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1. marxismo

          Molti intellettuali non solo italiani – in particolare i filosofi - anche quando hanno preso direzioni di pensiero distanti dal marxismo, poi, quando devono valutare il mondo politico, sociale, economico… di oggi, spesso guardano a tutto ciò sempre con occhiali marxisti. Parlo di persone insospettabili - fenomenologi, storici dell’arte, filosofi della scienza, teologi. Costoro di solito guardano e giudicano le cose dell’oggi secondo categorie marxiste. In particolare, per l’intellettuale non-economista, soprattutto se lavora in campo umanistico, leggere il mondo economico in chiave marxista è parte della propria fisionomia di uomo o donna colta. E siccome da tempo non leggo la vita storica ed economica secondo griglie marxiste, mi chiedo spesso se io sia ancora un intellectuel. Userò il termine francese. Il marxismo è economia per umanisti non per economisti, e c’è da chiedersi perché.

          Con “chiave marxista” mi riferisco a una certa reattività alle cose della società che riassumerei così:

          In politica conta la lotta di emancipazione di tutti coloro che sono in una posizione subalterna o assoggettata ad altri.

          Quasi tutti i mali sociali vengono oggi dall’assetto capitalistico delle nostre società.

          L’intellettuale si batte al fianco di tutti i diseredati e il suo spirito è essenzialmente anarchico. La società del futuro dovrà essere una società anti-gerarchica, libertaria.

Questo è il sostanziale atto di fede dell’intellectuel di oggi.

          Tutto ciò implica l’assunto che il marxismo, in particolare Il Capitale di Marx, sia la descrizione in sostanza definitiva della società moderna, anche odierna. I grandi problemi economici e geo-politici di oggi vengono interpretati sulla falsariga marxista del funzionamento del capitalismo. Talvolta, si ammette l’aggiunta rinfrescante del “borghese” Keynes, nella misura in cui preconizzava l’intervento dello stato nell’economia. Da un secolo e mezzo a questa parte, Marx sta a questi intellectuels così come la Bibbia sta agli Ebrei. Le idee di Marx non vengono mai messe in questione. Per esempio, la tesi secondo cui il lavoro è ad un tempo una merce e ciò che dà valore alle merci è stato ripreso tante e tante volte, anche in sistemi di pensiero che si rifanno a paradigmi diversi. Ma penso che il Grund marxista sia piuttosto una sabbia mobile.

          Eppure oggi nemmeno gli economisti considerati più a sinistra – come A. Sen, J. Stiglitz, P. Krugman – applicano criteri marxisti alle loro analisi, ma si rifanno all’economia successiva a quella “classica”. Marx appartiene, con Smith Malthus e Ricardo, all’economia detta classica[1].

2.

          Un filosofo teoretico molto prestigioso tiene una lezione sul terzo libro del Capitale di Marx. La svolge in chiave filosofica. E si sofferma sui punti in cui Marx afferma che la ricchezza finanziaria funziona secondo una logica interna (che diremmo speculativa) del tutto sciolta dal valore economico, il quale valore – disse Marx – è dato dal lavoro vivo. La prima alienazione capitalista - ce ne sono altre - è quella per cui il danaro produce danaro e perde quindi contatto con ciò che dà senso e valore al danaro, il lavoro.

          Il filosofo teoretico dice di aver investito una somma in banca: ha versato 100 e dopo un anno se ne ritrova 120. “Come è possibile che i soldi siano aumentati? Hanno fatto all’amore?” I soldi producono soldi perché la rappresentazione si aliena da ciò che rappresenta e si riproduce da sé. E cosa avrebbe pensato se invece, dopo una stagione di orso azionario, si fosse ritrovato con soli 80 euro? Avrebbe pensato che la banca lo ha derubato?

          Eppure ogni economista sa che la banca non ha operato alcuna magia, semplicemente ha investito in modo avveduto i 100 iniziali. Cerca di investire su attività che, sui tempi lunghi, si riveleranno produttive, ovvero, che producano ricchezza. Attraverso la banca, il professore ha finanziato attività fruttuose, anche se, ovviamente, tra l’investimento iniziale e il guadagno finale c’è tempo per attività speculative, ovvero per la possibilità di fare denaro a partire dal danaro. Ma le speculazioni prima o poi mostrano la corda, portano a crolli in borsa, fallimenti di banche… Le grandi crisi – come quelle del 1929 e del 2008 – nascono come crisi finanziarie (e non, come credono tanti, per sovrapproduzione industriale) quando cioè il mercato finanziario si scolla troppo dalle basi produttive.

          In genere gli intellectuels detestano i commercianti. Costoro risultano più odiosi degli industriali. Il fatto che il panettiere si prenda 20 in più rispetto ai 100 da lui spesi per comprare il pane fresco dal forno viene visto come l’imposizione di una gabella, dato che il filone di pane è rimasto nel frattempo identico. Questo è effetto del pregiudizio che chiamerei produttivista: che il vero valore di una merce è quello del prodotto così come esce dalle mani del suo produttore diretto. Il resto sarebbe parassitismo. Eppure il panettiere all’angolo di strada svolge una funzione distributiva molto utile. Se ogni giorno io dovessi andare alle 6 di mattina dal fornaio per comprare il mio pezzo di pane, questo risulterebbe molto più costoso per me in termini di tempo e di soldi. Il panettiere non è un grassatore, svolge un servizio. Questo servizio va remunerato.

          Ma la questione di fondo è: che cosa fa sì che qualcosa valga 100? Quel che conta nel valore matematizzato non è la cifra assoluta, ma la differenza numerica rispetto a tutti gli altri valori. In effetti, il problema di Marx e degli economisti che lo avevano preceduto era questo: che cosa determina il valore economico di una qualsiasi merce? La risposta di Marx fu la teoria del valore-lavoro. Ovvero, il vero valore di una merce è dato dal lavoro vivo in esso contenuto. Ma allora, se quel che dà valore è il lavoro, che cosa remunera l’imprenditore, il datore di lavoro? Risponde Marx: il plusvalore, ovvero la parte non pagata all’operaio. Per Marx non la proprietà, ma il profitto imprenditoriale, è un furto.

          Cosa lo aveva portato a questa conclusione?

3.

          La teoria del valore-lavoro era già stata formulata da David Ricardo. Era un ebreo arricchitosi come agente di cambio e che poi aveva vissuto da gentiluomo di campagna. Vide chiaramente che il valore economico è dato dallo scambio e non dall’uso, eppure avanzò la teoria secondo cui il valore di scambio dei beni è regolato dal lavoro in esso incorporato. Ricardo cita Adam Smith: “È naturale che ciò che è normalmente il prodotto di due giorni o di due ore di lavoro debba valere il doppio di ciò che è normalmente il prodotto del lavoro di un giorno o di un’ora”[2].  Questa idea oggi ci appare bizzarra. Se i lavoratori di una fabbrica ci mettono un giorno solo per produrre mille pantaloni alla moda mentre quelli di un’altra fabbrica mettono due giorni per produrre mille pantaloni ma non più alla moda – ammettendo identica la loro produttività - vedremo che i mille della prima fabbrica saranno molto più costosi di quelli della seconda. Evidentemente Ricardo non teneva conto di un fattore che per noi oggi è fondamentale: la variabilità della domanda, ovvero, in parole povere, delle mode.

          Ricardo è l’inventore della terribile legge bronzea dei salari. Secondo lui il salario aveva la funzione di assicurare la sussistenza fisica del lavoratore e la sua riproduzione, senza aumenti né diminuzioni.  Insomma, chi viveva del proprio lavoro sarebbe rimasto sempre povero e nulla, né uno stato compassionevole né un forte sindacato, avrebbe potuto modificare quel destino. Va detto che per “povertà” Ricardo intendeva non la semplice sussistenza biologica ma anche “le comodità divenute essenziali per abitudine” (un Ricardo di oggi vi inserirebbe anche il possesso di un computer, di un frigorifero, di una utilitaria…). Inoltre lo sviluppo dell’economia avrebbe potuto spingere verso l’alto il “prezzo naturale del lavoro” anche per periodi prolungati. Comunque, la conclusione più immediata era l’ineluttabilità della miseria di chi lavora in una società capitalista: la legge economica che ne è alla base non può essere cambiata. Miele per le orecchie di Herr Marx.

          Quel che restava comunque inspiegato nel sistema ricardiano era il profitto industriale. Se il valore di un prodotto è dato dal costo del lavoro richiesto per produrlo nella condizione marginale (ovvero al minor costo possibile), allora da dove vien fuori la remunerazione del capitale, il profitto di chi ha investito? Ricardo risponde: viene sempre dal lavoro. Viene dal lavoro passato necessario per costruire gli stabilimenti e il macchinario (captale fisso) e per acquistare beni capitali (capitale circolante o d’esercizio). Il profitto sarebbe allora il pagamento posticipato di questo lavoro passato.

          Se i profitti corrispondono alla remunerazione del lavoro impiegato in passato nella formazione del capitale, allora la conclusione ad alcuni apparve ovvia: l’investitore si appropria di una ricchezza che a rigore appartiene all’operaio. Il guadagno dell’imprenditore è del tutto ingiusto. Una conclusione del genere poteva essere evitata rigettando la teoria del valore-lavoro e la legge bronzea dei salari di Ricardo come inadeguata. Marx non la rigettò, la prese alla lettera: il profitto, che chiamò plusvalore, era la parte non pagata all’operaio.

          Certamente Marx non divenne comunista leggendo Ricardo, piuttosto usò le teorie economiche di punta del proprio tempo per dare un fondamento “di testa” al proprio comunismo “di cuore”. Come per i teologi: prima viene la fede, poi viene la ragione che la giustifica. Chi è mai divenuto un credente a seguito di una impeccabile dimostrazione dell’esistenza di dio? Secondo me nessuno. La teoria – in questo caso economica – è una pezza d’appoggio intellettuale alla propria passione religiosa o politica. Marx ebbe il genio di stabilire un ponte tra fede comunista e la scienza economica dell’epoca sfruttando certe carenze interne al sistema esplicativo di Ricardo. marxismo

          Joseph Schumpeter[3] sosterrà poi che la linea Ricardo-Marx nel pensiero economico è rimasta sempre, in fondo, un ramo secondario. La teoria del lavoro-valore e l’ingiustificabilità del profitto non è mai stata veramente presa sul serio dagli economisti successivi. Il valore è stato sempre visto come dipendente dal gioco della domanda e dell’offerta, non come espressione di un lavoro “trascendente”. Ma la teoria del lavoro-valore è stata sempre presa molto sul serio, per circa due secoli, dagli intellectuels.

4.

          Allora, perché qualcuno come Marx ha creduto nella teoria del lavoro-valore a cui di fatto non ha mai creduto nessuno? Perché quella teoria gli faceva troppo comodo. Innanzitutto questa teoria permette di quantificare, e quindi di obiettivare, la denuncia di sfruttamento. In effetti, riconoscersi come sfruttato è atto più che mai soggettivo. A che punto comincia lo sfruttamento? Quando per un lavoro ricevo 200, o 150, o 100…? Anche se sono una star strapagata posso dire che sono sfruttato perché pagano troppo poco le mie esibizioni rispetto a qualche altra star. Grazie all’escamotage del plusvalore, credo allora di misurare lo sfruttamento con precisione: è il profitto dell’imprenditore. Punto. La lotta per avere salari più alti e condizioni di lavoro migliori diviene allora “scientifica”. Dalla mera compassione per l’operaio si passa a chiedere giustizia per lui su una base obiettiva.

          Soprattutto, la teoria del valore-lavoro ci fa credere che quello che dovrebbe essere – che più lavori, più ha valore quello che produci – è nel fondo ciò che è. In effetti, tendiamo a trovare ingiusto che chi lavori tanto guadagni meno di chi lavora poco. Il fatto che per un’ora di lavoro una domestica prenda 12 euro mentre un luminare della medicina in un’ora ne guadagni 500 ci dà un senso d’ingiustizia. L’ingiustizia risulta da un nostro presupposto, che tutti siamo eguali, come afferma l’etica cristiana. Ma è fattualmente vero che siamo eguali?

          Conoscevo un artista che non ebbe mai molto successo. Una volta mi indicò la sua ultima creazione, una scultura, dicendo “Ci ho lavorato per otto mesi giorno e notte… e poi nessuno la vuole comprare!” Lo diceva col tono di chi subiva un sopruso. Ma l’ingiustizia è inscritta nella vita stessa. Così ci suona terribilmente ingiusto che un bambino nasca deforme o malato, e che resti così per tutta la vita. Non l’ha meritato. In questo caso però non ce la possiamo prendere con l’assetto perverso dell’ordine sociale, ma piuttosto con la malvagità di dio o della natura.

          La strategia tacita di Marx consiste nel dire che in fondo la realtà (l’essere) è giusta, che davvero il lavoro dà valore alle cose prodotte, ma è la società a distorcere la realtà. La società falsifica la natura. Il dover-essere (Sollen) viene celebrato come verità dell’essere (Sein). Sarebbe la società umana a introdurre un’ingiustizia che nella realtà non si dà. Discende dall’argomentazione di Rousseau, quando, per esempio, sosteneva contro Voltaire che il terremoto di Lisbona, in quanto naturale, non poteva essere “cattivo”. Erano le case costruite a Lisbona quelle cattive[4].

          Ora, la teoria secondo la quale il Sein e il Sollen nel fondo coincidono - ciò che è vero è anche giusto, e l’ingiusto è sempre falso, un abuso - è profondamente consolatoria. È una forma di teologia laicizzata. Per il pensiero cristiano dio è sempre buono e giusto, anche se viviamo in un mondo strapieno di malvagità e di ingiustizia. Secoli di talento teologico sono stati spesi per dimostrare che il mondo creato da dio è pur sempre il migliore dei mondi possibili, ed è l’essere umano a introdurre il male nel mondo. Nel XIX° secolo al posto di dio si è messa natura (Natura sive Deus), per cui l’antropologia marxista ha voluto dimostrare che la realtà è buona e giusta, e che il male e l’ingiustizia sono prodotti della perversità umana.

          Abbiamo visto questa visione emergere in occasione della recente pandemia di Coronavirus. Tanti filosofi hanno dato per certo che questa epidemia fosse del tutto diversa dalle altre del passato, perché era una epidemia scatenata dall’uomo. Ciò fa parte di un riflesso ereditato dal rousseauismo-marxismo: anche la mutazione di un virus, cosa vecchia come il mondo, deve essere messa sul conto della perversità della società industriale. Non si accetta la monotonia di natura, che se la ride della potenza umana e produce nuovi virus nocivi come faceva millenni fa. Anche se certo la grande mobilità umana ha accelerato e ampliato la circolazione dei virus. I virus circolano molto più velocemente in popolazioni di animali numerose e molto mobili. Il marxismo, per il quale il vero essere è sempre giusto e buono, si è insomma sostituito al cristianesimo nel dire che l’ingiustizia cosmica non esiste, e che noi umani, con un po’ di buona volontà, restituiremo alla realtà il suo onore. Come nella concezione cattolica, sono gli umani, col libero arbitrio, a introdurre il male nel mondo.

          Eppure questa promozione immensa della volontà umana – l’essere umano può ripristinare la giustizia nel mondo – ha come condizione la denuncia dell’umanità come causa prima artefice del male. Da Rousseau fino a Žižek, questa è la storia del mondo post-cristiano. Che solo gli umani possono restituire al mondo quella giustizia che essi stessi gli hanno tolto. L’umanità sarà la salvatrice del mondo (anche naturale) proprio perché è stato lei a introdurre il Male nel mondo.

5.

          In che modo invece gli economisti, liberisti e anti-liberisti, vedono oggi il valore economico? Secondo me, già Aristotele aveva detto l’essenziale sullo scambio economico: in realtà di tutto si può fare scambio: esso trae la prima origine da un fatto naturale, che cioè gli uomini hanno di alcune cose più del necessario, di altre meno[5]. Si scambia sempre un eccedente con qualcosa che si desidera. Non importa perché si desideri questa o quell’altra cosa, l’importante è che si desideri qualcosa. Alla fonte dello scambio economico non c’è il lavoro, c’è il desiderio. In particolare, il desiderio di qualcosa che ci manca. È quel che genera la demand, domanda. (Questo non toglie che l’offerta, supply, possa creare nuove domande. Se invento il viagra, mettiamo, e lo offro sul mercato, il desiderio di erezione creerà un demand di viagra.)

          Ovviamente, se voglio scambiare devo produrre questo eccedente – a meno che io non lo possieda già come patrimonio acquisito. La produzione di questo eccedente ha un costo per me, e quindi il prezzo finale del mio prodotto dovrà includere i costi di produzione, tra cui il costo del lavoro mio o di altri. Se sono io il lavoratore, il costo sarà il tempo e l’energia da me spesi per produrre quel prodotto. Ma molte cose hanno un valore economico che non dipende affatto dal lavoro impiegato per produrle.

          Mettiamo il caso che io abbia ereditato un casale contadino costruito nel XV° secolo. Mi rendo conto oggi che quel casale si trova in un contesto che consideriamo “incantevole”, e quella regione è divenuta alla moda. Potrò affittare a prezzi altissimi quel casale a chi voglia fare turismo, e così diverrò benestante. Sfrutto il lavoro di coloro che costruirono quel casale sei secoli fa? Non ha senso. Rendo redditizio quel casale perché è molto desiderato oggi. Approfitto dell’altrui desiderio.

          Avere danaro è avere quindi sempre un eccedente. Anche un poveraccio che possegga solo dieci euro, ha un eccedente di dieci euro. Per una ragione semplice: che quei dieci euro non può usarli direttamente come oggetto per soddisfarsi, gli servono solo per lo scambio. Certo, potrebbe sempre usare quella banconota come fazzoletto di carta, mettiamo. Ma negli ultimi tempi il danaro si è del tutto smaterializzato, e un numerino sul computer non posso usarlo affatto, nemmeno soffiarmici il naso.

          È stupefacente: solo oggi, grazie alla completa smaterializzazione del danaro, abbiamo finalmente compreso – anche intellettualmente e non solo praticamente – che il danaro sin dai primordi è stato sempre e solo questo: numeri. Eppure l’invenzione di una moneta di scambio è precocissima, si è passati ben presto dal baratto all’uso di monete, fossero queste conchiglie, penne, ecc. La moneta è sempre la rappresentazione di una ragione di scambio[6].

          Immaginiamo un mercato primitivo in cui due patate si scambiano con quattro mele o con dieci pesche. Abbiamo già una precisa ragione di scambio. Ovvero, se diamo a una patata il valore arbitrario di 10 - mettiamo: conchiglie - possiamo dire che in questo mercato:

          1 patata = 10 conchiglie; 1 mela   =   5 conchiglie; 1 pesca  =   2 conchiglie

Possiamo materializzare questi numeri anche con banconote, ma il loro senso resta sempre lo stesso: sono equazioni. Per cui, se metto a, b e c al posto rispettivo di patate, mele e pesche, avremo:

                   a = 2 b = 5 c                    oppure                    c = b / 2 = a / 5

Banali equazioni.

          Alla base dello scambio c’è il desiderio per ciò di cui manco. Se ho due patate in più che non mangerò mai e sono privo di pesche che invece desidero gustare, so che devo dar via una mia patata eccedente per avere cinque pesche. Tutte le complessità dei mercati internazionali di oggi sono una enorme complicazione di questa logica semplicissima che è alla base di ogni economia.

          Marx considerava il danaro una merce imperitura perché credeva nell’essenza religiosa dell’economia. Il danaro, come la divinità, è imperitura. E come ogni divinità va denunciata come alienazione (Feuerbach), così il danaro va denunciato come astrazione sempre incompiuta. Per Marx il concreto è vero, l’astratto è falso. Ma questo carattere imperituro del danaro non viene da un assunto quasi-religioso nel suo uso, viene dal fatto che il danaro è sempre stato, sin dagli albori, matematica. E i numeri, pur senza essere divini, sono imperituri. Scambiando, gli esseri umani matematizzano i loro rapporti senza volerlo. Insomma, credere che la realtà sia concretezza e l’astrazione, i numeri, siano fede è una fede sbagliata. La matematizzazione crescente della natura a opera della scienza mostra che ciò che c’è di più concreto, la natura, è sempre matematizzabile – perché la scienza nella natura cerca sempre relazioni. Le equazioni sono la verità profonda delle cose. E i prezzi delle merci non sono altro che equazioni. 

6.

          L’umanità ci ha messo millenni per capire questa cosa così semplice, che la moneta rappresenta delle ragioni di scambio. L’essere umano sa tante cose inconsciamente, ma ci mette secoli per pensarle. Così, per secoli, si tendevano a usare buone monete, ovvero oggetti che avessero di per sé un valore d’uso. La logica del baratto si è prolungata nella ricerca della buona moneta. Da qui il mito dell’oro, pregiudizio giunto grazie a Keynes fino al 1971, anno del crollo del sistema di Bretton Woods, che si basava ancora sull’oro. Ma perché l’oro è visto come prezioso? Perché l’oro era molto desiderato, quindi appariva prezioso di per sé. Era usato come moneta anche perché agevole, non si degrada facilmente - ma oggi ci rendiamo conto che delle cifre in un programma di computer sono meno degradabili dell’oro. Da qui l’illusione del Gold Rush, che ci si arricchisse ammassando oro. Il fatto che gli esseri umani abbiano fatto ben presto abile uso di monete, non implica affatto che le abbiano intellettualmente capite. Dopo tutto, funzione della filosofia è capire finalmente ciò che già sappiamo.

          Sulle banconote della lira era scritto “Pagabili a vista al portatore”. Il pagante era la Banca d’Italia. Ma pagabile con che? All’epoca erano considerate vere monete l’oro e il dollaro. Ma non esiste vera moneta materiale. Abbiamo visto che per Marx il valore è il lavoro accumulato, invece il vero valore è lo scambio stesso. Un paese ricco è un paese che scambia molto, un paese povero è un paese che scambia poco. E lo scambio a sua volta trae il suo valore dal desiderio d’altro. Si scambia con l’altro per desiderio d’altro.

          Sappiamo che da un paio di secoli l’economia mondiale si espande, in quasi tutto il mondo. Prima non era così. L’espansione economica si basa sul modo espansivo del desiderio, ovvero, si è sempre insoddisfatti, vogliamo sempre di più, more… Il capitalismo è il blob del desiderio. Certo pensiero post-moderno ama pensare che alla base della moneta come oggetto di scambio non ci sia nulla, che il danaro sia copie senza alcun originale, sembiante di sembiante. Non ci sarebbe nulla alla base del danaro. Ma non è vero: alla base c’è lo scambio. Certo lo scambio non è una cosa ma un processo. Questo processo, visto da lontano, sembra una cosa. In un certo senso, lo scambio si vede, si illustra nella ricchezza appariscente di un paese, grattacieli, autostrade trafficate, ristoranti pieni…

          Dunque il danaro, qualcosa di connesso all’intera economia di un paese, rappresenta, dettaglia, la potenza di scambio di questo paese. Dico bene la potenza di scambio, non la ricchezza. Se c’è un clan che vive in perfetta autarchia, produce tutto quello di cui i suoi membri hanno bisogno o desiderano senza dover scambiare nulla con l’esterno, potrà essere un clan felice ma economicamente irrilevante: nella misura in cui non scambia, non è un’entità economica[7].

          In fondo, il socialismo è il sogno di essere questo clan: chiudere la società in modo che essa produca solo oggetti d’uso, mai nessun eccedente da scambiare. Ma non appena qualcuno nel clan socialista desidera qualcosa che nel clan non c’è… cominciano i guai.  In particolare, il mercato nero. Il socialismo vorrebbe sopprimere quel desiderio d’altro che per alcuni (basti pensare a Lacan) è essenziale all’essere umano. Il comunismo crollò in URSS proprio per questo: i sovietici cominciarono a desiderare ardentemente qualcosa che si trovava solo in Occidente. Ma l’URSS non aveva granché da scambiare con l’Occidente. Anche oggi, del resto, la Russia non ha molto di più da scambiare del suo petrolio.

          Se ho in tasca 100 euro, questa banconota rappresenta – nel senso che sta al posto di – una certa frazione dei beni di scambio, non di consumo, prodotti all’interno dei paesi dell’eurozona. È ingenuo pensare che il danaro sia qualcosa di puramente simbolico, un’astrazione: come tutti sappiamo, è qualcosa di ben reale. Atrocemente reale per chi non ce l’ha! Andate a dire a un poveraccio che il danaro si basa su una fede religiosa, come pensava Walter Benjamin! Preferirà derubarvi del portafoglio.

          Insomma, il capitalismo non ha nulla della fede religiosa[8]. La ferrea realtà del danaro è dovuta al fatto che è il corrispettivo di una potenza, quella di poter scambiare. Certo questa corrispondenza è incerta, varia giorno per giorno, nessuno sa precisamente quanta parte della potenza di scambio dell’eurozona rappresenta quella banconota euro che ho in tasca… da qui le continue fluttuazioni del cambio, i giochi speculativi. Posso aver rubato quella banconota, eppure sappiamo che è ben reale perché tutti desiderano quei 100 euro. Il danaro è l’unico bene che tutti desiderano in quanto è il bene che tutti devono usare per soddisfare le loro domande, e si domanda qualcosa perché la si desidera. Che c’è di più concreto di questo?

          Quindi, quando dico che il danaro rappresenta, intendo qualcosa che è al posto di, ma che proprio per questo ha il potere di ciò che rappresenta. È come quando un re inviava un suo rappresentante a un negoziato: quel che decideva il plenipotenziario del re era come se fosse deciso dal re stesso. Il danaro non è un sembiante della potenza di scambio, è un rappresentante della potenza che ha esso stesso potere di scambio.

          Potremmo andare oltre, e dire che ogni società è una rete di scambi. Per Claude Lévi-Strauss, ogni società è scambio di parole, di doni e di donne. E possiamo inserirvi anche lo scambio economico di beni. La società non è un “qualcosa” ma un insieme di processi, tra cui ci sono i processi economici, ovvero produrre per scambiare. Marx lamentava il fatto che nel capitalismo tutto diventi scambio, anche la vita coniugale. Ma è sempre stato così. Per lo più i marxisti quando parlano di “società capitalista” in realtà stanno parlando della società tout court, di tratti che il capitalismo non ha fatto che rendere evidenti ed esaltare. Una famiglia può essere basata sull’amore, ma essa implica sempre delle regole implicite di scambio. Nella famiglia tradizionale lo scambio era: “io uomo porto i mezzi per vivere, e tu donna ti occupi della casa e dei marmocchi”. Nella famiglia moderna, basata sull’eguaglianza dei sessi, il patto di scambio non è più così preciso e chiaro, ragion per cui essa è tanto fragile.

7.

          Perché allora l’intellectuel è rimasto fedele all’idea del valore-lavoro (e con questa: del plusvalore, dello sfruttamento, dell’ingiustizia sociale) anche se l’evidenza ci dice il contrario? Credo che alla base ci siano dei presupposti metafisici molto forti a cui l’intellectuel non rinuncia.

          Anche se l’idea che il desiderio è l’essenza dell’umano risale a Spinoza, una certa austerità filosofica ha avuto sempre una certa diffidenza nei confronti del desiderio. Vi ha sempre visto la fonte del capriccio, una sorta di patrizia scioperatezza. Meglio parlare di bisogni, di qualcosa di molto più pesante, necessario e quindi sacrosanto. E l’economia ci appare come qualcosa di estremamente solido, pesante, serio – “the dismal science”, la scienza lugubre[9]. Da qui l’idea che il valore economico e la ricchezza siano dovuti a qualcosa di pesante e serio come è il lavoro umano, che fa sudare, annoia, infligge lombaggini. Per Marx la sostanza (substantia) è questo sudore della fronte. Da qui l’idea per cui il vero valore economico, la sua sostanza, ciò che sta sotto ai prezzi, sia proprio questa fatica che produce oggetti in grado di soddisfare bisogni elementari: cibo e oggetti d’uso. L’operaio e il contadino producono valore - qui morale ed economia si fondono - ma non l’artista, la prostituta o il filosofo. E questo a dispetto del fatto che i servizi dell’artista, della prostituta o del filosofo possono essere molto ben remunerati.

          Il filosofo marxista tende a sentirsi, in quanto intellettuale, una sorta di saprofita, e sviluppa quindi una filosofia la quale esalta quel lavoro che lei o lui non fa, dato che per questo filosofo lavorare è zappare la terra o avvitare bulloni. La critica all’economia capitalista è sempre, sottilmente, un’auto-critica del marxista come bourgeois. Il quale può riscattarsi solo diventando “intellettuale organico al proletariato” nel senso di Gramsci. Invece, per l’economia di oggi non c’è differenza sostanziale di valore economico tra il mettere bulloni o tenere lezioni di filosofia. Il fatto che un avvitatore di bulloni rimanga povero mentre un filosofo marxista possa scrivere bestseller e diventare una persona più che agiata non sia un’ingiustizia sociale, è cosa difficile da capire per un intellectuel. Perché una lezione di filosofia può valere economicamente di più di una serie di chiavarde? Perché in certi casi una lezione di filosofia può essere desiderata – e far godere – più di una serie di chiavarde.

          In un certo senso, partendo dalla premessa meta-economica secondo cui il faticoso lavoro umano dà valore ai prodotti, il marxista pensa così di riparare a un’ingiustizia cosmica del mondo, al fatto insomma che la natura – e quindi la vita sociale umana – non è affatto eticamente corretta. Anche se questa scorrettezza è introdotta nella natura da una parte traviata di essa: dalla specie umana.

          Il pregiudizio fondamentale di gran parte dell’economia classica consisteva nel credere che il valore economico poggiasse sulla produzione o scambio di oggetti che soddisfano bisogni essenziali – mangiare, bere, ripararsi dalle intemperie… Ma siccome, come Aristotele aveva già visto, l’economia comincia quando si scambia ciò che si ha in più – ovvero, quando l’uso dei beni si socializza - possiamo dire che l’economia comincia invece proprio dopo che si sono soddisfatti i bisogni elementari. L’economia comincia con il “di più”. L’idea di Ricardo secondo cui il salario paga solo la sussistenza e la riproduzione del lavoratore è vaga, perché la sussistenza include sempre il bisogno… d’altro. Oggi avere un computer connesso a internet è una prima necessità. Al contrario, gli antichi filosofi cinici hanno dimostrato che per sussistere basta solo una ciotola. Tutto è superfluo, tutto è necessario. Per alcuni una lezione di filosofia può essere indispensabile quanto una ciotola.

          Una carriera filosofica è una impresa economica come tutte le altre, se la si vede dal punto di vista appunto economico. Per divenire un professore di filosofia ben pagato occorre un lungo e costoso investimento: anni di studi, comprare libri, fare concorsi, fastidiose trasferte… Costi in termini di danaro, tempo ed energia psichica. Chi intraprende una carriera filosofica spera di recuperare le spese e poter guadagnare, non diversamente da uno che intraprenda una carriera di allevatore. La conditio sine qua non è che ci siano abbastanza persone che desiderino ascoltare filosofia o abbastanza persone che desiderino mangiare carne bovina.

          L’economia classica ha dato per scontato questo primato dei beni elementari, pur essendo già noto all’epoca che motore dell’economia spesso erano i beni di lusso. Nel XV° secolo le prime grandi esplorazioni verso l’Asia, la circumnavigazione dell’Africa, ecc., erano spinte dal commercio di spezie, che erano per loro delle droghe. Le spezie erano quel dell’altro che, proprio perché raro, era fortemente desiderato. Ma per i primi economisti era imbarazzante ammettere che alla base del benessere ci fossero le spezie! I physiocrates trovarono più decente mettervi alla base i beni agricoli.

          Alla base del presupposto che il valore vero sia connesso alla soddisfazione di bisogni primari c’è indubbiamente una gerarchia morale: ovvero, che la povertà è la verità dell’essere umano. Il cristianesimo, prima del marxismo, aveva santificato la povertà. I bisogni del povero, insomma, sarebbero quelli buoni. Il resto, il desiderio del superfluo, è vizio. (Eppure nemmeno la povertà dispensa da un di più. La base sono il pane e il vino: il pane ci fa sopravvivere, il vino è una droga che ci dà solo piacere.) E questo in contrasto col fatto che la filosofia sia stata esaltata come eros in senso platonico, come desiderio di andare sempre oltre. Ma si immagina che il filosofo sia fuori del circuito economico, anche se anche lui vive di quello. Socrate, al contrario dei sofisti, non si faceva pagare. Oggi quasi tutti i filosofi, pagati per lo più dallo stato o da privati, sono quindi sofisti. Comunque, l’ideale filosofico resta proprio quello socratico: puro otium, ricerca disinteressata e signorile della verità.

          All’inverso, il mondo dell’economia, immaginato come mondo della soddisfazione dei bisogni primari, è visto come anti-filosofico. Il filosofo è sdegnato all’idea che il proprio lavoro possa essere valore di scambio. Preferisce immaginare che uno stato mecenatico lo paghi per dedicarsi alla meditazione, come il Pritaneo che Socrate reclamava per sé. Ma non è affatto così. Se nessun giovane si iscrivesse più a filosofia, lo stato cancellerebbe le facoltà di filosofia. E se tutti diventassero vegetariani – cosa oggi non inverosimile – non esisterebbero nemmeno più allevatori. Sia la carne commestibile che la filosofia hanno bisogno di domanda, di desiderio.

          Lo scambio mercantile si basa sul desiderio di ‘altro’, e implica sempre una certa penuria: se non mancassi di qualcosa, non scambierei. Ma d’altro canto devo ingegnarmi per disporre di quell’eccedente che mi consente, scambiandolo, di tappare la mia mancanza. Come si vede, abbiamo qui la definizione platonica di eros, desiderio: figlio di penuria (penia) e capacità di sbrogliarsela (poros). Questo perché anche lo scambio mercantile è un prodotto del desiderio umano, a sua volta espressione dell’impulso che anima ogni vivente.

8.

          L’idea che il lavoro sia la fonte del valore economico non è però solo il corollario di un materialismo metafisico, che vede alla base del valore qualcosa di materiale.  Questa idea rinvia a un’esigenza sempre molto importante nel mondo moderno, ripresa dalla fenomenologia: l’esigenza di un Lebenswelt, di mondo-della-vita, di ciò che dà valore ai valori. È l’idea che capire fino in fondo le cose sia giungere a un livello pre-categoriale, a qualcosa di originario nella storia della costituzione del nostro sapere. E questo pre-categoriale, questa fonte da cui provengono le strutture più o meno complesse della vita sociale, ha a che fare con la vita stessa come sorgente dei valori.

          Il mondo in cui viviamo – per il marxismo la società divisa in classi, per la fenomenologia credenze e saperi attraverso cui leggiamo il mondo – è alienato, perché non si ricorda di ciò che ha dato origine a questo mondo, non ringrazia l’origine. E ciò che ha dato origine è il lavoro vivo. Il marxismo si vuole un pensiero critico che al di là delle ideologie coglierebbe la verità della realtà sociale come conflitto tra classi. Fa appello a una natura pre-culturale, a una dimensione autentica del vivere e del pensare prima di ogni alienazione culturale.

          Insomma, il marxismo crede nella differenza fondamentale tra natura e cultura, al ritorno a uno stato naturale, pre-categoriale, del pensiero e della vita. Da rousseauiani, i marxisti credono che ci sia stato un comunismo primitivo, ovvero uno stato autentico, naturale, vero del vivere sociale a cui dovremmo in qualche modo tornare. Sfruttamento dell’altro e sperequazioni non vengono da una dimensione originalmente malvagia, hobbesiana, degli esseri umani; invece si presuppone che gli umani siano originariamente cooperativi, buoni, insomma comunisti. Il capitalismo è ad un tempo violenza e menzogna, ragion per cui ristabilire la verità rivoluzionaria è ipso facto superare la violenza. Il comunismo, in cima alla storia, restaura una socialità primitiva e quindi vera.

          In altre parole, il comunismo – che sarebbe sia all’inizio che alla fine della storia – sarebbe non solo un modo di vivere ottimale per gli umani, ma anche la verità della comunità umana.

9.

          Come si vede, l’intellectuel dà per scontata la divisione antropologica, che è anche divisione morale, tra natura e cultura, dove la cultura è alienazione. Il fine politico ultimo sarà di tornare a una cultura naturale. Questa alienazione per Marx è prima di tutto religiosa, in quanto l’essere umano attribuisce a divinità, cioè a feticci, quella potenza generativa che è degli umani stessi. Per il marxismo, il paradigma stesso dell’alienazione è religioso, ma a sua volta il marxismo si pone come riscatto di tipo religioso.

          Questa alienazione religiosa deriva in alienazione economica quando il valore di scambio prevale sul valore d’uso. Quando il danaro, potremmo dire, prevale sull’amore. Il capitalismo sarebbe una religione in cui il danaro prende il posto di dio. L’amore è ciò che ci porta a dar da mangiare agli affamati, a consolare gli afflitti, vestire gli ignudi, prenderci cura degli ammalati… Mentre una società mercantile è vendere cibo agli affamati e vestiti agli ignudi, farsi pagare dallo stato per curare gli ammalati, mettere una tariffa psicoterapica per consolare gli afflitti… Il comunismo, dove ciascuno avrà secondo i propri bisogni, è lo stato in cui la misericordia non sarà più l’eccezione ma la regola. La filantropia è lo stato natural-sociale degli umani, lo scambio di beni è lo stato cultural-sociale degli umani.

          L’intellectuel è convinto nel fondo che le società siano l’effetto di un cataclisma storico. Il cataclisma è l’appropriazione privata dei mezzi di produzione, analogon dell’alienazione prima religiosa e poi ideologica. Il marxismo vede il mondo storico come Aristotele vedeva il mondo fisico: effetto di una violenza originaria che ha spostato tutto, dove le cose non sono più dove dovrebbero stare. Il mondo sociale per Marx, come il mondo fisico per Aristotele, sono il prodotto di un disordine inaugurale, per cui ci siamo allontanati da quella fonte che è allo stesso tempo origine e verità del sociale.

          Il ricorso a una conseguenza logica della teoria ricardiana fu quindi l’occasione, per Marx, per far accettare la sua metafisica antropologica nel salotto buono, scientifico, illuminista in cui vivevano gli economisti, tutti britannici. Il salotto buono voleva non tanto indignazione etico-politica, voleva teorie sci-en-ti-fi-che cioè inglesi, come il darwinismo o come la teoria dell’elettromagnetismo di Maxwell, scienze britanniche. L’economia marxista è stato l’atto grazie a cui il comunismo è stato ammesso nel club esclusivo delle sciences dell’epoca. Ma gli intellectuels di oggi non si sono accorti che da un bel po’ il marxismo è stato espulso dal Rotary della scientificità.

          La visione storica marxista, non meno di quella biblica, narra in effetti una storia morale: è spiegazione e denuncia allo stesso tempo, spiega il sistema economico capitalista con un’ingiustizia (l’appropriazione indebita del plusvalore) e denuncia l’ingiustizia (le vistose diseguaglianze tra gli umani) con una spiegazione socio-economica. L’assetto del mondo è denunciato come carenza morale, la carenza morale è spiegata attraverso l’assetto del mondo.

          Insomma, Marx non ha la sfrontatezza di dire “I proletari vogliono di più!”, deve dire “I proletari vogliono di più perché è il loro dovuto”.  Le rivendicazioni operaie – salari più alti, migliori condizioni di lavoro, orari di lavoro più corti, ecc. – devono rientrare nel discorso legittimante della giustizia, non in quello sfacciato del “vogliamo di più!” E siccome nessuno sa bene che cosa sia giustizia, allora si costruisce una teoria economica “scientifica” del valore che pretende di quantificare esattamente l’ingiustizia perpetrata.

          E se times are out of joint, “i tempi sono fuori dai gangheri” – come diceva Amleto – allora l’intellectuel si propone, anche se obliquamente, come leader di un mondo raddrizzato. Si offre come colui che rimetterà a posto questo mondo devastato dal diluvio del valore di scambio. Riemerge qui la passione platonica di riformare la società secondo princìpi di cui solo il filosofo è il tutore. Il sogno del filosofo-re deriverà poi nel mito del Partito Comunista, del partito-filosofo che dall’alto della piazza Rossa ristabilisce l’ordine morale del mondo – è la svolta leninista e gramsciana. Un ordine che non si basi più sul traffico cieco dei desideri, ma sulla legittimità biologica del bisogno. Eppure il Partito Comunista, questo principe (Gramsci lo paragonò al principe di Machiavelli), alla fine si risolve in stalinismo, ovvero nel regno di burocrati paranoici. La filosofia, quando pretende di applicarsi direttamente alle cose del mondo, tende a risolversi in burocrazia, che è l’automazione dei concetti. Il principe non è più chi sta sul trono con una corona, è un funzionario dietro un tavolo.

Sergio Benvenuto


[1] Tra le eccezioni c’è l’opera di un economista, Piero Sraffa, celebre soprattutto per l’influsso da lui esercitato su Ludwig Wittgenstein. Il suo Produzione di merci a mezzo di merci (1960) è uno dei rari testi che riprenda il sistema teorico di Ricardo, alla base del sistema di Marx. Ma si tratta di un unicum che non ha avuto mai veramente seguito tra gli economisti.

[2] A. Smith, La ricchezza delle nazioni, UTET, Torino 1975, p. 132.

[3] J. A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo e democrazia, Etas Kompass, Milano 1967.

[4] A. Tagliapietra, a cura di, Sulla catastrofe. L'Illuminismo e la filosofia del disastro. Trad. di Silvia Manzoni e Elisa Tetamo, con un saggio di Paola Giacomoni. Bruno Mondadori, 2004.

[5] Aristotele, Politica, Libro 1, A, 9, 1257a.

[6] Gli economisti chiamano commodity money (moneta merce) un oggetto che abbia anche un valore d’uso, e moneta a valore legale la moneta convenzionale (carta, metallo vile) emessa dalle Banche centrali di paesi che battono moneta.

[7] Era questo in parte il caso del Giappone prima che fosse costretto nel 1854, sotto minaccia delle cannoniere americane, ad aprirsi ai commerci internazionali. I visitatori del Giappone all’epoca erano impressionati dal diffuso benessere dei giapponesi, isolati completamente nel loro arcipelago dal mondo esterno. L’obbligo ad aprirsi dice tutto della moderna società aperta: il capitalismo si basa su un’illimitata apertura.

[8] Cfr. W. Benjamin, “Il capitalismo come religione”, 1921, https://www.marxists.org/italiano/benjamin/capitalismo-religione.htm. Ho criticato l’impostazione benjaminiana, e la sua ripresa oggi da parte di molti, in: S. Benvenuto, "Il capitalismo e i cani. Danaro e desiderio",  aut aut, 391, settembre 2021, pp. 161-182. https://www.sergiobenvenuto.it/communitas/articolo.php?ID=185. Il teatro di Oklahoma, Castelvecchi, 2022.

[9] Così chiamata da Thomas Carlyle nel saggio del 1849 "Occasional Discourse on the Negro Question".

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