Riproponiamo in veste di longform l'introduzione di Carlo Deregibus all'ultimo numero di Philosophy Kitchen, PK#19 - Fuori Tema I (scaricabile qui), apparsa con il titolo Il crepuscolo dei raminghi. Fenomenologia della ricerca contemporanea (qui in versione PDF). La preparazione di questo numero ci ha spinto a riflettere sul significato del fare ricerca accademica oggi e, in senso più intimo, sul senso che questa attività può, o non può più, avere per chi vi si impegna quotidianamente.
Polverizzata
Mai nella storia si è scritto tanto.
Romanzi, racconti, persino poesie, stanno conoscendo una fioritura insospettata e forse insperata, favorita dalle pratiche di self-publishing (Facchini 2022): ma è anche e forse soprattutto nel campo della conoscenza che la crescita è incredibile. In tutti i variegati e sempre più frammentati campi del sapere, che si tratti delle cosiddette STEMM (Science, Technology, Engineering, Mathematics, Medicine) o delle HASS (Humanities, Arts, Social Sciences), il tratto più evidente della produzione accademica è infatti ormai il suo costante, esponenziale, inarrestabile incremento quantitativo. Un vero e proprio boom arrivato, ad esempio, a sfondare agilmente la soglia dei 5 milioni di articoli scientifici pubblicati all’anno, sparsi su oltre 45.000 riviste – erano la metà solo un decennio prima (Curcic 2023). Naturalmente l’articolo, per quanto variamente definibile, è la principale forma scritta dell’accademia e, quindi, il principale mezzo di diffusione e disseminazione: ma al suo fianco, soprattutto nelle HASS, resiste la monografia, pure in grande crescita. Ad esempio nel 2020, un’indagine tra le maggiori case editrici inglesi (di cui quindici University Press), segnalava oltre 32.000 volumi pubblicati, ben 8 volte di più rispetto a vent’anni prima (Shaw et al. 2023). Che poi, a dir la verità, questi numeri potrebbero essere largamente al ribasso: perché ovviamente derivano da banche dati la cui completezza è eccezionalmente variabile a seconda del luogo, del contesto, della disciplina e dell’accuratezza della ricerca. Ad esempio, l’autorevole DBLP.org, catalogava nel 2022 oltre 2,6 milioni di articoli e 120.000 monografie, oltre a proceedings e altre pubblicazioni che portavano il totale a sfiorare i 6,5 milioni di contributi: e questo solo considerando, con una lettura trasversale sulle STEMM, quelli riguardanti la Computer Science! Quindi probabilmente, con tracciamenti altrettanto precisi su tutti gli argomenti, tra articoli, libri, atti, e note, la produzione scientifico-accademica annua supererebbe di slancio i 20 milioni di contributi, o magari persino i 50. Ma l’esatto numero di milioni non conta troppo: ciò che invece conta è l’ordine di grandezza cui siamo giunti. Tutto lo scibile umano ai tempi della Biblioteca di Alessandria stava in 500.000 rotoli o poco più: ogni anno noi produciamo 10, 20, 50 volte tanto.
Certo, quelle milioni di pubblicazioni potrebbero anche non essere tante, se guardate in un’ottica di sistema della ricerca: il loro numero parrebbe infatti proporzionale a quello dei ricercatori. Solo che, come per i prodotti della ricerca, anche il numero degli autori è ampiamente variabile a seconda delle banche dati su cui il calcolo si basi. Così alcune statistiche riportano un roboante totale mondiale di quasi 10 milioni di ricercatori (Ioannidis 2023), numero sensatamente proporzionale ai contributi ma ottenuto computando chiunque abbia anche solo il proprio nome su una banca dati. Le statistiche Eurostat disponibili su ec.europa.eu riportano un numero più basso, sotto ai 6 milioni globali, di cui circa 2 in Europa: tuttavia anche questo computo riunisce indifferentemente il mondo accademico e quello della Ricerca e Sviluppo (o R&D), che anche solo per ragioni di segreto industriale contribuisce in modo trascurabile alla produzione di articoli e volumi, e per di più include anche tutto lo staff tecnico e di supporto. Alla fine, depurando i dati, risulta una stima di circa 250.000 ricercatori europei in ambito universitario e di centri di ricerca: supponendo, piuttosto spensieratamente, una dinamica lineare nei dati, il totale mondiale non supererà le 800.000 unità.
Dopodiché, pur ipotizzando salomonicamente 1 milione di autori e 10 milioni di contributi annui, mettere in relazione autori e prodotti rimane un esercizio di insospettabile fantasia. Ad esempio perché, storicamente nelle STEMM ma sempre più anche nelle HASS, gli articoli e i libri hanno spesso firme multiple, magari perché si tratta di lavori svolti in team – per i curiosi, l’hyperauthorship finora più clamorosa ha visto 5.154 autori collaborare a un singolo articolo, ovviamente costituito per 3/4 dall’elenco stesso di nomi (Aad et al. 2015, cfr. Cronin 2001). Tuttavia il meccanismo di firma multipla si presta perfettamente a una devianza artificiosamente tesa a moltiplicare le pubblicazioni: se tre autori si alleassero co-firmando tutte le loro pubblicazioni, è ovvio che nel curriculum di ciascuno ne figurerebbero il triplo che se agissero in solitaria, con ovvi vantaggi – come dire che il branco sopravvive al singolo. Questo vantaggio, in termini curriculari, viene ormai scientemente coltivato attraverso una tattica tanto ovvia quanto entropica, cioè frammentando il contenuto di un paper: in fondo, se si scopre qualcosa, perché pubblicare un solo articolo, quando se ne possono ricavare una decina? Basterà ridurre il contenuto effettivo dell’articolo, occupando il resto con la costruzione dello stato dell’arte (cfr. West & Bergstrom 2021). Complemento indispensabile alla frammentazione è l’autocitazione, un doping nel quale peraltro i ricercatori italiani paiono insuperabili (Baccini 2023). Il combinato disposto di queste tendenze è così perverso che alcuni studiosi – in rapida crescita – arrivano a firmare addirittura oltre 200 pubblicazioni all’anno (Ioannidis et al. 2023).
Dunque, non solo si scrive tanti in termini assoluti, ma la scrittura ha ormai una dimensione quasi patologica.
Misurabile
Ma non ci si dovrebbe stupire: nella ricerca contemporanea, la regola è publish or perish (Rawat & Meena, 2014).
Queste statistiche esistono non perché qualche bottonologo abbia deciso di sfogare la sua insaziabile fame computando tutto lo scibile umano, ma perché su di esse si basano ranking e valutazioni. Non inutili sono quindi gli scritti che affollano il mondo, almeno non nel senso dato oltre due secoli fa dall’abate Dinouart (1989): solo, la loro importanza va compresa non dal punto di vista dell’enciclopedia e secondo un metro contenutistico, ma dal punto di vista del singolo e secondo il metro della carriera. Avanzamenti, finanziamenti, riconoscimenti, sono infatti ormai strettamente legati alla produttività, in un’incontrollata frenesia che, letteralmente, pesa i paper – benché elettronici – invece di guardarne i contenuti (Hanson et al. 2023). A riscontrare questa deriva c’è l’abitudine, ormai regola nelle STEMM e in generale nelle discipline dette “bibliometriche”, di stabilire il valore dei contributi e, quindi, dei relativi autori sulla base di criteri oggettivi. Nascono così commissioni dedite a decidere il valore o la classe delle riviste e, parallelamente, metodi analitici che assegnano punteggi ai ricercatori secondo indici e statistiche – il più noto dei quali è l’H-index, basato sul numero di citazioni (Hirsch 2005). A dire il vero, la validità di simili indici viene spesso messa in dubbio (cfr. Koltun & Hafner 2021), e qualche perplessità potrebbe sorgere anche solo considerando che Andrew Wiles – colui che ha dimostrato il Teorema di Fermat – avrebbe un H-index di 15, e Albert Einstein non supererebbe il 56 (Gingras et al. 2020): numeri molto distanti da quelli dei più performanti scienziati in attività, ormai lanciati verso il 300 – per chi voglia seguire la gara, molto serrata, consiglio il sito https://research.com/ (cfr. Giudici & Boscolo 2023). Ora, la tecnicalità cui il mondo della valutazione può giungere è tale da essere inaccessibile alla descrizione verbale (cfr. Ioannidis et al. 2019). Ma se la questione si limitasse a una gara, se ne potrebbe anche sorridere: in fondo, l’esigenza di stilare classifiche è innata nell’animo umano, che si tratti della bontà di un vino o delle prestazioni di un atleta, dello scatto di un’automobile o dei risultati di un trader. Solo che gli effetti di questo sistema sono ampi e disturbanti in molti sensi. Perché quando il lavoro di ogni scienziato viene distillato in un numero, lo scienziato diventa quel numero – chissà che, come nelle gare di arti marziali dove (ahimè) ci si presenta dichiarando il colore della propria cintura, anche nei convegni non ci si introdurrà con il proprio punteggio. E la logica dei ranking e delle misure non si limita alla dimensione individuale: il peso dei singoli si cumula infatti in gruppi di ricerca, dipartimenti, atenei, secondo una modalità incrementale che non lascia scampo. Ogni dimensione istituzionale ha ormai i suoi ranking, come la quadriennale Valutazione della Qualità della Ricerca (VQR) – che valuta atenei e dipartimenti a livello italiano – o i vari QS World University Rankings (QSWUR), Academic Ranking of World Universities (ARWU) o Times Higher Education (THE) – che li classificano a livello mondiale. E come nel caso dei singoli, la sempre maggiore rilevanza dei ranking ha prodotto l’effetto distorsivo di trasformarli da misura a obiettivo, da aggettivazioni a sostantivazioni, da mezzo a fine – una whiteheadiana “concretizzazione mal posta” tanto classica da essere codificata come legge di Goodhart.
Uno studio UNESCO di oltre dieci anni fa, oltre a mettere in luce molti di questi problemi, mostrava che già allora gran parte delle università faceva le proprie scelte strategiche solo in base a quanto esse avrebbero migliorato i ranking (Marope et al. 2013). Famoso il caso francese dell’Université Paris-Sanclay, assemblata nel 2014 attraverso la fusione di 19 atenei e centri di ricerca, “consorziati” con il solo fine di classificarsi meglio nei ranking – obiettivo peraltro solo parzialmente riuscito (Le Nevé 2020, Monaco 2022). Spudorato il ricorso delle università americane al land-grabbing per ottenere fondi e, cogliendo due piccioni con una fava, migliorare i ranking nel rapporto edifici/superficie – una pratica che si sta ora estendendo anche al di fuori degli Stati Uniti (Vidal & Provost 2011, cfr. www. landgrabu.org). Attuale il gran rifiuto dell’Università di Utrecht che, pur ben piazzata nei ranking, ha deciso di sottrarsi a una logica competitiva diventata asfissiante, sfilandosi dal THE (Knobel 2023). Casi estremi, certo, ma sintomi di un atteggiamento comune e, forse, di un problema più profondo (Brink 2018). Ma le critiche sembrano scarsamente efficaci. Un recentissimo rapporto della federazione degli atenei olandesi, Universities of The Netherlands (UNL), denunciava gli effetti drammatici dei ranking, e ad esso era seguita un duro comunicato del presidente di UNL che dichiarava la volontà di staccarsi progressivamente dal giogo dei ranking: curiosamente però, il report è immediatamente scomparso dal sito web ufficiale della federazione, sopravvivendo solo nelle tracce di quei siti abbastanza rapidi da rilanciarne i giudizi, come Recognition & Rewards (2023) (per chi voglia recuperare il report nei meandri del dark web l’indirizzo è: https://www.universiteitenvannederland.nl/en_GB/nieuws-detail. html/nieuwsbericht/915-p-dutch-universities-to-take-different-approach- to-rankings-p).
Una mossa inquietante, certo, ma che non dovrebbe sorprendere. Non solo di ideali, scienza e concetti, si tratta infatti: ma anche – anzi, quasi solo – di vile denaro.
Neoliberale
Si consideri un’università del cosiddetto primo mondo: essendo parte di un ecosistema altamente sviluppato, potrebbe proficuamente concentrarsi su ricerca di punta e su trasferimento tecnologico (la seconda e la terza missione universitaria). Al contrario, atenei di paesi meno avanzati potrebbero (dover) essere più concentrati sulla didattica (la prima missione universitaria). Ma guarda caso, le missioni non pesano allo stesso modo nei ranking, che così finiscono per riflettere il background socioeconomico degli atenei, in una polarizzazione in cui le élite sono sempre più esclusive e gli atenei più svantaggiati – in senso economico come geopolitico – sono marginalizzati (Downing 2012, Hazelkorn 2019). Una dinamica che premia solo poche centinaia di atenei, relegandone decine di migliaia ad un’anonima mediocrità. E si tratta di una dinamica tanto globale quanto locale: in Italia, il divario tra atenei del nord e del sud è in continua crescita anche perché una consistente parte del Fondo per il Finanziamento Ordinario delle università è assegnata su base premiale (cfr. Camera dei Deputati 2021, Mariani & Torrini 2022). Cioè proprio in base ai ranking. E questa quota continua di fatto a salire: ufficialmente dal 2% del 2008 al 30% del 2023, ma di fatto anche di più – sommando le quote per iniziative che a loro volta dipendono da merito e ranking come i Dipartimenti di Eccellenza, si arriva oltre il 35% (CUN 2023).
Così, la crescita delle università è proporzionale alla ricchezza locale o sovra-locale e non, come certe retoriche vorrebbero, ad essa prodromica: infatti dominano le classifiche gli atenei statunitensi e nord-europei affiancati, negli anni recenti, da quelli dell’estremo oriente e del sud-est asiatico. È una corsa che ognuno corre come può. Da un lato, promuovendo investimenti pubblici nei soli atenei potenzialmente forti, concentrandovi le risorse – come nel giapponese Top Global University Project – magari a scapito di quelli deboli e ignorando gli esiti sulla formazione – emblematico in questo il caso cinese (De Giorgi 2007). Dall’altro, attraverso politiche di internazionalizzazione, che troppo spesso poco guardano agli esiti in termini di qualità e opportunità di crescita, e peraltro sono spesso portate avanti senza chiari indirizzi etici (Van Onselen 2023). Ma soprattutto, con un vero e proprio mercato dei ricercatori: una headhunting dove la più ambita skill (naturalmente gli anglicismi dominano) è quella di conquistare grant, cioè fondi di ricerca (cfr. Stoff 2020): i risultati potranno poi essere anche modesti o addirittura irrilevanti, purché il flusso di denaro continui ininterrotto (cfr. Jacob & Lefgren 2011, COPE & STM 2022, Chen 2023).
Nulla di tutto ciò dovrebbe stupire: gli organismi di certificazione sono, a loro volta, entità impegnate a creare e dominare quote di un mercato, in modo analogo, per dire, alle agenzie di rating finanziario o di certificazione energetica. Per farlo, certo lavoreranno a un’offerta che possa intercettare le varie fasce di utenza: ad esempio, per attirare gli atenei meno performanti, in aggiunta al ranking principale (di cui ogni audit costa qualche decina di migliaia di dollari), QSWUR ha creato anche un programma secondario, QSStars, che a costi lievemente inferiori concede riconoscimenti su temi specifici, in modo che ogni università possa vantare almeno una qualche qualità (Guttenplan 2012). Ma soprattutto, si impegneranno per la legittimazione del mercato dei ranking e la loro naturalizzazione. Questo è infatti il vero capolavoro neoliberale: il passaggio da misura, a pratica, a principio morale, a norma, in un sistema coerente e completo. Così nella ricerca, il mercato è stato creato con la descrizione politica della sua utilità in termini di impatto sociale (Blasi 2023); da qui deriva logicamente una definizione di qualità come performance; ne segue una necessità morale di favorire i meritevoli che legittima, a quel punto, una promozione normativa di quelle medesime pratiche di misura, rendendole obbligatorie.
La logica neoliberale emerge anche retrocedendo dai misuratori ai fenomeni misurati: in fondo, se i ricercatori sono costretti a pubblicare tantissimo per rispettare i meccanismi valutativi, perché farglielo fare gratis? Così, in questa continua crescita, il mercato delle pubblicazioni vale ormai 28 miliardi di dollari all’anno, sostanzialmente generati da fondi di ricerca (STM 2021). Il modo più ovvio e insieme meno palese per avviare il travaso di fondi pubblici ai privati è infatti, banalmente, la pubblicazione di un libro, o magari di una collettanea di testi, se non si ha l’energia o lo 12 spunto per una monografia inedita: in ogni caso, l’uscita sarà quasi sempre direttamente pagata dall’autore per centinaia o a volte migliaia di euro o dollari. Lo stesso accade per gli articoli scientifici, per la pubblicazione dei quali gran parte delle riviste richiede compensi di analogo importo per non meglio dettagliate spese. E questo nonostante la dematerializzazione che dovrebbe, teoricamente, ridurre i costi: anzi ormai si assiste a una intensificazione quasi grottesca delle uscite periodiche, con riviste semestrali che diventano settimanali, singoli numeri da decine di migliaia di pagine, e sempre più frequenti numeri speciali monografici che affiancano le uscite periodiche (Hanson et al. 2023). Chiaramente, tattiche reciprocamente valorizzate dalla frammentazione dei contenuti e dalla moltiplicazione dei contributi prima accennata. Un altro modo per favorire questo travaso di fondi è il grande sistema internazionale dei convegni, che ha indotti multimiliardari (cfr. EIC 2018) – come per le pubblicazioni, ovviamente, non si mette in dubbio la loro utilità tout court: solo sorprende lo scarso ricorso a sistemi online, anche dopo l’evento pandemico e nonostante i potenziali effetti positivi in termini di sostenibilità e inclusività (Sarabipour et al. 2021).
Ma la ragionevolezza soccombe di fronte a un sistema tanto pervasivo, in cui diventa coerente e sensato sostenere che sia moralmente corretto aumentare le tasse (QS 2018), che sia positivo estendere ranking e misure ai livelli inferiori della didattica (come in Italia fa il progetto eduscopio.it), che sia giusto che i ricercatori forniscano gratuitamente le peer review (quelle milioni di revisioni su cui si basano tutte le pubblicazioni), o che in generale la mostruosa accelerazione nelle pubblicazioni sia associabile a un concetto di crescita inevitabilmente positivo. Ma è davvero così? Perché certo, scrivere si scrive tanto. Ma poi chi legge tutta questa montagna di parole?
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