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Siamo dei e ci muoviamo nello spazio profondo […] mentre tu, pover'uomo, non sei niente di speciale devi anche lavorare e poi chiedere perdono. (L. Dalla, Siamo dei)

spergiuro e perdono

Con l’uscita nel novembre 2023 del volume edito da Jaca Book per la cura di Vittorio Perego, Lo spergiuro e il perdono. Seminario (1997-1998) continua la meritoria opera di pubblicazione, in traduzione italiana, dei seminari, in corso di edizione anche nell’originale francese, che Jacques Derrida ha tenuto all’EHESS [École des hautes études en science sociales] negli ultimi venti anni della sua vita, tra il 1984 e 2003.

Nell’“Introduzione generale” i membri del comitato editoriale diretto da Katie Chenoweth ci informano che La serie “Les séminaire de Jacques Derrida”, nella collezione “Bibliothèque Derrida”, comprende le seguenti sequenze tematiche: «“Nationalité et nationalisme philosophiques” (1984-1988), Politiques de l’amitié (1988-1991), seguiti dalla grande serie delle “Questions de responsabilité” (1991-2003), che affronterà nell’ordine il segreto (1991-1992), la testimonianza (1992-1995), ostilità e ospitalità (1995-1997), spergiuro e perdono (1997-1999), la pena di morte (1999-2001) e, alla fine, le questioni della sovranità e dell’animalità con il titolo “La bête et le souverain” (2001-2003)» (p. 8).

Il seminario fa dunque parte della lunga sequenza di incontri che Derrida, nel corso di dodici anni, dedica alle questioni della responsabilità. Sono precisamente gli anni in cui l’autore declina la decostruzione in una chiave più direttamente politica. Nello stile distintivo a cui ci ha abituati in tutta la sua produzione filosofica, espressione di una rigorosa strategia argomentativa e di scrittura, più che affrontare tematicamente tali questioni, come se fosse possibile isolarle come un oggetto di studio ben identificabile, dai contorni chiari e distinti, ciò che Derrida mette all’opera in questo seminario è tentare di mostrare ciò che accade quando si a che fare con lo spergiuro e il perdono. Chiariamolo subito, ciò che accade – la decostruzione – è sempre, insieme,evento singolare e sua riproduzione archiviale. «La ricerca – ci dice Derrida a tal riguardo – è impegnata dall’inizio del seminario a proposito di ciò che nel perdono, nelle scuse o nello spergiuro accade, si fa, avviene, succede e dunque di ciò che, in questo evento richiede non soltanto un’operazione, un atto, una performance, una praxis, un’opera, cioè il risultato e insieme la traccia lasciata di una supposta operazione, un’opera che sopravvive alla sua supposta operazione e al suo operatore, e che, sopravvivendogli, essendo destinata a questo sopra-vita, a questo eccesso sulla vita presente, implica fin dall’inizio la struttura di questo sopra-vita, cioè di ciò che taglia l’opera dell’operazione, questo taglio, questa interruzione gli assicura una specie di indipendenza o di autonomia archiviale e quasi meccanica (non dico meccanica, dico quasi meccanica), gli assicura il potere di ripetere di ripetizione, di ripetibilità, di iterabilità, di sostituzione seriale e protetica di sé a sé» (p. 370). 

Cos’è che accade, dunque, quando abbiamo a che fare con lo spergiuro e il perdono? Il lavoro che qui recensiamo ha precisamente il compito di rispondere a tale quesito. Esso riproduce il testo scritto e letto durante le dieci lezioni che Derrida tiene nel corso del primo anno di seminario. A ragione, i curatori dell’edizione francese Ginette Michaud e Nichols Cotton affermano che «la migliore presentazione del seminario […] è quella che Derrida stesso ha riportato nell’Annuaire de l’EHESS 1997-1998». Per restituire al lettore la vastità del programma, citiamo il brano per intero: «Abbiamo proseguito il ciclo di ricerche sulle attuali sfide (filosofiche, etiche, giuridiche o politiche) del concetto di responsabilità. Dopo aver privilegiato, come filo conduttore, i temi del segreto, della testimonianza e dell’ospitalità, tenteremo di affrontare la tematica dello spergiuro. Essa riguarda una certa esperienza del male, della malignità o della mala fede quando questa negatività assume la forma del rinnegamento. Con riferimento al pegno o all’impegno performativo “davanti alla legge” (promessa, fede giurata, parola data, parola d’onore, giuramento, patto, contratto, alleanza, debito, ecc.) vengono studiate nei differenti campi (etica, antropologia, diritto) e a partire da diversi corpus (esegetico, filosofico o letterario per esempio). Abbiamo tentato di collegare queste questioni del “male” a quelle del perdono. Se il perdono non è la scusa, né l’oblio, né l’amnistia, né la prescrizione, né la “grazia politica”, se la sua possibilità paradossalmente si misura solo in relazione all’imperdonabile, come pensare la “possibilità” di questa “impossibilità”? La traiettoria delineata quest’anno si è sviluppata attraverso letture (le due opere di Jankélévitch sul perdono e sull’imprescrittibilità, i testi di Kant sul diritto di grazia, i testi biblici o greci – platonici in particolare –, le opere apparentemente più letterarie, Shakespeare – Il mercante di Venezia o Amleto –, Kierkegaard, Baudelaire, Kafka), e attraverso l’analisi di alcune scene di “perdono” o di “pentimento” politici che si moltiplicano oggi nel mondo, in Francia o in Sud Africa, ma in verità in tutti i continenti (pp. 13-14)».

Come mette in luce Perego nel saggio introduttivo del volume “Il perdono ovvero la prova dell’impossibile”, l’operazione derridiana si serve di «due movimenti, due livelli di riflessione […]: uno fenomenologico descrittivo finalizzato a portare alla luce l’eidos del perdono con le sue inevitabili e feconde aporie, l’altro che invece attesta l’impossibilità di collocarsi al di fuori dell’esperienza del perdono dal momento stesso in cui Derrida si rivolge agli ascoltatori e assume l’eredità di questa parola “perdono”» (p. 25). 

Dopo aver magistralmente così descritto il primo movimento: «l’individuazione di un’eidetica è funzionale a portare alla luce l’identità di un concetto per delimitarlo dal suo opposto, per poi risalire al differire originario che produce queste stesse distinzioni concettuali e che le contamina, rendendole aporeticamente impraticabili, come se pur il necessario concetto sia sempre inadeguato a delimitarne l’esperienza», e con l’intento di mettere dei segnavia su quello che Derrida letteralmente chiama «percorso a zig zag o a slalom» (p. 264), Perego individua tre «feconde aporie», che così analizza.

1) «Il perdono non è la scusa, in quanto di fronte alla colpa il perdono non cerca attenuanti. […] La scusa invece persegue l’obiettivo di spiegare la colpa, […] e quindi di giustificare il colpevole, appunto cerca di discolparlo scusandolo» (p. 29).

2) «Il perdono è la figura dell’ultima parola, ma allo stesso è necessariamente la penultima o forse la prima parola. […] Non può esserci perdono parziale: “ti perdono” significa propriamente “non parliamone più”, “tracciamo una riga”, “voltiamo pagina. […] Allo stesso tempo il perdono è sempre anche la penultima parola o la prima, in quanto è proprio il performativo “perdono” che rende possibile un ri-cominciamento, una rigenerazione, una ricostruzione del legame interrotto» (p. 30).

3) «Il perdono non è la giustizia. Chi perdona non giudica, non applica un codice, vuole appunto porsi al di fuori del regime della giustizia […]. Eppure il perdono non può esimersi dal giudicare, in quanto si costituisce attraverso un giudizio inequivocabile: quello sul male compiuto»(p. 31). Nello spazio di questa recensione, per quel che riguarda le prime due aporie ci limitiamo a quanto scritto da Perego, sulla terza aporia, certamente in maniera inscindibile connessa alla prime due, invece, ci soffermiamo, con l’obiettivo di rispondere al quesito che, con Derrida, ancora ripetiamo: «Se il perdono non è la scusa, né l’oblio, né l’amnistia, né la prescrizione, né la “grazia politica”, se la sua possibilità paradossalmente si misura solo in relazione all’imperdonabile,come pensare la “possibilità” di questa “impossibilità”?»O, detto altrimenti, qual è il rapporto che passa tra lo spergiuro, il perdono, il diritto, la giustizia e il suo impossibile al di là?

Tentiamo una risposta immaginando, con le risorse offerteci dal seminario, una scena in quella che proponiamo di chiamare la cucina filosofica di Jacques Derrida. Una cucina filosofica, sì, proprio come quella che ospita il nostro scritto. Una cucina perché tutto qui ha a che fare con un certo gusto e con un certo ingrediente segreto. «Mercy seasons justice» [Il perdono (la clemenza, la misericordia) mitiga la giustizia]: sono le parole che Shakespeare, ne Il mercante di Venezia, mette in bocca a Porzia, la cristiana, la quale, mascherata da avvocato, sta cercando, con un’arringa pronunciata di fronte al doge, di salvare il mercante Antonio, il quale, per un’obbligazione con l’ebreo Shylock circa un prestito che non può più corrispondere, deve a lui cedere una libbra della sua carne, andando dunque incontro a morte certa. Con una mossa geniale, che è, come vedremo, una riproposizione della sua traduzione del termine hegeliano Aufhebung, Derrida traduce mercy seasons justice con «il perdono rileva la giustizia», fornendo tre giustificazioni:

«Prima giustificazione, giustificazione immediata con il gioco dell’idioma. Relever” innanzitutto ha il senso qui della cucina, […] si tratta di dare gusto, un altro gusto che si sposa con il primo gusto, restando lo stesso alterandosi, cambiandolo, ma dandogli più gusto, dandogli ancora più gusto del suo gusto; è ciò che si chiama “relever” nella cucina francese. Ed è proprio ciò che dice Porzia: il perdono rileva la giustizia, la qualità del perdono rileva il gusto della giustizia. […] 2) La seconda giustificazione, è che “relever” esprime bene l’elevazione: il perdono eleva la giustizia […]. Il perdono è un’ascensione della giustizia, una trascendenza, un movimento della giustizia che si trascende elevandosi così essa stessa al di sopra di se stessa. […] 3) La terza giustificazione di questa traduzione con “relever”, è che me ne sono servito trent’anni fa […] per tradurre una parola intraducibile di Hegel, “aufheben”, “Aufhebung” (ciò che nega conservando, ciò che eleva sopprimendo, ecc.) (pp. 109-110).

Il mercante di Venezia, insieme «trattato teologico-politico del perdono» e «opera sul giuramento e sullo spergiuro» (p. 93) rappresenta una delle vette di quella che Derrida chiama la «tradizione abramitica, del perdono cosiddetto infinito» (p. 313). Essa si contrapporrebbe – i condizionali sono qui d’obbligo perché Derrida in tutto il seminario revoca continuamente in dubbio la nettezza di queste distinzioni – a una certa tradizione greca e finanche a una certa tradizione ebraica, le quali sarebbero prive dell’esperienza del perdono. Tutto è come se, senza l’ingrediente segreto che «dà ancora più gusto», ovvero la clemenza o la misericordia, non fosse possibile alcun autentico perdono. La misericordia e la clemenza, elementi specificamente cristiani – nelle Confessioni di Agostino, sottolinea Derrida, la misericordia è «l’essenza stessa di Dio» (p. 194), – di cui sarebbero prive sia la tradizione greca sia quella ebraica, sono gli ingredienti segreti della ricetta del perdono, vale a dire ciò che permette al perdono di varcare l’orizzonte del diritto, della giustizia. Solo puntando all’imperdonabile, a questo al di là della giustizia, è possibile che il perdono non si confonda con l’oblio, l’amnistia, la grazia politica, la prescrizione. Ma è mai possibile una tale esperienza di perdono? È possibile perdonare l’imperdonabile? È possibile perdonare ed essere perdonati senza passare dalla pesante bilancia della giustizia?

Prima di affrettare una risposta chiariamo subito un punto fondamentale. Per Derrida, l'impossibile non è ciò che si oppone vis a vis al possibile, non è il suo contrario. L’impossibile è piuttosto ciò che risveglia, sollecita l'imprevedibilità del possibile. Per far sì che qualche cosa accada, per far sì che si dia un evento di perdono, il possibile deve anche essere impossibile. Ancora, dunque: come pensare la possibilità di questa impossibilità? 

In tutta la sua opera – e lo si potrebbe mostrare facendo molti riferimenti, ad es. ai testi sul Kafka di Davanti alla legge, agli scritti su Baudelaire in Donare il tempo, alla sua lettura di Amleto, ai testi dedicati a Blanchot, ecc. – Derrida accorda un certo privilegio alla «letteratura» proprio nella capacità di saggiare, nei diversi registri in cui essa può articolarsi, la possibilità di questa impossibilità, come se la letteratura fosse più adatta a pensare, più adattare ad accogliere l’impossibile. È come se la letteratura, afferma Derrida nella Quarta lezione del seminario, «vivesse della memoria di questo perdono impossibile la cui impossibilità non è la stessa dai due lati della supposta frontiera tra la cultura abramitica e la cultura greca. Dai due lati, non si conosce il perdono, se così posso dire, lo si conosce come limpossibile, ma l’esperienza di questa impossibilità, almeno questa è la mia ipotesi, vi si annuncia come differente. Intraducibilmente differente, senza dubbio, ma è la traduzione di questa differenza che forse qui tentiamo» (pp. 149-150).

Ecco allora che nella scena del Mercante di Venezia prima evocata, in cui Derrida individua niente meno che «un’altra letteratura che aggiusta il codice dell’idealismo speculativo con il codice del gusto e della cucina» (p. 161),si dà a vedere la possibilità di un’esperienza impossibile, l’evento di un perdono al di là del diritto, il cui al di là, tuttavia,si dà solo passando attraverso il diritto stesso – esperienza sempre aporetica del perdono: insieme evento e sua ripetizione archiviale. Se volessimo tentare di fissare in una formula la forza di questa feconda aporia, diremo che il perdono, se ce n’è, si dà sempre al di là e attraverso la giustizia. «Il perdono […] è giusto e insieme al di là della giustizia» (p. 310).      

Per saggiare ancora le risorse di questa possibilità dell’impossibile, oltre all’elemento del gusto, dell’ingrediente segreto letterario, aggiungiamo nella nostra cucina filosofica anche altri due elementi o gesti: 1) la ripetizione di alcune frasi di uso comune legate allo scusarsi o al chiedere perdono, del tipo: «Perdono, sì, perdono» (p. 45) «Perdono, grazie…» (p. 91) «Perdono per non voler dire» (p. 139); «Non c’è niente di male» (p. 226) «Mi scuso» (p. 263), «–Perdono, mi scuso. –Ma no, non c’è nessun male» (p. 297), frasi che non è difficile immaginare che vengano spesso ripetute in una cucina, per esempio in quella indaffarata di un grosso ristorante, e che Derrida, durante il corso di tutto il seminario, ripete, mima, interpreta, intona, saggiandone le risorse retoriche e concettuali; 2) un sottofondo musicale, una colonna sonora.

Di tutte le frasi di uso comune che Derrida fa giocare in quella scena di perdono che il seminario stesso mette performativamente all’opera, ce n’è una a cui l’autore accorda un particolare privilegio e su cui, per questo, vale la pena fermarci. «Questa espressione di tutti i giorni è “non c’è niente di male”» (p. 226). Ora, nella lingua francese, la frase che in italiano suona «non c’è niente di male» si può tradurre in due modi differenti: il n’y a pas de mal oppure, più comunemente, y a pas d’mal. Derrida afferma di preferire sempre la seconda traduzione, perché per mezzo di quell’ellissi che le separa trasforma la negazione in affermazione. Si badi bene, qui non è in gioco soltanto una “mera” questione linguistica – del resto, ogni buon lettore di Derrida sa bene che non esistono “mere” questioni linguistiche, che finanche gli elementi tradizionalmente considerati esteriori al linguaggio filosofico: l’intonazione, lo stile, il gesto, la traccia, tutta la pragmatica del linguaggio naturale, ecc. hanno, a ben vedere, una rilevanza decisiva per il suo statuto –, ma la differenza che corre tra queste due espressioni è precisamente la via, dovremmo dire, forse, l’interruzione della via: aporia, che conduce, attraverso la giustizia stessa, al di là di essa e in cui dobbiamo riconoscere, l’unica possibilità, se ce n’è, di un perdono infinito veramente degno del suo nome, della sua eredità. «Preferisco sempre dire di proposito: “non c’è male” [y a pas d’mal] invece di “non c’è nulla di male” [il n’y a pas de mal]. In questo modo cancello il «Il n’» (il nulla). Infatti […] con questa ellissi o questa elisione di “il n’y” cancello un po’ la negazione che incide nel “c’è”; sopprimo il “non” della negazione, almeno presso il “c’è”, come se dicessi, sì, c’è, sì, ya, sì, y a, ma cosa? Esiste “nessun male”. Nessun male, sì, c’è, esiste nessun male [ya pas d’mal], nessun male esiste: sì, y a» (p. 298).

A nostro avviso, questo decisivo passaggio del seminario fa ben comprendere la tempra affermativa del pensiero di Derrida. Certo, la decostruzione costantemente si impegna per una messa in risalto delle contraddizioni, delle aporie, dei disallineamenti, dei contrasti di ciò che accade,ma lo fa con un atteggiamento che mai cede alla ripetizione fine a se stessa di gesti consolidati, identici, da applicare a questo o quel campo del sapere o della cosiddetta realtà, non cede, detto altrimenti, al ripetersi coattivo e mortale, in una parola, alla fine, ma guarda sempre, certo con sguardo critico e disincantato, al darsi di un evento, in questo caso di perdono, come all’unica possibilità, se ce n’è, che la giustizia trovi posto in questo mondo out of joint. Non ci pare un grande azzardo utilizzare una frase utilizzata da Karl Rosenkranz nella più nota biografia di Hegel (Vita di Hegel), per descrivere la pur differente tempra affermativa del pensiero Derrida: «L’acutezza negativa di Hegel [sostituiamo con: “di Derrida”] aveva come base la sua immediata forza affermativa».

Ancora un saggio di questa forza affermativa nell’interminabile domandare derridiano: «È possibile immaginare un perdono o una scusa che consista nel dire “sì”, “Ja” e non “no”? È possibile affrancare la scusa e il perdono dalla negatività? Questa negatività (negazione, diniego o denegazione) è di pura forma, come la manifestazione esteriore o fenomenale di ciò che sarebbe per essenza affermativo, come il dono, per esempio? Se il perdono è un dono, non deve sfuggire, nel suo fondo, nel cuore della sua misericordia, a questa negatività che gli fornisce tuttavia il suo linguaggio? Non si deve negare questa negazione portando via l’economia dialettica di questo rilevare e di questa negazione della negazione?» (p. 315).

Per quanto concerne l’ultimo elemento che ci resta da immaginare nella cucina filosofica di Derrida, c’è un’attenzione costante durante il corso del seminario per certi movimenti musicali – sono quelli, ad esempio, che Derrida individua nel Kierkergaard di Timore e tremore attorno al silenzio di Abramo (v. pp. 142 e ss.) –, ma anche per «il sussurro, il bisbiglio, la dichiarazione appena udibile, la voce del silenzio» (p. 229), per «il grido che si riconosce alle bestie» o per il «rumore di un ronzio» (p. 304). Più che seguire la coda di rimandi che lega questi suoni, questi rumori, questi silenzi o quasi silenzi all’analisi che Derrida fa dei testi di Kierkegaard, Blanchot, Levinas, Nietzsche, in conclusione scegliamo a nostro gusto un pezzo che, chissà, magari Derrida conosceva, e avrebbe pure volentieri ascoltato nella sua cucina filosofica.

Come visto, l’ellissi che «cancella un po’ la negazione che incide» nella frase di uso comune «non c’è niente di male» [y a pas d’mal] è uno dei luoghi fondamentali del seminario. È lo stesso Derrida, del resto, a sottolinearne l’importanza quando afferma: «l’analisi di questa negazione, di questa sottile modalità negativa, è il compito stesso di questo seminario» (p. 315). Data, dunque, l’importanza dell’ellissi – ricordiamo che il saggio che chiude una delle opere fondamentali di Derrida, La scrittura e la differenza titola propria “Ellissi” – scegliamo un pezzo che Sam Rivers, sassofonista statunitense, compone per il suo album del 1964 Fuchsia Swing Song e che proprio così si intitola: Ellipsis

Con la speranza non ingenua che il mondo diventi più giusto, concludiamo augurandovi: buon ascolto e buon appetito. Il faut bien manger. Dalla cucina filosofica di Derrida, per ora, è tutto.  

Gian Marco Galasso

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