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Da anni ormai i concetti di performance e performatività animano il dibattito contemporaneo, tagliando trasversalmente i più svariati settori disciplinari e offrendo strumenti per corroborare discorsi che possono anche essere di segno opposto l’uno rispetto all’altro. In estetica, l’attenzione per il performativo ha restituito lavori molto interessanti – magistrale in questo senso è la Ästhetik des Performativen di Erika Fischer-Lichte, uscita nel 2004 e preceduta di un paio d’anni dalle Untersuchungen di Dieter Mersch; nello stesso periodo, in ambito analitico, si affacciavano le ricerche di David Davies sull’arte come performance. In questo orizzonte teorico assistiamo oggi alla nascita di molteplici estetiche del performativo, che declinano variamente la linea di ricerca inaugurata dall’attenzione artistica per il carattere evenemenziale della performance

Ed è precisamente in questo solco che si colloca l’Estetica dell’improvvisazione di Alessandro Bertinetto, uscita per il Mulino nel giugno 2021. Imperniandosi sul concetto di improvvisazione, indagato dall’autore nel corso di una ricerca ormai più che decennale, questa specifica “estetica del performativo” rappresenta ed articola le esigenze della contemporanea riflessione sull’arte (intesa, con Georg Bertram, come prassi umana). Se da una parte il testo tiene conto di un gran numero di autori e dibattiti a noi coevi (dalla material culture all’enattivismo, dal pensiero ecologico al post-human turn), esso si nutre però anche di alcuni classici della filosofia (Kant e Hegel, Wittgenstein e Gadamer) che paiono almeno in parte mediati dalla formazione dell’autore avvenuta sotto la guida di un maestro del tenore di Gianni Vattimo. Numerosissime sono anche le tesi di chiaro sapore pareysoniano; questo libro si pone così in dialogo con la contemporaneità più attuale e urgente pur rappresentando, al contempo, un’eredità del pensiero torinese del secondo Novecento.

Dopo aver brevemente ricostruito la storia del concetto e aver offerto alcune coordinate nel panorama del dibattito sull’improvvisazione, il primo capitolo introduce alcuni dei temi che verranno sviluppati nel corso del testo. Tra questi, di non poco rilievo è la questione della spontaneità. In questa prospettiva, infatti, l’improvvisazione non è intesa come un’azione estemporanea, realizzata ex nihilo: piuttosto, l’improvvisazione stringe un’alleanza con pratiche ripetitive come l’allenamento, l’esercizio e l’abitudine, che dell’improvvisazione divengono non solo la controparte ma, più radicalmente, la condizione di possibilità. La spontaneità, dunque, non è spontanea ma «coltivata» (p. 82); il gesto improvvisativo è radicato in un contesto “ecologico” fatto di vincoli materici, tradizioni culturali, pratiche e schemi sedimentati nella memoria collettiva e nella memoria del corpo, i quali vengono a loro volta modificati nella prassi che li coinvolge.

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Mallory1180: Miles Davis (Antibes Juan les Pins 1963) (Wikicommons)

È nel secondo capitolo che i tratti precipui di tale estetica dell’improvvisazione vengono delineati. Il pregio dell’improvvisazione è, secondo l’autore, quello di mettere in scena in maniera eminente il carattere artistico del confronto con la contingenza: l’imprevisto non va subìto passivamente, ma neppure si può pretendere di esercitare su di esso un controllo trasparente. In queste pagine viene allora articolata una «grammatica della contingenza» (p. 37) che «mette in scena e mette in questione» (p. 88) nozioni come quella di autorialità, promuovendo l’idea che la creatività artistica sia «ossimorica attività passiva» (p. 45) – laddove non si abbia a che fare, addirittura, con casi di «creatività distribuita» (p. 105). Emergenza, presenza, curiosità e autenticità: queste sono le categorie estetiche in cui la grammatica artistica della contingenza si articola. Soprattutto le prime due categorie, che più o meno implicitamente tracciano una continuità forte con l’estetica di Fischer-Lichte e con il suo lessico, permettono di portare l’attenzione su un altro elemento interessante: il ruolo del fruitore in questo quadro. Qualificandosi come coincidenza ontologica di invenzione ed esecuzione, l’improvvisazione parrebbe destinata a fondare un’estetica imperniata sulla produzione. Ma così non è nel testo di Bertinetto, il quale non rinuncia a delineare anche un’estetica della ricezione: la fruizione, qui, è intesa come partecipazione attiva alla costituzione dell’opera (secondo una tesi non solo di Bertram ma già, almeno, di Luigi Pareyson e Umberto Eco); il fruitore sperimenta un coinvolgimento empatico rispetto all’opera ed entra nel circolo di retroalimentazione che forma e trasforma l’opera stessa, in un processo trasformativo che non risparmia neppure il contesto né il fruitore stesso. Senso e significato emergono così in una dinamica autopoietica e ricorsiva che si realizza in virtù della compresenza corporea di artista e fruitore – dove la presenza dell’artista può essere reale oppure differita.

Proprio l’eventualità che l’artista sia presente in differita apre alla possibilità di adottare l’improvvisazione come modello applicabile anche all’analisi di opere d’arte “non performative”. Se infatti è piuttosto chiaro come l’improvvisazione possa divenire paradigmatica per quelle arti, come il teatro o la danza, in cui non si fatica a pensare la simultaneità di invenzione e performance produttiva, meno evidente è invece il valore che l’improvvisazione può assumere qualora processo e prodotto non coincidano, come nel caso della pittura o della scultura. Il terzo capitolo propone una carrellata di fenomeni artistici che vanno dalla poesia alla Land Art, dall’installazione alla fotografia, cercando di mostrare di volta in volta come l’improvvisazione giochi un ruolo di rilievo in queste pratiche. Nelle arti non performative, sostiene Bertinetto, l’improvvisazione può essere non solo una tecnica di produzione: essa può anche divenire il tema estetico dell’opera, incoraggiando una fruizione in cui l’opera sia intesa come «presentazione, per così dire per delega, del produttore» (p. 113). Il dipinto, così, è indice del gesto del pittore, il quale è allora presente nel suo prodotto; nella configurazione dell’oggetto il fruitore rivede l’artista all’opera – e in questo modo l’improvvisazione, pur facendo cenno, in certi casi, all’opportunità di accogliere partner macchinici o animali, si configura in questo libro come una pratica di pertinenza esclusivamente umana.

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David Olivari: Contact Improvisation Jam (Flickr)

Tra le altre cose, il quarto ed ultimo capitolo insiste anche sul tema che, sottotraccia, sembra animare l’intero testo: l’idea che la specificità dell’improvvisazione consista nell’esibire la normatività trasformativa dell’esperienza estetica dell’arte mostrando questa dinamica proprio nel suo farsi. Tale «normatività trasformativa, fluida e consegnata alla possibilità del fallimento» (p. 151) si inquadra nell’ambito di una «estetica della riuscita»: come scrive l’autore, «i criteri di successo e fallimento dell’arte sono negoziati in e attraverso ogni singola opera e performance» (p. 145). Muovendo una critica all’approccio “imperfezionista” e al categorialismo di Kendall Walton (su cui tale approccio è basato), Bertinetto sostiene che norme e categorie estetiche non precedono le singole opere e le singole esperienze estetiche, ma sono generate e modificate nel corso stesso delle pratiche artistiche ed estetiche, costituendosi dunque come sistema aperto secondo il modello della ricorsività autopoietica. 

Le ultime pagine del testo, infine, suggeriscono declinazioni politiche (seppur in senso lato) di tale estetica dell’improvvisazione. L’esperienza estetica è vista come esercizio di socialità, il giudizio estetico come emergenza di «un senso comune plurale e in fieri» (p. 182). Se «l’improvvisazione è esercizio di un con-sentire da cui possono svilupparsi valori e significati condivisi», allora le pratiche improvvisative potrebbero aprire il campo a scenari in cui le comunità si mantengono sempre plastiche, trasformabili e trasformative nel proprio stesso farsi. E l’improvvisazione, allora, assumerebbe il massimo spessore eccedendo l’estetica e assumendo valenza etica e politica, mostrandosi capace di «intensificare l’umanità» (p. 188) in un corrispondere del soggetto agli altri e all’ambiente.

di Alice Iacobone

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