheviene rigettato nell’inconscio perchéè esattamente quello che il soggetto non vuole vedere. Ed è proprio qui che risiede il nucleo, il cuore pulsante di tutta la disamina del fantasma e della sua logica condotta da Lacan nel seminario in questione.
Certo, non si faticherà a riconoscere come tutto questo ci riporti per l’ennesima volta a Freud, come tutto questo non consista in altro se non nel ritornareda una parte alla negazione freudiana[6] (vero e proprio punto archimedeo dello psichismo) e, dall’altra, a quel celebre breve articolo apparso nel 1917 in Imago[7], in cui il padre della psicanalisi sostiene che il progressivo sviluppo della conoscenza, in occidente, abbia avuto come sua diretta conseguenza l’umiliazione narcisistica dell’uomo (in quanto le tre ferite narcisistiche infertegli prima da Copernico, poi da Darwin e infine da Freud stesso lo hanno costretto a ridimensionare la sua supposta centralità nel cosmo, costringendolo a vedere proprio quello che non voleva vedere)…Ma che cos’è, in fondo, tutta l’opera di Lacan se non un perpetuo ritorno a Freud?
Lungi dal profilarsi come una mera riproposizione o rimasticatura dei temi freudiani, quel che compie Lacan nel suo percorso intellettuale, ed in modo eminente ne La logica del fanatasma, è una sorta di traduzione, di aggiornamento o di rivitalizzazione del testo originario. In questo seminario si rileva infatti, e con grande brio intellettuale, la mutua embricazione di psicanalisi e filosofia, si pongono l’ontologia e la questione dell’Essere al cuore della psiche umana e si cala il dibattito sulla soggettività, della sua emergenza e del suo sviluppo, entro precise coordinate storiche. Ne emerge così l’idea assolutamente originale (e destinata a sedurre generazioni di studiosi) per cui l’intreccio tra il pensiero, l’essere e l’inconscio sia governato da una ferrea logica, da una specifica ontologia che si sostiene sull’esclusione, sul rigetto della componente più scabrosa e ripugnante del soggetto stesso. E che questi, rampollo dell’epoca moderna ed imbevuto di umanesimo e civiltà, si rifiuti di accogliere proprio la verità metafisica che gli si impone, che gli si rivela in quanto egli vive in un’epoca segnata dalla predominanza di quello che Lacan chiama il discorso della scienza. Un discorso, quello del materialismo e del riduzionismo assurti a uniche fonti di verità, che ordina a chiunque giovi degli innegabili frutti prodotti dal progresso tecnico-scientifico di accettare, a mo’ di scotto, il proprio essere essenzialmente e senza riserve lo scarto, l’inutile avanzo di processi impersonali ed anonimi che, a guardarli bene, fanno convergere su di un orizzonte assolutamente insignificante tanto il destino del soggetto quanto quello del mondo intero. “L’orrore della relazione con la dimensione dell’inconscio”, dice Lacan a tal proposito, “è tale che […] tutto è permesso all’inconscio…tranne articolare dunque io sono”[8].
E così, forte della lezione heideggeriana sull’esito nichilistico della storia occidentale ed in aperta polemica con il concetto marxista di alienazione (“È chiaro che l’alienazione nel senso marxista non ha nulla a nulla in comune con ciò che, per essere precisi, non è altro che confusione”)[9], con la fenomenologia (abbagliata dal miraggio della Selbstbewusstein, l’autocoscienza) e con la filosofia esistenzialista di Sartre (al quale, avendo affermato in una celebre pièce teatrale che “l’inferno sono gli altri”, risponde con un sonoro: “Se l’inferno è da qualche parte, si trova in Io”[10]) Lacan si impegna a fornire qui gli strumenti concettuali utili a mostrare le dinamiche sottese alla quotidiana impostura che chiamiamo la nostra identità, ai raggiri che architettiamo per assicurarci le nostre (in)soddisfazioni e, in breve, ai fantasmi che ci burattinano. Gli stessi fantasmi, cioè, che occultano il segreto più inaccettabile, più osceno e scabroso della psicanalisi: la struttura sadica e masochistica che giace al fondo dell’animo umano[11] e che condanna ognuno di noi alla ricerca, spasmodica e vana, di soddisfazioni artificiali e sintetiche. Ed è proprio in questo corso, infatti, che Lacan porrà le fondamenta concettuali per la sua originalissima e pirotecnica critica alla società dei consumi, quell’assemblaggio frankensteiniano di Hegel, Freud e Marx che giunge a maturazione nei seminari degli anni successivi, in concomitanza con l’esplosione a Parigi della grande contestazione e quasi come in risposta agli attacchi mossi al suo indirizzo da Deleuze e Guattari nell’Antiedipo.
Per concludere queste brevi riflessioni che, lungi dal voler sintetizzare il contenuto de La logica del fantasma, si limitano a richiamarne alcuni snodi concettuali decisivi, vale la pena menzionare un paio di ragioni per cui crediamo che questo seminario, cronologicamente a dir poco datato, abbia ancora molto da dire e offra più di uno spunto utile per comprendere il presente in cui viviamo. Al lettore attento, infatti, non sfuggirà come due temi di stringente attualità, due veri e propri fantasmi del mondo contemporaneo, compaiano fugacemente, come lampi, in queste lezioni tenute nell’anno accademico 1966 – 1967 e ripubblicate oggi, a distanza di più di cinquant’anni. L’impressione a dir poco perturbante che accompagna la lettura di questi passi è quella di un Lacan redivivo che torna, come uno spettro, dal regno dei morti per indicarci l'assurdità e l’apparente infondatezza di due delle illusioni che infestano il mondo contemporaneo. Ci riferiamo alla negazione del dimorfismo sessuale, così come questa viene propugnata in alcuni circoli (sedicenti) intellettuali, e all’illusione che soggiace al culto tecnopagano dell’Intelligenza Artificiale.
Se nel primo caso è vero che il tema dell’orientamento sessuale e dell’identificazione con uno dei due sessi (“gender”, in quegli anni, non era una parola in uso) verrà sviluppato più a fondo nei seminari degli anni seguenti e che manchi, ne La logica del fantasma, un vero approfondimento in merito, è comunque interessante notare come Lacan si riferisca in una lezione di questo quattordicesimo seminario al dimorfismo sessuale come all’“idea infernale di Dio”[12]. E se è interessante notarlo è proprio perché oggi, a mezzo secolo di distanza, la negazione del dimorfismo sessuale avallata dai gender studies tradisce un evidente orrore, per riprendere le stesse parole di Lacan citate più sopra, della relazione con la dimensione dell’inconscio. Disconoscere la realtà della differenza sessuale in tutta la sua inemendabile ed inaggirabile evidenza, infatti, non può essere che una questione relativa alle fantasie, alle fantasticherie e ai fantasmi che circolano in certi ambenti accademici. Ambienti in cui la mera constatazione di un fatto elementare come la differenza biologica tra maschi e femmine viene sovrainvestita di significati politici ed è intesa, in sé, come qualcosa di inammissibile – di infernale, per l’appunto. Sarebbe interessante indagare il perché di questo rigetto, di questo palese ed irrazionale rifiuto (ververfung) del corpo, inteso nella sua più viva carnalità, come oggetto piccolo (a). Qui però ci limitiamo a sottolineare l'allarmante similitudine tra i personaggi interpretati da Nicole Kidman e Bruce Willis nei due film che abbiamo citato, i quali si rifiutano di accettare l’idea di essere morti, e chi nel nome di un’identità di genere (per altro in alcun modo oggettivabile…) si rifiuta di essere sessuato. Non c’è forse parallelismo più calzante che possa esemplificare, e nel modo più paradigmatico, quel che in psicanalisi si intende per fantasma.
Per quanto riguarda l’Intelligenza Artificiale, invece, in una delle prime lezioni Lacan riporta al suo uditorio le impressioni suscitategli dalla lettura di un articolo in cui veniva descritto uno dei primi, rudimentali chatbot. Il programma, prodotto dall’IBM, si chiamava Eliza ed è curioso notare come Lacan si riferisca, più che al meccanismo di questo dispositivo che ricombina dei significanti in un modo che ricorda vagamente il funzionamento dell’apparato psichico, all’effetto suggestionante prodotto dall’interazione con questa applicazione come ad una sorta di transfert. “Il punto”, dice Lacan, “non è che una macchina sia capace di dare risposte articolate semplicemente quando le si parla” perché quel che c’è di davvero interessante, nell’uso di questi marchingegni, è “che si rivela essere un gioco […] che mette in questione ciò che, per il fatto di ottenere tali risposte, può prodursi in chi parla alla macchina”[13]. In poche battute il lungimirante psichiatra parigino presagiva così quella che sarebbe stata, e solo in anni recenti, una vera e propria sbornia collettiva davvero poco giustificata sul piano razionale ma molto comprensibile se teniamo conto del fatto che i fantasmi, ancora, “vedono solo quello che vogliono vedere”. Per quanto sia dilettevole (e possa risultare in qualche occasione anche utile, è innegabile) interagire con dei motori di ricerca molto più avanzati di Google e dotati della capacità di rispondere in prima persona all’interlocutore, infatti, è necessario ammettere senza riserve che le aspettative affidate allo sviluppo dell’Intelligenza Artificiale sono quantomeno malriposte. Il disorientamento che coglie chi crede davvero di avere a che fare con forme di coscienza artificiali, ad esempio, e che ha ingenerato ingiustificati timori dal retrogusto distopico-fantascientifico[14], non tiene conto del fatto che queste tecnologie che simulano la condotta di entità coscienti non sono in verità altro che simulacri, fantocci. Nessun rischio e nessuna reale minaccia esistenziale proviene davvero da questi programmi – i quali, per parte loro, non sono dotati di nessun tipo di intenzionalità e si limitano a riprodurre associazioni tra simboli che, se risultano funzionali, è solo perché sono state decretate statisticamente rilevanti dai loro programmatori…Se esiste un vero pericolo, insomma, e se c’è qualcosa che merita non senza ragione le nostre preoccupazioni apocalittiche, questo non è di certo l'immaginaria vendetta delle macchine divenute come per magia senzienti, ma è proprio la struttura primitiva e fondamentalmente superstiziosa della soggettività umana. A costituire oggi una reale minaccia esistenziale per la nostra specie, infatti, è soprattutto la nostra naturale proclività a credere nelle illusioni, alle chimere, e a proiettare sugli oggetti il contenuto rimosso della nostra volontà per celare la reale indifferenza del mondo nei nostri confronti…in altre parole: l’architettura fantasmatica dell’animo umano. La stessa che Lacan coglie sapientemente, in questo seminario, nei termini di un groviglio inestricabile tra pensiero, essere e inconscio.
Questo intreccio, questo imbroglio che avviluppa da una parte la storia della cultura umana e dall’altra l’evoluzione biologica (benché quest’ultima resti confinata al di fuori del discorso lacaniano, in quanto di psicologia evolutiva si comincerà a parlare solo negli anni settanta) alligna nelle profondità oscure del processo adattativo che ha condotto all’emergenza della psiche così come noi oggi la conosciamo. Gettare lo sguardo in questo abisso senza fondo di processi adattativi randomici, di gelidi meccanismi impersonali che hanno plasmato tanto il corpo quanto la mente dell’uomo nell’indifferenza più totale della natura e nel silenzio più agghiacciante dell’universo, infatti, è qualcosa che val bene un rigetto (ververfung) in quanto lì lumeggia un orrore dal quale siamo portati comprensibilmente, come i protagonisti di The others e Il sesto senso, a volgerci altrove. Ma di fronte a questo spettacolo raccapricciante ed insopportabile, letteralmente insimbolizzabile – ovvero l’orrore del Reale, a paragone del quale anche il film horror più spaventoso rischia di sembrare una barzelletta… – le scelte, sembra dirci Lacan, sono solo due: guardare dall’altra parte, e scegliere di continuare a vedere solo quello che vogliamo vedere, o fissare lo sguardo proprio su ciò che non vogliamo vedere. Il rapporto del soggetto con l’inconscio, ed il nostro destino di soggetti, dipende da questa decisione tra l’illusione e l’orrore. “L'inconscio” infatti, come ebbe a dire Lacan, “così fragile sul piano ontico, è etico...e comunque sia bisogna andarci dentro”[15].
Filippo Zambonini
Bibliografia:
Benvenuto S., La psicanalisi e il reale.“La negazione” di Freud, Orthotes, Napoli, 2015
Lacan J., Il seminario VII. L'etica della psicanalisi (1959 – 1960), Einaudi, Torino 2008
Lacan J., Il seminario VI. Il desiderio e la sua interpretazione (1958 – 1950), Einaudi, Torino 2015
Lacan, J. (2003). Seminario XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Einaudi, Torino
Lacan J., Il seminario XIV. La logica del fantasma (1966 – 1967), Einaudi, Torino 2024 https://time.com/6898967/ai-extinction-national-security-risks-report/
S. Freud, Una difficoltà della psicoanalisi, in “Opere”, Bollati Boringhieri, Torino, 1976, vol. 8, pp. 657-644.
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