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“L’uno non è nato ieri, ma è nato a proposito di due cose completamente differenti, a proposito di un certo uso degli strumenti di misura e, contemporaneamente, a proposito di qualcosa che non c’entrava niente, ossia la funzione dell’individuo.” J. Lacan,“Leggere… o peggio." Il Seminario XIX, 1971 – 1972”, Einaudi, Torino, 2020, p. 154 "Leggere… o peggio."

Con la pubblicazione di Leggere…o peggio. Il Seminario XIX di Jacques Lacan, volume collettaneo curato magistralmente dal giovane filosofo Marco Ferrari, la casa editrice Galaad prosegue nell'impresa di scolastica e certosina delucidazione dei seminari tenuti dal poliedrico psicanalista francese per più di vent’anni a Parigi, dal 1953 fino a poco prima della sua morte. In questi seminari, trascritti dall’allievo-testamentario-genero Jacques Alain Miller, sono infatti condensati ancor meglio che negli Scritti [1] tanto il sapere quanto il metodo che definiscono la pratica psicoanalitica ad orientamento lacaniano e la loro frequentazione permette di osservarne direttamente, come in un cantiere, il work in progress teoretico. Ma, com’è noto, leggere Lacan e accompagnare in itinere lo sviluppo delle sue folgoranti intuizioni, il suo perdersi nei vicoli ciechi della ragione ed il suo riemergere infine vittorioso dai flutti di quel fiume acheronte che già per Freud era da considerarsi metafora eminente dell’inconscio non è cosa facile, anzi. E così, assieme al precedente volume curato da Chiara Massari e dedicato al seminario XVI [2], questo pregiato testo della collana chiamata per l’appunto “Leggere Lacan” può ben fungere da bussola, o da mappa, per chi voglia provare ad orientarsi nella fase più complessa ed oscura, la più tarda dal punto di visto cronologico, del suo insegnamento. 

L’enigmatico titolo del seminario XIX, “…o peggio (in francese: …ou pire), con quei tre puntini di sospensione seguiti da un’apparentemente ingiustificata formula peggiorativa, lascia infatti già presagire quelle che saranno le continue allusioni, le ambiguità e le aporie che accompagnano, sincopandone il passo, gli inciampi dialettici, le contorsioni logiche e le funamboliche misture di biologia, linguistica e filosofia di cui questo seminario, tra i più difficili, è letteralmente infarcito. E così, per consentire un accesso facilitato ai molteplici temi lì trattati (il rapporto della psicanalisi con la sessualità, della sessualità con la metafisica, l’inesistenza del rapporto sessuale e la logica dei processi inconsci…per citarne solo alcuni), il curatore Marco Ferrari ha deciso di chiamare a raccolta uno stuolo di filosofi e psicanalisti che si sono occupati, ognuno singolarmente o in coppia, di una o al massimo due lezioni del seminario in questione. Il risultato è un concerto ermeneutico polifonico che non esaurisce, non congela il testo di Lacan in una serie di interpretazioni definitive e statiche, ma anzi amplifica il contenuto già di per sé ricchissimo di “…o peggio” nella misura in cui, per l’appunto, ne offre diversi scorci, diversi punti di vista anche tra loro contradditori.

Il primo intervento è firmato da Silvia Lippi, psicanalista bolognese che esercita a Parigi, e offre una rilettura queer della psicanalisi freudiana e lacaniana che pone un particolare accento sulle identità trans. L’autrice muove dall’assunto per cui “secondo Lacan ci sono e ci saranno sempre due sessi” [3], ma visto che “come sostiene giustamente Judith Butler, è il discorso che determina la differenza sessuale” [4] allora si deve ammettere, anzitutto, che “pensare che un uomo debba avere il pene e la donna una vagina è una convenzione sociale e come tutte le norme non ha valore universale” [5] e, in secondo luogo, che la psicanalisi debba essere mondata dalle sue tare fallogocentriche. Il testo, che si propone di interpretare le prime due lezioni di “…o peggio” in cui viene sviscerato il tema del fallo (simbolizzato da Lacan con il simbolo phi: Φ) e degli effetti che questi ha sulla logica soggettiva (un tema a dir poco centrale per la disciplina psicanalitica)  potrebbe fungere benissimo da manifesto per una psicanalisi queer all’italiana [6] e non mancherà certamente di entusiasmare chi è impegnato nella battaglia per la liberazione del desiderio – sia anche nelle già liberalissime, lussuriose e ultrapermissive società occidentali. Certo, il rischio di queste letture inclusive e queer che sembrano riscuotere oggi molto successo risiede paradossalmente nel fatto che sottoscrivere le posizioni di Butler, e confondere il sesso con il genere, può portare ad abbandonare una forma di (supposto) riduzionismo biologista in favore di un’altra (questa volta senz'altro riduzionista…): quella del costruttivismo sociale radicale. Sacrificare una visione in cui biologia e cultura concorrono, anche se in modo giocoforza asimmetrico, a definire l’identità di soggetti liberi di autodeterminarsi entro i confini dettati, oltre che dalla cultura, anche dalla fisicità e dalla materialità del corpo in favore di una concezione marcatamente costruttivista (secondo cui il sesso altro non è che un indice, un’etichetta assegnata dal biopotere medicale da intendersi sempre, comunque ed inesorabilmente in termini oppressivi) come quella promossa da Judith Butler potrebbe, infatti, rivelarsi un operazione che non solo non aiuta nessuna minoranza ad emanciparsi ma, anzi, corre il rischio di minare la credibilità di queste stesse battaglie…come si suol dire: dalla padella alla brace. Senza contare, poi, che non è Lacan a credere che i sessi siano due: quanti e quali sarebbero precisamente gli altri sessi e quale branca della scienza dovrebbe supportare quest’idea? [7] Leggere… o peggio.

Nel secondo capitolo il filosofo Felice Cimatti azzarda un felice parallelismo tra godimento femminile e postumano. Seguendo il solco tracciato da Lacan e senza cercare di forzarne o di travisarne il testo, l’autore cerca di sbrogliare il nodo che lega come in un unico groviglio il godimento di La Donna, la castrazione ed il celebre tema metafisico dell’Uno, che Lacan riprende storpiandolo nella formula Yadl’un (C’è dell’uno):

“Quindi il Yadl’un è la condizione, affatto singolare, in cui si viene a trovare un essere umano che sia passato attraverso l’universalità della castrazione senza esserne completamente schiacciato. Ma siccome per Lacan è umano solo chi è individuato da Φx, allora il “c’è dell’uno” si colloca in qualche modo al di là dell’umano”

Cimatti mostra chiaramente come per Lacan sia La Donna la figura che incarna al meglio lo statuto singolare ed irriducibile che contraddistingue quegli individui che hanno assunto una postura esistenziale tale da permettere un superamento della castrazione (anch’essa simbolizzata nell’algebra lacaniana dal simbolo Φ), ovvero gli individui che nelle intenzioni degli psicanalisti hanno conquistato questa posizione perché hanno portato a termine un’analisi. Ciò a cui agogna l’analizzante, infatti, per gli psicanalisti lacaniani non è tanto il raggiungimento di una non meglio specificata sanità mentale o, peggio ancora, il ritorno ad una mitologica e stereotipica “normalita” ma, all’opposto, la possibilità di “superare il linguaggio […] rimanendo però nel linguaggio” [8], ovvero la chance di bypassare “la logica della definizione e quindi dell’imposizione” [9] che costituisce, fuori di metafora, il vero senso della castrazione. Se “la posizione femminile sfugge alla condanna di tutti i viventi che si trovano invece intrappolati nel desiderio dell’Altro” [10], allora, è proprio perché lungi dal profilarsi come un riduzionista fallogocentrico, Lacan concepisce la femminilità come ciò che incarna uno stile (che nel seminario dedicato al godimento femminile, Ancora [11], troverà il suo riferimento illustre nell’esperienza mistica di Santa Teresa, di Ildegarda di Bingen o di San Tommaso, che donna di certo non era…) tipico di chi riesce ad assumere su di sé la strutturale incompletezza ontologica della realtà senza per questo farsi annichilire da essa [12]. Che le donne si trovino facilitate, rispetto agli uomini, in questo gioco in cui in ballo vi è niente poco di meno che la soggettivazione è un fatto che Lacan da per scontato al punto da orientare tutta la sua tecnica analitica nel verso di uno spossessamento, di un abbandono che ricordano dappresso una sorta di femminilizzazione del soggetto. Tant’è che come osserva puntualmente Cimatti da quella tecnica postumana che è l’analisi ci si aspettano risultati postumani nella misura in cui ciò che si paventa è una trasformazione corporea che però, quasi magicamente, non ricorre a nessun tipo di intervento chirurgico: 

“Il corpo che esce dall’analisi è allora un corpo che ha assunto la posizione femminile (questo vuol dire che può assumere questa posizione anche un uomo e che non è affatto detto che tutte le donne siano capaci di assumerla). La posizione femminile è quella di un corpo capace di un godimento non fallico, ossia fuori castrazione, e quindi anche fuori dal controllo dell’Io” [13]

In ballo, in un’analisi, c’è infatti proprio la possibilità di andare a maneggiare l’articolazione logica della soggettività dell’analizzante ovvero la struttura psichica che altro non è se non quel che per millenni è stato chiamato “l’anima” – ed il cui sapore metafisico è ripreso da Lacan proprio mediante la formula “C’è dell’uno” che ritorna, lungo tutto l’arco del seminario “…o peggio”, con l’insistenza di una goccia cinese. Ma l’inesausta ripetizione di questo adagio, come a voler motteggiare la millenaria riflessione filosofica sull’Uno (quell’ἕν – hen – che da Parmenide a Schelling, passando per Plotino e Spinoza, allude alla possibilità di conchiudere la totalità dei fenomeni in un’unità concettuale che sintetizza l’infinito ed il finito nell’apprensione metafisica dell’Assoluto), fa da contrappunto ad un altro mantra del lacanismo ortodosso, il ben più celebre “non esiste rapporto sessuale” (il n’y a pas de rapport sexuel) e si pone rispetto a questo come una sorta di integrazione o, meglio, di polo dialettico capace di generare una tensione concettuale decisamente prolifica. Come mostrano bene l’intervento in tandem di Pierpaolo Cesaroni e Mavie Loda ed il seguente, quello della psicanalista Stefania Napolitano, infatti, il fatto che Lacan tra gli anni sessanta e settanta si sia dedicato ad una rilettura della tradizione logica e metafisica occidentale è da intendersi come il mastodontico tentativo di rifondare le premesse teoriche della psicanalisi sulle impasse, sulle aporie e sui fallimenti che hanno punteggiato la storia della filosofia e che sembrano riproporsi, come in controluce, nel vissuto degli analizzanti. L’interesse per i quantificatori aristotelici, per la logica formale e per la riflessione metafisica sull’essenza che negli anni di “… o peggio” acquistano via via sempre più centralità, e che soggiace alle formalizzazioni matematiche della vita psichica come i quattro discorsi o la tavola della sessuazione, indica per l’appunto un luogo di pulsazione centrale nell’economia dell’insegnamento lacaniano, il luogo dell’intersezione, dell’incrocio tra la filosofia e la psicanalisi. E “C’è dell’uno”, la formula ottenuta dalla copula del verbo essere con il sostantivo che allude ad una mitica unità tra l’uomo e il mondo, di questa intersezione è un po' il condensato, il significante che indicherebbe – come già ricordato nell’esergo di questa recensione – il rapporto tra “un certo uso degli strumenti di misura” così come questi vengono codificati nella storia della cultura occidentale “e […] qualcosa che non c’entrava niente, ossia la funzione dell’individuo”. E così dalle parole proferite dai pazienti sul lettino degli psicanalisti, in breve, trasparirebbero come su scala ridotta, sul piano soggettivo e singolare, le stesse aporie e lo stesso smarrimento che per millenni hanno animato quell’avventura del pensiero che passa sotto il nome di filosofia, gli stessi crucci metafisici, le stesse tensioni verso un Assoluto tanto irraggiungibile (con il quale non esiste il rapporto) quanto allettante e che la psicanalisi ha interpretato come il fantasma, la copertura immaginaria e simbolica della piena soddisfazione libidica. Quando Cesaroni e Loda scrivono, ad esempio, che: 

“…fin dall’inizio del suo insegnamento, Lacan insiste sull’errore di considerare la comunicazione come un passaggio lineare di messaggi. “Non è questo” non si trova tra domanda e offerta, consiste nella loro distanza, non loro non essere uguali né corrispondenti” [14]

quello a cui i riferiscono è allora l’interdipendenza, la reciprocità intrinseca tanto del fatto che “non c’è rapporto sessuale” quanto del fatto che “c’è dell’uno”: l’assenza dell’uno implica la presenza dell’altro ed il continuo fallire la ricerca di una risposta definitiva sul piano filosofico e di una soddisfazione completa su quello psicologico è proprio ciò che anima, sia dal punto di vista della storia collettiva (o storia della filosofia) che di quella soggettiva, l’infinito articolarsi della catena significante, lo scorrimento metonimico del desiderio e quindi il ritorno inevitabile, benchè parziale, della jouissance...Come a dire che il fallimento connaturato ad ogni forma di comunicazione (quel che potremmo intendere come il pane della psicanalisi, ma anche come il presupposto ultimo della millenaria ruminazione che passa sotto il nome di filosofia) reca con sé le tracce, le impronte e gli indizi che permettono agli analisti di raccapezzarsi nella loro pratica: orientarsi attorno ad un punto di impossibilità (“Non c’è rapporto sessuale”) ed interpretare le modalità attraverso cui la soddisfazione così inizialmente impedita ritorna in modalità surrogate e parziali (“C’è dell’uno”) sarebbero così gli estremi, i veri e propri Scilla e Cariddi per la direzione della cura nella clinica psicanalitica.    

Certo, una volta appurato tutto questo rimane inevasa la questione del perché alla donna, o al femminile piuttosto che al maschile, sia riservato un accesso privilegiato a quel che Lacan definisce godimento mistico, così affine e simile al godimento dell’Uno che c’è, e che è l’unica alternativa all’inesistenza del rapporto sessuale. Ad occuparsi di questo annoso problema è Federico Leoni in un testo molto ispirato in cui dimostra, attraverso un sapiente uso della metafora, come la postura del femminile per Lacan si ponga al di là della logica fallica ossia al di là delle contrapposizioni dialettiche che istituiscono ogni tipo di macchinazione e di manipolazione razionali del mondo, essendo queste pratiche invischiate nell’oscillazione dialettica del significato, dei suoi limiti e della sua assenza (ragion per cui sia il fallo che la castrazione sono simbolizzati, come abbiamo già ricordato, dal significante Φ). La Donna starebbe allora nell’economia generale della psicanalisi lacaniana come il supporto stesso, la condizione di possibilità stessa della ragione che svanisce e diviene inaccessibile ogni qual volta la ragione stessa viene applicata: 

“..la questione del femminile è appunto la questione del supporto, o se preferiamo, la questione del supporto è la questione del femminile. In questo caso, il non-rapporto non si impone come un abisso che separa il maschile dal femminile intesi come una mela e una pesca, si impone semmai come un abisso che separa la mela e la pesca dal cesto in cui stanno, o dallo scaffale su cui sono appoggiate”

Com’è noto, infatti, sin dall’articolo “La significanza del fallo” [15] per Lacan il Φ è il significante che conferisce significato ad ogni altro significante, e porsi al di là della castrazione (che del significato ne indica per l’appunto il limite) non significa necessariamente ricadere in un mondo privo di senso ma, piuttosto, raggiungere una postura soggettiva collocata al di là della sua sfibrante ricerca, dell’inseguimento del significato come problema maniacale e assillante – un al di là che ne costituisce paradossalmente la premessa, la condizione di possibilità. Quando Lacan parla di La Donna parla infatti proprio di questo: di un’attitudine soggettiva che sappia sottrarsi alla caccia ossessiva e maniacale dell’Assoluto, di un’inclinazione teorica e metafisica priva della smania di quell’Uno che ha tenuto occupati per millenni i filosofi e in nome del quale sono state riempite (da uomini, non a caso…) intere biblioteche di trattati e manuali: come se si trattasse di un esercizio o di uno stile, per l’appunto, teso a sovvertire e a mettere a soqquadro il mondo così come questo è stato pensato per millenni nei termini squisitamente utilitaristici e strumentali dagli uomini. Quale colpo di scena, allora, e soprattutto per chi taccia Lacan di fallogocentrismo, ritrovare nel femminile (e segnatamente nelle figure che meglio ne esemplificano l’orientamento mistico come le già citate Ildegarda di Bingen o Santa Teresa, figure da sempre marginalizzate quando non addirittura escluse nella storia della filosofia…) un modello o un paradigma innovativo per intendere la filosofia stessa? 

In continuità con questi temi e sempre a proposito dell’annosa questione del rapporto tra psicanalisi, mistica e filosofia ritorna anche lo psicanalista Ettore Perrella nel suo intervento che mette a fuoco l’interesse nutrito da Lacan per la dimensione sapienziale tipica delle forme più antiche di conoscenza:

“Lacan aveva fatto di tutto per aprire l’esoterismo della saggezza a un insegnamento che, pur non volendosi universitario, aveva finito per rivolgersi a centinaia di persone. […] E il più grande tentativo di Lacan di aprire alla scienza l’esoterismo delle scuole di saggezza fu, proprio negli anni in cui teneva il seminario …o peggio, la proposta della passe” [16]

La femminilizzazione come esito di una psicanalisi, la mistica e lo stile esistenziale de La Donna allora non sono che esempi paradigmatici che illustrano, ognuno a modo loro e ognuno con sfumature diverse, quel che Lacan intendeva come obiettivo o fine della pratica analitica: sono figure o concetti che recano con sé una forma di incompletezza ontologica radicale rispetto alla quale si rende necessario quel che la passe dovrebbe riuscire a ratificare, ovvero l’avvento di una “posizione etica individuale coerente con le esigenze pratiche della formazione” [17]. Detto altrimenti: per evitare la riduzione accademica e burocratica della psicanalisi e per scongiurare quel che sarebbe poi avvenuto comunque, nonostante tutto (ovvero la rimasticatura libresca e nozionistica della sua opera) Lacan avrebbe tratto dalle antiche scuole sapienziali oltre che l’afflato metafisico che traspira dalla sua originale reinterpretazione dell’Uno anche la passione – assolutamente incompatibile con qualsiasi etica utilitaristica disponibile nelle società capitaliste – per l’ingaggio morale, per la scelta individuale e per la centralità dell’esperienza etica. Ed è qui che, finalmente, le opache e cerebrali elucubrazioni di Lacan sull’Uno condotte nel seminario “…o peggio” acquistano il loro proprio vigore e si rivelano in tutta la loro ammaliante, stringente attualità. 

Il godimento che vi è in ballo quando si evoca il “C’è dell’uno” lacaniano, infatti, è quel tipo di godimento incontrollato e coatto che si qualifica come ripetizione involontaria e che, nella reiterazione dello stesso, esibisce come in controluce la struttura del soggetto che vi si trova implicato e che così vi si scopre, per l’appunto, fatalmente assoggettato. Miller ne sottolinea esemplarmente il carattere coercitivo quando ricorda che, nell’ultima fase del suo insegnamento, Lacan passa da una concezione di ciò che anima gli individui che all’inizio è intesa alla stregua di “un’insondabile decisione dell’essere” ma poi, dopo la svolta di cui “…o peggio” testimonia gli avanzamenti critici, è descritta come un “insondabile decisione dell’Altro” [18], ovvero come effetto forzoso e incontrollato dell’ordine simbolico, come una successione di significanti che si ripetono automaticamente e che quasi meccanicamente fanno godere il corpo. È quel “godimento assoluto, quello prodotto dall’incidenza del significante sul corpo, che fa del corpo un corpo (di) godimento, cioè un corpo fissato in un’alterazione di sé, in uno sfasamento di sé” [19] di cui parlano il curatore del volume, Marco Ferrari, e l’analista Alex Pagliardini nel loro intervento in coppia che chiude il volume – e che in un certo senso condensa i risultati dei loro due ricchissimi interventi individuali tesi ad offrire una lettura davvero rischiaratrice dell’algebra lacaniana. 

Come porci, quindi, di fronte a questo strapotere dell’automatismo simbolico e come reagire d’innanzi a questa tanto scabrosa quanto fondamentale caratteristica della psiche umana scrutata da Lacan negli anni settanta, quasi a preconizzare l’avvento della nostra odierna società turboconsumista? Come opporsi a questo godimento uniano, a questo godimento autistico che, anche grazie alla diffusione di dispositivi che letteralmente incollano lo sguardo di ogni-uno alla parata infinta del significante, ha assunto oggi una portata tale da risultare difficilmente circoscrivibile in quanto interessa fenomeni tutt’affatto eterogenei (dal doom scrolling alle più gregarie manifestazioni di piazza condotte nel nome di ideali posticci, passando per gli hikikomori e per la riduzione del discorso politico a mera passerella identitaria), come a voler sancire la diffusione ormai capillare di soggettività richiuse su sé stesse, che hanno come loro unico orizzonte l’Altro della ripetizione significante? Posto che non esistono, al di là dei richiami populisti che provengono sia da destra che da sinistra, risposte univoche a queste domande e una volta appurato con sconforto lo stato in cui riversa la realtà sociale, può essere utile anche solo – ma forse è già molto… – ritornare umilmente a frequentare i classici, a Freud, ritornare a Lacan. E ritornare a leggere Lacan non tanto con l’intento di elaborare nuove teorie o di rinnovare nominalmente, formalmente, la psicanalisi o la filosofia ma per assumere su di sé, singolarmente ed in modo giocoforza unico, quello stesso godimento dell’Uno per rivoltarlo contro sé stesso attraverso “un’operazione che riporta l’insopportabile al suo posto” [20]. Solo così è possibile rendere urgente, inaggirabile e inderogabile l’azione, la decisione insondabile che arricchisce il reale scabro e desertico con qualcosa di inedito, di singolare. È questo infatti il limite critico della scienza, incapace com’è di valicare i suoi scopi descrittivi, che la mistica ed il femminile secondo Lacan dovrebbero riuscire a scardinare ed è questa, in breve, la grande lezione etica della psicanalisi: 

“Forse solo una considerazione epistemologica della scienza, se riuscisse ad allargarne il concetto fino ad includervi anche la psicanalisi, e quindi l’etica, potrebbe rendere il contributo di Freud e di Lacan centrale non solo nella storia della psicanalisi, ma in una teoria della formazione” [21]. "Leggere… o peggio."

Filippo Zambonini


Note:

[1]  Lacan, Scritti, 2 Voll, Einaudi, Torino, 1974

[2]  Chiara Massari, “Leggere…Da un Altro all’altro. Il Seminario XVI di Jacques Lacan”, Galaad Edizioni, 2021

[3] Marco Ferrari, “Leggere…o peggio. Il Seminario XIX di Jacques Lacan”, Galaad Edizioni, 2023, p. 55

[4] Ivi., p. 53

[5] Ivi., p. 54

[6] Il riferimento qui è a Fabrice Bourlez, Queer Psicanalisi. Clinica minore e decostruzione del genere, Mimesis, Milano – Udine, 2022

[7] A tal riguardo rimando a questo illuminante saggio di Richard Dawkins:  https://areomagazine.com/2022/01/05/race-is-a-spectrum-sex-is-pretty-damn-binary/ 

[8] Marco Ferrari, “Leggere…o peggio. Il Seminario XIX di Jacques Lacan”, op.cit., p. 74

[9] Ibidem.

[10] Ivi, 75

[11] Jacques Lacan, Il Seminario XX. Ancora, Einaudi, Torino, 2011

[12] Lacan scrive La Donna barrandone l’articolo proprio in modo da ricordare lo statuto di negatività radicale che Heidegger attribuisce all’Esserci (Dasein) alla fine di “Essere e Tempo”, dove per indicare che “l’Essere” (Sein) dell’Esserci non è esso stesso un Essere – e quindi irriducibile a qualsivoglia ontologia – si ricorre all’espediente tipografico “Essere” (Sein). 

[13] Ivi, 76

[14] P. 97

[15] Lacan, J, La significazione del fallo: Die Bedeutung des Phallus, in Scritti, op. cit.

[16] Pp. 194 - 195

[17] P. 200

[18] Jacques Alain Miller, Cause et consentement, corso inedito del 1997 – 1998, lezione del 2 Dicembre 1987

[19] P. 211

[20] P. 244

[21] P. 204

Bibliografia: 

Fabrice Bourlez, Queer Psicanalisi. Clinica minore e decostruzione del genere, Mimesis, Milano – Udine, 2022

Richard Dawkins:  https://areomagazine.com/2022/01/05/race-is-a-spectrum-sex-is-pretty-damn-binary/ 

Marco Ferrari, “Leggere…o peggio. Il Seminario XIX di Jacques Lacan”, Galaad Edizioni, 2023

Jacques Lacan, “… o peggio. Il Seminario XIX, 1971 – 1972”, Einaudi, Torino, 2020 

Jaqcues Lacan, Il Seminario XX. Ancora, Einaudi, Torino, 2011

Jacques Lacan, Scritti (2 voll.), Einaudi, Torino, 1974

Chiara Massari, “Leggere…Da un Altro all’altro. Il Seminario XVI di Jacques Lacan”, Galaad Edizioni, 2021

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