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Le immagini pensano senza parole, attirando coloro che le guardano in una sospensione silenziosa carica di pensieri e storie. Ci invitano non solamente a osservarle ma ad ascoltarle, esplorarle e analizzarle. Ma che cosa dicono e in quale forma ci parlano? Lo storico dell’arte Daniel Arasse, nel celebre In dettaglio. La pittura vista da vicino, sostiene che la vera esperienza del piacere visivo di un’opera pittorica necessita di uno sguardo acuto e prossimo. Smontando il principio tradizionale della distanza classica in pittura, secondo cui un quadro debba esser visto da una lontananza tale da apprezzarne compiutamente la bellezza e l’armonia dell’insieme, Arasse dimostra che dentro l’ordine generale di ogni quadro s’annidano dettagli che sfuggono a quest’ordine, e che arrivano a sovvertirlo e ad annullarlo. Queste apparenti zone d’ombra vengono percepite soltanto se si guarda da vicino. Dalla distanza ravvicinata si colgono gli elementi “segreti” del quadro, quelli a cui il pittore ha affidato il suo messaggio e che riservano le vere occasioni di Einfühlung, l’empatia che si prova davanti a un’opera pittorica e fonte del godimento estetico. Da questa visione ravvicinata molti capolavori a tutti noti si scoprono come “inediti”, visti per la prima volta.

Ma che cosa succede quando a osservare la pittura da così vicino è uno sguardo che esce dai confini battuti e approda alla disciplina del concetto? Che cosa può cogliere la filosofia in un Turner o un Pollock che la pittura stessa non è in grado di vedere? Detto altrimenti, è possibile produrre un discorso filosofico a partire dalla pittura?

Sulla pittura di Gilles Deleuze, edito dalla celebre casa editrice Les Editions de Minuit, è una raccolta di otto lezioni che il filosofo ha tenuto dal marzo al giugno 1981 all’università di Saint-Denis, interamente consacrate alla questione della pittura. Con lo stile che lo contraddistingue, Deleuze getta una nuova luce sull’attività creatrice del singolo pittore e della pittura in generale, interrogandosi sul rapporto e sul gioco di forze tra l’artista, le forme, la tela e i colori. La tesi che fa da fil rouge all’intero corso è l’idea secondo cui la pittura sia una pratica di ricerca filosofica in quanto capace di produrre e fornire concetti nuovi alla filosofia stessa. I pittori - ci si chiede - possono dirci qualcosa su delle esperienze come il vedere, il colore, le linee e le forme? Nel tentativo di instaurare un legame di tipo concettuale tra le due discipline, si tratta di «costruire concetti che sono in rapporto diretto con la pittura, e con la pittura solamente» (p. 18).

Deleuze parte da un’ipotesi, o sarebbe più corretto dire un’impressione: ciò che ci colpisce in un quadro, quando lo osserviamo, è la sensazione di squilibrio, caduta e instabilità che anima la tela e che egli, non a caso, chiama catastrofe (catastrophe). Legando strutturalmente tale nozione all’atto pitturale, il filosofo ipotizza che al di qua del quadro, in una dimensione spazio-temporale che potremmo definire “virtuale”, esiste un momento che il pittore vive necessariamente come distruttivo. Il quadro è dunque il prodotto di una distruzione a cui l’artista non può sfuggire e che gli si manifesta nella forma di un crollo e collasso del mondo visivo; un’interferenza, un disturbo e accecamento delle coordinate visuali; un generale stato di disequilibrio. La catastrofe non è né la pittura in sé né il quadro ma una struttura di carattere ontologico che pregiudica l’atto di dipingere, senza cui quest’ultimo non potrebbe darsi (p.21). Deleuze suppone dunque che l’atto pitturale rinvii a un momento pre-pitturale in cui l’artista, passando per la catastrofe, fa uscire qualcosa: la propria opera. Tutto questo non è nella mente del pittore ma nel quadro; è il tempo del quadro. Mettendo in rapporto la pittura con la dimensione spaziale e temporale, lo sguardo non esce dai confini della tela: essa, per la sua semplice cosalità, chiama in causa una spazialità che le è propria e che varia secondo i diversi stili di pittura - la tecnica su cavalletto tipica dell’epoca classica presuppone un uso e una concezione dello spazio ben differente dalle pitture all over, in cui gli elementi pitturali “fuoriescono” dai bordi del quadro (p. 125). Accanto alla componente spaziale, con gesto innovante, il filosofo individua anche quella temporale: la pittura non entra in rapporto solo con lo spazio ma anche con il tempo - un tempo proprio a essa. Il quadro viene così concepito come se fosse una sintesi temporale: c’è un tempo propriamente pitturale che coincide con l’atto stesso di dipingere. Ma, ci si chiederà a ragione, se la catastrofe rappresenta il passaggio obbligato e necessario perché ci sia il quadro, che cosa produce esattamente? La catastrofe fa nascere il colore: esso altro non è che il prodotto dell’evento catastrofico. L’esempio tipico e fondamentale è Turner, nelle cui opere Deleuze vede tutta la potenza catastrofica del colore: in esso «si passa da un quadro che rappresenta in alcuni casi catastrofi come valanghe e tempeste a una catastrofe infinitamente più profonda che concerne l’atto di dipingere […] E questa catastrofe è inseparabile da una nascita. Nascita di cosa? Del colore» (p. 23).

Posti i presupposti della ricerca, si tratta dunque di analizzare il rapporto profondo tra l’atto pitturale e la catastrofe. Pervenirvi significa riuscire a rispondere a una domanda specificatamente filosofica: esiste un concetto pitturale? Il concetto che Deleuze sente più vicino alla pittura è quello di diagramma (diagramme). Chi ha una certa familiarità con i testi deleuziani percepirà che non si tratta di una nozione del tutto nuova: essa infatti appare per la prima volta in Mille Piani e, come lo stesso filosofo suggerisce (Deleuze 2017, p. 177 e p. 265), si ispira alla teoria dei diagrammi di Pierce e al diagramma foucaultiano di Sorvegliare e Punire. Tuttavia, occorre liberare il campo da eventuali influenze e conoscenze anteriori poiché il diagramma qui inteso è pensato esclusivamente in funzione alla pittura. Se si volesse dare una prima e sommaria definizione si potrebbe definire il diagramma come la pura concettualizzazione della catastrofe; esso altro non è che la maniera attraverso cui il pittore affronta la catastrofe creando la propria opera. Per entrare nel dettaglio e capirne il senso profondo, bisogna mobilitare un secondo concetto, che Deleuze prende in prestito da Klee e Cézanne, ossia la nozione di caos (chaos). Quest’ultimo traduce la condizione pre-pitturale di crollo e collasso del mondo visivo che necessariamente l’artista affronta. Ogni quadro conserva virtualmente un rapporto con una forma caotica di vitalità percepibile secondo una logica irrazionale che rompe con la razionalità classica. «Il caos non è relativo a niente. Non è l’opposto di niente, prende tutto. Mette quindi in discussione fin dall’inizio ogni pensiero logico del caos» (p. 38). Citando Klee, il filosofo aggiungerà che il caos è esattamente «il concetto non concettuale della non-contraddizione. Il caos è l’assoluto» (Ivi). Ora, dinanzi a questa disturbante e accecante irruzione caotica entra in azione il diagramma, disvelandosi agli occhi del pittore come una forza creatrice da modellare e filtrare in una forma unica e singolare che sarà poi quella dell’opera. In altre parole, il diagramma è il modo attraverso cui il caos viene “filtrato” dal pittore per accedere allo stile che lo contraddistingue; esso permette di trasformare, modellare il caos per farne un’espressione visibile. Di conseguenza il collasso è necessario per spazzar via, cancellare tutte le immagini pre-esistenti, i clichés, i simulacri che incombono e condizionano l’immaginazione di colui che dipinge. «Il pittore è come se si mettesse nella situazione di una creazione del mondo o di un cominciamento del mondo. Il mondo della luce-colore» (p.51). Lo scopo del diagramma sarà dunque di annullare ogni tipo di narrazione e figurazione, che virtualmente pregiudica già il quadro, per far uscire qualcosa di completamente diverso: il fatto pitturale. Mostrando che esiste un specie di logica interna alla pittura, Deleuze individua tre momenti precisi e distinti condizionanti la dimensione pre-pitturale: il primo è quello che abbiamo chiamato caos-catastrofe, ossia la lotta necessaria per sopprimere ogni dato figurativo pregiudicante; il secondo è l’instaurazione del diagramma che permette di filtrare e cristallizzare i clichés e il terzo è l’insorgenza del fatto pitturale. L’idea che vi siano tre tempi che scandiscono l’attività creatrice dei pittori disvela una particolare sintesi temporale in cui il prima è inseparabile dal dopo e dal durante: «Ancora una volta è l’avventura temporale del quadro che provo a fare. Non vivo il quadro come una realtà spaziale. Lo vivo temporalmente, questa specie di sintesi del tempo esclusivamente della pittura: il prima, il diagramma e il dopo» (p. 113).

Una volta individuati la natura e lo scopo del diagramma, si tratta di capire in quale forma e secondo quale stile esso viene modellato dai pittori stessi. Tessendo una cartografia pittorica del concetto di diagramma, Deleuze individua tre correnti artistiche, ad ognuna delle quali corrisponde una particolare categoria estetica: l’espressionismo astratto, l’astrattismo e la pittura figurativa. Questi ultimi non sono pensati secondo un criterio storico ma come delle vere e proprie posizioni che i pittori occupano rispetto al diagramma. La prima posizione diagrammatica che il filosofo prende in esame è l’espressionismo astratto della scuola americana (Jackson Pollock, Kenneth Noland, Morris Louis) in cui il diagramma emerge in tutta la sua potenza estrema e disturbante senza mai appiattirsi e scomparire del tutto. Gli espressionisti, osserva Deleuze, sfiorano il caso: il diagramma prende tutto pur restando produttore di qualcosa di fantastico; «la tendenza dell’espressionismo astratto è di avvicinare il diagramma al caos, ma mi sembra ovvio che non cadono mai nel caos» (p. 116). Guardando un Pollock, ciò che ci colpisce è il fatto che vi sia una negazione completa dell’esistenza organica della tela sul cavalletto (p. 125). Nei suoi quadri, tipici delle pitture all over, si assiste a una conversione totale dello spazio: la linea comincia già prima del quadro; essa è già virtualmente presente ancor prima di essere tracciata. Il quadro capta solamente ciò che riesce della linea che non ha né inizio né fine. Pollock converte l’orizzonte (ottico) in suolo (tattile) e il diagramma pitturale è uno spazio puramente ottico (p. 148-149).

La seconda posizione diagrammatica, che rinvia alla corrente dell’arte astratta, affronta il diagramma con un approccio diametralmente opposto rispetto a quello dell’espressionismo. I pittori astratti, per evitare lo scivolamento nel caos, sostituiscono il diagramma con un codice propriamente pitturale. Essi affrontano il diagramma traducendolo in elementi di codificazione che siano anche pitturali. Chi riuscirebbe a distinguere, osserva Deleuze, un triangolo di Wassily Kandinsky da uno geometrico? Ogni pittore inventa un codice immanente alla pittura secondo delle unità significative scelte solo ed esclusivamente dall’artista, come le linee geometriche di Kandinsky o l’alfabeto plastico di Auguste Herbin (p. 152-154). Se, dunque, l’espressionismo astratto affronta al massimo il caos fino al punto di invadere il quadro senza mai riuscirci, al contrario, l’astrattismo lo affronta al minimo, comprimendo tutto l’oscuro, l’inconscio e l’involontario presente nel diagramma con l’applicazione di un codice pitturale. Entrambe le posizioni, per un verso o per un altro, sfiorano la catastrofe.

La terza categoria estetica è quella dell’arte figurativa di Paul Cézanne, Vincent Van Gogh e Paul Gauguin ed è, contrariamente alle altre, “la più moderata” in quanto capace di moderare il caos. Il diagramma, infatti, non viene né massimizzato né minimizzato ma agisce come tale: dal caos emerge la figura che non è semplice riproduzione ma immagine senza somiglianza. Prendendo in prestito un’espressione di Jean-François Lyotard, Deleuze non parla di pittori figurativi ma “figurali” (peintres figuraux, non pas figuratifs [p. 123]) poiché ciò che insorge dal diagramma non rinvia a nient’altro se non alla pura potenza del diagramma. Il diagramma produce il puro figurale, la Figura. Rompendo con qualsiasi forma di soggettività o riferimento astratto, i pittori affrontano lentamente il caos presente nella tela abitando, a modo proprio, una delle tre dimensioni diagrammatiche. Da Turner, Michelangelo, passando per Van Gogh, Bacon e molti altri, il gesto deleuziano è rivelatore: l’arte, e più specificatamente la pittura, è là per rendere visibile l’invisibile.

Laura Ercoli

Riferimenti bibliografici

Arasse, D. (2023), Il dettaglio. La pittura vista da vicino, tr. it. di Pino A., Milano: Il saggiatore.

Deleuze, G. (2004), Francis Bacon. Logica della sensazione, tr. it. di Verdicchio S., Macerata: Quodlibet.

Deleuze, G. (2017), Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, tr. it. di Passerone G., Napoli: Orthotes.

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